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Guarda La “metamorfosi” del diritto internazionale e il cortocircuito della sovranità dello Stato | Cultura giuridica e diritto vivente

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Rivista on line del Dipartimento di Giurisprudenza

Università di Urbino Carlo Bo

Note e Commenti

LA

“METAMORFOSI”

DEL

DIRITTO

INTERNAZIONALE E IL CORTOCIRCUITO DELLA

SOVRANITÀ DELLO STATO

Miriam Schettini

Abstract

[The International Law "metamorphosis" and the short-circuit of the State sovereignty] The paper aims to analyze the emergence of an International Community on the international plane. In the first part, we will consider the evolution of the concept of Sovereignty in International Law as a consequence of the development and the change of the International Society. In particular, we will highlight the limitations imposed on the will of the State that seems to enter into a sort of “short-circuit”. In the second part of the paper, we will ask ourselves if another kind of law on the international plane is conceivable and if this would lead to a Universal International Community.

Key Words:

International Law, State Sovereignty, International Community, International Law Theories, International law-making

(2)

La “metamorfosi” del diritto internazionale e il

cortocircuito della sovranità dello Stato

Miriam Schettini

*

Introduzione

Il termine “metamorfosi” deriva dal greco ed è composto dalle parole µετα (meta) e µορϕή (forma). Esso indica una trasformazione radicale, il passaggio da uno stato ad un altro per rispondere a specifiche necessità imposte dalle condizioni esterne. Partendo da tale definizione, pare possibile affermare che il diritto internazionale abbia subito un processo di “metamorfosi” rispetto alla sua impostazione originaria, in ragione delle profonde trasformazioni in atto. La società internazionale contemporanea è una realtà ben diversa dalla Comunità di Stati sovrani ed indipendenti del XVII secolo scaturita dalla Pace di Westfalia: in quel sistema, gli Stati si configuravano come “monadi isolate”, miranti al solo perseguimento del proprio interesse particolare e all’accrescimento del proprio potere e del proprio prestigio. La pace di Westfalia aveva segnato il definitivo superamento dell’Impero medievale e la nascita del sistema pluralistico degli Stati sovrani, in cui vi era stato il passaggio da una struttura di relazioni gerarchiche che avevano al vertice il Papa e l’Imperatore ad un sistema “orizzontale”, formato da Stati di eguale dignità, affrancati da qualsiasi interferenza esterna. Oggi, in ragione delle evoluzioni storiche e sociali che hanno interessato la Comunità degli Stati, una tale impostazione non è più concepibile. Ciò non implica che il modello westfaliano sia definitivamente tramontato: gli Stati sono ancora il dato primario del diritto internazionale e le entità non-statali che ad esso si affiancano, quali nuovi soggetti di diritto, trovano la loro collocazione nella società internazionale e definiscono la propria azione sempre in relazione ad essi. Ciò che è mutato è il concetto di sovranità che, nell’impostazione della società internazionale attuale, non va più inteso in senso assoluto ed univoco: piuttosto che ad un sistema composto da sovranità affiancate e confliggenti, è necessario pensare ad un sistema di sovranità giustapposte, che non costituiscono blocchi monolitici ed unitari, ma

* Miriam Schettini è Dottoranda di ricerca in Diritto internazionale e Diritto dell’Unione Europea presso il

Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa. Indirizzo mail: miriam.schettini@phd.unipi.it

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si intersecano e si condizionano vicendevolmente. Ad emergere è, soprattutto, il fattore comunitario che, trascendendo i tradizionali particolarismi nazionali, funge da movente per un irrisolto nodo dialettico tra Sovranità e Comunità, tra la «tendenza degli Stati a gestire uno spazio abbastanza ampio da rendere possibile la loro indipendenza e la necessità di prendere atto della reciproca interdipendenza».1 È proprio in tale tensione -

che non approda a soluzioni definitive - che vanno ricercati i caratteri peculiari dell’attuale società internazionale, ravvisando gli elementi di rottura rispetto al diritto tradizionale e quelli di permanenza.

Il “nodo dialettico” tra Sovranità e Comunità costituisce il leitmotiv della presente trattazione e, pertanto, si valuterà se esistano possibili soluzioni ad esso e se sia ipotizzabile una nuova impostazione della società internazionale che, superando concezioni statiche ed inattuali, sia in grado di rispondere pienamente alle esigenze della vita internazionale.

1. Diritto internazionale nel XXI secolo: prospettive teoriche

1.1 La “volontà” quale fondamento del diritto: la teoria volontaristica

Una delle fondamentali questioni che si è posta nell’analisi del diritto internazionale, riguarda l’identificazione del suo fondamento2.

Secondo la teoria volontaristica3, il diritto internazionale origina dalla sola volontà

dello Stato. Tale visione si articola, a sua volta, in tre sotto-scuole: la teoria dell’autolimitazione, il volontarismo plurilaterale ed il positivismo.

La teoria dell’autolimitazione trova la sua origine nella filosofia hegeliana che considera lo Stato (vero e proprio Dio in terra) come una persona giuridica di natura distinta da quella degli uomini. La sua caratteristica fondamentale è quella di non avere nessun condizionamento rispetto al proprio agire e di non essere assoggettato al diritto se non mediante il proprio esplicito consenso. Il diritto internazionale, in una tale prospettiva, si configura come un insieme di regole che sono state volute ed accettate dagli Stati e che servono a regolare i loro rapporti reciproci. George Jellinek considera il diritto internazionale come una sorta di diritto interno destinato a regolare i rapporti con gli altri Stati. Secondo Jellinek, il fondamento del diritto internazionale riposerebbe sulla volontà del singolo Stato che, in forza di un suo atto di volontà, diviene soggetto di diritti e di obblighi giuridici verso gli altri Stati. L’autolimitazione si traduce, pertanto, in una serie di accordi mediante i quali ciascuno Stato assume degli impegni nei riguardi degli altri.4

1 A. Pellet, Le Droit International entre souveraineté et communauté, Paris, Editions PEDONE, 2014, pag. 17. 2 Perassi, “Teoria dommatica delle fonti di norme giuridiche in diritto internazionale”, in Riv. di dir. Internaz.,

1917, pp. 195-223; Ziccardi, La costituzione dell’Ordinamento Internazionale, Milano, 1943; Humphrey, “On the Foundations of International Law”, in American Journal of Int. Law, 1945, pp. 231-243; Giuliano, “Considerazioni sulla costruzione dell’Ordinamento Internazionale”, in Comunicazione e Studi dell’Istituto di dir. Intern. e straniero dell’Università di Milano, 1946, pp. 173-221; Sperduti, La fonte suprema dell’Ordinamento

internazionale, Milano, 1946; Salvioli, “Contenuto e fondamento del diritto internazionale”, in Riv. it. per le scienze giuridiche, 1948, pp. 93-102; Giuliano, La comunità internazionale e il diritto, Padova, 1950; Ago, Scienza Giuridica e diritto internazionale, Milano, 1950; Quadri, “Le fondement du caractère obligatoire du droit

international public”, in Recueil des cours, 1952-I, pp. 583-633; Romano, L’Ordinamento Giuridico, 3a Ed. Firenze, 1977 ; Ago, Caratteri generali e origini storica della comunità internazionale e del suo diritto, Napoli, 2002.

3 Jellinek, System des Subjektiven öffentlichen Rechts, Friburgo, 1982; Triepel, Völkerrecht und Landesrecht, Lipsia,

1899 (opera tradotta in Italia da Buzzati con il titolo Diritto interno e diritto internazionale, Torino, 1913); Anzilotti, Teoria generale della responsabilità dello Stato nel diritto internazionale, Firenze, 1902; Id., Corso di diritto

internazionale, 1° ed., Roma, 1914-1915.

4 Cfr. G. Jellinek, Die Rechtliche Natur Der Staatenverträge: Ein Beitrag Zur Juristischen Construction Des Völkerrechts,

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Il volontarismo plurilaterale, elaborato nel 1899 da Heinrich Triepel, non considera il diritto internazionale come il prodotto delle volontà isolate degli Stati, ma come il risultato della loro fusione (Vereinbarung) mediante il mezzo del trattato. Secondo Triepel «quando gli Stati emettono manifestazioni di volontà di eguale contenuto dirette alla creazione di norme giuridiche, le volontà distaccatesi dagli Stati che le abbiano emesse, si unirebbero (Vereinbarung), dando così vita ad una nuova volontà diversa e superiore (Gemeinwille) risultante dalla fusione delle volontà manifestate; ad una volontà comune unitaria, capace di imporsi agli emittenti come volontà superiore, normativa».5 In tal modo, al contrario della

teoria dell’autolimitazione, appare evidente la distinzione tra diritto internazionale pubblico e diritto interno.6

La teoria positivista, nella sua impostazione originaria, considera “legge di diritto” la norma che deriva da una specifica “fonte” creata da una preposta autorità, nel rispetto di una determinata procedura. Analizzando da un punto di vista semantico il termine “positivo”, appare evidente che esso possa essere inteso in un’accezione ampia: “positivo” è tutto ciò che è antitetico rispetto al “negativo” o al “relativo”. Nella cultura Occidentale il “positivo” è sempre stato inteso come l’opposto del “naturale”; nella Grecia classica si distingueva tra la “legge della Natura” (ϕύόϵι δίκαιου), e l’“emanazione della Legge” (υόµω δίκαιου) e solo l’esistenza di una legge “naturale” permetteva il formarsi di una legge “positiva”. Era tale anche la concezione della filosofia scolastica di matrice cattolica: San Tommaso d’Aquino distingueva tra la legge della Natura, “partecipatio humanae in lege aeterna”, che atteneva allo jus divinum, e una legge Umana che si basava sulla recta ratio.7

Nonostante nel tempo il concetto si sia evoluto e sia stato formulato in un’accezione più ampia e complessa, la fondamentale dicotomia tra “legge di natura” e “legge prodotta dall’uomo” si è perpetrata.

Le concezioni teoriche positiviste della metà del Novecento ritengono che tutto il diritto sia diritto positivo; quest’ultimo è un artefatto umano radicalmente contingente, sia dal punto di vista della sua produzione, sia dal punto di vista della sua valutazione, e i contenuti normativi del diritto non hanno alcun radicamento oggettivo o vincolo esterno al contesto storico-culturale nel quale si collocano.8 Anzilotti considera il diritto come un

fatto sociale scaturente dalla vita comunitaria. Nonostante lo Stato non sia “creatore” di diritto da un punto di vista materiale, lo è da un punto di vista formale, poiché è necessaria l’espressione del suo consenso affinché la regola desunta dal contesto sociale divenga regola di diritto. L’obbligatorietà della norma trova, dunque, il suo fondamento nel riconoscimento dello Stato.9

La teoria volontaristica, in ciascuna delle sue declinazioni, lascia irrisolto un importante nodo problematico: se il diritto origina dalla volontà dello Stato ed è un’espressione della sua sovranità, qual è la ragione per cui gli Stati sono ad esso legati? Un tale assoggettamento non pare contraddire lo stesso principio di sovranità?10

5 Quadri, Diritto internazionale pubblico, 5° ed., Napoli, 1968, p. 35. 6 Cfr. Triepel, op. cit. nota 3.

7 S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, 1° ed. originale 1265-1273.

8 Cfr. N. Bobbio, Il positivismo giuridico (1961), Torino, Giappichelli, 1979, p. 19.

9 Cfr. D. Anzilotti, Corso di Diritto Internazionale Vol. 1, Padova, Cedam, 1963. Per un’analisi dei caratteri del

positivismo di Anzilotti vd. R. Ago, “Rencontres avec Anzilotti”, in European Journal of International Law, (sezione dedicata a The European Tradition of International Law: Dionisio Anzilotti), 1992, pp. 92-99; P. Ziccardi, “Caratteri del positivismo dell'Anzilotti”, in Rivista di diritto internazionale, 1953, pp. 22-29.

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1.2 La norma come sovrastruttura: la teoria oggettivistica

Al contrario del volontarismo, la teoria oggettivistica ritiene che il fondamento del diritto internazionale si collochi al di fuori della volontà dello Stato: la norma è un dato oggettivo che si situa al di sopra dello Stato e che plasma la realtà sociale.

La teoria oggettivistica si articola in tre sotto-scuole: la teoria del diritto naturale, la teoria normativista e la scuola sociologica.

Per la teoria del diritto naturale (oggettivismo morale metafisico), elaborata da Grozio e poi ripresa da autori quali Louis Le Fur e Alfred Verdross, esiste tra gli Stati un diritto che deriva da dati della coscienza, principi di ordine e di giustizia che sono definiti dalla natura razionale dell’uomo. Il diritto internazionale, dunque, non è “creato” dagli Stati e non deriva da un atto di volontà, ma da una sua “scoperta” mediante un atto di intelligenza.11 Per jus naturale Grozio non intende un diritto caratterizzato da universalità,

inderogabilità ed immutabilità, ma lo identifica come la continuità e l’unitarietà del diritto che trascende il dato storico e si pone come un prodotto sociale contingente soggetto a revisione ed evoluzione. In tal modo, Grozio riesce a cogliere il senso dialettico del rapporto tra antico e moderno, evidenziando il carattere subordinato della legge naturale alla legge storica.12

La teoria normativista (oggettivismo logico), di cui l’elaborazione più interessante è stata formulata da Kelsen, afferma che la concezione dello Stato quale essere superiore dotato di volontà sia completamente fittizia. In opposizione ad essa, Kelsen definisce la “teoria pura del diritto”, in base alla quale le norme sono disposte gerarchicamente su di una “piramide” giuridica e ognuna desume la propria forza obbligatoria da una norma superiore. Al vertice della piramide si colloca una norma suprema ed ipotetica che si pone quale “archè” di tutto il diritto.13

George Scelle, infine, maggior esponente della scuola sociologica ravvisa il fondamento del diritto internazionale nella solidarietà internazionale: a suo avviso, non esiste alcuna differenza tra la società nazionale e quella internazionale poiché entrambe sono società composte da individui. Il dato primario della sua analisi non è più lo Stato, ma l’individuo che costituisce l’elemento atomistico di una società universale di popoli.14

1.3 La relatività del diritto nella dialettica tra universalismo ed egemonia

Le teorie su esposte - sia quelle corrispondenti ad una visione volontaristica del diritto, sia quelle corrispondenti ad una visione oggettivistica – presentano importanti contraddizioni ed imprecisioni che le rendono non pienamente assimilabili alla realtà della vita internazionale e allo stato attuale del diritto.

Il diritto internazionale, oggi, non è costituito solo da regole “classiche” poste “da e per una piccola cerchia di Stati europei”,15 ma anche da norme “nuove” che traducono

la rilevanza assunta dai nuovi Stati membri della Comunità internazionale. Ciò risponde

11 L. Le Fur, Précis de Droit International Public.2ª ed., Paris: Dalloz, 1933; A. Verdross, “Le fondament du

droit international”, in Collected Courses of the Hague Academy of International Law, vol. 16, 1927-I, pp. 283-4.

12 M. Panebianco, Ugo Grozio e la tradizione storica del diritto internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica, 1974. 13 H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts. Beitrag zu einer Reinen Rechstlehre,

Tübingen, Mohr, 1920 (trad. it. Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale, Milano, Giuffrè, 1989); H. Kelsen, General Theory of Law and State, Cambridge Mass. 1945, pagg. 325-341 ; H. Kelsen, ʺThe Essence of International Lawʺ, in K.W. Deutsch, S. Hoffmann (a cura di), The Relevance of International Law.

Essays in Honor of Leo Gross, Cambridge (Mass), Schenkman Publishing Company, 1968.

14 Cfr. G. Scelle, Droit international public, Paris, Domat-Montchrestien, 1944. 15 Cfr. Rousseau, Droit International Public, Sirey, 1970, p. 34.

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alla natura stessa del diritto che non va inteso come statico ed assoluto, ma come una struttura che accompagna le evoluzioni della società – regolandola e forgiandola al contempo – cercando di raggiungere un equilibrio (seppur precario) tra interessi e posizioni contraddittorie.

Nell' Introduzione a The expansion of international society, il volume curato da Hedley Bull e Adam Watson, viene proposta la seguente definizione di Società internazionale:

«per Società Internazionale intendiamo un insieme di stati (o, più generalmente, un insieme di comunità politiche indipendenti) che non formano semplicemente un sistema nel senso che il comportamento di ciascuno è un fattore necessario nei calcoli degli altri, ma che hanno anche stabilito norme e istituzioni comuni fondate sul dialogo e il consenso, per regolare i loro rapporti reciproci; gli Stati che fanno parte di una società internazionale riconoscono il loro comune interesse nell'adeguarsi alle norme istituite».16

Il saggio di Bull, presente all’interno dello stesso volume, mette in evidenza la fondamentale dialettica tra universalismo ed egemonia che ha caratterizzato lo sviluppo storico della Società Internazionale che, partendo dall’Europa, si è estesa fino ad assumere dimensioni globali, pur conservando la propria impostazione originaria.17

La Società Internazionale, oggi, è costituita non solo dal nucleo originario degli Stati europei, ma da una molteplicità di Stati anche profondamente diversi per valori, cultura e tradizioni.

Come chiarito da Röling, le trasformazioni subite dal diritto internazionale – e le contraddizioni ad esso interne - sono una risposta all’inclusione di Nazioni che in passato non erano annoverate tra le “Nazioni civilizzate” e all’entrata di Paesi economicamente sottosviluppati.18

L’ampliamento dell’ambito di applicazione del diritto internazionale comporta una maggiore complessità delle questioni, poiché la grande varietà dei partecipanti riflette una grande varietà di interessi che è necessario conciliare.

Una tale constatazione permette di compiere un’ulteriore e fondamentale considerazione: il diritto non è un “gioco dello spirito” avulso dalla realtà, ma esiste ed ha delle proprie finalità che mirano, innanzitutto, al mantenimento dell’armonia all’interno delle società nelle quali si applica. Esso non può essere inteso in termini binari, ritenendo di poter effettuare una netta scissione tra ciò che è diritto e ciò che non lo è. Tra tali due estremi esiste uno spazio, una “zona di penombra”, nella quale si attua una sorta di “degrado normativo” in ragione del quale un determinato comportamento o attitudine di condotta, sebbene non propriamente definibili come diritto, si configurano come qualcosa di molto prossimo ad esso.19 Benché sia indubbio il carattere irriducibile del

formalismo giuridico – poiché è nella formalizzazione che risiede la validità della norma e la sua cristallizzazione – ad esso va affiancato un altro tipo di normatività che può essere definita “relativa” e che si sostanzia in strumenti più flessibili e meno rigorosi, adattabili a contesti e a situazioni diverse. Se il diritto “non è il risultato momentaneo di una lotta, ma la lotta stessa”20 appare chiaro che è proprio nella contingenza, nelle contraddizioni e nelle

16 A. Watson, H. Bull (a cura di), The Expansion of International Society, Oxford, Clarendon, 1984 (Trad.

Nostra).

17 H. Bull, “The expansion of International Society”, in A. Watson, H. Bull (a cura di), The Expansion of

International Society, Oxford, Clarendon, 1984.

18 Röling, International Law in an expanded World, 1960.

19 Cfr. M. Virally, “Rapport Introductif” in I.U.H.E.I., La résolutions dans la formation du droit international du

développement.

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imperfezioni che vanno ricercate le chiavi di risoluzione degli interrogativi che interessano la materia. L’internazionalista di oggi non può essere che «“romantico”: non può sperare di addomesticare la natura e piegarla alle sue leggi, ma deve immergersi nella realtà sociale ed integrarla al suo ragionamento».21

2. La Sovranità in Diritto Internazionale

2.1 Il dilemma della Sovranità in Diritto Internazionale: il potere senza superiori

Nonostante la Società Internazionale attuale sia una realtà diversa e molto più complessa del sistema di Stati scaturito dalla pace di Westfalia, la sovranità rimane l’elemento fondamentale ed irriducibile del diritto internazionale. Tuttavia, è proprio nelle diverse modalità in cui essa può essere declinata che è possibile rintracciare i maggiori nodi problematici e i principali dilemmi che si pongono a chi si approccia allo studio della materia.

Anzitutto, la definizione di sovranità cambia a seconda che si guardi ad essa nella prospettiva del diritto interno o in quella del diritto internazionale. Nell’ambito del diritto interno, la sovranità si configura come un potere supremo, illimitato ed incondizionato: il concetto è quello di matrice hobbesiana per il quale, all’interno dello Stato, l’unica entità che conserva la libertà assoluta e non è assoggettata ad alcuna istanza superiore è quella del sovrano (per sovrano non si intende il monarca, ma il soggetto detentore del potere politico). Al contrario, nell’ordine internazionale il concetto di sovranità assume una diversa accezione: esso perde il suo carattere assoluto, poiché in tale ambito si manifesta nella coesistenza di molteplici sovranità che si limitano vicendevolmente. Pertanto, la sovranità, fonte della competenza in ambito internazionale, diviene a sua volta il limite e il condizionamento dell’azione del suo detentore: essa non si pone più – come nel diritto interno – quale potere “superiore” a tutti gli altri, ma quale potere “senza superiori”. Difatti, il concetto di sovranità in diritto internazionale è inscindibile da quello di eguaglianza: è l’eguaglianza sovrana degli Stati a garantire la loro indipendenza e a permettere che nella Società Internazionale si raggiunga un (sempre precario) equilibrio.22

Le implicazioni di tale eguaglianza sono molteplici e vanno ad inficiare la stessa nozione di sovranità che, nel contesto internazionale, assume una connotazione differente: essa diviene un potere relativo, limitato e autolimitante. Per rendere l’idea della sovranità degli Stati in ambito internazionale si potrebbe pensare ad una catena composta da anelli di misura diversa, ma tutti legati l’uno all’altro e posti sullo stesso piano: la diversa grandezza degli anelli traduce la presenza di rapporti di forza, di Stati più influenti che, pur tuttavia, rimangono agli altri legati. È chiara, dunque, la stretta relazione esistente tra sovranità e diritto in ambito internazionale: il diritto internazionale nasce proprio in risposta all’esigenza di coniugare, organizzare e gestire sovranità che coesistono in un costante rapporto dialettico tra indipendenza ed interdipendenza. Indubbiamente, in ogni tempo e in ogni luogo le relazioni tra società umane sono state regolate da regole giuridiche (intese in senso ampio).23 Tuttavia, è solo con la nascita dello Stato moderno,

con l’emergere di sovranità affrancate da qualsiasi interferenza esterna e poste su di un piano paritario, che il diritto internazionale vede la propria genesi: la necessità di

21 Ivi, pag. 224.

22 Cfr. A. Pellet, op. cit., pag. 47.

23 Pierre-Marie Dupuy, “Quelque réflexions sur les origines historiques de l’ordre juridique international”,

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sistematizzare le norme internazionali è scaturita dal bisogno avvertito dai nascenti Stati europei di darsi un corpo normativo capace di regolare i propri rapporti reciproci.

Partendo da tale constatazione, appare evidente che lo Stato sia il “fatto primario” del diritto: è la sua esistenza a porsi quale movente per la creazione (o emersione) del diritto.24 Ovviamente, l’esistenza necessita di parametri di riconoscimento e legittimazione

che sono definiti dal diritto stesso, ma la loro realizzazione è una questione di puro fatto che il diritto non fa altro che constatare. Come rilevato dalla Commissione di arbitraggio della Conferenza per la pace nell’ex-Iugoslavia (la Commissione Badinter):

«i principi di diritto internazionale permettono di definire a quali condizioni un’entità costituisca uno Stato, ma l’esistenza dello Stato è una questione di fatto» (Trad. Nostra).

2.2 I limiti della sovranità della Stato in Diritto Internazionale

Il possesso di sovranità, conseguenza dell’esistenza di fatto dello Stato, non implica completa libertà di agire: in ambito internazionale la sovranità si traduce nella possibilità per lo Stato di poter esprimere la propria volontà rimanendo, poi, legato a tale manifestazione di consenso. Pertanto, la volontà dello Stato, una volta esternata, si fa altra da sé, si erge al di sopra dell’entità sovrana da cui deriva e diviene il suo limite ed il suo condizionamento. Piuttosto che essere semplicemente condizionati e reciprocamente limitati dalla coesistenza, gli Stati si autolimitano in ragione del reciproco bisogno di riconoscimento e di affermazione. Secondo una teoria dell’American Law Institute, il rispetto delle norme internazionali deriverebbe da “the inarticulate recognition by States generally of the need for order, and of their common interest in mantaining particular norms and standards, as well as every State’s desire to avoid the consequence of violation, included damage to its “credit” and the particular reactions by the victims of a violation”.25

Nella teoria delle relazioni internazionali, tale comportamento viene spiegato mediante un modello di teoria dei giochi: gli Stati rispettano le norme internazionali in ragione dei costi associati all’inadempienza, per il timore del venir meno agli obblighi internazionali da parte degli altri Stati, per l’interiorizzazione di valori percepiti come identitari.26

La volontà dello Stato appare, pertanto, ridimensionata da limiti che sono, nella maggior parte dei casi, creati dalle stesse dinamiche della vita internazionale e che sono gli Stati stessi a determinare. In particolare, le principali limitazioni della volontà dello Stato sono:

1. Lo jus cogens, limiti oggettivi ed assoluti che si impongono agli Stati e all’intera comunità internazionale;

2. Regole che rientrano nei parametri convenzionali, ma che limitano la libertà degli Stati rispetto ai trattati da loro conclusi;

3. L’emergere di altri attori oltre allo Stato che ricoprono un ruolo rilevante nella vita internazionale.

Ciascuno di questi punti merita una breve trattazione, poiché essenziali ai fini della comprensione dei successivi sviluppi della presente analisi.

2.2.1 I limiti alla volontà dello Stato: lo Jus Cogens

24 G. Abi Saab, Cours général de droit international public, R.C.A.D.I., 1987-VI, vol. 207, p. 68.

25 American Law Institute, Third Restatement of the Foreign Relations Law of The United States, Saint-Paul, 1987,

vol.1, p. 19.

26 K. W. Abbott, “Modern International Relations Theory: A Prospectus for International Lawyers”, Yale

Journal of International Law, Vol. 14, p. 335, 1989; J.P. Trachtman, The economic structure of International Law,

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Una prima formulazione di jus cogens può essere rintracciata all’articolo 50 del progetto di convenzione sul diritto dei trattati approvato dalla Commissione di diritto internazionale nell’ambito della sua diciottesima sessione, nel 1966. L’articolo, dal titolo “Trattati in conflitto con una norma imperativa del diritto internazionale (jus cogens)”, stabilisce che «Un trattato è nullo se è in conflitto con una norma imperativa del diritto internazionale per la quale nessuna deroga è permessa e che può essere modificata solo da una norma di diritto internazionale avente lo stesso carattere».27

L’intenzione di formulare una specifica disposizione sullo jus cogens, nell’ambito del diritto dei trattati, può essere rinvenuta già nel progetto di articolo 15 del Rapporto di Lauterpatch della quinta sessione della Commissione anche se, in esso, il termine jus cogens non è esplicitamente menzionato:

«Un trattato è nullo se la sua attuazione implica un atto illegale per il diritto internazionale e tale illegalità viene riconosciuta dalla Corte Internazionale di Giustizia».28

Il Rapporto di Gerald Fitzmaurice della sessione del 1958 approfondisce (al progetto di articolo 17) il concetto chiarendo, nel commentario ad esso, che

«le norme del diritto internazionale, in tale contesto, si suddividono in due classi – quelle che sono imperative in ogni circostanza (jus cogens) e quelle che forniscono meramente delle regole da applicare in assenza di accordo o, più correttamente, la cui variazione o modifica nell’ambito di un accordo è possibile (jus dispositum)».29

Il rapporto di Humphrey Waldock del 1963, nel commentario all’ articolo 13, “Trattati nulli per illegalità”, chiarisce che, nonostante le opinioni discordi circa la formulazione di una norma come quella relativa allo jus cogens - che pare porsi in una dimensione di universalità ed essere il segno dell’esistenza di una sorta di “ordine pubblico internazionale” - la Commissione è giustificata nel prendere posizioni relativamente ad un tale tema perché, come dimostra lo sviluppo di leggi sui crimini internazionali, esistono norme e principi a cui gli Stati non possono derogare.30

Alcuni Stati (Cile, Francia, Giappone, Turchia e Svezia) si sono opposti al progetto di articolo 50 del 1966, esprimendo il timore che inserire lo jus cogens, nell’ambito del diritto internazionale sui trattati, potesse avere l’effetto – data la difficoltà nel dare una definizione definitiva ed univoca di esso – di una strumentalizzazione del principio che sarebbe stato interpretato ed invocato da ciascuna Nazione in ragione dei propri interessi specifici.31

La nozione di jus cogens ha, infine, trovato definitiva formulazione all’articolo 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati del 1969, che cita:

«(...) Ai fini della presente Convenzione, una norma imperativa del diritto internazionale generale è una norma accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale degli Stati nel suo complesso come norma alla quale non è consentita alcuna deroga e che può essere modificata soltanto da un'altra norma del diritto internazionale generale avente lo stesso carattere».

L’articolo 64 della stessa Convenzione stabilisce inoltre:

27 Yearbook of the International Law Commission, 1966, vol. II, pag. 184 (Trad. Nostra). 28 Yearbook of the International Law Commission, 1953, vol. II, pag. 154 (Trad. Nostra). 29 Yearbook of the International Law Commission, 1958, vol. II, pag. 40 (Trad. Nostra). 30 Cfr. Yearbook of the International Law Commission, 1963, vol. II, pag. 52.

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«In caso di sopravvenienza di una nuova norma imperativa di diritto internazionale generale, qualsiasi trattato esistente che sia in conflitto con tale norma è nullo e si estingue».

Di conseguenza, è possibile prendere atto dell’esistenza, nel diritto internazionale, di “norme imperative” a cui lo Stato non può derogare e che, piuttosto che porsi come “dati immutabili della coscienza”,32 hanno una propria genesi che si colloca in un particolare

momento storico e in un determinato contesto. Tali norme sono accettate e riconosciute, ma il consenso non deriva dalle singole volontà degli Stati, bensì dalla Comunità Internazionale nel suo complesso.

Alla luce di ciò, appare evidente che la nozione stessa di jus cogens contraddica e si contrapponga al volontarismo giuridico: le “norme imperative” non emanano dalla volontà dello Stato e, anzi, fungono da suo limite. L’accettazione di cui parla l’articolo ricomprende in parte la volontà statale, ma lo fa trascendendola, incorporandola in un sistema ampio in cui essa perde la propria specificità ed unicità e diviene una sorta di antitesi di se stessa, traducendosi in tacita accettazione in funzione dell’“Aufhebung” comunitario.

Proprio per il suo carattere controverso, allo jus cogens non è stato fatto esplicito riferimento dalla Corte Internazionale di Giustizia: in più occasioni, la Corte avrebbe potuto invocare regole di jus cogens, ma non lo ha fatto. Il giudice Tanaka, nella sua opinione dissidente nella sentenza relativa allo status del Sud-Ovest Africa, fa esplicito riferimento allo jus cogens:

«Se vi sono fondate motivazioni per introdurre in diritto internazionale uno jus cogens (questione recentemente studiata dalla Commissione del diritto internazionale), una sorta di diritto imperativo che si oppone allo jus dispositum suscettibile di modifiche per via di accordi tra Stati, non vi sono dubbi che si possa considerare il diritto relativo alla protezione dei diritti dell’uomo come rientrante nello jus cogens».33

La Corte - al contrario di altre giurisdizioni internazionali che hanno impiegato l’espressione jus cogens per qualificare norme superiori del diritto internazionale34 - ha fatto

riferimento ad esso parlando di “principi intrasgredibili del diritto”. In tal modo, però, non è possibile mettere in evidenza l’essenziale differenza tra jus congens e regole erga omnes: obblighi inviolabili dello Stato nei confronti della Comunità internazionale nel suo complesso, caratterizzati da non derogabilità e non escludibilità, le prime; obblighi che ciascuno Stato ha nei confronti degli altri Stati– e che possono essere derogati di comune accordo - che scaturiscono da specifiche relazioni particolari e traducono l’interesse giuridico degli Stati affinché determinati diritti siano tutelati, le seconde.

Solo nella sentenza del 3 febbraio 2006, “Attività armate sul territorio del Congo” la Corte Internazionale di Giustizia fa, per la prima volta, esplicito riferimento allo jus cogens:

«I principi che sono alla base della convenzione sul genocidio sono principi riconosciuti dalle nazioni civilizzate come obblighi per gli Stati al di fuori di ogni legame convenzionale e tale concezione ha per conseguenza “il carattere universale della condanna del genocidio e della cooperazione necessaria per liberare l’umanità da un flagello tanto orribile” 32 A. Pellet, op. cit., pag. 148.

33 Opinione dissidente del giudice Tanaka alla sentenza Sud-Ouest africain (Ethiopie c. Afrique du Sud; Libéria c.

Afrique du Sud), deuxième phase, arrêt, C.I.J. Recueil 1966, p. 298 (Trad. Nostra).

34 Al-Adsani c. Regno Unito, Corte Europea dei diritti dell’uomo, 123 International Law Reports; Il procuratore

c. Furundzija, Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia, sentenza no IT-95-17/1-T, par. 153-156,

(11)

(Riserve alla convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, parere consultivo C.I.G. Recueil 1951, Preambolo, p.23). Ne è risultato che “i diritti e gli obblighi stabiliti dalla convenzione sono diritti e obblighi erga omnes” (Applicazione della convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, sentenza, C.I.G., Recueil 1996, p. 616, par. 31). La Corte osserva, tuttavia, che “l’opponibilità erga omnes di una norma e la regola del consenso alla giurisdizione sono due cose differenti” (East Timor (Portugal v. Australia), Judgment, I. C.J. Reports 1995, p. 102, par. 29), e che il solo fatto che dei diritti e obbligazioni erga omnes siano in questione in una controversia non dà competenza alla Corte per regolare tale controversia. Lo stesso vale per i rapporti tra norme imperative del diritto internazionale generale (jus cogens) e la determinazione della competenza della Corte: il fatto che una controversia verta sul rispetto di una norma che possiede un tale carattere – che è indubbiamente il caso dell’interdizione del genocidio – non può fondare la competenza per la Corte. In virtù dello Statuto della Corte, tale competenza rimane fondata sul consenso delle parti».35

Nel caso in oggetto, alla Corte era richiesto di

«abbandonare un principio stabilito – il principio secondo il quale il consenso fonda la competenza della Corte – che si inscrive nel suo Statuto (art. 36), che è riconosciuto da una pratica degli Stati e confermato dall’opinio juris. Infatti, le è chiesto d’invocare una norma imperativa per aggirare una norma di diritto internazionale generale riconosciuta e accettata dall’intera comunità internazionale e che ha guidato la Corte per più di ventiquattro anni. Ciò significa andare troppo in là. Non ci si può attendere che la Corte accetti le argomentazioni avanzate dalla Repubblica Democratica del Congo poiché, facendolo, essa creerebbe il diritto a un livello molecolare e non molare, oltrepassando la sua giurisdizione legittima. Solo gli Stati possono modificare l’articolo 36 e possono modificare lo Statuto della Corte».36

La Corte, pertanto, nonostante abbia esplicitamente riconosciuto l’esistenza di uno jus cogens (e ciò costituisce un fatto di enorme rilevanza per le sue implicazioni future), ha ritenuto necessario porre dei limiti alla sua applicazione nel timore che esso potesse sovvertire il principio del consenso dello Stato come fondamento della competenza della Corte. La sentenza costituisce, pertanto, un tentativo di riaffermazione del ruolo dello Stato, eroso dagli sviluppi della vita internazionale e dalle necessità che si impongono al diritto. Tuttavia, essa dimostra che non è possibile non prendere atto del cambiamento, affermarlo e riconoscerlo e che proprio la Corte può essere l’organo capace di stabilire equilibri che facciano coesistere vecchi principi con nuove necessità.

Un’ultima considerazione relativa allo jus cogens pare opportuna. In realtà, le norme imperative del diritto internazionale sono di numero esiguo e ciò dimostra come, nella società internazionale, i valori superiori condivisi dall’intera Comunità siano ancora pochi e rari. Tuttavia, la loro esistenza conferma l’erroneità della teoria secondo la quale il diritto internazionale non è che il risultato della somma delle singole volontà degli Stati: la volontà dello Stato si piega ad un ordine superiore, ancora effimero ed indefinito, ma immanente nelle dinamiche della vita internazionale.

35 Corte Internazionale di Giustizia, Armed Activities on the Territory of the Congo (New Application: 2002)

(Democratic Republic of the Congo v. Rwanda), Jurisdiction and Admissibility, Judgment, I.C.J. Reports 2006, p.

29-30, par. 64 (Trad. Nostra).

36 Opinione individuale del giudice ad hoc Dugard alla sentenza Armed Activities on the Territory of the Congo

(New Application: 2002) (Democratic Republic of the Congo v. Rwanda), Jurisdiction and Admissibility, Judgment, I.C.J. Reports 2006 (Trad. Nostra).

(12)

2.2.2 I limiti alla volontà dello Stato: pacta sunt servanda

Il trattato, diversamente dallo jus cogens, coinvolge in modo diretto la volontà dello Stato poiché mediante esso che le parti assumono obblighi reciproci sulla base del consenso. Tuttavia, in una certa misura, il trattato pare divenire una sorta di “trappola” della volontà dello Stato: è come se lo Stato stesso, nell’estrinsecare il proprio potere sovrano mediante la decisione di aderire all’accordo, forgiasse le catene che lo “legano” ad esso e che fungono da negazione di quella volontà che ne è all’origine.37 Dal fondamentale principio

pacta sunt servanda deriva che le parti, una volta manifestata la propria intenzione di aderire all’accordo, non possono più sottrarsi agli obblighi che da esso derivano – obblighi che esse stesse hanno concorso a creare, ma ai quali si ritrovano ad essere subordinate. Come sottolineato dalla Corte Internazionale di Giustizia, nella sentenza Case concerning the Gabčikovo-Nagymaros project del 1997:

«La Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati ha definito – in modo limitativo – le condizioni nelle quali un trattato può, in modo lecito, essere denunciato o sospeso».38

Al di là delle fattispecie enumerate dalla Convenzione di Vienna (artt. 54-64), uno Stato non può denunciare un trattato o recedervi slegandosi dagli obblighi che da esso derivano. Inoltre, il trattato si configura come una modalità di formazione del diritto contraddistinta da una forte rigidità: le disposizioni della Convenzione di Vienna relative alla modifica o all’emendamento dei trattati (artt. 39-41) configurano un sistema di revisione alquanto ostico. Potrebbe apparire, pertanto, che il trattato sia uno strumento poco adatto ad una società internazionale in continuo mutamento, i cui caratteri peculiari – che costituiscono la vera “sfida” del diritto internazionale di oggi - sono proprio la fluidità, l’imprevedibile movimento, l’impossibilità di essere ricompresa in una forma definita. Tuttavia, il trattato è uno strumento molto meno rigido di quanto possa apparire: piuttosto che cristallizzare il diritto, può fungere da traccia per i successivi sviluppi della materia ed è nell’interpretazione di esso che risiede la sua portata generale, atemporale ed aspecifica. Tale interpretazione risulta più efficace se, piuttosto che provenire dalle volontà concorrenti delle parti, deriva da un terzo imparziale e, in tal modo, ancora una volta «la volonté unilatérale de l’État se trouve largement court-circuitée et la “vie” du traité èchappe à ses créateurs».39

Ciò risulta particolarmente evidente nei trattati che fungono da atti istitutivi di Organizzazioni Internazionali.

2.2.3 I limiti alla volontà dello Stato: Organizzazioni Internazionali

Le Organizzazioni Internazionali sono istituite mediante atti che sono trattati tra Stati. La Corte Internazionale di Giustizia, nella sentenza dell’8 luglio 1996, Liceità dell’uso di armi nucleari in un conflitto armato, ha chiarito:

«da un punto di vista formale, gli atti costitutivi di Organizzazioni Internazionali sono dei trattati multilaterali ai quali si applicano le regole del diritto internazionale. (…) Essi sono dei trattati di tipo particolare: hanno lo scopo di creare nuovi soggetti di diritto, dotati di una certa autonomia, ai quali le parti affidano il compito di realizzare degli scopi comuni».40

37 A. Pellet, op. cit., pag. 154.

38 Corte Internazionale di Giustizia, Case corcerning Gabčikovo-Nagymaros Project (Hungary/Slovakia), Judgment,

I. C. J. Reports 1997, p. 35, par. 47 (Trad. Nostra).

39 A. Pellet, ibidem, pag. 157.

40 Corte Internazionale di Giustizia, Legality of the Use by a State of Nuclear Weapons in Armed Conflict, Advisory

(13)

Secondo una definizione tradizionale, un’Organizzazione Internazionale è «un’associazione di Stati costituita mediante un trattato che possiede una personalità giuridica diversa da quella degli Stati membri».41 Le Organizzazioni Internazionali sono,

dunque, delle “creazioni” giuridiche la cui esistenza deriva dalla volontà dello Stato che rimane “il grande ordinatore” del sistema giuridico internazionale. Tuttavia, tali “creature” sembrano «sfuggire ai loro creatori e affermare, nella sfera delle competenze che sono loro attribuite, un’autonomia difficilmente controllabile».42 Come nel paradosso di

Frankenstein, il “parto intellettuale” da parte del creatore può indurre a conseguenze impreviste e la creatura può assumere una vita propria in grado di sovvertire i ruoli assoggettando l’istanza creatrice.

Nel caso delle Organizzazioni internazionali, però, è necessario ridimensionare un tale processo poiché, benché possa apparire che esse assumano una vita autonoma, rimangono pur sempre diretta espressione degli Stati che le hanno costituite e la loro azione, piuttosto che essere antitetica e sovraordinata a quella degli Stati, si pone quale punto di raccordo delle singole volontà di questi ultimi. In tal caso, dunque, la volontà dello Stato, piuttosto che essere “piegata”, è elevata ad un livello più alto ed è assoggettata non all’Organizzazione tout court, ma ai fini da essa perseguiti.

Agli Stati, soggetti originari del diritto internazionale, si affiancano, dunque, altri soggetti la cui personalità produce effetti giuridici che impongono obblighi e limitazioni al loro agire43.

3. La revisione del formalismo giuridico: il “diritto spontaneo” e

l’

opinio juris

quale dato fondamentale del diritto

La volontà dello Stato, benché trovi limitazioni, rimane centrale nella formazione del diritto. Indubbiamente, quest’ultimo è una materia che ha la norma quale dato primario, ma guardare ad essa in modo assoluto - avendo la pretesa di stabilire cosa sia diritto e cosa non lo sia, sulla base del mero processo formale atto a produrre la norma (come fa il positivismo giuridico) - rischia di non rendere conto della complessa articolazione del diritto, del suo carattere dinamico e della sua reale attuazione nella vita internazionale. Come evidenziato da Virally « en s’hypnotisant sur l’aspect formel, les auteurs positivistes ne prêtent plus assez d’attention au fond du droit et ignorent les valeurs. Ils laissent ainsi s’échapper la matière même de ce qui les occupe».44

Il diritto deve rispondere ai bisogni della società a cui si applica e, per farlo, è necessario un processo di adattamento continuo: esso deve essere mobile, multiforme, attuabile in contesti diversi. Esempio lampante di ciò è il principio del diritto dei popoli a disporre di loro stessi (ricordato anche nel preambolo della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati). Tale principio (enunciato nei Quattordici punti del presidente Wilson nel 1914 e formalmente reso norma giuridica nell’articolo 1 paragrafo 2, e nell’articolo 55 della Carta delle Nazioni Unite) ha subito un’evoluzione nel suo significato e nella sua applicazione: nella sua formulazione originaria esso era funzionale al mantenimento del colonialismo, ma successivamente è divenuto lo strumento fondamentale proprio della decolonizzazione. Come chiarito dalla Corte Internazionale di Giustizia, tale principio

41 Commissione del diritto internazionale, Sir Gerald Fitzmaurce, Primo rapporto sul diritto dei trattati, Ann.

C.D.I. 1956-II, pag. 106 (Trad. Nostra).

42 A. Pellet, op. cit., pag. 69.

43 Arangio-Ruiz, Gli enti soggetti dell’Ordinamento internazionale, Milano, 1951. 44 M. Virally, La pensée juridique, Paris, LGDJ, 1963, p. 126.

(14)

deve essere interpretato in funzione de «l’evoluzione che il diritto ha ulteriormente conosciuto grazie alla Carta delle Nazioni Unite e alla consuetudine internazionale».45

Ciò dimostra la fallacia di un approccio strettamente formalista del diritto internazionale. Sicuramente, è fondamentale risalire alla fonte di una norma poiché essa è il segno essenziale della sua esistenza quale fattispecie giuridica. Tuttavia, tale fonte non deve essere intesa in modo statico.

Per quanto riguarda le fonti formali, esse sono elencate all’articolo 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia:

«La Corte (…) applica:

a. le convenzioni internazionali, generali o speciali, che istituiscono delle regole espressamente riconosciute dagli Stati in lite;

b. la consuetudine internazionale che attesta una pratica generale accettata come diritto; c. i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili;

d. con riserva della disposizione dell’articolo 59, le decisioni giudiziarie e la dottrina degli autori più autorevoli delle varie nazioni, come mezzi ausiliari per determinare le norme giuridiche.»

Tale elenco risulta incompleto poiché vanno aggiunti gli atti unilaterali degli Stati, le decisioni delle Organizzazioni Internazionali, le risoluzioni delle Organizzazioni Internazionali (anche se non obbligatorie), gli “atti concertati non convenzionali” (gentleman’s agreements).46

Da quanto detto, appare evidente che le categorie del diritto positivo non rendano conto dell’estrema complessità dei modi di formazione e attuazione del diritto. Pertanto, in opposizione al diritto che può definirsi “volontario”, prodotto da e per gli Stati, si affianca una nuova forma di diritto che Roberto Ago definisce “diritto spontaneo”: esso non è voluto dagli Stati, ma si impone ad essi perché risponde ai bisogni della società internazionale.47

Fonte principale di diritto spontaneo è la consuetudine. Certo, lo Stato è indubbiamente all’origine di essa, ma lo è in modo indiretto, non pienamente volontario. La consuetudine48 è definita all’articolo 38, paragrafo 1.b dello Statuto della Corte

Internazionale di Giustizia come «la prova di una pratica generale accettata come diritto». Nella sentenza del 1996, “Liceità dell’Uso delle Armi Nucleari”,49 la Corte chiarisce che,

perché possa parlarsi di consuetudine internazionale, è necessaria la presenza di due elementi:

1. la prassi (elemento materiale), ossia la ripetizione costante di un comportamento da parte della generalità (non totalità) degli Stati;

2. l’opinio juris ac necessitatis (elemento psicologico), ossia la convinzione generale che tale comportamento sia conforme al diritto.

45 Corte Internazionale di Giustizia, Legal Consequences for States of the Continued Presence of South Africa in Namibia (South West Africa) notwithstanding Security Council Resolution 276 (1970), Adrisory Opinion, I.C.J.

Reports 1971 (Trad. Nostra).

46 A. Pellet, op. cit., pag. 124.

47 Cfr. R. Ago, Scienza Giuridica e il Diritto Internazionale, Milano, 1950.

48 Ziccardi, op. cit., pp. 183-316; Sperduti, op. cit., pp.149-166 e 181-2017; Guggenheim, “Les deux

éléments de la coutume en droit international”, in La technique et les principes du droit public, Parigi, 1950, pp. 275-284; Kunz, “The Nature of Customary International Law”, in American Journal of Int. Law, 1953, pp. 662-669; Ziccardi, “La consuetudine internazionale nella teoria delle fonti giuridiche”, in Comunicazione e

Studi, X, 1960, pp. 189-257.

49 Corte Internazionale di Giustizia, Legality of the Threat or Use of Nuclear Weapons, Advisory Opinion, I.C.J.

(15)

Nel definire una pratica consuetudine, ogni comportamento degli Stati deve essere preso in considerazione: azioni o omissioni, atti in cui lo Stato prende iniziativa o reazioni alle iniziative degli altri Stati. Ciò che rileva è che, in tale processo, la volontà dello Stato rimane un elemento marginale, poiché la consuetudine origina da un comportamento - che è un fatto - che non mira in modo pienamente cosciente alla creazione di una norma, ma lo fa nel suo attuarsi e perpetrarsi. Di fondamentale importanza è, soprattutto, l’opinio juris: è la convinzione della necessità di un comportamento, percepita a prescindere da qualsivoglia vincolo giuridico, a costituire il vero sostrato della consuetudine. Tale percezione della “necessità del diritto” è, indubbiamente, un elemento cruciale e costituisce la sua stessa ragion d’essere: è tale convinzione a costituire il fenomeno carsico che è sotteso alle molteplici e cangianti dinamiche della vita internazionale e che permette al diritto di adattarsi a tempi e contesti differenti.

Arangio-Ruiz evidenzia i limiti della teoria del “diritto spontaneo” laddove essa pare dare per scontato un grado di similarità più elevato del giusto fra la comunità internazionale e le società nazionali, presupponendo una perfetta identità fra l'intero diritto internazionale non scritto e la consuetudine interna. Se si considerano, invece, le norme del diritto internazionale per quel che sono e per il modo in cui si sono formate, appare palese che le forme di diritto non scritto siano sempre ascrivibili alla consuetudine in senso proprio.50

4. Emersione della Comunità Internazionale, un processo incompiuto

Il concetto di “Società Internazionale nel suo insieme”, citato all’articolo 53 della Convenzione di Vienna sul Diritto dei trattati, è di difficile definizione. Esso si pone come un dato aleatorio, meramente concettuale. Per constatare la sua esistenza, si può ragionare in modo induttivo, partendo dal classico concetto di ubi societas, ubi jus e capovolgendolo: il fatto che il diritto internazionale esista – e tale esistenza è un dato di fatto – implica che esista anche una particolare società alla quale esso si applica che è diversa delle società interne agli Stati.

Alvarez, giudice della Corte di Giustizia dal 1946 al 1955, ha elaborato una teoria a riguardo che, sebbene risulti a tratti contradditoria, merita di essere esposta.51

Alvarez ritiene che la vecchia “comunità” delle Nazioni si sia trasformata in una “società” internazionale, nonostante non possieda né il potere esecutivo, né il potere legislativo, né il potere giudiziario che sono caratteristiche proprie della società civile, ma non di quella internazionale. Quest’ultima comprende tutti gli Stati del mondo, senza che sia necessario il loro esplicito consenso a farne parte, ed ha scopi e interessi propri. Gli Stati, all’interno di essa, non godono più di sovranità assoluta, ma interdipendente: hanno doveri, oltre che diritti.

I rapporti tra gli Stati sono divenuti molteplici e complessi: essi non riguardano questioni unicamente giuridiche, ma anche politiche, economiche e sociali dal carattere spesso ambivalente. Pertanto, ad una concezione tradizionale del diritto strettamente giuridica e individualista se ne sostituisce progressivamente una più ampia: al diritto delle genti fa posto a quello che può essere definito “diritto di interdipendenza sociale”, basato sulla realtà della vita internazionale e sulla coscienza giuridica dei popoli.

50 Cfr. G. Arangio-Ruiz, “Customary Law: A Few More Thoughts About the Theory of 'Spontaneous'

International Custom” (July 22, 2015), in Mélanges En Honeur De Jean Salmon, Bruylant, 2007.

51 A. Alvarez, “The New International Law”, in American Journal of International Law, Vol. 52, No. 1 (Jan., 1958), pp. 41-54

(16)

Il “diritto di interdipendenza sociale” presenta peculiari caratteristiche: a) Non mira a definire i diritti degli Stati, ma soprattutto ad armonizzarli; b) Prende in considerazione, per ogni materia, tutti gli aspetti che essa presenta; c) Tiene conto dell’interesse generale;

d) Mette in rilievo la nozione dei doveri degli stati non solo tra di loro, ma verso la società internazionale;

e) Condanna l’“abuso di diritto”;

f) Si piega alle necessità della vita dei popoli e si evolve con essa.

In questa sua nuova impostazione, il diritto «tenderebbe non solo a limitare i diritti degli Stati, ma anche – e specialmente – ad armonizzarli, prendendo in considerazione l’interesse generale».52

Simma afferma che «il diritto internazionale è entrato in uno stadio nel quale esso non esaurisce se stesso nei diritti e nelle obbligazioni che intercorrono tra gli Stati, ma include anche interessi comuni della Comunità internazionale nel suo complesso».53

L’ “interesse comune della Comunità internazionale nel suo complesso” è un concetto difficile da definire in astratto. Simma lo identifica con «il consenso sulla base del quale il rispetto per alcuni valori non è lasciato al libero arbitrio dei singoli Stati, ma viene riconosciuto e sanzionato dal diritto internazionale come una questione riguardante tutti gli Stati».54

Tuttavia, è possibile constatare che nella Comunità internazionale attuale esistano delle forze centrifughe – divergenze ideologiche, opposizioni tra culture e religioni, odi razziali, il riemergere di nazionalismi, ineguaglianze di sviluppo, concorrenza economica – che rendono la costituzione di una “Società internazionale” in senso proprio, impostata su interessi e valori comuni, un processo incompiuto e di difficile realizzazione. Tali forze potrebbero porsi all’origine di un solidarismo che trascende le frontiere nazionali, ma che si manifesta in modo parziale, “a blocchi”, e che costituisce un enorme ostacolo alla formazione di un sentimento di appartenenza ad una società universale.

Nonostante tali evidenti frizioni, nel diritto internazionale attuale è possibile ravvisare alcune embrionali forme di tutela di interessi comuni, non ascrivibili al singolo Stato.

Un esempio di ciò può essere rintracciato nell’articolo 136 della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare che recita «L’Area e le sue risorse sono patrimonio comune dell’umanità» e nell’articolo 140, paragrafo 1, della stessa che prevede che «Le attività nell’Area sono condotte a beneficio di tutta l’umanità, indipendentemente dalla situazione geografica degli Stati, siano essi dotati o privi di litorale, tenuto conto particolarmente degli interessi e delle necessità degli Stati in via di sviluppo e dei popoli che non hanno conseguito la piena indipendenza od un altro regime di autogoverno riconosciuto dalle Nazioni Unite conformemente alla risoluzione 1514 (XV) ed alle altre pertinenti risoluzioni dell’Assemblea generale». Tali disposizioni sembrano suggerire che il principio della comune eredità dell’umanità miri a promuovere l’interesse comune dell’umanità nel suo

52 A. Alvarez, Le droit International nouveau dans ses rapports avec la vie actuelle des peuples, Paris, Librairie Pedone,

1959, pag. 409 (Trad. Nostra).

53 B. Simma, ‘From Bilateralism to Community Interest in International Law (Volume 250)’. Collected

Courses of the Hague Academy of International Law. Ed. The Hague Academy of International Law. Brill Reference Online. Web. 30 Apr. 2018 (Trad. Nostra).

(17)

complesso,55 intendendo il termine “umanità” come un concetto transpaziale e

transtemporale, poiché esso include tutte le persone del pianeta, sia le presenti che le future generazioni.56

Conclusioni

L’Uomo appare l’oggetto essenziale di quella protezione che la Comunità Internazionale è chiamata ad assicurare e che costituisce il suo primario obiettivo. Tuttavia, in mancanza di una compiuta istituzionalizzazione della Comunità Internazionale, gli Stati rimangono gli indispensabili mediatori tra individuo e Comunità. Tale necessità fa emergere in modo evidente il rapporto dialettico tra Sovranità e Comunità che costituisce il fondamentale dilemma del diritto internazionale attuale: la sovranità dello Stato è gradualmente erosa dalle esigenze della vita internazionale che spingono verso forme di comunitarismo universale, ma la mancata realizzazione di esse fa sì che il ruolo dello Stato rimanga cruciale, sebbene il concetto di sovranità non corrisponda alle sue iniziali formulazioni e perda il suo carattere assoluto. In particolare, poiché gli interessi in giuoco hanno una portata ben più ampia del contesto statale ed implicano un alto grado di interdipendenza, nuove soluzioni si rendono necessarie e si sono storicamente concretizzate nell’istituzione di organismi preposti alla protezione di tali interessi fondamentali. La loro creazione testimonia il bisogno di strumenti di raccordo mediante i quali i problemi di interesse comune possano essere discussi, le crisi risolte, le minacce alla pace sanzionate attraverso risposte decise e condotte di concerto.

Oggi, in un contesto internazionale ove a seguito della caduta dei regimi comunisti, della fine del bipolarismo, dei rivoluzionari progressi compiuti dalla tecnologia, il grado di compenetrazione tra sistemi nazionali e sistema internazionale è divenuto sempre maggiore, la varietà di interessi che trascendono il piano nazionale e richiedono strumenti di gestione condivisa è aumentata esponenzialmente. Numerose Organizzazioni Internazionali – sia di tipo universale che regionale – sono sorte con lo scopo di porsi quale punto di raccordo e strumento di armonizzazione dei molteplici interessi degli Stati. Tali entità, create dagli Stati, sembrano cominciare a maturare un’esistenza propria ed autonoma che trova la sua ragion d’essere nel perseguimento dei fini per i quali sono state istituite. Proprio per questo carattere ambivalente, per il fatto di porsi in una sorta di zona mediana tra la sovranità dello Stato (di cui restano espressione) e le necessità della Comunità internazionale nel suo complesso, le Organizzazioni Internazionali potrebbero configurarsi come entità-chiave per provare a sciogliere il nodo dialettico tra Sovranità e Comunità, comprendendo quali siano le soluzioni che il diritto ha trovato per adattarsi all’odierna società internazionale e quali possano esserne le future evoluzioni.

55 A.C. Kiss, La notion de patrimoine commun de l’humanité, Ginevra, Graduate Institute Publications, 1992 (Trad.

Nostra).

56 R.J. Dupuy, “La notion de patrimoine commun de l’humanité appliquée aux fonds marins”, in R.J.

Dupuy, Dialectique du Droits International: souveraineté des États, communauté internationale et droits de l’humanité, Ginevra, Graduate Institute Publications, 2013.

(18)

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