5. L'inadeguatezza della regola italiana prevedente l'automatica
2.2. Il caso Ünal Tekeli c Turchia
Il caso trae origine da un ricorso (n. 29865/96) contro la Repubblica di Turchia, presentato, il 20 dicembre 1995, alla Commissione europea dei diritti dell'uomo, da parte di una cittadina turca, la signora Ayten Ünal Tekeli.
Nel caso di specie, la signora Ayten Ünal Tekeli, praticante avvocato, a seguito del matrimonio celebratosi il 25 dicembre 1990, assumeva, ai sensi di quanto previsto dall'allora art. 153 del codice civile turco, il cognome del marito221.
La ricorrente, però, la quale era conosciuta all'interno della sua vita professionale con il cognome da nubile, ha continuato ad anteporre quest'ultimo al suo cognome legale, cioè quello del marito acquisito a seguito del matrimonio, anche se, ai sensi di quanto previsto dall'ordinamento turco, non le era permesso di utilizzare entrambi i cognomi insieme sui documenti ufficiali.
La ricorrente, in seguito, il 22 febbraio 1995 decideva così di proporre ricorso al tribunale di primo grado di Karşıyaka, al fine di
221 Infatti, la versione originaria dell'art. 153 del codice civile turco prevedeva che “Le donne sposate devono portare il cognome del marito”.
ottenere il permesso di utilizzare il suo solo cognome da nubile, "Ünal”. Ma, il 4 aprile 1995, il tribunale respingeva la sua domanda, sulla base del fatto che, ai sensi dell'art. 153 del codice civile turco, è previsto che le donne sposate debbano mantenere il cognome del marito per tutta la durata della loro vita coniugale.
Successivamente, un ricorso su questioni di diritto, proposto dalla ricorrente, veniva respinto dalla Corte di Cassazione turca il 6 giugno 1995.
Circa due anni dopo, con una modifica apportata all'art. 153 del codice civile turco, veniva attribuito alle donne sposate il diritto di anteporre il loro cognome da nubile a quello del marito, tramite una dichiarazione effettuata all'ufficiale di stato civile222. Tuttavia, la
ricorrente, preferiva non fare uso di questa possibilità offerta dal novellato art. 153 c.c., poiché a suo avviso, l'emendamento in questione non soddisfaceva la sua domanda, che era quella di utilizzare il suo solo cognome da nubile.
Dopo l'intervenuta modifica dell'art. 153 del codice civile, la Corte del distretto di Ankara ha, inoltre, sollevato una questione di costituzionalità riguardo a quest'ultima norma, poiché da essa ritenuta in contrasto con l'articolo 10 della Costituzione, che fa divieto di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso.
Tuttavia, la Corte Costituzionale turca, nella decisione del 29 settembre 1998 dichiarava infondata la sollevata questione di legittimità costituzionale in riferimento all'art. 10 della Costituzione, evidenziando, in particolare, come fosse adesso riconosciuta alle
222 L'articolo 153 del codice civile turco, come modificato dalla legge n. 4248 del 14 maggio 1997, e oggi divenuto articolo 187 del nuovo codice civile promulgato il 22 novembre 2001, così recita “Le donne sposate devono portare il nome del marito. Tuttavia, queste tramite dichiarazione scritta al cancelliere delle nascite, matrimoni e morti al momento della firma dell'atto di matrimonio, o presso la cancelleria delle nascite, matrimonio e morti dopo il matrimonio, se vogliono possono chiedere di anteporre il loro cognome di fronte al loro cognome familiare...”
donne, ai sensi del novellato art. 153 del codice civile, la possibilità di mantenere ed anteporre il proprio cognome da nubile dinanzi a quello familiare223.
Esaurite le vie di ricorso interne, la signora Ayten Ünal Tekeli, decideva, il 20 dicembre 1995, di presentare ricorso alla Commissione europea dei diritti dell'uomo, ricorso poi trasmesso da quest'ultima alla Corte europea dei diritti dell'uomo, in data 1° novembre 1998.
Giunto il caso dinanzi alla Corte europea dei diritti umani, il Governo turco ha sollevato innanzitutto, per ciò che concerne la ricevibilità del ricorso, un'eccezione preliminare basata, rispettivamente, sulla mancanza da parte della ricorrente dello status di vittima.
Riguardo a tale eccezione, il Governo ha osservato, come al momento del matrimonio, la ricorrente, non fosse un vero e proprio avvocato, ma solo una praticante avvocato, e quindi non ancora abilitata ad esercitare la professione legale.
Infatti, ha sottolineato il Governo, come soltanto successivamente,
223 Sentenza Corte costituzionale turca E 1997/61, K 1998/59. La Corte costituzionale turca sulla questione di legittimità costituzionale si è precisamente espressa nei seguenti termini: «La regola secondo la quale le donne sposate devono portare il cognome del marito, trova fondamento in talune realtà sociali ed è il frutto della codificazione di alcuni costumi che si sono formati nel corso dei secoli nella società turca. In dottrina, si è sostenuto che scopo della norma, sia quello di proteggere le donne, le quali sono di una più delicata natura rispetto agli uomini, di rafforzare i legami familiari, di coltivare la prosperità del matrimonio, e di precludere l'autorità bicefala all'interno della stessa famiglia.
Per proteggere l'unità della famiglia, il legislatore ha così riconosciuto il primato del cognome del marito su quello della donna. Dunque considerazioni, che trovando la loro fonte nell'interesse e nell'ordine pubblico, sono state cruciali. Inoltre, secondo la nuova disposizione, le donne sono ora autorizzate a mantenere ed anteporre il loro cognome da nubile dinanzi a quello familiare. La tesi secondo cui questa disposizione viola l'art. 10 della Costituzione, il quale vieta qualsiasi discriminazione in base al sesso, non è fondata. Infatti, il principio di uguaglianza ai sensi dell'art. 10 Costituzione non significa che tutti sono soggetti alle stesse norme di diritto, poiché le speciali caratteristiche di ogni persona o gruppo di persone può ragionevolmente giustificare l'applicazione di diverse norme di legge...»
quando aveva ormai già preso il nome del marito, la ricorrente avesse cominciato a praticare la professione forense. Quindi, sulla base di ciò, il Governo turco riteneva, che il cambio di cognome avvenuto in seguito al matrimonio, non avrebbe arrecato alcun problema per la vita professionale della ricorrente.
Tuttavia, la ricorrente ha sostenuto come il periodo di praticantato non possa essere separato dal resto della sua carriera e di quella di ogni altro avvocato, ritenendo come sia proprio durante tale periodo che i tirocinanti stabiliscono i loro primi legami professionali.
Inoltre, la ricorrente ha evidenziato come, oltre all'aspetto professionale, il nome di una persona assuma una particolare importanza nella costruzione dell'identità di ogni individuo, e come, dunque, l'obbligo, di cambiare il suo cognome da nubile a seguito del matrimonio, avrebbe dato luogo ad una cesura irreversibile con il suo passato.
La Corte, sul punto, innanzitutto, chiarisce come essa non sia tenuta a stabilire se l'obbligo da parte della ricorrente, quando questa era soltanto ancora praticante avvocato, di cambiare cognome a seguito del matrimonio, possa aver influenzato negativamente o meno la sua successiva vita professionale.
Tuttavia, essa ha ribadito come, il cognome di una persona assuma un particolare importanza anche al di fuori del limitato contesto professionale e commerciale, poiché si tratta di un mezzo che concerne ed identifica l'individuo all'interno della sua privata e familiare, per ciò che riguarda la sua capacità di sviluppare relazioni sociali, culturali o di altro genere con i suoi simili.
Quindi, alla luce di tali considerazioni, la Corte ha respinto l'eccezione del Governo, ritenendo che la ricorrente ben potesse essere considerata una vittima delle decisioni impugnate. Infatti, secondo la Corte, il rifiuto di consentire alla stessa ricorrente soltanto
l'utilizzo del proprio cognome, con il quale questa affermava di essere stata conosciuta nelle sue attività politiche e culturali, avrebbe potuto influenzare, in modo non poco considerevole, le sue attività non professionali.
Entrando nel merito della causa, la ricorrente ha sostenuto come il rifiuto da parte delle autorità nazionali di consentirle di mantenere il suo solo cognome da nubile in seguito al matrimonio costituisse una violazione dell'art. 8 della Convenzione, considerato isolatamente e in combinato disposto con l'art. 14.
In considerazione della natura delle accuse fatte, la Corte europea dei diritti dell'uomo, ha ritenuto opportuno esaminare il caso direttamente ai sensi dell'art. 14 della Convenzione in combinato disposto con l'art. 8.
Il Governo ha contestato l'applicabilità dell'art. 8 della Convenzione nel caso di specie. Questo sosteneva, in particolare, come la scelta del nome non fosse interamente una questione di scelta individuale di una persona e come gli Stati avessero un ampio margine di discrezionalità in materia. Dunque, ad avviso del Governo, la legislazione in materia di assegnazione dei nomi doveva rimanere all'interno del dominio dello Stato e non rientrare nell'ambito di applicazione della CEDU.
La Corte, riguardo all'art. 8 della Convenzione, ha nuovamente ricordato, come, nonostante tale disposizione non contenga alcuna disposizione esplicita sui nomi, il nome, d'altra parte, quale mezzo di identificazione personale e di collegamento ad una determinata famiglia, non possa comunque non riguardare la vita privata e familiare dell'individuo. Ed ha ribadito come, il fatto che esista un interesse pubblico da parte degli Stati a regolamentarne l'uso, non sia sufficiente a rimuovere la questione concernente il nome dal campo di applicazione concernente la vita privata e familiare di ogni
individuo224.
Pertanto, la Corte, ha ritenuto che l'oggetto della causa ben rientrasse nel campo di applicazione dell'art. 8 della Convenzione.
Riguardo, alla conformità dell'art. 14 della Convenzione in combinato disposto con l'art. 8, la ricorrente ha sostenuto che, il rifiuto da parte delle autorità nazionali di concederle di utilizzare soltanto il proprio cognome da nubile in seguito al matrimonio – possibilità invece concessa agli uomini da parte dell'ordinamento turco -, comportasse una discriminazione basata sul sesso, e dunque, incompatibile con il combinato degli artt. 8 e 14 della Convenzione. Il Governo turco, sul punto, ha riconosciuto, quella prevista dal proprio ordinamento come una di disparità di trattamento fondata sul sesso. Tuttavia, ha dichiarato che, essendo tale disparità di trattamento fondata su criteri oggettivi e ragionevoli motivi, la disciplina in questione non poteva essere considerata di carattere discriminatorio.
Il Governo turco, infatti, facendo riferimento alla sentenza Burghartz, sosteneva che ci fosse un collegamento tra l'unità familiare e il nome della famiglia, e che il legislatore turco, prevedendo l'assunzione del cognome del marito da parte della famiglia, avesse optato per una disposizione tradizionale, che garantisse l'unità familiare attraverso l'unità del nome.
Inoltre, riferendosi alla decisione della Corte costituzionale del 29 settembre 1998, il Governo ha evidenziato come, la disparità di trattamento in base al sesso, nei confini nazionali, fosse giustificata da quella che era la realtà sociale turca, precisando come il 68,8 % delle donne turche godesse di una limitata libertà economica. Sulla base di ciò, il Governo turco, ha ulteriormente sostenuto che l'istituzione di un cognome comune familiare - ossia, quello del
marito – consentisse di rafforzare la posizione della donna all'interno della famiglia.
La Corte, sul punto, ha ricordato che l'art 14 della Convenzione, prevede la protezione contro ogni forma di discriminazione nel godimento dei diritti e delle libertà garantiti dalla CEDU. Tuttavia, la Corte ha precisato che, una disparità di trattamento non comporta automaticamente una violazione di tale articolo, poiché è necessario accertare che alcune persone poste in situazioni analoghe o similari godano effettivamente di un trattamento preferenziale e che tale disparità di trattamento sia discriminatoria225.
La Corte ha poi sottolineato come, una differenza di trattamento per non essere considerata di carattere discriminatorio ai sensi dell'art. 14, debba essere priva di giustificazione oggettiva e ragionevole, e che tale giustificazione debba essere valutata in rapporto allo scopo e agli effetti della misura considerata, tenendo inoltre conto dei principi normalmente prevalenti all'interno delle società democratiche.
Tuttavia, essa ha ulteriormente precisato, come una disparità di trattamento, nell'esercizio di un diritto stabilito dalla Convenzione, non debba solo perseguire uno scopo legittimo, poiché l'articolo 14 si considererebbe ugualmente violato qualora non vi sia un rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito226. In altre
parole, la nozione di discriminazione comprende i casi in cui un individuo o un gruppo di persone viene trattato, senza alcuna giustificazione, meno favorevolmente rispetto ad un altro, anche se la Convenzione non richiede il trattamento più favorevole227.
225 Si veda, per esempio, National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society c. Regno Unito, Corte europea dei diritti dell'uomo 23 ottobre 1997, par. 88
226 Si veda, per esempio, Petrovic c. Austria, Corte europea dei diritti dell'uomo 27 marzo 1998, par. 30; Lithgow e altri c. Regno Unito, Corte europea dei diritti dell'uomo 8 luglio 1986, par. 177
La Corte, ricorda, poi, come gli Stati contraenti godano di un certo margine di apprezzamento nello stabilire se ed in quale misura differenze tra situazioni sostanzialmente analoghe, giustifichino una disparità di trattamento dal punto di vista giuridico; margine statale di apprezzamento che, comunque, varierà a seconda delle circostanze, del contesto e della materia228.
Infine, questa, rammenta ciò che aveva già detto nel caso Burghartz: cioè, chiarisce come soltanto considerazioni molto forti possono far ritenere compatibile, con il sistema della Convenzione, una disparità di trattamento fondata sul sesso.
La Corte, chiarito ciò, si occupa di verificare se nel caso di specie vi sia stata effettivamente una differenza di trattamento tra persone che si trovano in situazioni simili. Sul punto, prendendo in considerazione le differenze di fatto tra le 2 categorie (uomini sposati e donna sposate) invocate dal Governo, in particolare quelle relative alla loro rispettiva situazione sociale ed indipendenza economica, la Corte, nel caso di specie, non può non ritenere che una effettiva disparità di trattamento vi sia.
Accertata l'esistenza di tale disparità tra le 2 categorie, si tratta di verificare se questa sia fondata su una giustificazione obiettiva e ragionevole.
Il Governo, come detto, sosteneva che tale disparità di trattamento perseguiva il legittimo scopo di manifestare l'unità della famiglia e di garantire l'ordine pubblico.
Tuttavia, la Corte, ha sottolineato che, sebbene gli Stati contraenti abbiano un certo margine di apprezzamento, ai sensi della Convenzione, per quanto concerne le misure da adottare per riflettere
diritti dell'uomo 28 maggio 1985, par. 82
228 Si veda, Rasmussen c. Danimarca, Corte europea dei diritti dell'uomo 28 novembre 1994, par. 40; Inze c. Austria, Corte europea dei diritti dell'uomo 28 ottobre 1987, par. 41
l'unità della famiglia, l'articolo 14 esige però, in linea di principio, che tutte le misure di questo tipo si applichino alle stesse condizioni per gli uomini e le donne, a meno che non siano addotte ragioni convincenti che giustifichino una disparità di trattamento.
Nel caso di specie, la Corte non è affatto convinta dell'esistenza di tali ragioni. La Corte, ha ricordato, in primo luogo, come la progressione verso l'eguaglianza dei sessi sia oggi un obbiettivo di primaria importanza negli Stati membri del Consiglio d'Europa, e come la risoluzione n. 37 del 27 settembre 1978, relativa all'eguaglianza fra i coniugi nel diritto civile, e la raccomandazione n. 2 del 5 febbraio 1985, concernente la tutela giuridica contro la discriminazione sessuale, siano un esempio di ciò. Obbiettivo, tra l'altro, anche dichiarato nei lavori dell'Assemblea parlamentare229 e
dal Comitato europeo per la cooperazione giudiziaria230.
In secondo luogo, ha ricordato come, a livello internazionale, gli sviluppi della Nazioni Unite per quanto riguarda l'eguaglianza dei sessi si dirigano proprio verso questo specifico settore, affinché sia riconosciuto a ciascun coniuge il diritto di mantenere l'uso del suo originario nome di famiglia o di partecipare in condizioni di parità nella scelta di un nuovo cognome di famiglia231.
Inoltre, la Corte, ha rilevato l'emergere di un consenso all'interno degli Stati contraenti del Consiglio d'Europa, per ciò che riguarda la scelta del cognome dei coniugi su un piano di parità.
La Corte, nel caso di specie, precisa poi come tra gli Stati membri del Consiglio d'Europa, la Turchia sia l'unico che impone legalmente il cognome del marito come cognome della coppia e che preveda, in seguito al matrimonio, l'automatica perdita del proprio cognome da parte della donna.
229 Vedi par. 19-22, Caso Ünal Tekeli c. Turchia. 230 Vedi par. 23- 26, Caso Ünal Tekeli c. Turchia cit. 231 Vedi par. 27- 31, Caso Ünal Tekeli c. Turchia cit
Infatti, la Corte, ricorda, come le donne sposate in Turchia, non possano utilizzare il loro cognome da nubile, anche qualora vi fosse un consenso di entrambi i coniugi in tal senso. E come la possibilità successivamente messa a disposizione dal legislatore turco a favore delle donne sposate, ossia quella di consentire loro, a seguito del matrimonio, di mettere ed anteporre il loro cognome da nubile a quello del marito, non abbia cambiato nulla, poiché gli interessi delle donne sposate, che non vogliono che gli effetti del matrimonio possano avere delle ripercussioni sul loro nome, non sono state prese in alcuna in considerazione, visto che a seguito delle intervenute modifiche legislative è ancora comunque previsto l'obbligo da parte delle donne sposate, che abbiano optato per tale scelta, di assumere ed utilizzare il cognome del marito, non potendo queste limitarsi al solo uso del loro cognome da nubile.
Dopo aver effettuato tali richiami normativi, la Corte passa ad esaminare due importanti questioni.
La prima questione, affrontata dalla Corte, è se la tradizione di riflettere l'unità della famiglia attraverso il cognome del marito, possa essere considerata un fattore decisivo nel caso di specie. La Corte, sul punto, ha precisato come, i progressi verso la parità di genere all'interno degli Stati membri del Consiglio d'Europa, e in particolare, l'importanza oggi attribuita al principio di non discriminazione impediscano agli stessi Stati contraenti di imporre questa tradizione alle donne sposate.
La Corte, inoltre, ha affermato come, l'unità familiare possa manifestarsi, non soltanto scegliendo come cognome di famiglia quello del marito, ma anche scegliendosi come tale quello della moglie o un cognome comune concordato di comune volontà dalla coppia.
se, l'unità della famiglia debba essere necessariamente manifestata tramite un nome di famiglia comune, e se, in caso di disaccordo tra i coniugi, uno degli sposi possa imporre all'altro il proprio cognome. La Corte, ha osservato in proposito come, secondo la prassi degli Stati contraenti, sia perfettamente concepibile l'idea che l'unità familiare sia comunque conservata e consolidata anche qualora i coniugi decidano di non utilizzare alcun nome comune di famiglia. La Corte, ha poi evidenziato, come nel caso di specie il Governo non avesse dimostrato che, la mancanza di riflettere l'unità familiare tramite un comune nome di famiglia, avrebbe comportato un disagio sostanziale e concreto per i coniugi e/o per i terzi o la compromissione dell'interesse pubblico.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte, ha ritenuto, l'obbligo per le donne sposate, in nome dell'unità familiare, di portare il cognome del marito - anche se queste vi possono anteporre il loro cognome da nubile – privo di qualsiasi obiettiva e ragionevole giustificazione. Dunque, la Corte, è giunta alla conclusione che, l'obbiettivo di riflettere l'unità familiare tramite un comune nome di famiglia, non sia in grado di fornire una giustificazione al diverso trattamento di genere lamentato nel caso specie.
Ed è per questi motivi che, la Corte ha ritenuto tale differenza di trattamento in contrasto con l'art. 14 della Convenzione in combinato disposto con l'art. 8.