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L'éveil aux langues un approccio Umanistico-Affettivo per la competenza plurilingue

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN

LINGUISTICA TEORICA E APPLICATA

TESI DI LAUREA

L'éveil aux langues

un approccio Umanistico-Affettivo per la competenza plurilingue

CANDIDATO:

Panelli Cosima

RELATORE:

Prof.ssa Francesca Gallina

CONTRORELATORE:

Prof.ssa Domenica Romagno

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Indice generale

Introduzione...3

1 Il plurilinguismo: le politiche linguistiche europee e le Indicazioni Nazionali...6

1.1 Il plurilinguismo in Europa...6

1.2 Il plurilinguismo in Italia...10

1.3 Il plurilinguismo per gli insegnanti...16

2 Focus sullo studente: la competenza pluriculturale e plurilingue e come si acquisiscono le lingue seconde...18

2.1 La competenza plurilingue e pluriculturale...18

2.2 Come si acquisiscono le lingue seconde...22

3 Gli approcci Umanistico-Affettivi...28

3.1 Definizione...28

3.2 Neuropsicologia in glottodidattica...30

3.2.1 La motivazione...34

3.3 La riflessione metalinguistica...36

4 Gli Approcci Plurali alle lingue: una risposta alle nuove esigenze didattiche...41

4.1 Il CARAP come evoluzione del QCER...41

4.2 Le competenze e le risorse...44

4.3 I quattro Approcci plurali...50

5 Éveil aux langues...52

5.1 Definizione...52

5.1.1 Le sperimentazioni...53

5.2 Il progetto Noi e le nostre lingue...54

5.2.1 La struttura degli incontri...56

5.2.2 Esempio di laboratorio di lingua romena...58

5.2.3 La tipologia di input...62

5.2.4 La creazione del prodotto finale...64

5.3 L'analisi in chiave Umanistico-Affettiva...66

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Introduzione

La motivazione che ha alimentato e sostenuto questo lavoro di tesi è la ricerca di un approccio didattico che promuova la

competenza plurilingue ma anche il rispetto umanistico della

persona che apprende. Il rispetto umanistico è il concetto principale degli approcci definiti Umanistico-Affettivi, nati negli anni settanta con le figure di Carl Rogers1 e Stephen Krashen2,

ma oggi sostenuti in ambienti di ricerca linguistica universitaria come quello veneziano di Ca'Foscari.

L'esigenza sempre maggiore di promuovere la competenza

plurilingue nel sistema scolastico moderno rende necessaria la

ricerca di sistemi didattici alternativi a quelli tradizionali che risultano spesso inefficaci.

Il Consiglio d'Europa, come le Indicazioni Nazionali, promuovono da tempo la didattica plurilingue ma le direttive rimangono spesso sul piano teorico e non concretamente attualizzate. Il sistema scolastico necessita di strumenti pratici per mettere in atto le strategie proposte dall'alto e promuovere la

competenza plurilingue negli studenti che sono quotidianamente

a contatto con culture e lingue diverse dalla loro.

Il concetto di competenza plurilingue si identifica spesso, anche a livello istituzionale, con quello del "saper fare con le lingue", dove il protagonista è sempre l'apprendente. É nella figura dell'apprendente che viene posto l'accento quando si parla di didattica: l'apprendente è portatore di una competenza e attore principale nella dinamica dell'apprendimento.

Gli studi glottodidattici, neurologici e psicologici hanno contribuito negli ultimi decenni ad una maggiore conoscenza del

1 Psicologo statunitense, con il suo testo On Becoming a Person: A Therapist's View of Psychotherapy del 1961 inizia la psicoterapia umanista, centrata sulla persona (Rogers, 2004)

2 Krashen è professore dell'Università della California del Sud, linguista, ricercatore, è uno degli studiosi che hanno influenzato le più moderne teorie sull'apprendimento delle lingue

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meccanismo di acquisizione linguistica che non può prescindere dalla conoscenza delle caratteristiche personali dell'individuo, delle sue necessità e dei processi neurocognitivi. Nasce la necessità di avere una didattica Umanistico-Affettiva.

Gli approcci definiti Umanistico-Affettivi sono caratterizzati dall' attenzione verso lo studente, verso i suoi bisogni e verso la sua emotività che presenta un ruolo attivo nel processo di

acquisizione. Ogni studente è portatore di un proprio stile di apprendimento e di tratti di personalità, oltre alla propria

cultura e alla propria lingua. La glottodidattica deve considerare questi aspetti e integrarli con le altre conoscenze per la costruzione di una didattica efficace per ogni gruppo classe. Gli approcci Umanistico-Affettivi promuovono una modalità didattica essenzialmente induttiva: lo studente è valorizzato per la sua capacità innata di riflettere sulla lingua, definita come riflessione metalinguistica, che permette di scoprire la grammatica ed avere una profonda acquisizione e memorizzazione degli elementi linguistici.

Nel 2012 nasce il CARAP (Candelier et al., 2012), il Quadro di

Riferimento per gli Approcci Plurali alle Lingue e alle Culture.

Nel CARAP non soltanto si descrive la competenza plurilingue attraverso molti descrittori, ma si propongono gli Approcci Plurali come modalità didattica per ottenerla.

Uno di questi Approcci Plurali alle lingue, l'éveil aux langues, prevede l'utilizzo di molte lingue contemporaneamente, anche di quelle che il curriculum scolastico non prevede di insegnare. É un approccio innovativo che, grazie ad alcune sperimentazioni svolte sia all'estero che in territorio nazionale, sta conquistando l'interesse di molti studiosi di glottodidattica.

In questo lavoro di tesi si prende in analisi l'approccio éveil aux

langues utilizzato nella sperimentazione di Cecilia Andorno e

Silvia Sordella3 svolto in una scuola primaria di Torino.

L'obbiettivo è sottolineare le caratteristiche

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Affettive di questo approccio analizzandone le modalità didattiche e poterlo definire adatto alle esigenze scolastiche attuali.

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1 Il plurilinguismo: le politiche

linguistiche europee e le Indicazioni

Nazionali

1.1 Il plurilinguismo in Europa

Se analizziamo le linee guida europee per gli approcci didattici delle lingue straniere è evidente la volontà di appoggiare e sviluppare le capacità plurilingui negli studenti.

L'insegnamento precoce di due lingue straniere è promosso dalle politiche linguistiche europee già dall'inizio del millennio, nel 2002 viene anche sviluppato il documento QCER Quadro

Comune Europeo di Riferimento per le Lingue (poi

successivamente ampliato nel 2018). Il QCER, in inglese CEFR

Common European Framework of Reference for Languages, è lo

strumento che definisce il livello di competenza nella lingua straniera: i livelli, A1, A2, B1, B2, C1 e C2 indicano i livelli di competenza e sono utilizzati in molti ambiti scolastici, formativi e lavorativi (Melero Rodríguez, 2016). I livelli di competenza rappresentano la struttura generale sulla quale costruire la didattica e sviluppare i curricoli scolastici.

Sempre negli stessi anni troviamo il celebre Obbiettivo di

Barcellona (2002) in cui il «Consiglio europeo invitava gli stati

membri ad attuare misure per migliorare la padronanza delle competenze di base mediante l'insegnamento di almeno due lingue straniere sin dall'infanzia»(Baggiani, 2018).

Nel 2008 il Consiglio dell'Unione Europea riafferma l'importanza della politica multilingue negli stati membri,

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sottolinea in questa occasione la forza economica e sociale che deriva dal multilinguismo: si migliora l'integrazione, la coesione sociale, la mobilità e quindi l'occupabilità degli individui (Melero Rodríguez, 2016).

Il mondo della didattica viene spinto ad adeguarsi a queste nuove esigenze, si spinge ad utilizzare nuovi strumenti come il CLIL (Content and language integrated learning). Il CLIL è un metodo di insegnamento che prevede un approccio diverso allo studio della lingua straniera, la lingua diventa un mezzo di studio trasversale per affrontare altre materie scolastiche.

Nel 2009 abbiamo la pubblicazione delle Conclusioni del Consiglio dell'Unione europea, dove si promuove la strategia "Istruzione e formazione 2020" (ET 2020). Qui il Consiglio sottolinea l'importanza della formazione professionale dei giovani per la loro occupabilità (Melero Rodríguez, 2016). L'insegnamento delle lingue è essenziale per raggiungere una buon livello professionale ed essere concorrenziali nella ricerca del lavoro. Non soltanto i giovani, ma tutto il Paese beneficia nel «promovuere i valori democratici, la coesione sociale, la cittadinanza attiva e il dialogo interculturale» (Melero Rodríguez, 2016).

Nel 2010 viene lanciata la strategia decennale Europa 2020, dove si sottolinea ancora l'importanza dell'educazione plurilingue come fatto anche economico per i Paesi. I governi riaffermano l'importanza della formalizzazione delle competenze linguistiche acquisite per avere il riscontro degli investimenti fatti.

Viene proposta una nuova analisi comparativa dalla Commissione Europea sulle competenze acquisite nelle due lingue maggiormente studiate in Europa dagli studenti dell'ultimo anno della scuola secondaria di primo grado. Si conclude questo studio nel 2012 (Melero Rodríguez, 2016). Nel 2012 la Commissione Europea pubblica Rethinking

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outcomes, uno studio basato sulle competenze linguistiche da

acquisire in risposta alla situazione lavorativa ed economica dei Paesi.

La tendenza continua anche in altri documenti come Key Data

on Teaching Languages at School in Europe, pubblicato da

EACEA/Eurydice nel 2012.

Gli stati membri vengono quindi stimolati a promuovere nelle strutture scolastiche una adeguada educazione plurilingue. Le linee guida che la Commissione Europea propone sono essenzialmente: aumentare il numero di ore dell'insegnamento linguistico, utilizzare le nuove tecnologie e metodi innovativi come il CLIL e favorire una formazione adeguata degli insegnanti (Melero Rodríguez, 2016) .

Un documento fondamentale di Jean-Claude Beacco, nato come obbiettivo nel contesto del forum intergovernativo sulle politiche linguistiche di Strasburgo (la prima versione ufficiale è del 2010 in occasione del forum sulle politiche linguistiche tenutosi a Ginevra dal 2 al 4 novembre 2010), è From Linguistic

Diversity to Plurilingual Education: Guide for the Development of Language Education Policies in Europe (Melero Rodríguez,

2016). É una vera e propria guida che affronta il tema dell'insegnamento plurilingue, i cui principi sono in sintonia con quelli degli autori del QCER (Quadro Comune Europeo di

Riferimento per le Lingue).

Questa guida è uno strumento per implementare i valori di pluriculturalità e interculturalità nell'educazione, affermando che il QCER è il punto di partenza, ma va arricchito e attualizzato per adattarlo alle situazioni pratiche dei contesti scolastici. La guida contiene indicazioni strategiche per progettare le attività in classe, non fornisce la descrizione delle attività ma le possibili metodologie da utilizzare a seconda del contesto. Nella guida si suggerisce l'idea di curricolo: un' organizzazione degli apprendimenti basata sulla coerenza e sulla trasversalità disciplinare, sull'importanza della autovalutazione e della

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riflessività degli studenti. Il curricolo abbraccia sia le materie scolastiche sia il bagaglio culturale che lo studente già possiede. Si parla quindi di competenza linguistica per indicare quello che lo studente già conosce e dal quale è fondamentale partire per strutturare il resto dell'educazione linguistica (Beacco et al., 2016).

Nella Raccomandazione della prima metà del 2014, il Consiglio d'Europa (CM/Rec,2014,5) si esprime «sull' importanza delle competenze nella(e) lingua(e) di scolarizzazione per l'equità e la qualità nell'istruzione e per il successo scolastico» (Melero Rodríguez, 2016).

Si chiarisce in questo documento l'importanza della competenza linguistica per avere un' educazione scolastica qualitativa e di successo.

II Consiglio d'Europa espone dei principi da seguire da parte delle autorità scolastiche degli stati membri:

1- il legame tra competenze linguistiche e pari opportunità che impone al legislatore e alle autorità scolastiche di creare le condizioni affinchè gli individui possano avere la necessaria padronanza non solo della lingua della comunicazione ma anche di quella per lo studio;

2- l'accesso allo sviluppo cognitivo e alle conoscenze, che potrebbe essere ostacolato o impedito da un'insufficiente padronanza della lingua per lo studio;

3- la promozione di azioni atte a sostenere gruppi con difficoltà di apprendimento, com'è il caso dei migranti e degli alunni socialmente svantaggiati che possono incontrare problemi derivanti da uno scarso possesso della lingua per lo studio; 4- il rispetto e il rafforzamento delle identità individuali e collettive degli apprendenti che comportano forme di tutela e promozione delle lingue minoritarie e migranti.(Melero Rodríguez, 2016).

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Sono quindi disponibili a tutt'oggi le linee guida esposte dal Consiglio d'Europa, ma la funzione esecutiva e legislativa la dentengono i diversi organismi dell'Unione Europea, e sono questi che maggiormente influenzano le singole politiche degli Stati membri.

Nella maggior parte dei Paesi europei lo studio della lingua straniera è previsto dal primo anno della scuola primaria, ma il numero di ore dedicate è esiguo, varia da 35 a 70 ore medie annue.

L'inglese è la lingua straniera più studiata in Europa, seguita dal francese , tedesco e spagnolo. Le altre lingue che sono studiate da circa il 5% degli studenti europei sono il danese, l' italiano, l' olandese, il russo e lo svedese (Baggiani, 2018).

Le lingue più studiate sono quelle considerate più importanti a livello socio economico e politico.

Nella società moderna la lingua inglese è considerata lingua di comunicazione per eccellenza, è però spesso spogliata del suo patrimonio culturale ed utilizzata esclusivamente come lingua franca (P. E. Balboni, 2015).

1.2 Il plurilinguismo in Italia

In Italia, la promozione del plurilinguismo è strettamente legata alla sua storia linguistica: ad un orientamento antidialettale adottato a partire dall’unità nazionale, consolidatosi nei primi del ‘900 e culminato con una vera e propria lotta contro le minoranze linguistiche e i dialetti, si è affiancata un’impostazione pluralista che troviamo nelle posizioni di Ascoli (1880) e di Lombardo Radice (1912).

Dalle fine degli anni ‘60 cominciano a nascere nuovi bisogni di formazione linguistico-culturale da parte di una popolazione che accedeva per la prima volta in grande numero all’istruzione scolastica (Sordella & Andorno, 2017).

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In questo clima sociale viene elaborato, nella metà degli anni ‘70, il concetto di educazione linguistica. Questo concetto ha avuto, e continua ad avere, un ruolo centrale nella riflessione glottodidattica italiana ed europea, ispirando largamente i programmi della scuola media del 1979 e in seguito della scuola elementare del 1985 oltre a vari studiosi europei impegnati nella promozione del plurilinguismo.

L'Italia ha nel suo bagaglio culturale vari testi di autori che propongono metodi innovativi e alternativi allo studio classico della lingua italiana a scuola. Uno degli autori è Maria Giuseppa Lo Duca4 che con i suoi Esperimenti grammaticali (Lo Duca,

1997) propone uno studio della lingua prettamente induttivo e concreto.

L'esperienza, l'osservazione e la naturale capacità di fare delle ipotesi sulla lingua da parte dei bambini, questi sono i concetti a cui si richiama Lo Duca. Le categorie grammaticali vengono costruite tramite l'esperienza e la naturale predisposizione dei bambini di parlare della lingua, di analizzarla. Questo è quello che accade anche durante la prima esposizione linguistica alla lingua madre: ascolto, analisi, ipotesi.

Negli anni 2003-2004 si introduce lo studio di almeno un'altra lingua oltre la propria dell'Unione Europea fin dal primo anno della scuola primaria e una seconda lingua dell'Unione nella scuola secondaria di primo grado (Melero Rodríguez, 2016). Nel 2012 nascono le Indicazioni Nazionali per il curriculum

della scuola dell'infanzia e del primo ciclo d'istruzione che

promuovono l’educazione plurilingue a scuola come esigenza primaria:

«l'educazione plurilingue permette lo sviluppo di una competenza plurilingue e pluriculturale […] e di un repertorio diversificato di risorse linguistiche e culturali. […] Accostandosi a più lingue, l’alunno impara a riconoscere che

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esistono differenti sistemi linguistici e culturali e diviene man mano consapevole della varietà di mezzi che ogni lingua offre per pensare, esprimersi e comunicare» (Ministero dell’Istruzione, 2012).

Nelle Indicazioni troviamo la chiara intenzione di valorizzare ed incentivare la pluralità, si sottolineano le l'opportunità socio-culturali che si possono avere attraverso la conoscenza di più lingue.

«La presenza di bambini e adolesenti con radici culturali diverse è un fenomeno ormai strutturale e non può più essere considerato episodico: deve trasformarsi in un'opportunità per tutti» (Ministero dell’Istruzione, 2012).

É una visione innovativa che sottolinea l'importanza dello scambio e della diversità come fattore di successo scolastico e culturale.

La studio della lingua italiana è sempre privilegiato, ma ci si avvicina anche a tutte le altre lingue che arrivano "nuove".

«L'educazione plurilingue e interculturale rappresenta una risorsa funzionale alla valorizzazione delle diversità e al successo scolastico di tutti e di ognuno ed è presupposto per l'inclusione sociale e per la partecipazione democratica »(Ministero dell’Istruzione, 2012).

Secondo le Indicazioni Nazionali la competenza da raggiungere alla fine del ciclo di scuola primaria è il saper riconoscere la provenienza delle lingue ed essere consapevoli delle varietà territoriali (Ministero dell’Istruzione, 2012).

Il fatto che siano definite Indicazioni fa capire come siano delle linee guida sulle quali costuire i curricoli scolastici. Le istituzioni scolastiche sono autonome nella programmazione e si devono attenere alle esigenze concrete degli alunni, «nel rispetto dei talenti e delle diversità di ciascuno» (Melero Rodríguez, 2016).

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I traguardi per lo sviluppo delle competenze della lingua inglese sulla base del QCER sono A1 per la fine della scuola primaria e A2 per la secondaria di primo grado. Per quanto riguarda lo studio della seconda lingua comunitaria il traguardo è il raggiungimento del livello A1 alla fine della scuola secondaria di primo grado.

Nelle scuole del secondo ciclo è previsto il raggiungimento del livello B1 al termine del biennio per la prima lingua straniera studiata (solitamente è la lingua inglese) e del livello B2 al termine dei cinque anni. Per quanto riguarda la seconda lingua straniera studiata il livello previsto al termine degli studi è il B1 (Melero Rodríguez, 2016).

Anche per le scuole del secondo ciclo di istruzione si parla di indicazioni e linee guida da seguire, sono poi le singole istutuzioni che in autonomia costruiscono curricoli sulla base di una continuità didattica con il primo ciclo.

Anche se nella scuola d'infanzia non è previsto ufficialmente l'insegnamento di una lingua straniera, è però raccomandato di incentivare l'utilizzo di più lingue negli ambienti familiari per far abituare i bambini ai suoni e ai significati delle diverse lingue.

Incentivare alla pluralità in ambiente scolastico non significa mettere da parte lo studio della lingua italiana, anzi questo approccio presuppone che si arrivi ad una maggior autonomia e capacità comunicativa anche nella lingua formalmente studiata. Ognuno parte dalle proprie conoscenze linguistiche e ogni idioma aiuta insieme agli altri ad avere più competenza nella lingua italiana e nella vita in genere (Sordella, 2015).

Il nostro paese è territorio di migrazione continua ormai da decenni, nelle scuole ci sono sempre di più studenti con origini diverse, la questione dell'integrazione nelle classi è affrontata quotidianamente.

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2016-2017 (dati aggiornati al 31 agosto 2017) – pubblicato dal MIUR a marzo 2018 –, gli studenti stranieri presenti in Italia sono circa 826.000 (9,4% dell'intera popolazione scolastica), con un aumento di oltre 11.000 unità rispetto all'a.s. 2015/2016». (Camera dei deputati, 5 luglio 2018).

Nella scuola primaria, seppur vi sia la maggior presenza di stranieri rispetto alle altre scuole (ha il numero più elevato di classi con più del 30% di studenti stranieri), la maggior parte degli alunni con genitori stranieri (con cittadinanza non italiana) è nata in Italia, mentre gli studenti stranieri nati all'estero sono circa il 3% del totale (Sordella & Andorno, 2017).

Ma come affronta il nostro paese la gestione delle diversità presenti tra i banchi di scuola? Tutta questa ricchezza multiculturale viene percepita e utilizzata nell'approccio educativo o c'è una ricerca esclusiva alla regolamentazione normativa?

A livello di integrazione l'Italia, come altri paesi europei, opta per inserire gli alunni direttamente nelle classi ordinarie affiancando, se necessario, un sostegno linguistico parallelo. Spetta comunque alla struttura scolastica, al collegio dei docenti prendere le decisioni in base al singolo caso. Le strutture scolastiche si prendono carico della gestione degli alunni stranieri, regolamentano il numero di bambini presente in ogni classe in modo da evitare omologazione ed avere una maggiore omogeneità (Baggiani, 2018).

C'è nel nostro paese un' attenzione sempre maggiore all'inclusività sociale e alla formazione linguistica dei bambini stranieri.

É stata instituita una nuova classe di concorso, la classe A23, per l'insegnamento dell'italiano come lingua seconda, i docenti sono sempre più stimolati ad avere questo tipo di formazione per allineare le conoscenze dei nuovi studenti a quelle degli alunni italiani (Melero Rodríguez, 2016).

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Ma la domanda è se da questa situazione di pluralità se ne ricava ricchezza o si cerca semplicemente di omologare e organizzare il tutto, se le lingue e le culture che arrivano nel nostro paese sono viste come opportunità anche per i nostri alunni o no. Gli studenti stranieri, anche nati in Italia, hanno un utilizzo quotidiano di più lingue; tra le mura domestiche parlano la loro lingua madre, la lingua del paese da dove provengono, mentre a scuola utilizzano l'italiano. Questa situazione di differenza tra le lingue usate dentro e fuori l'ambiente domestico non è certo una novità. Già negli anni '70 i ragazzi di Don Milani affermavano che per alcuni studenti la lingua di scuola coincideva con quella utilizzata a casa mentre per altri non era così. In quegli anni lo spaccamento era soprattutto sociale: i figli dei dottori e i figli degli operai vivevano una realtà domestica diversa e la lingua rispecchiava questo (Sordella & Andorno, 2017).

Oggi questa situazione è simile se pensiamo al figlio dell'italiano autoctono e il figlio dell'immigrato (Sordella & Andorno, 2017). Sentire che la propria lingua è meno importante di quella ufficialmente studiata è chiaramente un disagio per gli studenti e un danno socio culturale. É vero che molti studenti parlano in casa la propria lingua madre ma nelle generazioni successive questo potrebbe non avvenire e causare la perdita del loro bagaglio linguistico in favore di una omologazione linguistica. L' omologazione linguistica porta con sè l'omoloagazione culturale.

Il plurilinguismo è ormai un fenomeno strutturale, ci chiediamo se «sia sufficiente oggi attivare esclusivamente delle risorse per colmare lo svantaggio linguistico degli alunni stranieri o se sia necessario ripensare l'educazione linguistica anche come educazione plurilingue» (Sordella, 2015).

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1.3 Il plurilinguismo per gli insegnanti

Avere una classe plurilingue crea spesso un atteggiamento di paura e difficoltà nell'insegnante. In Italia questa difficoltà è percepita soprattutto nella scuola primaria, dove le classi sono spesso multietniche.

C'è la reale necessità di avere dei supporti didattici adeguati in ambito scolastico per aiutare gli insegnanti ad avere strategie di insegnamento che supportino il plurilinguismo e la pluriculturalità.

Una ricerca molto accurata sugli atteggiamneti degli insegnanti è stata svolta nel 2012/2013 da Marina Chini (Università di Pavia) e Cecilia Andorno (Università di Torino) nelle scuole primarie piemontesi. Sono state prese in esame 27 scuole primarie, categorizzate sulla base del loro territorio: grande città come Torino, città medie come Cuneo, cittadine come Bra e Fossano e piccoli comuni come la provincia di Biella e Cuneo (Sordella, 2015).

I questionari sono stati strutturati sulla base di ricerche nella letteratura sociolinguistica e psicosociale e sui focus group. La tecnica del focus group (Bloor, Frankland, Robson, Thomas, 2002) permette di svolgere una conversazione intorno ad una domanda specifica: «Quale ruolo possono avere a scuola le lingue e i dialetti parlati a casa dai vostri alunni?» I focus group sono stati svolti in due contesti differenti, una realtà montana e una metropolitana, la prima con poca presenza migratoria a differenza della seconda dove la presenza di alunni stranieri è molto alta (Sordella, 2015).

Per il 39% degli insegnanti avere una classe plurilingue da gestire crea confusione e difficoltà. Troppe lingue in classe generano confusione e ostacolano l'apprendimento dell'italiano a causa delle troppe interferenze. Questa idea si collega alla visione del cervello umano come contenitore, dove più elementi

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inseriti generano confusione.

A questo proposito invece le nuove ricerce sperimentali sui soggetti bilingui hanno evidenziato un uso più esteso e flessibile delle reti neurali. Lo sviluppo del cervello bilingue è uno sviluppo bilaterale, vengono utilizzate aree cerebrali che normalmente non sono utilizzate per il linguaggio. I bilingui utilizzano il processo di code switching , passano da una lingua all'altra, selezionando dei codici linguistici e inibendone altri, il loro cervello è più flessibile (Sordella, 2015).

La ricerca sugli atteggiamenti degli insegnanti rivela che una parte di loro è fiduciosa e interessata alla potenzialità del plurilinguismo in classe. L'opinione di questi insegnanti è che il far riflettere gli studenti sui meccanismi della lingua tramite somiglianze e differenze sia una buona pratica che stimola e arricchisce tutta la classe (Sordella, 2015).

La difficoltà che riscontrano molti insegnanti è causata dalla mancanza di concretezza da parte delle direttive ministeriali, mancano gli strumenti operativi per affrontare e superare le difficoltà. Anche se le Indicazioni Nazionali sono chiare non forniscono strumenti didattici esaustivi (Sordella, 2015).

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2 Focus sullo studente: la competenza

pluriculturale e plurilingue e come si

acquisiscono le lingue seconde

2.1 La

competenza

plurilingue

e

pluriculturale

Affrontando il tema del plurilinguismo dobbiamo specificare che cosa significa oggi avvicinarsi a nuove lingue e culture. Apprendere, o meglio acquisire nuove lingue e culture diverse dalla nostra ha un significato molto ampio e complesso e un approccio multidisciplinare è ormai considerato indispensabile . Quando ci avviciniamo allo studio di una lingua dobbiamo essere consapevoli che ci avviciniamo ad una cultura diversa dalla nostra, ad una diversa visione del mondo.

La lingua non è costituita soltanto da vocaboli e regole grammaticali, quello è l'aspetto superficiale con il quale ci rapportiamo inizialmente, dietro questo aspetto troviamo i significati, la storia, le credenze di un popolo.

La realtà che ci circonda viene "letta" e "decifrata" dalle culture sulla base dei valori, della storia e della visione del mondo, e la lingua si forma su questi aspetti. La lingua è in continuo divenire, è viva, come vivo e in cambiamento è il popolo a cui appartiene.

I bambini sono coloro a cui viene tramandata la lingua, sono i nuovi parlanti e grazie a loro la lingua si evolve e si modula sulle nuove esigenze comunicative e socio-culturali. Senza i nuovi parlanti una lingua muore, si estingue, come accade nelle

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circostanze dove le lingue non sono più utilizzate per ragioni sociali, politiche o territoriali. Perdere una lingua purtroppo significa perdere una cultura.

I bambini di oggi sono immersi in un mondo globalizzato e tecnologico, i luoghi sono apparentemente più vicini, spesso lo sono, e l'incontrarsi/scontrarsi con persone "diverse" fà ormai parte del quotidiano. Senza gli strumenti giusti si rischia di non valorizzare e di sprecare questa enorme occasione di scambio che frequentemente i nostri ragazzi hanno a disposizione. C'è bisogno di sviluppare quelle capacità che vanno oltre al mero aspetto linguistico, c'è bisogno di formare, o lasciar che si formino su base esperenziale, nuovi cittadini in possesso della cosiddetta competenza pluriculturale. Competenza pluriculturale è un termine molto utilizzato negli ultimi decenni

in ambito sociale ed educativo ma in realtà poco attualizzato e costretto ad alcuni aspetti limitati.

Nella Guida di Beacco troviamo la distinzione tra

pluriculturalità e interculturalità:

«La pluriculturalità designa la capacità di identificarsi e di condividere culture differenti, segnatamente attraverso l'acquisizione di più lingue. L'interculturalità designa la capacità di fare l'esperienza dell'alterità e della diversità culturale, di analizzare questa esperienza e di trarne profitto»(Beacco et al., 2016).

Per arrivare ad avere una competenza interculturale e

pluriculturale gli approcci educativi devono essere

multidisciplinari ed innovativi e prevedere una "discussione" sulla lingua, stimolando negli studenti il senso critico oltre alla riflessione e alla capacità di analisi (Ciliberti, 2015).

La competenza interculturale non può essere del tutto insegnata, è un processo che abbraccia molti fattori anche personali: il nostro vissuto, le modalità di relazione che utilizziamo e il

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bagaglio culturale che abbiamo già a disposizione. La

competenza è «un processo personale, multidimensionale,

variabile e soggetto alla trasformazione (della persona e della società) che, quindi, non può trovare una sua unica verità stabile e definitiva.» (Melero Rodríguez, 2016).

Gli studenti devono sviluppare la capacità di capire l'altro, di riconoscere l'altro come diverso, eliminando tutti i preconcetti e gli stereotipi che frenano la conoscenza. L'empatia, capacità della quale oggi molto si discute, è una delle chiavi di accesso per acquisire la competenza interculturale: capisco l'altro e riesco a mettermi nella sua situazione. La competenza

interculturale è quindi un insieme di caratteristiche, personali e

non, che mutano.

«L'espressione interculturale (competenza, educazione interculturale) va qui intesa come un insieme (una serie) di sistemi di rappresentazione, di interpretazione e di produzione attraverso cui passa l'apprendente di una L2. Tali sistemi-in analogia con la nozione di interlingua-sono transitori e instabili, e si susseguono l'un l'altro nel tentativo di un avvicinamento progressivo, appunto, alla competenza interculturale, e all'educazione interculturale»(Ciliberti, 2015).

Le culture mutano, si evolvono, le persone cambiano, tutto è in divenire, la comunicazione interculturale non può essere inserita in schemi fissi.

Gli insegnanti devono accompagnare gli studenti nell'analisi dell'atto comunicativo ma senza sostituirsi a loro, lasciarli analizzare in autonomia che cosa potrebbe essere migliorato o cambiato nello scambio comunicativo.

Riflettere sulla lingua e sulle dinamiche interazionali è l'attività che permette di capire le regole attraverso il ragionamento e quindi fissarle nella memoria. Il ragionamento, l'intuizione, la rilevazione dei dati, sono attività che fatte insieme agli studenti

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creano un metodo didattico attivo. É fondamentale renderli autonomi nel capire dove può esserci un miglioramento nella comunicazione e dove sono stati fatti errori.

Raggiungere una maggiore autonomia permette allo studente di diventare attore sociale nei vari contesti, sia scolastico che non. Ci si allontana dal concetto di plurilinguismo come studio formale in ambito scolastico e l'obbiettivo diventa la formazione di identità sociali con competenza plurilinguistica e

pluriculturale (Melero Rodríguez, 2016).

Anche nel Companion Volume with new Descriptors (l'integrazione al QCER del 2018 dove si inserisce il concetto di

competenza plurilingue) la descrizione di competenza plurilingue e pluriculturale rispecchia una visione dinamica,

flessibile della competenza che si integra con ciò che gli studenti già sanno. Le competenze linguistiche che possiede lo studente sono varie e non uguali per tutte le lingue, ma tutte insieme formano un repertorio unico, dinamico e flessibile (García Sanz, 2018). Non c'è più l'idea della competenza plurilingue come la somma delle lingue conosciute separatamente. Questa competenza plurilingue, associata a strategie e a competenze più generali, permette di affrontare le situazioni in contesti plurilingue e raggiungere gli obbiettivi richiesti: «plurilinguals have a single, inter-related, repertoire that they combine with their general competences and various strategies in order to accomplish tasks» (García Sanz, 2018).

Lo sviluppo di competenza plurilingue/pluriculturale può essere definito secondo lo schema seguente:

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Studente con il proprio bagaglio conoscitivo/ competenza linguistica e pluriculturale /caratteristiche cognitive

stimolato allo scambio comunicativo con altri studenti aventi

lingua e/o cultura diversi

analizza attivamente in gruppo (classe) le dinamiche dell'atto comunicativo avvenuto (sia linguistiche che extralinguistiche che relazionali/emotive) estrapolando in modalità induttiva le

proprie idee, regole e strategie

sviluppo della competenza pluriculturale e plurilingue

Un aspetto fondamentale è la cooperazione tra i pari, il risultato si raggiunge insieme tramite il confronto.

2.2 Come si acquisiscono le lingue seconde

La competenza è l'espressione del proprio bagaglio linguistico, ma affrontiamo anche l'apprendimento delle lingue a livello neurologico.

La lingua materna viene acquisita in modo spontaneo dal bambino, vi è già una predisposizione neurologica celebrale con aree dedicate alla formazione di questa capacità (Balboni, 2008). La predisposizione genetica però non basta se non vi è l'aiuto dell'ambiente stimolante e l'interazione con il mondo5 che

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permettono la creazione e la fissazione del linguaggio verbale. Il bambino piccolo, se è esposto al linguaggio, con il tempo comincia a fare ipotesi su ciò che ha ascoltato, cerca di costruire delle regole e fare prove linguistiche. Le fasi sono: osservazione, ipotesi, verifica delle ipotesi e fissazione delle regole. La verifica avviene grazie ai feedback che riceve dall'esterno. Quando un bambino dice "aprito" vuol dire che è nella fase di verifica delle sue ipotesi basate sull'ascolto di parole come "dormito" (Balboni, 2008).

L'acquisizione linguistica dei primi anni di vita non può prescindere dall'esposizione agli input, senza questi non si formano i moduli neuro-funzionali dedicati al linguaggio. I moduli neuro-funzionali sono dei gruppi di neuroni che si formano per acquisire specifiche attività umane, sia spontanee che non.

Alcune attività, come il pianto dei neonati, non necessitano di input esterni ma si formano in modo naturale per la predisposizione genetica che abbiamo. Altre attività, come imparare una lingua, necessitano di input esterni per la formazione dei moduli neuro-funzionali dedicati, la cui efficienza ed estenzione è direttamente proporzionale all'esposizione ambientale (Daloiso, 2009).

I moduli neuro-funzionali, autonomi ma anche interdipendenti, specifici del linguaggio, sono almeno quattro6:

a. la competenza linguistica che riguarda gli aspetti morfosintattici, semantici e fonologici, i quali sono immagazzinati nella memoria implicita.

b. la competenza metalinguistica che riguarda le nozioni apprese coscientemente e la conoscenza delle regole del funzionamento della lingua (memoria esplicita).

c. la pragmatica che lavora in sinergia con la competenza

sociale come elemento essenziale per la formazione linguistica (P. E. Balboni, 2008) 6 Paradis, Teoria dei moduli neurofunzionali, 2004

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linguistica, influenzandone le scelte sulla base del contesto. d. le dinamiche emotive e motivazionali, per prima la valutazione emotiva dell'input, fondamentale per il funzionamento degli altri moduli. A livello neurologico è il sistema limbico che governa questa capacità (Daloiso, 2009). Le ultime ricerche neuroscientifiche affermano che l'apprendimento della seconda lingua formi ulteriori sub-sistemi neuro-funzionali all'interno di quelli già esistenti. L'attivazione e l'efficienza di questi sub-sistemi è determinata da questi fattori: a. l'età dell'apprendente

b. la frequenza di esposizione e d'uso della lingua c. il coinvolgimento emotivo

d. la correttezza dell'input e le predisposizioni intellettive

Più siamo esposti precocemente alle lingue seconde e più facilmente le apprendiamo (Daloiso, 2009).

L'esposizione precoce alla lingua seconda mette in atto gli stessi meccanismi di apprendimento della lingua materna, il cervello è ancora plastico e il processo della leteralizzazione emisferica non è terminato (è completato verso circa i nove anni). Le lingue apprese precocemente sono processate nelle stesse zone cerebrali di quelle della lingua materna e le informazioni sono immagazzinate nella memoria implicita grazie alle capacità neurosensoriali molto sviluppato del bambino (Daloiso, 2009). Vi sono alcune finestre temporali adatte all'acquisizione linguistica basate sulle tappe della maturazione delle zone cerebrali che processano il linguaggio. Il primo periodo (0-3 anni) e il secondo (4-8 anni) sono quelli più adatti all'esposizione plurilingue del bambino. É soprattutto la capacità fonetica e morfosintattica che dopo i nove anni diminuisce, mentre l'aspetto semantico e pragmatico della lingua in realtà è ugualmente acquisibile. Gli ultimi approcci neuroscientifici

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definiscono questi periodi critici come un continuum di fasi temporali più che blocchi statici (Daloiso, 2009).

Per quanto riguarda il secondo punto, la frequenza di esposizione alla lingua, è appurato che anche nell'acquisizione delle lingue seconde è necessaria una esposizione importante allo stimolo linguistico. Per attivare senza troppo sforzo cognitivo i sub-sistemi della lingua straniera gli studenti devono esserne immersi quotidianamente nella lingua. Prevede lo studio della lingua straniera soltanto per alcune ore a settimana, come avviene solitamente nelle nostre strutture scolastiche, è sicuramente improduttivo e manchevole. L'utilizzo della lingua straniera deve essere frequente e trasversale tra le discipline scolastiche.

Il terzo punto fondamentale per l'apprendimento della lingua seconda è il coinvolgimento emotivo. Questo aspetto è essenziale: se l'ambiente invece che rilassato e piacevole è fonte di ansia o preoccupazione non avviene memorizzazione e quindi

acquisizione7.

Il quarto punto riguarda la corretezza dell'input linguistico: la pronuncia deve essere corretta per far assimilare ai ragazzi i suoni reali della lingua. L'insegnante madrelingua sarebbe una giusta scelta per far acquisire agli studenti un bagaglio socio-situazionale adeguato oltre alla correttezza formale della lingua (Daloiso, 2009).

L'ultimo punto da considerare per l'apprendimento della lingua seconda sono le predisposizioni intellettive8: valutare le

intelligenze e gli stili di apprendimento. Gli studenti processano le lingue sulla base delle loro caratteristiche intellettive e un approccio che guarda a questo risulta più produttivo (Daloiso, 2009).

L'apprendimento di una seconda lingua nei primi anni di vita permette di sviluppare a livello cognitivo la capacità di

7 vedi cap 3.a 8 vedi cap 3.a

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apprendere facilmente altre lingue oltre alla seconda. Il cervello di abitua ad attivare i moduli neuro-funzionali dedicati e necessita di meno energia per reperire le informazioni. L'ipotesi dei moduli neuro-funzionali evidenzia che se l'apprendiemento delle lingue è tardivo (dopo i 9 anni) l'apprendente deve passare dal sistema lessicale della propria lingua per reperire le informazioni nel sub-sistema lessicale della nuova lingua, attivando quindi una traduzione. Se l'apprendimento della lingua o delle lingue avviene invece nei primi anni l'apprendente riesce a reperire direttamente le informazioni del sistema sub-lessicale, senza passare dalla propria lingua. Se sono state apprese più lingue precocemente, ognuna di queste forma un sub-sistema a cui l'apprendente accede direttamente, senza tradurre dalla propria lingua (Daloiso, 2009).

Studi recenti confermano questo processo analizzando il rapporto tra il lessico delle lingue apprese nei bilingui precoci e il sistema cognitivo-concettuale dell'apprendente. Nell'apprendente "precoce" si formano due sistemi lessicali distinti relativi alle due lingue ma il sistema cognitivo-concettuale rimane lo stesso per entrambe. Questo accade quando l'apprendente è un bilingue "precoce" (esposto alle lingue nei primi anni di vita), mentre se è un bilingue "tardivo" per reperire le informazioni lessicali della seconda lingua deve passare dal sistema lessicale della prima, facendo quindi una traduzione (Daloiso, 2009).

Per facilitare l'apprendimento della lingua straniera l'insegnante deve promuoverne l'utilizzo nella comunicazione spontanea. L'alunno deve avere molte possibilità di comunicare e in diversi contesti: con i compagni, con l'insegnate, ma anche fuori dall'ambiente scolastico. Più frequentemente la lingua verrà utilizzata, più bassa sarà la soglia di attivazione neurologica cerebrale dell'apprendente.

L'insegnante deve promuovere anche la capacità metalinguistica e pragmatica. La prima si ottiene valorizzando le conoscenze

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esplicite della lingua/e (magari in modalità in parte induttiva di cui parliamo in altro capitolo), la seconda attraverso la conoscenza esplicita delle regole comportamentali e linguistiche necessarie per lo scambio comunicativo efficace in ogni contesto

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3 Gli approcci Umanistico-Affettivi

3.1 Definizione

L'attenzione verso chi apprende è una tendenza che nasce circa trent'anni fa come reazione alle teorie comportamentiste guidate da Skinner che, con i suoi esercizi strutturali, i pattern drill, considerava lo studente una tabula rasa su cui incidere nozioni anzichè come portatore di una propria conoscenza. Essenzialmente in questi anni la visione meccanicistica dell'apprendimento come conseguenza dello stimolo-risposta è rivisitata da quella più umanistica e olistica che guarda all'uomo nella sua interezza e unicità (P. E. Balboni, 2015). Già Noam Chomsky in Syntactic Structures (1957) propone una nuova visione dell'apprendimento delle lingue come meccanismo innato, l'uomo è predisposto al linguaggio. Syntactic Structures è sicuramente uno dei testi che apre le porte alla glottodidattica umanistica. Chomsky ripropone in linguistica quello che Carl Rogers propone in psicologia con il testo On Becoming a Person (1962), dal quale prende avvio una nuova psicologia umanista basata sulla persona (P. Balboni et al., 2017).

Nel Nord America troviamo nomi come Danesi, Mollica, Shumann, che sono alla base di questo approccio. In Italia Renzo Titone e Giancarlo Freddi diedero vita al modello Umanistico-Affettivo noto come modello olodinamico o

egodinamico basato sulla psicologia della gestalt (1987)

(Balboni, 2018). In questo modello le scelte strategiche personali confrontate con gli eventi reali se trovano un equilibrio mettono in moto la macchina motivazionale e quindi

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l'apprendimento. Gianfranco Porcelli è il primo ad usare il termine Umanistico-Affettivo in Italia (1994) (Balboni, 2013). In Italia esisteva anche precedentemente l'attenzione verso chi apprende, basta citare la psico-pedagogia della Montessori e

Educazione Linguistica di Lombardo Radice (Balboni, 2018).

Il significato di Umanistico-Affettivo è inerente a "quello che riguarda l'uomo" , come è fatto l'uomo (stili di apprendimento, tipi di intelligenza, personalità) e alla sfera dell'affettività e dell'emozione.

Umanistico deriva dalla psicologia omonima, riguarda ciò che è

relativo all'uomo, come la personalità, i tipi di intelligenza, gli stili di apprendimento e cognitivi (P. E. Balboni, 2008) .

Affettivo si lega al concetto più ampio di emotività, alla sfera

emozionale dell'uomo che è stata messa in disparte dalla tradizione greca basata sulla razionalità e sulla logica (Balboni, 2018).

Da qualche anno molti studiosi hanno cominciato a rivalutare le emozioni nel processo di apprendimento: ricordiamo Goleman che con la sua Intelligenza Emotiva (1995) definisce indispensabile la capacità di riconoscere i propri sentimenti e quelli degli altri. Ma anche altri studiosi prima di lui avevano parlato di emozioni: nel 1800 William James, filososo statunitense e Karl Lange, psicologo danese, descrivono l'emozione come il risultato di cambiamenti fisici che avvengono dopo un input esterno, cambiamenti come il cuore che batte forte o il tremolio delle mani. Successivamente, nel 1927, Walter B. Cannon ipotizza invece la nascita delle emozioni come frutto dell'attività interna del talamo, quindi causa di cambiamenti esclusivamente interni all'uomo.

Il concetto che viene sempre affrontato, anche in teorie successive, è il rapporto tra la cognizione e l' emozione, se il pensiero precede l'emozione o viceversa (P. E. Balboni, 2008). La teoria delle emozioni che è stata maggiormente utilizzata in ambito scolastico, e che chiarisce molti aspetti, è la teoria

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dell'input appraisal (1966) della psicologa statunitense Magda Arnold . Secondo questa teoria gli input esterni vengono valutati dalla persona sulla base di parametri come la novità, l'utilità, la realizzabilità, creando così un proprio guidizio (appraisal). Il giudizio, la valutazione, attivano una reazione sia psicologica che fisiologica per gestire o evitare l'evento (Balboni, 2018). Oggi le ricerche in questo campo avvallano l'idea che l'emotività è parte integrante e fondamentale nel processo di apprendimento.

In glottodidattica l'approccio Umanistico-Affettivo non guarda soltanto alla lingua o alla comunicazione come oggetto di studio, ma pone sullo stesso piano il soggetto che apprende «e gli dà una priorità temporale e di scopi: vedo chi sono e che motivazione hanno e solo allora decido cosa intendo, con quel gruppo, con quelle persone, dicendo 'lingua straniera'» (Balboni, 2018). In glottodidattica il termine Umanistico-Affettivo è declinato in quello di neuropsicolinguistica, che esprime la sua natura interdisciplinare riguardate sia la parte cognitiva che psicologia dell'apprendente (Daloiso, 2015).

3.2 Neuropsicologia in glottodidattica

In ogni classe o gruppo di studio ogni studente è diverso dagli altri, ognuno ha proprie abilità, caratteristiche e differenze. Le diversità spesso non sono dovute a deprivazioni cognitive o sociali, ma alle caratteristiche intellettive differenti, alle motivazioni personali e alle diverse strategie di apprendimento. Ogni studente privilegia un emisfero cerebrale per analizzare la realtà, ha una "dominanza diversa": ci sono studenti più

analitici, altri più olistici (Daloiso, 2009). Gli analitici tendono a

voler comprendere tutti i dettagli, sono più inclini a riflettere sui meccanismi della lingua (nel caso dell'acquisizione della lingua) mentre i secondi sono più intuitivi, meno precisi e con una

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attitudine maggiore all'uso pratico della lingua. In ogni classe vi sono sempre le due tipologie di studenti, una didattica efficace dovrebbe quindi basarsi su entrambe senza privilegiarne una soltanto (Daloiso, 2009).

Le differenze individuali a livello cognitivo sono state categorizzate già dallo psicolgo americano Gardner (1983) che indica sette tipologie di intelligenza presenti in ognuno ma con dominanze diverse: l'intelligenza linguistica, l'intelligenza logico matematica, l'intelligenza spaziale, l'intelligenza musicale, le intelligenze personali e relazionali (P. E. Balboni, 2008)l. In ogni studente alcune di queste predominano rispetto ad altre e con la combinazione si forma l'intelligenza individuale.

Ogni studente, avendo le proprie caratteristiche cognitive, possiede un proprio stile d'apprendimento, la modalità con cui privilegia affrontare i compiti scolastici (Daloiso, 2009). Troviamo studenti con uno stile analitico oppure globale: i primi privilegiano l'utilizzo dell'emisfero sinistro e quindi delle capacità logico-matematiche rispetto agli altri che privilegiano il contesto e gli aspetti globali. Studenti con stile ideativo oppure esecutivo: i primi privilegiano la teoria mentre i secondi privilegiano la pratica. Troviamo studenti che tollerano l'ambiguità senza sentirsi a disagio mentre altri hanno bisogno della totale chiarezza ed esaustività delle informazioni. Vi sono studenti che sono più dipendenti dal campo e si fanno influenzare da altri elementi presenti, mentre altri riescono a focalizzarsi sull'obbiettivo. Un aspetto importante è la capacità che hanno alcuni di capire e prevedere i contenuti già dal contesto mentre per altri non è così ma privilegiano l'analisi di frasi decontestualizzate. Ci sono poi studenti che riescono a capire meglio dai propri errori, anzi a trarne beneficio, mentre per altri l'errore è fonte demoralizzazione (Daloiso, 2009). La personalità degli studenti è chiaramenete un fattore condizionante per l'apprendimento scolastico, l'essere pessimista o ottimista, estroverso o introverso, avere piacere a lavorare in

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gruppo o essere competitivi, sono elementi caretteriali che si vanno a sommare al proprio stile di apprendimento e alla propria individualità (Balboni, 2008).

La glottodidattica per essere efficace deve considerare questa varietà e utilizzare metodi di studio che si adattino alle caratteristiche personali degli studenti. La cosa fondamentale è variare le strategie educative per andare a toccare tutti gli stili di apprendimento presenti in classe.

A livello neurologico il processo di apprendimento utilizza entrambi gli emisferi cerebrali: quello di sinistra analizza gli aspetti logico razionali, quello destro quelli globali, olistici. I due emisferi si sono differenziati nel tempo ma sono strettamente connessi tra loro grazie ad un grosso fascio di fibre nervose, il corpo calloso. I due principi fondamentali presenti in neurolinguistica e glottodidattica umanistica sono quello di

bimodalità e direzionalità9. Secondo questi principi il cervello

lavora in modalità bimodale coinvolgendo entrambi gli emisferi cerebrali specializzati in funzioni diverse. L'apprendimento avviene secondo la direzione dall'emisfero destro al sinistro, partendo quindi da un'analisi globale dell'input verso quella più analitica (Balboni, 2015).

Questo principio si collega alle ipotesi del professore, linguista e ricercatore americano Stephen Krashen, tutt'oggi utilizzate e sviluppate. Nel suo testo The natural approach: Language

acquisition in the classroom del 1983, Krashen differenzia i

termini acquisizione e apprendimento, indicando il primo come il prodotto del processo completo che utilizza entrambi gli emisferi cerebrali (Balboni, 2008). Acquisire vuol dire immagazzinare nella memoria a lungo termine utilizzando sia l'emisfero destro che il sinistro, partendo dal contesto e dagli aspetti emotivi per poi passare ad una analisi più sistematica e dettagliata. L'aquisizione è il processo che mettiamo in atto quando siamo esposti alla nostra lingua madre, un processo di

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acquisizione incoscio. Apprendere è invece un processo conscio

che si basa sulla razionalità della persona ( utilizzando soltanto l'emisfero sinistro) e immagazzina le informazioni nella memoria a breve termine, esplicita, con conseguente rischio della loro perdita futura (Balboni, 2015).

Krashen nella sua teoria della SLAT (Second Language

Acquisition Theory) descrive come avviene l'acquisizione della

seconda lingua tramite strategie che devono essere messe in atto dall'insegnante. Le strategie fondamentali che devono essere adottate in modo da produrre acquisizione sono: la comprensibilità e la chiarezza dell'input per lo studente, un input poco distante rispetto a ciò che lo studente sa già10 e che il filtro affettivo11 non sia attivato (Krashen & Terrell, 1983). Lo

studente per non demotivarsi deve trovarsi di fronte ad un compito fattibile per le proprie capacità e chiaro nella comprensione. É fondamentale che il compito asseganto sia poco al di sopra della sua conoscenza e della sua capacità, compiti non adeguati, considerati troppo difficili demotivano e scoraggiano (Balboni, 2018).

L' ipotesi del filtro affettivo di Krashen è centrale e fondamentale nell'approccio Umanistico-Affettivo. Quando lo studente è demotivato, sotto stress o ansia non può avvenire per lui acquisizione. La spiegazione è su base chimica: «in stato di sernità l'adrenalina si trasforma in noradrenalina, un neurotrasmettitore che facilita la memorizzazione, mentre in stati di paura e stress si produce uno steroide che blocca la noradrenalina e fa andare in conflitto l'amigdala (ghiandola emotiva che vuole difendere la mente da eventi spiacevoli) con l'ippocampo, la ghiandola che invece ha un ruolo attivo nell'attivare i lobi frontali e iniziare la memorizzazione» (Balboni, 2018). Si attiva il filtro affettivo quando gli studenti si trovano di fronte a compiti che non sentono adeguati, che

10 La nozione deriva da quella di area di sviluppo potenziale del Vygotsky 11 Ipotesi del filtro affettivo di Stephen Krashen

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minano alla propria autostima, che considerano eccessivi per le proprie capacità.

L'ambiente di apprendimnto deve essere quindi positivo e motivante per tutti gli studenti per far si che vi sia acquisizione

linguistica. L'ambiente per essere motivante deve rispecchiare i

bisogni degli studenti (che abbiamo visto essere diversificati) e produrre il piacere di imparare. Per avvicinarci a questo obbiettivo ci deve essere equilibrio tra il bisogno di sicurezza psicologia degli studenti e il piacere della sfida, tra il fattore novità che solleva l'attenzione e la ricorrenza invece degli schemi che per alcuni è fonte di tranquillità, tra i bisogni oggettivi e quelli soggettivi (Daloiso, 2009).

3.2.1 La motivazione

La parte emotiva/emozionale dell'uomo ha un ruolo determinante, come confermano gli studi, nell'apprendimento linguistico. Sulla base della valutazione emotiva di un input esterno nasce la motivazione di apprendere o meno una nuova lingua. «Una solida motivazione può dunque nascere solo dopo il reiterarsi di esperienze emotivamente positive» (Daloiso, 2015).

Le tre motivazioni di base per le quali si affronta un percorso di studio (in questo caso glottodidattico) sono: il piacere di imparare, il bisogno di imparare e il dovere di imparare una lingua. Il piacere di imparare una lingua è spesso la motivazione presente negli adulti e non nei giovani studenti: gli adulti affrontano spesso un corso di lingua straniera per soddisfare un proprio piacere personale (dovuto magari alle origini familiari o alla possibilità di viaggiare) più che per un bisogno esterno, mantenendo una forte motivazione (Daloiso, 2009).

Il bisogno di imparare una lingua straniera è la motivazione che alimenta sia i giovani studenti sia gli adulti, che necessitano di questa ulteriore conoscenza magari per scopi lavorativi. Il

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bisogno di imparare una lingua straniera è spesso una

motivazione che si esaurisce nel tempo, «il patrimonio motivazionale iniziale si esaurisce se l'insegnante non immette altro 'combustibile' emozionale» (Balboni, 2013). Gli studenti alimentati esclusivamente dal bisogno di imparare una lingua straniera spesso valutano buona la propria conoscenza prima del necessario. L'insegnante deve sempre alimentare e incrementare il piacere di imparare tramite strategie didattiche e relazionali. La motivazione che invece accompagna nello studio delle lingue la maggior parte degli studenti durante il percorso scolastico, è il senso del dovere. Gli studenti si sentono obbligati ad imparare una lingua e non hanno una spinta motivazionale personale. In questo caso il docente deve creare nuove emozioni positive, sia nell'input (renderlo piacevole, nuovo, interessante), sia nel rapporto personale con lo studente. Avere una buona relazione con il proprio insegnante, magari un rapporto basato sulla stima reciproca, crea una forte motivazione che migliora l'approccio verso lo studio della lingua straniera (Balboni, 2013).

La motivazione si basa sulla valutazione emotiva dell'input. La teoria Stimulus Appraisal Theory di Schumann (1999) esplicita questo processo: l'input che lo studente riceve dall'esterno viene valutato sulla base delle proprie aspettative, dei propri bisogni e desideri. Se l'input viene valutato positivamente l'informazione passa dalla memoria di lavoro ai centri cerebrali che la elaborano e la immagazzinano, se valutata negativamente invece decade e non viene ricordata (Daloiso, 2009).

L'input per essere valutato positivamente dagli studenti necessita di caratteristiche come: la novità, la piacevolezza, la bellezza estetica, la percezione che la propria immagine non sia messa in discussione e che il compito sia fattibile per le proprie possibilità. Le dinamiche sono sempre le stesse, quando parliamo di acquisizione, quando parliamo di motivazione, di didattica personalizzata e strategie di apprendimento.

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possiede le proprie peculiarità al riguardo. La principale motivazione per alcuni studenti potrebbe essere interna, basata sul puro piacere e la gioia di imparare, per altri la motivazione potrebbe essere maggiormente legata a fattori esterni come il raggiungimento di un obbiettivo scolastico o la volontà di far bene per gli altri (spesso i genitori). Sicuramente il piacere di imparare è la motivazione che è sempre presente nelle situazioni di effettiva ed efficace acquisizione linguistica (Daloiso, 2009). Gli studenti rispondono molto positivamente ad una motivazione condivisa con tutto il gruppo, cioè condivisa con i loro compagni che permette di alimentarsi e motivarsi a vicenda. L'insegnante in questo caso deve coinvolgere gli studenti, farli collaborare tra di loro, per raggiungere un obbiettivo in comune.

3.3 La riflessione metalinguistica

Un collegamento tra l'apprendimento delle lingue e la parte psicodidattica ed emozionale analizzata sopra, è la riflessione

metalinguistica degli studenti. É su questa capacità che deve

basarsi una didattica delle lingue efficace che coinvolga gli studenti e che parta dal loro bagaglio culturale e linguistico. La riflessione metalinguistica è la capacità che abbiamo tutti fin da piccoli di riflettere sulla lingua, è una capacità innata. É una capacità che si affina con il tempo, nel bambino piccolo è più istintiva per diventare sempre più un' attività cosciente.

Il bambino piccolo ha già dentro di sè le categorie grammaticali , con l'esperienza e l'interazione con il mondo esterno costruisce le regole del linguaggio e "riempie" queste categorie (Balboni, 2008).

La cosidetta epilinguistica (Culioli, 1994) è il termine che esprime questa capacità umana di essere naturalmente predisposti alla lingua fin da piccoli (Andorno & Sordella, 2018). Questa attività che Culioli definisce «activité

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métalinguistique non cosciente» (Culioli, 1968: 108) è presente già in fase pre-linguistica in tutti gli esseri umani senza distinzione di lingua e cultura (Andorno & Sordella, 2018). Il concetto di metalinguistica è stato trattato da molti glottodidatti che ne hanno tracciato confini o esteso maggiormente il raggio di azione.

Gombert (1997) distingue nettamente tra epilinguistic control e

metalinguistic awareness: il primo termine si riferisce a quando

il bambino piccolo prende il controllo della propria capacità linguistica ma senza consapevolezza, il secondo quando dopo aver preso il controllo va verso una consapevolezza maggiore, definita metalinguistica. Secondo Gombert la seconda capacità (metalinguistica) non sempre è sviluppata, capita di non raggiungere la facoltà di verbalizzare consapevolmente (Andorno & Sordella, 2018).

Ferreri (2009) definisce invece attività epilinguistica e attività

metalinguistica come due estremi di uno stesso percorso: da una

parte le prime richieste, anche non verbali, del bambino piccolo, dall'altra la consapevolezza della propria capacità metalinguistica e quindi il suo uso cosciente (ANDORNO & Sordella, 2018).

Una didattica che utilizzi come risorsa la capacità

metalinguistica degli studenti è stata proposta anche in passato:

Tullio De Mauro definisce come naturale l'attività di riflessione sul linguaggio e propone che una parte di didattica sia basata sull' esplorazione linguistica degli studenti, perchè possano «sperimentare l'esplorazione della grammaticalità» (De Mauro, 2011: 21). Già nel 1975 le Dieci tesi, testo del gruppo GISCEL (Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell'Educazione Linguistica) «sostiene con forza il ruolo della riflessione

metalinguistica» criticando l'insegnamento grammaticale

esplicito (Andorno & Sordella, 2018).

In ambito scolastico sono state sviluppate alcune proposte in merito ad approcci che sviluppano l'attività di riflessione sulla

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lingua.

In Italia un lavoro importante, che abbiamo già precedentemente nominato, è stato quello di Lo Duca con i suoi Esperimenti

grammaticali (1997). In questa sperimentazione Lo Duca

propone un approccio puramente induttivo: i ragazzi della scuola primaria sono stimolati ad osservare il linguaggio in modo selettivo per arrivare, attraverso la riflessione e la discussione, a costruire le categorie in modalità implicita, non esplicita. Anche Paola Desideri nel Il testo argomentativo:

processi e strumenti di analisi (1995) è esplicita nel conferire

potere alla riflessione e all'analisi da parte degli studenti: «Del resto, è appurato che il dialogo compare prima del monologo e che il dialogo è l'attività linguistica che consente all'essere umano di farsi un'idea del mondo: il bambino conosce e apprende ponendo domande, cercando risposte, obiettando, interrogando in continuazione gli adulti» (Desideri, 1991). Queste proposte didattiche coinvolgono esclusivamente la L1, mentre la proposta di Altichieri e Deon nel Una grammatica per

tante lingue ? (1995) amplia la proposta didattica riflessiva a

tutte le lingue studiate a scuola, non soltanto alla L1 (Sordella & Andorno, 2017).

La riflessione metalinguistica è sicuramente supportata dal metodo induttivo: tramite l'esperienza gli studenti scoprono in autonomia come funziona la lingua, partendo da ciò che già sanno. Il metodo induttivo è il metodo che utilizziamo naturalmente per apprendere la lingua madre: il bambino grazie agli stimoli esterni fa ipotesi e struttura le sue regole circa il funzionamento della lingua (Balboni, 2008).

Ragionando e riflettendo si attivano le connessioni neuronali (creando sinapsi) e i concetti appresi sono immagazzinati nella memoria a lungo termine, quindi ricordati per sempre (Balboni, 2015). Le regole che invece vengono proposte dall'alto in modalità deduttiva non vanno in memoria profonda ma superficiale, quindi poi dimenticate (P. E. Balboni, 2008).

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La grammatica in ottica induttiva è il punto di arrivo e non di partenza, è come una tabella vuota da riempire con l'esperienza. Anche se lo studente è il protagonista in questa metodologia di apprendimento, il docente è comunque parte attiva del processo in quanto deve guidare lo studente e offrire gli input da osservare (Beacco et al., 2016).

Il docente deve promuovere la riflessività anche nel caso che non vi sia una particolare conoscenza da acquisire ma come esercizio cognitivo a sè. La riflessività non è infatti una attività specifica di una disciplina ma abbraccia tutta la didattica (Beacco et al., 2016).

«A seconda dei suoi particolari stili cognitivi, ciascun apprendente è dotato, in misura maggiore o minore, della capacità di valutare i suoi apprendimenti, i suoi punti di forza e debolezza e di essere consapevole di come risolvere i problemi individuati o di gestire le attività o i compiti che deve svolgere» (Beacco et al., 2016)

Il metodo induttivo è da sempre molto dibattutto, vi sono opinioni contrastanti in merito alla sua efficacia didattica e al possibile utilizzo. Siamo ancora molto abituati a trovare nelle scuole il metodo di studio meccanico, dogmatico e mnemonico della grammatica, la "grammatica normativa"(Colombo, 1997). Molti studiosi denunciano la scarsità di supporto e di promozione in ambiente scolastico della attività riflessiva degli studenti. Desideri (1995) afferma che la scuola inibisce e distrugge la capacità di riflessione metalinguistica che diventa, ad ogni passaggio scolastico, sempre più rigida e sclerotizzata. Anche Alichieri e Deon (1995) affermano che durante il percorso scolastico gli studenti perdono la capacità di riflettere autonomamente mentre sviluppano la visione di una lingua e di una grammatica basata esclusivamente sulla correttezza formale (ANDORNO & Sordella, 2018).

Riferimenti

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