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Nuovi meccanismi d’azione degli antipsicotici atipici: selettività funzionale sul recettore 5-HT2A ed attivazione delle chinasi ERK1/2 ed AKT

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Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie

in Medicina e Chirurgia

Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia

Tesi di Laurea

Nuovi meccanismi d’azione degli antipsicotici atipici:

selettività funzionale sul recettore 5-HT

2A

ed attivazione

delle chinasi ERK1/2 ed AKT

Anno Accademico 2016/2017

Candidato

Enrico Cini

Relatore

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1

RINGRAZIAMENTI

Grazie al Prof. Scarselli per avermi accompagnato in questo percorso finale, per i suoi preziosi insegnamenti, la serietà e la disponibilità concessami.

Grazie a Stefano, Marco e Shiva che sono riusciti ad essere autentici compagni sempre presenti in questa esperienza.

Grazie a Luc, Simone, Tommi e Tommi B che hanno saputo rendere questo lungo percorso un po’ più leggero.

Grazie a Martina che mi sostiene, amando i miei lati migliori e prendendosi cura di quelli peggiori.

Grazie agli Amici, quelli veri, quelli che quando leggeranno queste parole non avranno bisogno di essere citati; loro sono speciali e sanno già tutto.

Infine interrompo la ritmicità di questa anafora per ringraziare il Tempo che da sempre ci accompagna, con pazienza siede al nostro fianco ed in silenzio ci offre la fortuna.

Ad Anna, Edoardo e Luca; la mia Famiglia.

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2

RIASSUNTO

Gli antipsicotici (APs) rappresentano una classe di farmaci che viene utilizzata per la terapia di diverse patologie psichiatriche caratterizzate da sintomatologia psicotica, come la schizofrenia e il disturbo bipolare. In particolare, nei pazienti schizofrenici questi farmaci sono impiegati per il trattamento non solo della fase acuta, ma anche della fase di mantenimento della malattia. Gli antipsicotici possono essere classicamente suddivisi in due generazioni: i farmaci di prima generazione, cosiddetti “Tipici” (TAPs, typical antipsychotics) e quelli di seconda generazione, anche noti come “Atipici” (AAPs, atypical antipsychotics). L’introduzione degli AAPs ha permesso una riduzione di numerosi effetti collaterali particolarmente invalidanti, come il parkinsonismo e l’iperprolattinemia, ed ha migliorato la tollerabilità e sicurezza della terapia antipsicotica. Inoltre, gli AAPs sembrano essere anche più efficaci sulla sintomatologia negativa e cognitiva presente nei pazienti schizofrenici. Sui meccanismi responsabili di queste differenze importanti tra TAPs e AAPs, numerosi target molecolari sono coinvolti e rappresentano i marker dell’atipia.

In questa tesi, ci siamo soffermati soprattutto sugli AAPs ed abbiamo analizzato il concetto di “Atipia”, attraverso l’analisi di vari meccanismi d’azione, classici e nuovi. In particolare, ci siamo focalizzati sul ruolo delle chinasi intracellulari ERK

(Extracellular signal-Regulated Kinase) ed AKT/PKB (Protein Kinase B)

nell’azione degli APs. Abbiamo confrontato la capacità di indurre la fosforilazione di queste chinasi da parte degli AAPs e TAPs evidenziando che questo fenomeno di attivazione è esclusivo solo per alcuni AAPs. In particolare Clozapina si è dimostrata superiore a tutti gli altri AAPs ed è stata utilizzata come prototipo per comprendere il meccanismo attraverso il quale agiscono questi farmaci. Clozapina sembra indurre la fosforilazione di ERK1/2 grazie all’attivazione del recettore serotoninergico 5-HT2A, attraverso un fenomeno definito “selettività funzionale” o “biased agonism”. Questo risultato è stato abbastanza sorprendente visto che dalla letteratura sappiamo come Clozapina in realtà si comporti da antagonista recettoriale. Il nostro risultato potrebbe in parte spiegare la superiorità dell’efficacia clinica di Clozapina rispetto agli altri APs e contribuire insieme ad altri target molecolari a caratterizzare l’atipia.

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INDICE

1 INTRODUZIONE 6 1.1 LA SCHIZOFRENIA 6 1.1.A Epidemiologia 6 1.1.B Eziopatogenesi 7 1.1.C Manifestazioni cliniche 13

1.1.D Decorso della patologia 15

1.1.E Approccio diagnostico 16

1.1.F Trattamento: i farmaci antipsicotici 18

1.2 ANTIPSICOTICI ATIPICI: MECCANISMI D’AZIONE 20 CLASSICI

1.2.A Sistema dopaminergico e recettori associati 21 1.2.B Sistema serotoninergico e recettori associati 28 1.2.C Sistema gutammatergico e recettori associati 35 1.2.D Sistema colinergico e recettori associati 38 1.2.E Sistema istaminergico e recettori associati 41 1.2.F Sistema adrenergico e recettori associati 43

1.3 RECETTORI TRANSMEMBRANA E SIGNALLING 46

1.3.A Recettori accoppiati a proteine G (GPCRs) 46

1.3.B Recettori tirosin-chinasici (TKRs) 48

1.3.C Transattivazione dei TKRs 49

1.3.D Protein chinasi ERK1/2 50

(Extracellular signal-Regulated Kinases)

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1.4 SELETTIVITA’ FUNZIONALE o “BIASED AGONISM” 53

1.4.A Selettività funzionale: meccanismo ed implicazioni 53 1.4.B Antipsicotici atipici e selettività funzionale 58

2 MATERIALI E METODI 60

2.1 Reagenti: prodotti chimici ed anticorpi 60

2.2 Colture cellulari 60

2.3 Costrutti plasmidici 61

2.4 Trasfezione cellulare mediante elettroporazione 61 2.5 Western blotting e misurazione di pERK(1,2)/ERK(1,2) 62

e pAKT/AKT

2.6 Analisi dell’espressione genica 65

2.7 Immunofluorescenza ed internalizzazione recettoriale 66

2.8 Analisi statistica 67

3 RISULTATI E DISCUSSIONE 68

3.1 ATTIVAZIONE DI ERK1/2 NELLE CELLULE HeLa: 68 CARATTERIZZAZIONE DELL’EFFETTO

DI CLOZAPINA ED ALTRI APs

3.1.A La fosforilazione indotta di ERK1/2: confronto 68 tra AAPs e TAPs in cellule HeLa

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5

3.2 ATTIVAZIONE DI ERK1/2 NELLE CELLULE HeLa: 72 CARATTERIZZAZIONE DEL MECCANISMO

D’AZIONE DI CLOZAPINA

3.2.A Caratterizzazione del ruolo della via delle MAPK: MEK 72 3.2.B Caratterizzazione del ruolo dei recettori endogeni: 73

recettori muscarinici ed adrenergici

3.2.C Caratterizzazione del ruolo dei TKRs: transattivazione 74 da parte dei GPCRs

3.2.D Caratterizzazione del ruolo dei recettori serotoninergici: 75 5-HT1AR/5-HT2AR

3.3 ATTIVAZIONE DI AKT NELLE CELLULE HeLa: 80 CARATTERIZZAZIONE DELL’EFFETTO

DI CLOZAPINA ED ALTRI APs

4 CONCLUSIONI 84

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1 INTRODUZIONE 1.1 LA SCHIZOFRENIA

La schizofrenia è un disturbo mentale caratterizzato da decorso cronico, presenza di sintomi psicotici (deliri, allucinazioni, disorganizzazione del pensiero e del comportamento) e solitamente progressivo deterioramento del funzionamento globale. La moderna sindrome clinica definita oggigiorno schizofrenia è stata originariamente descritta agli inizi del ‘900 da Emil Kraepelin come dementia praecox, contrapposta alla psicosi maniaco-depressiva, gettando le basi per la moderna differenziazione tra psicosi affettive e non affettive. Negli anni successivi Eugene Bleuler ha ampliato la visione di questa patologia ed ha posto non tanto l’attenzione sul deterioramento come sintomo fondamentale, ma piuttosto sulla sintomatologia, distinguendo sintomi primari ed accessori. I sintomi primari secondo Bleuler potevano essere descritti dalle “4 A”; compromissione della funzione associativa del pensiero (incoerenza, dissociazione ideica, alogia), autismo, appiattimento affettivo ed ambivalenza. I sintomi secondari invece erano descritti da allucinazioni e deliri. Sia Kraepelin che Bleuler hanno comunque assunto che alla base del disturbo schizofrenico ci fosse qualche alterazione neurobiologica. Nel corso degli anni il concetto di schizofrenia ha subito revisioni da parte di diversi autori sia in ambito diagnostico che patogenetico; Meyer, Freud, Sullivan e Schneider sono alcuni tra gli autori che hanno maggiormente lavorato alla comprensione della schizofrenia fino alla metà dello scorso secolo [1]. Ad oggi i più moderni sistemi diagnostici, fondati su criteri operazionali descrittivi, consentono di effettuare diagnosi più affidabili e stabili; l’attuale descrizione psicopatologica della schizofrenia è contenuta nel DSM-V (diagnostic

and statistical manual of mental disorder V) ed è il frutto dell’eredità degli

inquadramenti clinici degli autori suddetti, ma anche degli studi degli ultimi decenni che hanno permesso una conoscenza più sistematica della patologia.

1.1.A Epidemiologia

La schizofrenia ha un decorso cronico e tasso di incidenza intorno a 10:100000 per anno. La prevalenza è uguale nei maschi e nelle femmine sebbene l’età di insorgenza nel sesso maschile sia compresa tra i 15 ed i 25 anni, anticipata di dieci anni rispetto al sesso femminile. Studi effettuati su famiglie mostrano che i parenti biologici di primo grado dei soggetti affetti hanno un rischio di sviluppare

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la malattia 10 volte maggiore rispetto alla popolazione generale. È una patologia ubiquitaria in tutti i contesti sociali e culturali, con talvolta una maggiore incidenza nelle classi meno agiate, interpretabile come una deriva sociale [1].

1.1.B Eziopatogenesi

Una visione concreta e netta dell’elemento propriamente causale coinvolto nell’insorgenza della schizofrenia non è ancora stata raggiunta; le cause del disturbo sono del tutto eterogenee ed in relazione alla conoscenza moderna, sono il risultato dell’interazione di una serie di fattori genetici, organici, ambientali e socioeconomici. La schizofrenia è una malattia multifattoriale, la cui causa è da ricercare nel coinvolgimento di più meccanismi tra di loro correlati.

 Ipotesi genetica

La componente genetica gioca indubbiamente un ruolo importante nell’eziologia della schizofrenia; esiste un aumento del rischio di insorgenza della malattia in individui con parenti affetti rispetto alla popolazione generale, che tende progressivamente a ridursi per gradi di parentela più distanti. Nei gemelli monozigoti esiste una grado di concordanza del 50-60%, mentre nei gemelli dizigoti scende a 10-15%. Numerosi geni su differenti cromosomi sono stati associati alla schizofrenia; questi coinvolgono prevalentemente i principali sistemi neurotrasmettitoriali a livello delle vie metaboliche e recettoriali, il neurosviluppo, la plasticità ed il trofismo neuronale. E’ possibile quindi escludere che la schizofrenia sia causata dal ruolo di un singolo gene; la patologia si trasmette secondo modalità poligeniche. Ogni gene ha un piccolo e differente effetto e questo complica ulteriormente il quadro, in quanto ogni individuo potrebbe essere un insieme di alterazioni genetiche peculiare. I principali geni coinvolti sono:

- COMT: gene localizzato sul cromosoma 22, che codifica per la catecol-O-metil transferasi, enzima che degrada le catecolamine ed arresta la loro attività; polimorfisimi di questo gene possono correlare con alterazioni delle concentrazioni di dopamina a livello della corteccia prefrontale [2].

- NRG1: gene localizzato sul cromosoma 8, che codifica per le neuroreguline, proteine regolatrici per recettori della famiglia ErbB; polimorfismi di questo gene possono correlare con alterazioni dello sviluppo cerebrale nel periodo pre- e post-natale [2].

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- BDNF: gene localizzato sul cromosoma 11, che codifica per il fattore neurotrofico cerebrale, neurotrofina che sostiene e ripara le funzioni ed i danni neuronali; aumento della concentrazione a livello dell’ippocampo e della corteccia cingolata, parallelamente a riduzioni nella corteccia prefrontale sono state riscontrate in pazienti schizofrenici [2].

- DTNBP1: gene localizzato sul cromosoma 6, che codifica per la disbindina, una proteina espressa a livello del sistema nervoso centrale e dei muscoli; alterazioni di questo gene correlano con un riduzione dell’espressione della disbindina a livello della corteccia prefrontale, inoltre sembrano svolgere un ruolo nella modulazione del terminale glutammatergico, ancora da chiarire [2].

- GRM3: gene localizzato sul cromosoma 7, che codifica per un recettore metabotropico per il glutammato; l’alterazione del rilascio di glutammato a livello della PFC è importante per il funzionamento cognitivo (somministrando fenciclidina, antagonista dei recettori NMDA, si possono ottenere modelli di psicosi nei topi) [2].

E’ importante a questo punto focalizzare un aspetto interessante; nonostante gemelli monozigoti abbiano una concordanza genica del 100% mostrano una concordanza clinica della patologia di solo il 50%. Questo dato sottolinea fortemente il concetto che non è possibile ricondurre l’eziologia della schizofrenia ad una causa prettamente genetica, ma probabilmente esistono degli eventi stocastici non genetici che possono influenzare l’espressione genica. Ad oggi è quindi noto che l’ambiente giochi un ruolo non marginale ed alcuni fattori di rischio sono stati indagati.

 Ipotesi ambientale

Molteplici fattori esterni, quali particolari esperienze di vita, eventi stressanti e cause fisiche o traumatiche, sono stati chiamati in causa nel tentativo di chiarire l’eziologia della schizofrenia. Particolare interesse è stato rivolto allo studio della relazione tra la schizofrenia e le infezioni virali da virus influenzale, retrovirus o virus con tropismo per il sistema nervoso centrale, durante il periodo gestazionale [1]. Oltre ad aspetti infettivi sono state proposte correlazioni con complicanze ostetriche, come il distacco di placenta, perdite ematiche o basso

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peso alla nascita. Questi eventi correlano con elevato rischio di ipossia e conseguenti danni cerebrali. Inoltre l’utilizzo di sostanze d’abuso come l’alcol e la cannabis sembrano fattori di rischio importanti. Infine è molto interessante il ruolo della presenza di eventi stressanti nella vita di questi pazienti che potrebbero favorire l’insorgenza del primo evento psicotico ed esacerbare aspetti depressivi [2]. Tutti questi aspetti ambientali sono da valutare in un’ottica entro la quale il soggetto è predisposto, a causa di un substrato genetico che lo rende vulnerabile, allo sviluppo della patologia. Indubbiamente oltre a quanto suddetto, svolgono un ruolo anche gli aspetti sociogenetici e psicogenetici, che nuovamente vedono intrecciarsi il substrato genetico con aspetti socioeconomici e psicologici, ma probabilmente rivestono un aspetto consequenzialmente descrittivo, meno legato ad aspetti propriamente eziopatogenetici.

 Alterazioni dei sistemi neurotrasmettitoriali

Sulla base delle evidenze farmacologiche, Carlsson nel 1978 ha formulato l’ipotesi dopaminergica della schizofrenia, secondo la quale le principali manifestazioni cliniche sarebbero dovute alla iperattivazione dei sistemi dopaminergici. Questa ipotesi è poi stata largamente ampliata dopo l’evidenza del ruolo del sistema serotoninergico nell’insorgenza dei sintomi negativi, deterioramento cognitivo, comportamento suicidario e compulsivo [1]. Ad oggi tutti i sistemi neurotrasmettitoriali sono chiamati in causa nello studio eziopatogenetico della schizofrenia e del meccanismo d’azione dei farmaci antipsicotici. L’importanza dei sistemi dopaminergici centrali nel controllo delle funzioni psichiche è dimostrato dal fatto che la potenza clinica dei farmaci antipsicotici utilizzati nella terapia della schizofrenia è correlata in maniera lineare alla capacità di bloccare i recettori dopaminergici, in particolar modo del sottotipo D2 [3]. Inoltre questi farmaci inducono come effetto collaterale una sintomatologia simile a quella del morbo di Parkinson, a causa della riduzione del tono dopaminergico. L’ipotesi è ulteriormente avvalorata dall’osservazione della somministrazione di farmaci che aumentano i livelli di dopamina; essi svolgono un’attività psicoticomimetica provocando quadri psicotici simili a quelli della schizofrenia paranoide. Dati più recenti ottenuti su pazienti schizofrenici, mostrano attraverso l’utilizzo della PET, un aumento di recettori D2 a livello dei nuclei caudato, nucleo accumbens e turbecolo olfattorio [4]. E’ utile quindi

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introdurre le quattro proiezioni a livello del SNC che contraddistinguono il sistema dopaminergico:

- Nigrostriatale: comprende i neuroni provenienti dall’area tegmentale

ventrale mesencefalica (A10), dalla pars compacta della substantia nigra (A9) e dall’area retrobulbare in posizione caudale (A8). I dendriti dei neuroni provenienti da A9 si distribuiscono alla pars reticolata della substantia nigra e regolano l’attività delle terminazioni afferenti che originano dai gangli della base.

- Mesolimbica e mesocorticale: origina dai neuroni dell’area A10 (VTA) e

della parte mediale della substantia nigra; innerva il nucleo accumbens, il tubercolo olfattorio ed il nucleo interstiziale della stria terminale. Altre fibre si portano al setto (nucleo laterale del setto), ippocampo, amigdala, corteccia entorinale, corteccia prefrontale, corteccia peririnale e corteccia piriforme.

- Mesotalamica: origina dai neuroni provenienti da A10 e si porta a strutture

del ponte, diencefalo e telencefalo.

- Tuberoinfundibolare e tuberoipofisaria: origina dai neuroni provenienti da

A12, localizzati nel nucleo arcuato e periarcuato. Il sistema tuberoipofisario innerva prevalentemente l’ipofisi posteriore controllando la secrezione dell’ormone melanocitostimolante (α-MSH), della β-endorfina, di ossitocina e vasopressina. Il sistema tuberoinfundibolare rilascia dopamina nel sistema portale ipofisario e media la secrezione di prolattina.

Le alterazioni a carico di differenti parti del sistema dopaminergico possono essere correlate e descritte dall’alterazione di determinate funzioni psichiche. In base alle peculiari proiezioni si denota il coinvolgimento del sistema mesolimbico nei processi di memoria ed emotivi mentre il sistema mesocorticale sembra coinvolto in funzioni psichiche superiori tra le quali l’attenzione, la motivazione, la pianificazione, l’organizzazione temporale del comportamento e la socializzazione, ma anche nei fenomeni di dipendenza da sostanze di abuso. Lo studio anatomico, funzionale e farmacologico di questi sistemi ha permesso di

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formulare l’ipotesi che nei pazienti schizofrenici esistono due alterazioni dei sistemi dopaminergici:

- Aumento dell’attività del sistema mesolimbico  Sintomi positivi - Riduzione dell’attività del sistema mesocorticale  Sintomi negativi

Fig. 1.1 Rappresentazione delle proiezioni del sistema dopaminergico a livello del SNC.

Esiste un’ipotesi unificante che prevede una interazione tra queste due proiezioni, secondo la quale in condizioni normali la proiezione mesocorticale regola tramite un feedback inibitorio la proiezione mesolimbica. Secondo questa teoria nella schizofrenia esiste un difetto primitivo dell’attività delle proiezioni dopaminergiche mesocorticali a livello della corteccia prefrontale; questo si riflette in un’assenza del feedback inibitorio suddetto, cosicché si genera una iperattività dopaminergica nei distretti mesolimbici. L’ipotesi dopaminergica seppur ben strutturata, non è in grado di spiegare in maniera del tutto univoca l’eziopatogenesi della schizofrenia. A completamento della spiegazione del ruolo delle alterazioni dei sistemi neurotrasmettitoriali, è stato preso in considerazione il sistema serotoninergico per lo stretto rapporto che questo ha nei confronti del sistema dopaminergico e di altri sistemi neurotrasmettitoriali. Lo sviluppo di agenti farmacologici con attività agonista ed antagonista nei confronti del sistema serotoninergico ha permesso di capire più approfonditamente il ruolo che svolge nella modulazione del rilascio della dopamina. Proprio a partire dalla scoperta dell’LSD, che svolge il ruolo di agonista sul recettore 5-HT2A ed è in grado di indurre una sintomatologia simile ai sintomi psicotici della schizofrenia, è stata

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proposta l’ipotesi del ruolo della serotonina come modulatore di altri sistemi neurotrasmettitoriali. Il nucleo del rafe dorsale e mediale presenta proiezioni serotoninergiche sull’area A10 (VTA), su A9 ovvero la substantia nigra e direttamente sulla corteccia prefrontale, lo striato ed il nucleo accumbens; si verifica una modulazione su tutte le aree che costituiscono il sistema dopaminergico.

Fig. 1.2 Interazione tra il sistema serotoninergico e dopaminergico mesolimbico e nigrostriatale.

Indubbiamente le ipotesi dopaminergiche e serotoninergiche della schizofrenia sono avvalorate dal meccanismo d’azione dei farmaci antipsicotici che permettono di trattare i pazienti. Tuttavia la complessità dei rapporti dei sistemi neurotrasmettitoriali prevede l’implicazione anche degli assi glutammatergico, colinergico, istaminergico ed adrenergico che verranno affrontati più approfonditamente nella sezione inerente i meccanismi d’azione degli AAPs.

Fig. 1.3 Rappresentazione delle proiezioni dopaminergiche e serotoninergiche a livello del SNC

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 Alterazioni morfologiche e neurofisiologiche cerebrali

Studi in pazienti al primo episodio di malattia hanno mostrato che alcune caratteristiche patomorfologiche a livello cerebrale sono presenti sin dagli stadi iniziali di malattia e non sono quindi ascrivibili alla cronicizzazione della malattia [1]. Queste caratteristiche neurobiologiche risultano talvolta essere predittive di un esito peggiore di malattia a lunga scadenza, come confermato da studi prospettici e longitudinali. Tecniche di risonanza magnetica permettono di identificare questi marcatori biologici, che possono essere misurabili quantitativamente e potrebbero rappresentare uno strumento per indagare l’ereditarietà della malattia. I pazienti con caratteristiche più gravi risultano avere un aumento di volume de ventricoli laterali ed una riduzione della corteccia prefrontale, temporale ed occipitale, oltre che di strutture sottocorticali come i nuclei della base, il talamo ed il sistema limbico [5]. Mediante tomografia ad emissione di positroni (PET) e tomografia computerizzata ad emissione di fotone singolo (SPECT) nei pazienti con schizofrenia è stata evidenziata una insufficienza funzionale del lobo frontale, prevalente nelle regioni posteriori, che si accentua in condizioni di stimolo con test cognitivi. Inoltre è stata segnalata una asimmetria funzionale tra i due emisferi con prevalenza fronto-temporale sinistra ed una iperattività sottocorticale a livello dei nuclei della base. In studi post-mortem sono stati evidenziati alterazioni di tipo atrofico a livello del giro del cingolo e della corteccia ippocampale del lobo temporale [1]. Identificare all’imaging sottotipi più omogenei di pazienti affetti da schizofrenia potrebbe essere utile a fornire uno sviluppo sulla ricerca dell’eziopatologia della malattia e favorire strategie di intervento clinico e riabilitativo più efficace [5]. Le alterazioni morfologiche e neurofisiologiche possono essere viste come l’espressione da una parte secondo un’ottica kraepeliniana di una ipotesi neurodegenerativa, mentre dall’altra potrebbe esser vista come un’alterazione delle fasi maturative del SNC in epoca embrionale ed adolescenziale secondo la teoria del neurosviluppo. Indubbiamente è impossibile ridurre ad un semplice aspetto dualistico il processo patogenetico della schizofrenia, che si complica ed articola negli aspetti multifattoriali e sfaccettati che abbiamo sopra affrontato.

1.1.C Manifestazioni cliniche

Esiste una serie di segni e sintomi premorbosi tipici dei bambini e degli adolescenti che in seguito svilupperanno un disturbo schizofrenico e sono

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l’introversione, l’elevata sensibilità e la difficoltà nelle situazioni sociali. Sono individui generalmente chiusi, schivi, isolati, caratterizzati da un temperamento di tipo depressivo, inoltre presentano una scarsa motivazione nelle attività, ridotta capacità di contatto emotivo, scarso coinvolgimento nel gioco e lieve difficoltà a mantenere l’attenzione. Con la crescita, il desiderio di relazioni interpersonali è molto scarso, comprese le attività con l’altro sesso; vi è inoltre la tendenza a trascorrere la giornata in attività solitarie. Disturbi di personalità di tipo schizoide o schizotipico sono da valutare con attenzione perché possono essere considerati come un continuum evolutivo verso la patologia conclamata. Le manifestazioni della schizofrenia variano molto a livello soggettivo e non esiste un vero e proprio sintomo patognomonico; familiarità, caratteristiche premorbose, livello di istruzione e capacità intellettive devono essere tenute in considerazione per la valutazione clinica. L’aspetto generale è differente tra i vari pazienti ed il soggetto si può presentare in uno stato di eccitamento incontrollato, agitato ed afinalistico oppure apparire rallentato fino all’arresto psicomotorio ed al mutismo con negativismo [1]. E’ possibile suddividere la sintomatologia in:

- Alterazioni funzionali della motricità: il paziente si oppone attivamente ai

tentativi di movimento (catatonia), assume passivamente una postura (flessibilità cerea) o mantiene la stessa postura per lungo tempo (catalessia). Possono inoltre essere presenti movimenti rapidi ed involontari (tic motori), esecuzione automatica di comandi anche paradossali, imitazione di gesti dell’interlocutore (ecoprassia), ripetizioni di frasi o parole di un’altra persona (ecolalia), movimenti ripetitivi ed involontari afinalistici (stereotipie) e comportamenti eccentrici e paradossali (bizzarrie).

- Disturbi della percezione: includono le allucinazioni che possono

riguardare ognuno dei cinque sensi, ma più comunemente sono a carico dell’udito. Raramente possono presentarsi allucinazioni cenestesiche, caratterizzate da una percezione allucinatoria di alcune parti del corpo (bruciore nel cervello).

- Disturbi del contenuto del pensiero: vaghe e non sistemizzate idee di

riferimento e di persecuzione, idee bizzarre, assurde e non plausibili, talora complesse e sistemizzate. Tipiche del paziente schizofrenico

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possono essere idee di furto del pensiero, inserzione del pensiero e trasmissione del pensiero.

- Disturbi della forma del pensiero: possono essere positivi (allentamento

dei nessi associativi, incoerenza, illogicità, deragliamento, tangenzialità, neologismi) oppure negativi (perseverazione, verbigerazione e blocco).

- Impoverimento ideativo: difficoltà a simbolizzare, ad astrarre ed andare

oltre il significato letterale di un concetto o di una frase, che viene definito pensiero concreto.

- Sintomatologia affettiva: l’umore del paziente si mostra appiattito,

incapace di mostrare segni di espressione emotiva; l’ottundimento emotivo si associa a riduzione della spinta volitiva (abulia) con inibizione più o meno marcata dell’iniziativa.

- Deterioramento delle capacità cognitive elementari: si riducono

l’attenzione, la memoria ed infine la capacità di apprendimento.

Negli anni ’80 Tim Crow suddivise la sintomatologia schizofrenica distinguendo i sintomi positivi e negativi; questa classificazione è rimasta ai nostri giorni utile da un punto di vista clinico e didattico. I sintomi positivi comprendono le allucinazioni, i deliri, alcune alterazioni formali del pensiero, come l’incoerenza, il deragliamento, la tangenzialità, l’illogicità e le bizzarrie comportamentali. I sintomi negativi comprendono l’appiattimento dell’affettività, l’apatia, l’anedonia, la povertà di linguaggio (alogia), il ritiro sociale, lo scadimento della cura ed i deficit cognitivi [1].

1.1.D Decorso della patologia

L’esordio della schizofrenia è contraddistinto da un periodo di cambiamento subdolo rispetto al precedente funzionamento del paziente. Esiste una fase prodromica di durata variabile che si instaura con progressivo isolamento sociale, ritiro dalle attività scolastiche, lavorative o ricreative, allentamento o deterioramento dei rapporti affettivi e sessuali, riduzione dell’igiene ed aspetto esteriore. Possono essere presenti anche modificazioni del pensiero caratterizzate da impoverimento dei contenuti, convinzioni bizzarre o magiche,

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concretismo, linguaggio insolito e vaghe idee di riferimento. Dalla fase prodromica si passa ad una fase attiva in cui diventano evidenti sintomi psicotici, come deliri ed allucinazioni. A questa segue una fase residua, che può ricordare sfumatamente la fase prodromica, ma prevalgono la compromissione della funzione socio-lavorativa ed i sintomi negativi. Il decorso può avere un andamento episodico, singolo o multiplo, con o senza sintomi residui, oppure si può instaurare una sintomatologia di stato per cui l’andamento è continuo. Lo spartiacque prognostico è legato alla presenza o meno di alterazioni gravi visibili al neuroimaging; inoltre, l’esordio precoce, i sintomi negativi prevalenti, ricadute frequenti ed assenza di remissione, correlano con una prognosi più negativa. Il tentativo di suicidio come complicanza incide per un 50% dei casi e circa il 10-15% dei pazienti muore per suicidio. Possono verificarsi casi di aggressività eterodiretta e spesso esistono correlazioni con utilizzo di sostanze di abuso come alcol e sostanze [1].

1.1.E Approccio diagnostico

Un ruolo determinante nell’ iter diagnostico della schizofrenia è rivestito dalla valutazione del paziente in base ai criteri diagnostici del DSM-V:

A  Devono essere presenti due o più dei seguenti sintomi, ciascuno presente per una parte di tempo significativa in un periodo di un mese (o meno se trattati efficacemente) tra: deliri; allucinazioni; eloquio disorganizzato (deragliamento o incoerenza); comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico; sintomi negativi (diminuzione dell’espressione delle emozioni o abulia). Almeno uno di questi deve essere delirio; allucinazioni o eloquio disorganizzato.

B  Per una significativa parte di tempo dall’esordio del disturbo, il livello del funzionamento in una o più aree principali, come il lavoro, le relazioni interpersonali, o la cura di se, è marcatamente al di sotto del livello raggiunto prima dell’esordio (oppure quando l’esordio è nell’infanzia o adolescenza, si manifesta l’incapacità di raggiungere il livello atteso di funzionamento interpersonale, scolastico o lavorativo).

C  Segni continuativi del disturbo persistono per almeno sei mesi. Questo periodo di sei mesi deve comprendere almeno un mese di sintomi (o meno se trattati efficacemente) che soddisfano il criterio A (ovvero la fase attiva dei sintomi) e può comprendere periodi di sintomi prodromici o residui. Durante

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questi periodi prodromici o residui, i segni del disturbo possono essere evidenziati soltanto da sintomi negativi oppure da due o più dei sintomi elencati nel criterio A presenti in forma attenuata.

D  Se è presente una storia di disturbo dello spettro dell’autismo o di disturbo della comunicazione ad esordio infantile, la diagnosi aggiunta di schizofrenia viene posta soltanto se sono presenti per almeno un mese (o meno se trattati efficacemente) allucinazioni o deliri preminenti, in aggiunta agli altri sintomi richiesti dalla schizofrenia.

E  Il disturbo schizoaffettivo ed il disturbo depressivo o bipolare con caratteristiche psicotiche devono essere esclusi nel caso in cui non si siano verificati episodi depressivi maggiori o maniacali in concomitanza con la fase attiva dei sintomi oppure se si sono verificati episodi di alterazione dell’umore durante la fase attiva dei sintomi, ma per una parte minoritaria della durata totale dei periodi attivi o residui di malattia.

F  Il disturbo non è attribuibile agli effetti fisiologici di sostanze o altre condizioni mediche.

Esistono inoltre specificatori del decorso di malattia che possono essere utilizzati dopo un anno di insorgenza del disturbo e definiscono: primo episodio attualmente in fase acuta, remissione parziale o completa; episodi multipli attualmente in fase acuta, remissione parziale o completa.

E’ inoltre presente uno specificatore di gravità che permette di stratificare attraverso una valutazione quantitativa dei sintomi, la gravità del paziente in base ad una scala di punteggio che va da 0 a 4 (è un parametro accessorio, non strettamente necessario alla diagnosi di schizofrenia). È da specificare anche la presenza o meno di catatonia.

Il quadro del paziente schizofrenico entra in diagnosi differenziale con altri disturbi psicotici che non rientrano nella diagnosi di schizofrenia come la psicosi reattiva breve, il disturbo schizofreniforme, il disturbo schizoaffettivo, il disturbo psicotico indotto ed i disturbi psicotici non altrimenti specificati [1].

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1.1.F Trattamento: i farmaci antipsicotici

Il trattamento della schizofrenia prevede un approccio di tipo farmacologico e si articola in tre fasi:

- Fase acuta: l’obiettivo è il controllo dei sintomi psicotici ed ha

generalmente una durata di 6-8 settimane. Si tende ad utilizzare tra gli antipsicotici tipici, aloperidolo, mentre nell’ambito degli antipsicotici atipici, olanzapina, quetiapina e risperidone. Se si ha una risposta parziale entro le tre settimane è consigliato aumentare le dosi, diversamente se il quadro clinico resta invariato si rende necessario la sostituzione del farmaco. Può essere utile la valutazione della compliance del paziente effettuando il monitoraggio dei livelli plasmatici del farmaco. Si definiscono resistenti i pazienti che hanno portato a termine almeno tre periodi di trattamento negli ultimi cinque anni con tre antipsicotici differenti, per un minimo di sei settimane a dosaggi adeguati. In tal caso il farmaco di elezione è clozapina, l’antipsicotico più efficace attualmente disponibile.

- Fase di stabilizzazione: consiste nel proseguimento della terapia di fase

acuta e prevede gli eventuali aggiustamenti di dose necessari, con particolare attenzione alla comparsa di effetti indesiderati.

- Fase di mantenimento: raggiunta la stabilità si rende necessario formulare

un programma terapeutico a lungo termine che oltre al trattamento farmacologico comprende interventi riabilitativi e psicosociali. E’ possibile per quanto riguarda la terapia farmacologica, procedere con una graduale riduzione delle dosi, fino al raggiungimento della dose minima efficace. Il trattamento deve essere proseguito per 1-2 anni nel caso del primo episodio, non meno di 5 anni in caso di recidive multiple e deve essere continuativo nel caso di quadri gravi ad alto rischio di ricaduta. In questa fase i composti atipici sono più idonei, in quanto sembrano interferire in minor modo, anzi migliorare, le capacità emozionali e cognitive residue.

Gli antipsicotici (APs) rappresentano i farmaci d’elezione per il trattamento della schizofrenia e di altre patologie caratterizzate da tratti psicotici [6]. Questi farmaci

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possono essere suddivisi in due classi; antipsicotici tipici (TAPs), in riferimento alla prima generazione e antipsicotici atipici (AAPs), in riferimento alla seconda generazione. Questa suddivisione si basa sul concetto che gli antipsicotici atipici riducono il rischio dell’insorgenza di effetti collaterali importanti come il parkinsonismo e le discinesie tardive, con possibile miglioramento per quanto riguarda gli aspetti sociali e cognitivi [7]. Storicamente l’utilizzo di questi farmaci risale al 1952 in relazione alla scoperta che la clorpromazina, un’antistaminico, migliorava il quadro sintomatologico in psicosi agitate; questo evento ha dato inizio ad una vera e propria rivoluzione farmacologica [8]. Solo più tardi è stato chiarito che il blocco del recettore D2 per la dopamina è responsabile degli effetti clinici dei TAPs. Sfortunatamente questa evidenza ha dimostrato che oltre l’effetto terapeutico, l’antagonismo per il recettore D2 è responsabile di importanti effetti collaterali, motori e non, come il parkinsonismo, le discinesie tardive e l’iperprolattinemia. Inoltre sembrerebbe che proprio il blocco dei recettori D2 a livello della corteccia prefrontale (PFC) ed altre aree sia responsabile del peggioramento dei sintomi negativi nei pazienti schizofrenici. Negli anni ’70 sono stati introdotti nuovi farmaci, definiti di seconda generazione e rinominati “antipsicotici atipici”, che hanno dimostrato di essere molto efficaci non solo per il trattamento dei sintomi positivi della schizofrenia, ma anche nella riduzione dei sintomi negativi e dei problemi cognitivi, con una notevole riduzione dell’insorgenza degli effetti collaterali. Così come l’introduzione dei TAPs è stata rivoluzionaria, portando ad una riduzione delle ospedalizzazioni e della mortalità nei pazienti schizofrenici e con tratti psicotici, la scoperta degli AAPs ha permesso un miglioramento in termini cognitivi e di riabilitazione alla reintegrazione sociale. Tra questi farmaci clozapina si contraddistingue per l’efficacia, sebbene i benefici che offre siano controbilanciati dal rischio di effetti collaterali come l’aumento di peso e l’agranulocitosi che obbligano il monitoraggio ematico delle concentrazioni del farmaco (cadenza settimanale per le prime 18 settimane di trattamento e successivamente cadenza mensile). Clozapina quindi resta, come detto, un farmaco di prima scelta nelle forme di schizofrenia resistente. Alla luce di queste evidenze, oggigiorno è in atto un grande sforzo da parte della comunità scientifica nella ricerca di nuovi farmaci che abbiano un’efficacia pari a quella di clozapina, ma un minor numero di effetti collaterali.

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1.2 ANTIPSICOTICI ATIPICI: MECCANISMI D’AZIONE CLASSICI

Il successo degli AAPs e l’elevata efficacia di clozapina, ha permesso di approfondire il meccanismo di questi farmaci; in prima istanza è stata descritta una minore affinità per il recettore dopaminergico D2, ed un’aumentata affinità nei confronti del recettore per la serotonina 5-HT2A. Il coinvolgimento dei recettori per la serotonina è stato un passo veramente importante per l’ampliamento della comprensione del meccanismo di azione degli AAPs, tanto che il rapporto di affinità per i recettori 5-HT2A/D2 è stato considerato un pilastro di riferimento per l’efficacia di questi farmaci. Questo rapporto, per quanto fondamentale, non descrive in maniera del tutto soddisfacente le differenze che poi nella realtà clinica esistono tra i vari AAPs. Da questo punto di partenza sono quindi state proposte molte ipotesi per cercare di spiegare in maniera univoca un meccanismo dell’atipia di questi farmaci. Molti lavori si sono focalizzati sul ruolo dei recettori associati alle proteine G (GPCR), ampliando la visione dell’interazione di questi farmaci oltre il recettore D2 e 5-HT2A; sono stati studiati altri recettori serotoninergici (5-HT2C, 5-HT1A), muscarinici, adrenergici, glutammatergici e istaminergici [9]. Oltre all’approfondimento nel campo dei GPCR, sono stati studiati anche altri possibili targets come canali ionici (NMDA), trasportatori (trasportatore della glicina) ed enzimi; tutti questi sforzi sono stati messi in atto per spiegare in maniera più specifica le caratteristiche degli AAPs. Sono stati approfonditi anche altri parametri come ad esempio le cinetiche di associazione e dissociazione recettoriale per il D2, proprio per migliorare la comprensione del meccanismo d’azione e gli effetti collaterali. Esistono evidenze che dimostrano effetti a breve termine di questi farmaci nel trattamento delle psicosi acute, mediati dalla particolare affinità recettoriale, ma ad oggi stanno acquistando rilevanza anche gli effetti a lungo termine che coinvolgono meccanismi regolatori della funzionalità e plasticità neuronale [10][11]. In questa seconda parte introduttiva, affronteremo le principali differenze che contraddistinguono i farmaci “tipici” dagli “atipici” ed approfondiremo il meccanismo d’azione di questi ultimi, analizzando gli effetti su i principali assi neurotrasmettitoriali ed i recettori attraverso i quali svolgono la propria azione.

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1.2.A Sistema dopaminergico e recettori associati

Il ruolo del sistema dopaminergico nella patogenesi della schizofrenia e delle malattie correlate è stato postulato da diversi autori come Carlsson e Rossum a partire dagli anni ’60. Questa ipotesi è stata successivamente validata dalla

scoperta del meccanismo d’azione degli antipsicotici tipici, che si estrinseca con il blocco dei recettori D2. L’ipotesi dopaminergica riguardo aspetti

eziopatogenetici della schizofrenia postula una iperattività della dopamina a livello del sistema mesolimbico ed una ipofunzionalità della dopamina a livello delle altre aree cerebrali, come ad esempio a livello della corteccia prefrontale. L’iperattività della dopamina è responsabile dei sintomi positivi, come il delirio e le allucinazioni, mentre la riduzione del tono dopaminergico nelle altre aree causa i sintomi negativi come l’apatia, l’anedonia e la mancanza di interazione sociale. Le evidenze più dirette delle disfuzioni del sistema dopaminergico sono state rilevate mediante l’utilizzo di radioligandi ed analisi PET, grazie alle quali è stato possibile misurare il release di dopamina e la capacità di spiazzare differenti marker recettoriali. Inoltre è stato possibile studiare le alterazioni della sintesi della dopamina in modelli animali ed umani utilizzando la 18-L-dopa. Queste tecniche hanno permesso di dimostrare una ipersensibilità all’anfetamina nei pazienti schizofrenici ed un aumento del rilascio di dopamina come evento scatenante della psicosi; l’aumento del rilascio di dopamina ed i sintomi psicotici possono propriamente comparire in soggetti sani se trattati con questo farmaco e ciò ha permesso di ottenere un modello di schizofrenia animale da studiare. Gli antipsicotici tipici condividono un forte antagonismo per il recettore D2, mentre gli antipsicotici atipici legano il recettore D2 con differenti gradi di affinità. Sfortunatamente è proprio il blocco del recettore D2 il responsabile dei gravi effetti collaterali dei farmaci di prima generazione, in relazione all’inibizione dell’attività dopaminergica a livello dello striato dorsale (parkinsonismi e discinesie tardive), a livello dell’ipofisi (iperprolattinemia) ed a livello della corteccia prefrontale (peggioramento dei sintomi negativi). Tramite il neuroimaging è stato possibile evidenziare che i sintomi motori extra-piramidali si verificano dal momento in cui l’80% dei recettori D2 sono bloccati a livello dello striato. Per questa ragione gli AAPs sono stati sviluppati seguendo una direzione che va oltre l’antagonismo del recettore D2, proprio per evitare questi gravi effetti collaterali. Nonostante la riduzione per l’affinità del recettore D2, l’antagonismo su D2 resta alla base del meccanismo d’azione di questi farmaci, insieme all’azione

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su altri elementi recettoriali. Le interazioni recettoriali supplementari permettono la regolazione dei circuiti dopaminergici in maniera indiretta; in questo modo si riduce il rischio per gli effetti collaterali motori, le funzioni endocrine ed il ridotto antagonismo sul recettore D2 viene vicariato. I recettori per la dopamina sono convenzionalmente classificati in due famiglie recettoriali D1-like (D1 e D5) e D2 -like (D2s, D2l, D3 e D4); queste rispettivamente interagiscono con le proteine Gs (attivazione del signalling associato ad AC) e Gi (inibizione del signalling associato ad AC).

 Recettore D1 (D1R)

I recettori D1 sono prevalentemente espressi a livello post-sinaptico e sono intensamente espressi a livello dello striato, amigdala, bulbo olfattorio, cervelletto e corteccia prefrontale [12]. Nella corteccia prefrontale di ratto i recettori D1 sono espressi prevalentemente a livello degli interneuroni GABAergici ed a livello dei neuroni piramidali glutammatergici [13]. Inoltre i recettori D1 sono espressi a livello dello strato V della corteccia, che può essere particolarmente disfunzionale nei pazienti schizofrenici [14]. La corteccia prefrontale dei roditori, dei primati e degli uomini esprime preferenzialmente D1R rispetto a D2R [15][16][17]. La corteccia prefrontale (PFC) svolge un ruolo fondamentale nell’elaborazione dei processi cognitivi come il pensiero, la pianificazione e l’abilità spaziale; per questo il ruolo del D1R è stato indagato in molti studi di imaging e farmacologici nei pazienti schizofrenici. Grazie alla PET è stata dimostrata una riduzione del legame del radioligando al recettore D1 nella corteccia prefrontale, con una riduzione tanto maggiore quanto più gravi sono i sintomi negativi [18]. Nei ratti è stata dimostrata la reversibilità del quadro indotto da fenciclidina, dopo somministrazione di clozapina, grazie all’attivazione del signaling associato al recettore D1 [19]. Queste evidenze indicano che l’azione della clozapina sul recettore D1 a livello della corteccia prefrontale potrebbe avere un ruolo nel meccanismo d’azione di questo farmaco. Questo effetto è mediato prevalentemente dall’aumento di dopamina attraverso l’antagonismo della clozapina sul recettore α2; infatti nonostante clozapina mostri affinità per il recettore D1, non è stata ancora dimostrato un ruolo da agonista su questo recettore. In maniera analoga a clozapina è stato dimostrato che la somministrazione di agonisti per il recettore D1 a livello della corteccia prefrontale migliora i difetti di apprendimento in topi trattati con fenciclidina [20]. Clozapina

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aumentando la dopamina, porta ad attivazione dei recettori D1 ed induce un aumento della corrente NMDA indotta nei neuroni corticali piramidali [21]. In maniera analoga a clozapina, asenapina, che si comporta da forte antagonista α2, aumenta l’attività corticale dopaminergica ed NMDA-mediata nei ratti. Ulteriori evidenze del ruolo della dopamina a livello della PFC deriva da dati che mostrano come antagonisti selettivi per D1R sono inefficaci non solo nel miglioramento dei sintomi della schizofrenia, ma che oltretutto potrebbero esacerbare aspetti della malattia [22]. In relazione al ruolo della dopamina per le attività cognitive è stata proposta una curva dose-risposta ad U invertita; valori troppo elevati o troppo bassi di dopamina possono alterare le funzioni cognitive, le migliori performance cognitive sono ottenute entro un rilascio bilanciato di questo neurotrasmettitore [23].

 Recettore D2 (D2R)

A livello del sistema nervoso centrale i recettori D2 sono più frequentemente espressi a livello dello striato, nucleo accumbens e tubercolo olfattorio. Inoltre sono presenti a livello della substantia nigra, area tegmentale ventrale, ipotalamo, aree corticali, setto, amigdala ed ippocampo [24][25][26][27]. I recettori D2 esistono in due isoforme D2L e D2S e differiscono per l’inserzione di 29 aminoacidi a livello del terzo loop intracellulare [28]. Queste varianti recettoriali hanno una distribuzione anatomica distinta, ma siamo ancora lontani da evidenziare differenze per quanto riguarda l’attività funzionale di queste isoforme. E’ stato proposto che l’isoforma D2S è espressa maggiormente in maniera pre-sinaptica e svolge una funzione di autorecettore, invece D2L sembra maggiormente coinvolto in funzioni post-sinaptiche [29]. L’attivazione dell’autorecettore causa una riduzione del rilascio di dopamina che esita in una riduzione dell’attività locomotoria, all’opposto l’attivazione dei recettori post-sinaptici stimola l’attività motoria. Risposte opposte si verificano in presenza di dopamino-antagonisti; la concentrazione del farmaco è determinante per la risposta complessiva finale. L’antagonismo sul recettore D2 è considerato il meccanismo d’azione fondamentale degli antipsicotici per il trattamento dei sintomi positivi della schizofrenia, specialmente quando sono gravi e ben manifesti. Questo è indubbiamente il meccanismo principale per i TAPs, mentre per quanto riguarda gli AAPs il coinvolgimento di altri elementi recettoriali, sotto certi aspetti porta a bilanciare il ridotto antagonismo sul D2R. Il blocco dei

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recettori D2 è anche responsabile degli effetti collaterali di questi farmaci e per questo motivo la finestra terapeutica dei tipici è abbastanza ristretta. Le tecniche di neuroimaging dimostrano che l’occupazione recettoriale ottimale è intorno a valori compresi tra 65-80% e la comparsa di effetti collaterali extrapiramidali è inevitabile quando più dell’80% dei recettori viene bloccato a livello dello striato. Per quanto riguarda gli atipici, la finestra terapeutica dell’occupazione recettoriale del D2 non è così fondamentale, in quanto questi farmaci controllano l’iperattività dopaminergica attraverso meccanismi alternativi oltre l’antagonismo D2. Comunque il superamento dell’80% dell’occupazione recettoriale comporta il rischio della comparsa degli effetti collaterali anche per questa classe di farmaci. Questo aspetto è particolarmente rilevante per glia AAPs risperidone ed olanzapina che avendo un’affinità maggiore per il D2R, rischiano di arrivare a tali valori di occupazione recettoriale. Al contrario, gli AAPs clozapina e quetiapina non mostrano mai valori così elevati di occupazione, per concentrazioni ematiche terapeutiche; questo potrebbe chiaramente spiegare il motivo per cui questi farmaci non inducono mai parkinsonismi. Un altro approccio farmacologico possibile, per ridurre il rischio di effetti collaterali extra-piramidali, potrebbe essere la scelta di un agonista parziale a livello del D2R; questo è stato dimostrato grazie all’utilizzo dell’AAP aripiprazolo. Questo ha un’azione agonista/antagonista in relazione alla concentrazione di dopamina a livello sinaptico; si comporta da antagonista parziale nel caso di eccesso di dopamina, ma mantiene sempre un’attività intrinseca nei confronti del recettore D2 del 20-40%. È un farmaco più sicuro, ma che comunque ad alte dosi può portare alla comparsa di effetti collaterali.

 Koff e Kon del Recettore D2

Riguardo il meccanismo d’azione degli AAPs, oltre alle ipotesi sull’affinità recettoriale, esistono delle ipotesi che hanno valutato gli aspetti della cinetica di dissociazione di questi farmaci per il recettore D2 [30]. Molti antipsicotici atipici hanno una bassa affinità per il recettore D2 e questa è determinata proprio dalla veloce dissociazione recettoriale [31]. Queste ipotesi riguardo le proprietà cinetiche sono state introdotte per spiegare la più bassa incidenza degli effetti collaterali degli atipici. Gli antipsicotici sono antagonisti competitivi che formano reversibilmente legami con il recettore D2. La quantità di farmaco legato al recettore all’equilibrio è costante, ma l’occupazione recettoriale è dinamicamente

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determinata sulla base di quanto rapidamente il complesso farmaco-recettore è spiazzato dal ligando endogeno che compete per il sito di legame. A livello sinaptico, l’attivazione del neurone presinaptico dopaminergico determina un aumento della concentrazione di dopamina di circa 500 nM; successivamente la dopamina viene rimossa dalla sinapsi grazie al reuptake presinaptico o all’eventuale degradazione enzimatica [32]. In queste condizioni una cinetica di dissociazione rapida degli antipsicotici permette ad una buona frazione di D2R di essere legato alla dopamina che viene rilasciata in maniera transiente. All’opposto farmaci con lenta cinetica di dissociazione tendono a favorire in misura minore il legame della dopamina e giocano il ruolo di antagonisti maggiormente insormontabili. Clozapina e quetiapina mostrano una dissociazione molto rapida dal recettore D2 con un’emivita di qualche decina di secondo. Questo potrebbe essere un motivo per cui tali farmaci non inducono effetti collaterali gravi (parkinsonismi e iperprolattinemia); sono più facilmente spiazzati dalla dopamina quando questa è rilasciata fisiologicamente [33][34]. Indubbiamente non è possibile stabilire una correlazione lineare tra AAPs e Koff nella riduzione degli effetti collaterali; basta pensare alla variabilità dei parametri cinetici determinati dai diversi metodi sperimentali. Inoltre è dimostrato che risperidone, olanzapina ed amisulpride hanno caratteristiche cliniche che vanno oltre la loro koff di dissociazione recettoriale. A riguardo di quanto suddetto recenti studi che sfruttano TR-FRET hanno dimostrato anche l’importanza della Kon per la determinazione dell’affinità recettoriale sul recettore D2 [35]. È stato quindi proposto che Kon e Koff descrivono rispettivamente meglio la correlazione con gli effetti collaterali extrapiramidali e l’aumento di secrezione di prolattina. Dissociazioni molto lente, come per risperidone ed aloperidolo, possono spiegare il motivo per cui l’iperprolattinemia è frequente durante l’utilizzo di questi farmaci. Alti valori di Kon invece, evidenziati per risperidone e clorpromazina, correlano con l’aumentata incidenza di parkinsonismo. In relazione ai livelli dell’espressione del D2R a livello ipofisario, il ruolo della Koff sembra determinante, in quanto nel contesto del sistema portale ipotalamo-ipofisi, il farmaco si muove liberamente nella soluzioni acquose con una riduzione delle possibilità di legare il recettore. In una tale situazione, la persistenza dell’antipsicotico sul recettore, determinata dalla sua Koff, è un fattore limitante per la funzione della dopamina che non può legare il recettore D2 e ridurre i livelli di prolattina. All’opposto a livello della sinapsi nelle connessione nigro-striatali, gli antipsicotici potrebbero trovare un

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compartimento extracellulare più ristretto formato da barriere fisiche proteiche e lipidiche che in qualche modo facilita multipli legami del farmaco determinati dai valori di Kon. In sintesi è possibile definire l’iperprolattinemia indotta dagli antipsicotici come fortemente correlata con la costante di dissociazione dal recettore D2, mentre gli effetti extrapiramidali coinvolgono sia la costante di dissociazione che di associazione con il contributo di altri recettori (5HT2A/C) che regolano il rilascio di dopamina. Per esempio tra gli AAPs, asenapina e sertindolo hanno un’elevata Kon, ma sono correlati con un minor grado di parkinsonismo in quanto si comportano da antagonisti su i recettori per la serotoninergici e muscarinici, che contribuiscono a ridurre gli effetti collaterali motori. Analogamente si nota che clorpromazina, che ha la più alta Kon tra i TAPs, non da effetti collaterali extra-piramidali gravi se confrontata con aloperidolo.

 Recettore D3 (D3R)

Nel sistema nervoso umano, la distribuzione del recettore per la dopamina D3 è abbastanza differente rispetto a quella del D1R e D2R; sembra essere complessivamente meno espresso, ma presenta alte concentrazioni in determinate aree. I recettori D3 sono espressi come autorecettori su i neuroni dopaminergici e come recettori post-sinaptici [36][37]. La più alta espressione di questi recettori è espressa a livello delle aree limbiche, che sono associate a funzioni emotive e cognitive [38]. Più specificamente sono particolarmente rappresentati a livello delle isole di Calleja, nucleus accumbens e tubercolo olfattorio, con più bassi livelli nel nucleo caudato e nel putamen. Comunque in modelli animali con denervazione dopaminergica per simulare la malattia di Parkinson, si verifica una up-regulation dei D3R a livello dello striato dorsale durante trattamenti con L-dopa; questo meccanismo potrebbe essere responsabile dell’insorgenza delle discinesie. I recettori D3 mostrano la più alta affinità per la dopamina ed agonisti rispetto alle altre sottofamiglie recettoriali. Nelle regioni extrastriatali del cervello umano, livelli moderati e bassi di recettori D3 sono stati identificati a livello del globo pallido, talamo, ipotalamo, amigdala, substantia nigra ed area tegmentale ventrale. La maggior parte delle aree cerebrali esprimono i recettori D2 e D3 insieme; questo rende complesso determinare le funzioni esclusive del D3R. Gli AAPs legano il recettore D3 con un’affinità simile a D2R e questo rende ulteriormente complessa la comprensione del contributo del D3R. Gli antagonisti selettivi per D3 sembrano potenziare la

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neurotrasmissione dopaminergica, in maniera particolare a livello della corteccia prefrontale, dove il rilascio di dopamina è regolato dal D3R con il ruolo di autorecettore. Il blocco del D3R aumenta il rilascio di acetilcolina sempre a livello della corteccia prefrontale e proprio questo potrebbe contribuire ad azioni procognitive [39][40]. Inoltre recettore D3 controlla anche l’attività glutammatergica della corteccia e delle aree subcorticali, sia modulando la dopamina a livello presinaptico sia influenzando direttamente il signalling del recettore NMDA. Di conseguenza gli antagonisti del D3 riducono l’iperattività ed i deficit di interazione sociale causati dal blocco dei recettori NMDA nei modelli animali di schizofrenia; esiste quindi in definitiva un’evidenza convincente del ruolo dell’antagonismo sul recettore D3 per il miglioramento dei deficit associati alla schizofrenia [41][42]. Sono stati sperimentati a livello di trial clinici due composti selettivi per il D3, ma hanno portato a risultati negativi, probabilmente per l’incapacità di raggiungere i target desiderati. Inoltre due antipsicotici atipici usati in terapia, blonanserina e caripiprazina, sono antagonisti ed agonisti parziali preferenziali del recettore D3 [43].

 Recettore D4 (D4R)

I recettori D4 per la dopamina sono prevalentemente distribuiti a livello della corteccia prefrontale, corteccia entorinale ed ippocampo; queste sono regioni particolarmente importanti per gli aspetti cognitivi [44][45]. I D4R potrebbero avere un ruolo in diverse malattie con disordini cognitivi tra cui la schizofrenia, deficit dell’attenzione, dipendenze e Parkinson [46][47][48][49]. Inizialmente diversi autori hanno ipotizzato un possibile ruolo della stimolazione eccessiva dei recettori D4 alla base della fisiopatologia della schizofrenia, basandosi su i valori elevati della densità recettoriale del D4 nel cervello dei pazienti affetti e sull’alta affinità di clozapina per questo recettore [50]. Più tardi queste ipotesi sono state smentite. Un buon numero di studi clinici e preclinici hanno investigato il ruolo del recettore D4, ma nessun antagonista selettivo sembra in grado di migliorare la patologia. Studi più recenti hanno sperimentato agonisti per il recettore D4 con un certo grado di miglioramento delle funzioni cognitive [51][52][53][54]. È stato evidenziato che l’attivazione dei recettori D4 a livello della corteccia prefrontale porta ad un innalzamento dei livelli di acetilcolina e dell’efflusso di dopamina, che potrebbero esser responsabili degli effetti pro-cognitivi [55]. Inoltre è stato dimostrato che la somministrazione sistemica di un agonista D4 a dosi

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efficaci, insieme a basse dosi di lurasidone è in grado di ridurre deficit in ratti trattati con fenciclidina [56]. Recentemente grazie all’utilizzo di un approccio innovativo, è stato dimostrato che i recettori D4 per la dopamina a livello ipofisario possono essere bersagliati unicamente dalla clozapina se comparata con altri antipsicotici [57]. A livello ipofisario, oltre al ruolo della clozapina come antagonista D4, è stata ipotizzata la formazione di eterodimeri D4-recettori adrenergici per la produzione di melatonina e serotonina. Come ultima evidenza è stato descritto il ruolo del recettore D4 nella modulazione della trasmissione glutammatergica, in particolar modo da parte dell’isoforma D4.7 che mostra particolare attivazione funzionale rispetto all’isoforma D4.2 [58].

1.2.B Sistema serotoninergico e recettori associati

L’ampia innervazione del sistema serotoninergico si distribuisce a differenti aree cerebrali con un gran numero di tipi recettoriali (15) e rende la serotonina un neurotrasmettitore unico per l’azione di controllo di diverse attività a livello del sistema nervoso centrale. La serotonina attraverso i suoi recettori è capace di svolgere un ruolo modulatorio sul sistema dopaminergico, glutammatergico e gabaergico e su altri sistemi di neurotrasmissione. Oltre all’ iperattività del sistema glutammatergico a livello della corteccia prefrontale, dimostrato come marker fisiopatologico nella schizofrenia, è stato ipotizzato anche un ipertono della trasmissione serotoninergica; in modelli animali MK-801 clozapina si è dimostrata capace di stabilizzare l’aumento di serotonina a livello della PFC [59]. Storicamente la scoperta di clozapina rappresenta l’inizio di una rivoluzione farmacologica nel campo della schizofrenia ed ha in parte permesso l’introduzione del concetto dell’atipia, in riferimento alla riduzione degli effetti collaterali motori extrapiramidali ed un migliore profilo clinico e tolleranza. Più tardi è stato proposto che l’azione di clozapina e degli altri AAPs sul recettore 5-HT2A fosse responsabile delle caratteristiche cliniche di questi farmaci. Questo meccanismo d’azione degli AAPs è stato ampliato, grazie al grado di conoscenza riguardo l’importanza dei diversi recettori per la serotonina; in particolare 5-HT2A e 5-HT2C sono stati descritti come la pietra miliare per l’efficacia di questi farmaci. Per esprimere un parallelismo concettuale si potrebbe dire che il recettore della dopamina D2 è tanto importante per l’efficacia dei TAPs quanto i recettori per la serotonina lo sono per gli AAPs. Il successo di clozapina ha introdotto un nuovo concetto in relazione al meccanismo d’azione di questi farmaci; gli antipsicotici

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con bassa affinità per il recettore D2 possono svolgere un’azione efficace attraverso il coinvolgimento di altri elementi recettoriali, tra questi svolge un ruolo maggioritario il 5-HT2AR. In questo modo è nata l’ipotesi dell’importanza del rapporto 5-HT2A/D2 come meccanismo d’azione degli AAPs e nel frattempo sono stati indagati altri recettori per la serotonina. Ad oggi è chiaro che recettori come 5-HT2C e 5-HT1A hanno un ruolo rilevante similmente a 5-HT2AR. Oltre a questi, nuovi recettori come 5-HT6 e 5-HT7 hanno cominciato a ricevere attenzione in relazione al meccanismo d’azione di certi AAPs come amisulpride. L’idea generale considera l’aumento dell’efflusso di dopamina mediato dal blocco del recettore 5-HT2A come compenso del blocco dei recettori per la dopamina, riducendo il rischio per gli effetti collaterali dovuti al blocco acuto e cronico di questi recettori [60][61]. Come conferma del ruolo fondamentale di 5-HT2AR nella schizofrenia e nelle altre psicosi, la somministrazione di agonisti per il recettore 5-HT2A come l’acido lisergico dietilamide (LSD) è usata per indurre modelli animali con comportamenti di iperattività e riduzione delle interazioni sociali.

 Recettore 5-HT1A (5-HT1AR)

Il 5-HT1AR ha multiple funzioni nel sistema nervoso ed è espresso in diverse aree tra cui la corteccia, l’ippocampo, l’amigdala e la VTA. Inoltre è localizzato a livello del nucleo del rafe dove svolge il ruolo di autorecettore [62][63][64][65]. A livello corticale è localizzato su i neuroni piramidali glutammatergici e sugli interneuroni gabaergici, dove è colocalizzato con altri recettori come 5-HT2A e 5-HT2C [66][67]. I recettori 5-HT1A sono inibitori ed accoppiati alla proteina Gi; influenzano l’attività dei neuroni dopaminergici a livelli multipli, più di quanto non facciano gli altri 5-HTR e l’analisi dell’azione che svolgono è particolarmente complessa in quanto agiscono a livello pre- e post-sinaptico. Gli agonisti per il 5-HT1A aumentano l’efflusso di dopamina nella corteccia prefrontale; questo effetto sembra dovuto ad un’azione inibitoria sugli interneuroni gabaergici [68]. Infatti questa azione porta consequenzialmente alla disinibizione dei neuroni glutammatergici piramidali che portano ad un aumento dell’attività dei neuroni dopaminergici e ad un aumento del rilascio di dopamina. Questo effetto sembra dipendere a basse concentrazioni dall’agonista, mentre ad alte concentrazioni gli agonisti sembrano inibire anche le proiezioni piramidali con effetti diversi sull’output dopaminergico. Inoltre gli agonisti di 5-HT1AR possono attivare recettori postsinaptici su i neuroni gabaergici della VTA, anche questo meccanismo sembra implicato nell’aumento

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di dopamina nelle aree di proiezione [69][70][71][72]. Questo meccanismo potrebbe essere responsabile anche dell’aumento di acetilcolina nella corteccia prefrontale con possibili benefici per le funzioni cognitive. Molti AAPs come clozapina, quetiapina, aripiprazolo e ziprasidone sono agonisti parziali sul recettore 5-HT1A e questo potrebbe essere rilevante per il meccanismo d’azione; come mostrato in diversi studi, antagonisti di 5-HT1A sono in grado di prevenire l’azione di diversi AAPs in topi trattati con fenciclidina come modelli di schizofrenia. WAY 100635, un antagonista selettivo del recettore 5-HT1A, è in grado di ridurre il rilascio di dopamina corticale indotto dagli AAPs che non hanno affinità per il 5-HT1AR, dimostrando un ruolo indiretto di questo recettore nel meccanismo degli antipsicotici atipici. La somministrazione locale di AAPs a livello della corteccia prefrontale aumenta il rilascio di dopamina in topi knock-out per 5-HT2A, ma non nei topi knock-out per il 5-HT1A, confermando il ruolo di questo recettore nel rilascio di dopamina [73]. Sostanzialmente l’agonismo su 5-HT1AR induce in particolar modo a basse dosi un aumento della dopamina in particolare a livello della corteccia, contribuendo potenzialmente al miglioramento dei sintomi negativi della schizofrenia. Su questa linea è stata sperimentata una terapia con buspirone, un agonista parziale di 5-HT1AR in associazione con aloperidolo e sembra avere effetti benefici su psicosi, sintomi cognitivi e parkinsonismi [74]. Sono quindi stati sintetizzati nuovi composti con funzione di antagonismo D2 ed agonismo 5-HT1A, con l’indicazione all’utilizzo come antipsicotici. Infine un ruolo di neuroprotezione che potrebbe contribuire ad una migliore prognosi dei pazienti schizofrenici, sembra esser stato identificato nell’agonismo sul recettore 5-HT1A [75]. Il ruolo di questo recettore non è importante come abbiamo visto per clozapina, ma sembra esserlo piuttosto per altri antipsicotici della famiglia degli AAPs.

 Recettore 5-HT2A (5-HT2AR)

Il recettore 5-HT2A è largamente espresso a livello della corteccia, in particolare a livello della corteccia prefrontale ed a livello della corteccia dell’insula [76][77][78]. Per quanto riguarda l’espressione a livello cellulare, si localizza sia su neuroni piramidali glutammatergici sia su interneuroni gabaergici. L’espressione del 5-HT2AR è minore a livello dei gangli della base rispetto alle regione corticali, ma è comunque rilevante [77]. Il 5-HT2AR è un GPCR accoppiato con la proteina Gq e il pathway PI/PLC. I primi studi riguardanti il

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