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5. L'inadeguatezza della regola italiana prevedente l'automatica

2.3. Il caso Losonci Rose e Rose c Svizzera

Il caso trae origine da un ricorso contro la Confederazione svizzera, presentato alla Corte europea dei diritti dell'uomo il 16 dicembre 2005, da parte di un cittadino svizzero, il signor Laszlo Losonci

Rose, ed una cittadina avente sia la nazionalità svizzera che quella francese, la signora Iris Rose.

I ricorrenti, entrambi residenti a Uetendorf (cantone di Berna), in Svizzera, all'interno della procedura preparatoria del loro matrimonio, avevano comunemente domandato, all'ufficiale di stato civile del distretto di Thun, l'autorizzazione di poter continuare a portare, ciascuno, il proprio cognome successivamente al matrimonio.

I ricorrenti, infatti, resa nota la loro intenzione di risiedere in Svizzera dopo il matrimonio, volevano mantenere i loro rispettivi nomi, piuttosto che scegliere un doppio cognome per uno dei due, per il semplice fatto che la ricorrente, la signora Rose, la quale occupava una importante funzione all'interno dell'amministrazione federale, era conosciuta, secondo suo dire, a livello internazionale con il cognome da nubile.

Ai sensi dell'art. 37, paragrafo 2 della legge federale sul diritto internazionale privato (LDIP), il ricorrente, il signor Losonci, aveva espresso il desiderio che il regime del suo nome fosse regolato dal diritto ungherese, ossia il suo diritto nazionale, il quale avrebbe consentito a quest'ultimo il diritto a portare esclusivamente il proprio nome232. Allo stesso tempo, i ricorrenti sceglievano il cognome della

ricorrente (Rose) come cognome di famiglia, ai sensi dell'articolo 30, paragrafo 2 del codice civile svizzero.

Con decisione, in data 2 ottobre 2003, l'ufficiale di stato civile rigettava la loro domanda, poiché riteneva contraria alla legge la

232 Infatti l'articolo 37 della legge federale sul diritto internazionale privato del 18 18 dicembre 1987, ed entrata in vigore il 1° gennaio 1989, recita così:

“1. Il nome di una persona domiciliata in Svizzera è disciplinato dal diritto svizzero, mentre quello di una persona domiciliata all'estero è disciplinato dalle norme di diritto internazionale privato dello Stato in cui tale persona ha il proprio domicilio.

2. Tuttavia, una persona può chiedere che il proprio nome sia disciplinato dal suo diritto nazionale.”

scelta effettuata dai ricorrenti.

L'8 ottobre 2003, i ricorrenti impugnavano questa decisione dinanzi alla direzione della polizia e degli affari militari del cantone di Berna. A seguito dell'ulteriore rigetto, essi, il 1° giugno 2004, decidevano di presentare un ricorso al tribunale amministrativo del cantone di Berna.

Tuttavia, dato che la scelta del nome era l'unico ostacolo alla realizzazione del loro matrimonio, i ricorrenti, il 2 giugno 2004, decidevano di limitarsi a chiedere, al servizio di stato civile del cantone di Berna, l'autorizzazione di portare il cognome della sposa (Rose) come nome di famiglia, senza domandare alcuna richiesta in ordine alla possibilità da parte del ricorrente di conservare il proprio nome.

Così, in seguito al matrimonio celebratosi il luglio dello stesso anno, nel registro dello stato civile, i nomi dei coniugi venivano registrati come «Losonci Rose» per il ricorrente, e «Rose» per la ricorrente. Dopo il matrimonio, i coniugi domandavano al tribunale amministrativo di sostituire all'interno del registro dello stato civile il doppio nome “provvisoriamente” scelto per il ricorrente con il solo nome Losonci, come previsto dal diritto ungherese, senza che ciò comportasse una modifica al nome della ricorrente, cioè la signora Rose.

Il 14 dicembre 2004 il tribunale amministrativo rigettava il ricorso. Questo, infatti, pur riconoscendo che il marito, ai sensi dell'art. 37, paragrafo 2 della legge federale sul diritto internazionale, si era avvalso dell'opzione di sottoporre il suo nome al regime giuridico del suo diritto nazionale, ossia il diritto ungherese, segnalava, tuttavia, che non vi poteva essere un cumulo tra la scelta di sottomettere il suo nome al diritto nazionale e la domanda, ai sensi dell'art. 30, paragrafo 2 codice civile, di portare il nome della moglie come nome di

famiglia.

Il 10 gennaio 2005, i ricorrenti presentavano allora ricorso amministrativo presso il Tribunale federale, sostenendo la violazione da parte della sentenza del Tribunale amministrativo del principio costituzionale della parità di trattamento.

Il tribunale federale, in data 24 maggio 2005, rigettava il ricorso. Questo riteneva che, la richiesta di autorizzazione a portare il nome della moglie come nome di famiglia, avesse reso obsoleta la scelta del ricorrente di sottomettere il suo nome al diritto ungherese.

Quanto alla questione se il regime della scelta del nome dopo il matrimonio fosse coerente con la Costituzione, il Tribunale federale riconosceva tali disposizioni, nel loro insieme, in contrasto con il principio della parità di trattamento tra i sessi. Tuttavia, il Tribunale, ricordava come il Parlamento avesse già respinto il 22 giugno 2001, una emendamento che aveva la finalità di rendere il diritto al nome conforme alla Costituzione. Così, ai sensi di quanto previsto dall'articolo 191 della Costituzione federale233, il Tribunale federale

ha ritenuto di non poter introdurre in ordine al diritto al nome modifiche che erano state già respinte dal legislatore.

I ricorrenti, esaurite le vie di ricorso interne, il 16 dicembre 2005 decidevano allora di adire la Corte europea dei diritti dell'uomo. Essi, invocando l'art. 14 della Convenzione in combinato disposto con l'art. 8, si lamentavano di essere stati vittime di una discriminazione fondata sul sesso, per quanto riguarda il diritto al rispetto della loro vita privata e familiare.

Essi sostenevano come la necessità, secondo il diritto svizzero, di presentare una domanda comune da parte dei coniugi alle autorità,

233 L'art. 191 della Costituzione federale sancisce che “Il Tribunale federale e le altre autorità sono tenute ad applicare la legge federale e il diritto internazionale”

affinché il nome della donna divenga nome della famiglia dopo il matrimonio - mentre in assenza di domanda è il nome del marito che diviene automaticamente il nome della famiglia - abbia dato luogo a conseguenze discriminatorie nei loro confronti.

In effetti, era proprio a causa della loro richiesta, di utilizzare come nome di famiglia il nome della moglie, che le autorità interne avevano ritenuto la scelta del ricorrente di sottoporre il suo nome al regime del proprio diritto nazionale obsoleta. Infatti, qualora i ricorrenti fossero stati di sesso opposto, una tale domanda non sarebbe stata necessaria: il nome del marito sarebbe automaticamente diventato il nome di famiglia e la donna avrebbe potuto presentare la richiesta di determinazione del proprio nome secondo il proprio diritto nazionale.

Innanzitutto, per ciò che concerne la ricevibilità del ricorso, il Governo svizzero, rilevando come la ricorrente, la signora Rose, fosse stata iscritta nel registro dello stato civile tramite il suo nome, ha ritenuto che questa non fosse direttamente interessata dalla regolamentazione della disciplina impugnata. Dunque, alla luce di queste considerazioni, il governo si è limitato a prendere in considerazione la questione di una eventuale discriminazione basata sul sesso per quanto riguarda il solo ricorrente.

I ricorrenti, tuttavia, si opponevano all'eccezione del Governo, ritenendo pienamente applicabili al caso di specie le garanzie di cui all'art. 8 della CEDU, dedicato al rispetto della vita privata e familiare, evidenziando come la discriminazione sulla base del sesso subita dal marito (il signor Losonci Rose) avesse comportato anche delle implicazioni dirette per la vita privata e familiare della moglie. Sul punto, la Corte, ha constato come il caso avesse avuto origine a seguito di un approccio comune dei coniugi, i quali avevano congiuntamente adito le autorità interne, e inoltre ha ritenuto che in

base al concetto di “famiglia” prevalente nel sistema della Convenzione, la ricorrente potesse essere considerata vittima, quanto meno indirettamente, delle decisioni impugnate.

Entrando nel merito della causa, secondo i ricorrenti, non c'era assolutamente alcuna giustificazione obiettiva e ragionevole per la disparità di trattamento tra i coniugi, e riferendosi al caso Ünal Tekeli, nel quale era stato precisato che “soltanto considerazioni molto forti possono far ritenere compatibile, con il sistema della Convenzione, una disparità di trattamento fondata sul sesso”, essi ritenevano che tali considerazioni non esistessero affatto nel caso di specie.

Da parte sua, il Governo elvetico, invece, riteneva che, per ricadere all'interno dell'ambito della protezione offerta dalla CEDU, le disposizioni di diritto interno impugnate dovevano aver causato al ricorrente un pregiudizio di una certa gravità. Tuttavia, il Governo, riteneva che ciò non si fosse verificato nel caso in questione, poiché, secondo questo, alcun danno sarebbe derivato al marito dal fatto di dover aggiungere al proprio nome quello della moglie, sottolineando, in particolare, come il richiedente vivesse in Svizzera, paese in cui è comune l'uso di un doppio nome.

La Corte, sul punto, sosteneva come, nel caso di specie, i ricorrenti fossero stati vittime di una disparità di trattamento tra persone che si trovano in situazioni simili, poiché rilevava che, mentre nel caso di un uomo svizzero e una donna di origine straniera, sarebbe permesso alla donna di sottoporre il suo nome alla disciplina nazionale, ai sensi dell'art. 37, paragrafo 2, della legge federale sul diritto internazionale privato, tutto ciò, invece, non sarebbe consentito nel caso in cui, una donna svizzera sposasse un uomo di origine straniera, qualora questi due decidessero di optare per il nome della donna quale nome di famiglia, come è avvenuto nel caso di specie.

Era quindi necessario a tal punto verificare se alla base della disparità di trattamento dettata dalla disciplina in questione vi fosse una giustificazione obiettiva e ragionevole.

Il Tribunale federale e il Governo sostenevano come questa distinzione fosse giustificata in virtù del perseguimento di un legittimo scopo: cioè, quello di manifestare l'unità familiare attraverso l'unità del nome di famiglia.

La Corte, sul punto, tuttavia, ha ricordato che, sebbene gli Stati contraenti, ai sensi della Convenzione, godano di un certo margine di discrezionalità riguardo alle misure da adottare al fine di manifestare l'unità della famiglia, l'articolo 14 prevede che tali misure si applichino comunque in linea di principio alle stesse condizioni per uomini e donne, tranne nel caso in cui siano addotte ragioni convincenti che giustifichino una disparità di trattamento; ragioni convincenti che la Corte non ritiene esistenti nel caso di specie. Inoltre, la Corte, come aveva già fatto nel caso Ünal Tekeli, ha ricordato come un consenso per quanto riguarda la scelta del nome di famiglia su un piano di parità tra gli spossi stesse emergendo all'interno degli Stati membri del Consiglio d'Europa, e come a livello internazionale, gli sviluppi delle Nazione Unite sulla parità di genere si stessero dirigendo proprio in questo specifico campo, per riconoscere a ciascun coniuge il diritto a mantenere l'uso del proprio originario nome di famiglia o di partecipare in condizioni di parità alla scelta del nuovo nome familiare.

La Corte, dopo tali osservazioni, ha constatato come la differenza di trattamento in questione fosse dovuta alla regola secondo la quale il cognome del marito diviene automaticamente il nome di famiglia (art. 160, paragrafo 1 del codice civile), o più precisamente, dalla scelta dei coniugi di rovesciare questa regola, tramite una domanda all'ufficiale di stato civile, ai sensi dell'art. 30, paragrafo 2 codice

civile, di utilizzare come nome di famiglia quello della moglie. La Corte, tuttavia, pur ritenendo, le norme in questione necessarie nella pratica e non necessariamente in contrasto con la Convenzione234, ha comunque evidenziato, come la regola in

questione nel caso di specie avesse impedito al ricorrente di mantenere il proprio nome dopo il matrimonio, contrariamente a ciò che sarebbe avvenuto qualora i ricorrenti fossero stati di sesso opposto.

La Corte, inoltre, rilevava come il Tribunale federale avesse riconosciuto nella sua sentenza del 24 maggio 2005, le disposizioni impugnate, nel loro insieme, in contrasto con il principio della parità di trattamento tra i sessi di cui all'art. 10 della Costituzione federale. Allo stesso tempo, la Corte, ricordava come il Parlamento avesse respinto, il 22 giugno 2001, un emendamento che, si poneva quale obbiettivo, quello di rendere il diritto al nome conforme alla Costituzione, e come il Tribunale federale, ai sensi di quanto previsto dall'art.191 della Costituzione, avesse ritenuto di non poter introdurre modificazioni relative al diritto al nome che erano già state rifiutate dal legislatore.

Tuttavia, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che, nel caso di specie, il fatto che il Parlamento svizzero avesse in precedenza respinto tale emendamento non faceva venire meno la responsabilità internazionale della Repubblica elvetica ai sensi della Convenzione. Infine, la Corte, ricordava come il Governo, avesse sostenuto che le disposizioni di diritto interno impugnate, o la loro applicazione nel caso di specie, non avessero causato alcun danno grave al ricorrente, poiché, secondo il Governo, alcun danno sarebbe derivato al marito dal fatto di dover aggiungere al proprio nome quello della moglie,

234 Si veda, per esempio, il caso Burghartz c. Svizzera cit., in cui la Corte non ha giudicato incompatibile con l'articolo 14 la regola (art. 160, paragrafo 1) secondo la quale il cognome del marito diviene automaticamente il nome di famiglia.

sottolineando, in particolare, come il richiedente vivesse in Svizzera, paese in cui è comune l'uso di un doppio nome.

Tuttavia, la Corte, non ha condiviso questo punto di vista. Essa, infatti, ha ricordato, come il nome sia un mezzo principale di identificazione personale da parte dell'individuo all'interno della società, e come questo appartenga al nucleo delle considerazioni relative al diritto al rispetto della vita privata e familiare. Pertanto, la Corte, non ha ritenuto la domanda concernente il nome del richiedente priva di fondamentale importanza.

In considerazione di ciò, la Corte ha ritenuto non ragionevole la giustificazione data da parte del Governo e discriminatoria ai sensi dell'art. 14 della Convenzione la relativa differenza di trattamento tra i coniugi. Di conseguenza, la Corte, ha concluso ritenendo come nel caso di specie vi fosse stata una violazione dell'art. 14 in combinato disposto con l'art. 8 della Convenzione, sulla base del fatto che il regime vigente in Svizzera comportasse una discriminazione tra le coppie bi-nazionali.