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UN PERCORSO DI MOBILITÀ SOCIALE ED ECONOMICA NELLA TOSCANA DEL TRECENTO. LA FAMIGLIA CIAMPOLINI: COMMERCI, POLITICA E SOCIETÀ TRA SAN GIMIGNANO, PISA E IL MARE.

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Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di Laurea Magistrale in Storia e Civiltà

TESI DI LAUREA

UN PERCORSO DI MOBILITÀ SOCIALE ED ECONOMICA

NELLA TOSCANA DEL TRECENTO

La famiglia Ciampolini: commerci, politica e società

tra San Gimignano, Pisa e il mare

RELATORE

Prof. ssa Alma POLONI

CORRELATORE

Prof. Giuseppe PETRALIA

CANDIDATO

Daniele RIZZI

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INDICE

INTRODUZIONE: FORESTIERI, MERCANTI, CITTADINI p. 1

PARTE PRIMA

CAPITOLO I

I CIAMPOLINI A SAN GIMIGNANO (1285-1355) p. 6 1.1) Alle radici di un rapporto: la rete spinata del mondo mercantile. p. 7 1.2) Gli spazi di San Gimignano p. 9 1.3) Mercanti e macellai p. 11 1.4) …come amici e siccome cittadini pisani p. 14 1.5) Declino di una bourgade p. 16 1.6) Cambiamenti p. 18

CAPITOLO II

PISA, CAGLIARI, IL TIRRENO: UN MERCANTE A METÀ TRECENTO (1355-1369) p. 21 2.1) E Andrea Gambacorta con suoi seguaci se ne feciono signori p. 23 2.2) Lorenzo a Cagliari p. 25 2.3) La strada del successo p. 27

PARTE SECONDA

CAPITOLO III

UN RITORNO ALLA CITTÀ (ANNI ‘70) p. 29 3.1) Solea esser mercatante p. 29 3.2) La rete bergolina p. 32 3.3) Ildebrandino, speziale p. 34 3.4) Fedeli alleati p. 39

CAPITOLO IV

MERCANTI-BANCHIERI (ANNI ‘70/’80/’90) p. 41 4.1) E altro poso non dirlo: i Ciampolini e Francesco Datini p. 43 4.2) Tra grano e affreschi p. 49

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CAPITOLO V

UNA PARABOLA DISCENDENTE? (ANNI ’90 E QUATTROCENTO) p. 52 5.1) Una crisi sfiorata p. 54 5.2) Riservati dalla comune disgrazia p. 56 5.3) Due vicende per due rami p. 59 5.4) Usciti in punta di piedi p. 63

EPILOGO: ALLO STAMBECCO RECISO DI NERO p. 65

CONCLUSIONI p. 68

APPENDICI p. 71

BIBLIOGRAFIA, SITOGRAFIA E DOCUMENTI p. 78

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INTRODUZIONE

FORESTIERI, MERCANTI, CITTADINI

Lo studio della storia pisana tardomedievale ha subito un forte cambiamento di prospettiva nel corso dell’ultimo sessantennio. A partire dagli anni Cinquanta del Novecento, e ancora più nettamente dalla fine degli anni Settanta, gli storici si sono opposti con forza sempre maggiore a quella storiografia tradizionale che vedeva ogni evento cittadino dalla fine del Duecento in avanti sotto la lente di una inesorabile decadenza: la sconfitta contro Genova nella battaglia della Meloria nel 1284, l’arrivo della peste nel 1348, i continui stravolgimenti in politica interna ed estera, avrebbero dovuto far percepire a tutti - compresi noi osservatori - come scontata la sottomissione a Firenze del 14051.

Un tale atteggiamento aveva portato a trascurare a lungo i tratti peculiari della città, dei suoi abitanti e frequentatori, relegando quei segnali di dinamicità economica e istituzionale a contingenze straordinarie e quasi casuali per una potenza tramontata. In parte questa idea di fondo sopravvive nel pensiero comune, e non ci stupirebbe veder condividere ancora oggi le parole di Pietro Silva, che nel 1911 leggeva nella vita politico-economica pisana trecentesca un’assoluta funzionalità a Firenze e negli atteggiamenti della media borghesia cittadina una continua tendenza all’intesa cordiale a tutti i costi con i fiorentini2.

Sarebbe d’altronde un errore cadere nella semplificazione opposta: il Trecento pisano fu certamente un secolo turbolento, con fasi di depressione e stagnazione economica, di disordine politico e di conseguenti abbandoni della città, ma questo non significa che fossero sempre mancate le condizioni per l’ascesa di individui e di gruppi familiari. Il porto di Pisa aveva subito un ridimensionamento nella dimensione dei traffici e nella sua autorità, soprattutto per quanto riguardava il Mediterraneo orientale (da cui, come Repubblica con una sua autorità politica, era effettivamente sparita dalla fine del secolo precedente); ma questo non azzerò - né tantomeno ci permette di sottovalutare - il suo ruolo fondamentale come sbocco commerciale per l’entroterra toscano e in generale per tutto il commercio nel Mediterraneo occidentale (e non solo tirrenico)3.

Abbreviazioni archivi: ASPi = Archivio di Stato di Pisa; ASFi = Archivio di Stato di Firenze; ASS= Archivio di Stato di Siena; ASPo = Archivio di Stato di Prato; ACSG = Archivio comunale di San Gimignano.

1 Su questo argomento nel dettaglio v. S. Duval, A. Poloni e C. Quertier, Pise dans la seconde moitié du

XIVe siècle: sortir d’une vision décliniste, Roma 2017 e A. Poloni, Gli uomini d’affari pisani e la perdita della Sardegna. Qualche spunto di riflessione sul commercio pisano nel XIV secolo, in C. Iannella, Per Marco Tangheroni. Studi su Pisa e sul Mediterraneo medievale offerti dai suoi ultimi allievi [pp. 157-158], Pisa 2006.

2 P. Silva, Il governo di Pietro Gambacorta in Pisa, Pisa 1911, p. 1.

3 G. Pinto in I fiorentini nel Regno di Napoli in età angioina, in G. Pinto (a cura di), Firenze medievale e

dintorni, [pp. 41-57], Roma 2016, p. 45, afferma che «da porto mediterraneo si ridusse a porto tirrenico», ma

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Sarebbe quindi ben più adeguato distinguere nella storia cittadina trecentesca le fasi negative da altre di ripresa, dai margini sfumati: sul piano commerciale «è possibile parlare di vera e propria stagnazione economica soltanto per il ventennio successivo alla perdita della Sardegna, tra la fine degli anni ’20 e la fine degli anni ’40», a cui «seguì però una forte ripresa, i cui effetti divennero particolarmente evidenti a partire dagli anni ’70-’80»4. La situazione era molto più complessa e

altalenante rispetto alla tradizionale parabola discendente, e la città aveva ancora a disposizione un grande capitale umano e finanziario al momento della conquista fiorentina di inizio Quattrocento. Lo dimostrano le politiche fortemente repressive applicate in quel momento dalla nuova dominante sul ceto mercantile locale, volte evidentemente ad annullare ogni possibilità che quest’ultimo riuscisse a ricoagularsi e riaffermarsi, tornando minaccioso.

Il rapporto con Firenze era stato sempre tra i primi punti in agenda per la politica estera pisana (in questo secolo efficacemente riassumibile come «un jeu d’équilibriste diplomatique consistant à jouer de la rivalité entre Milan et Florence»), e quindi quasi costantemente motivo di divisione interna tra i fautori di una politica aperta e gli oppositori; gli agenti economici delle due città furono effettivamente in certi casi «partner […] complementari», ma anche in questo caso tentare di stabilire una linea fissa di comportamento della classe mercantile pisana - addirittura associandola ad un posizione politica unidirezionale e stabile - sarebbe riduttivo per la quantità di controprove esistenti5. Il rapporto tra l’affiliazione politica e le attività economiche dei cittadini sarà centrale in alcuni passaggi di questo lavoro.

L’intersezione tra politica ed economia è collegata a un altro dei paradigmi storiografici errati sulla storia politica di Pisa. Nei due principali partiti della città sono stati sempre identificati differenti ceti economici e quindi interessi politici nettamente contrapposti, in una continuità forzata con il secolo precedente. Si è individuato tradizionalmente il favore dei mercanti nei Bergolini, aperti al rapporto con gli agenti fiorentini, e il partito artigiano nei Raspanti, protezionista contro le produzioni estere inevitabilmente importate6. L’opposizione tra i due gruppi non è errata sul piano politico (fu anzi determinante per gran parte della politica pisana almeno dagli anni Quaranta del Trecento), ma concentrarsi su un’ipotetica composizione sociale si tratterebbe ancora una volta di ridurre un conflitto complesso a semplice scontro “di classe”, con l’identificazione automatica di un mercante

4 Poloni, Gli uomini d’affari pisani e la perdita della Sardegna, p. 157.

5 Le citazioni sono rispettivamente in Duval, Poloni, Quertier, Pise dans la seconde moitié du XIVe

siècle: sortir d’une vision décliniste, par. 3 e in S. Tognetti, Firenze, Pisa e il mare (metà XIV-fine XV sec.), in S.

Tognetti (a cura di), Firenze e Pisa dopo il 1406. La creazione di un nuovo spazio regionale [pp. 151-175], Firenze 2010, p. 157.

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o di un artigiano in uno dei due partiti, senza mezzi termini. Lo scontro tra Bergolini e Raspanti assunse in ogni momento di tensione le caratteristiche di un vero e proprio scontro tra fazioni variegate al loro interno dal punto di vista cetuale. Le singole famiglie non si affiliavano ad una delle due parti a seconda della loro professione o addirittura della simpatia che provavano per Firenze, ma c’erano anzitutto in gioco modelli di rivalità e amicizie che possiamo rintracciare in quasi ogni realtà comunale italiana.

Ci ritroviamo quindi davanti a un problema di semplificazione che in varie forme si è posto all’interno di ogni storiografia che abbia affrontato il rapporto di una città o di un borgo con la sua futura dominante, primi fra tutti i casi toscano e lombardo7.

I confini entro cui è racchiuso questo lavoro sono tuttavia più ampi della sola realtà pisana dell’ultimo XIV secolo, sia sul piano cronologico che su quello geografico. Mi sono infatti proposto di seguire una vicenda familiare, quella dei Ciampolini da San Gimignano, che si inserirono appieno nelle dinamiche sopra accennate, dimostrando la debolezza del paradigma di una ex potenza commerciale ormai decaduta e non più attraente per i mercanti-imprenditori. Le vite dei membri della famiglia, come quelle di molti altri simili a loro, si intrecciarono con la storia pisana, toscana e mediterranea, e gli eventi cruciali del Trecento giocarono un ruolo determinante nei punti di svolta. I dati certi sui Ciampolini all’inizio di questa ricerca erano l’oscura origine sangimignanese e una successiva fase di enorme successo commerciale dai confini sfumati ma comunque con base a Pisa nella seconda metà del Trecento. Gli anni Settanta del secolo coincisero anche con il primo ingresso di un membro della famiglia nel Consiglio degli Anziani pisani, dettaglio sorprendente per un forestiero e sicuro indice di un’ascesa sociale vertiginosa. Lavorare su ognuno degli elementi conosciuti ha permesso la ricostruzione di numerosi aspetti di storia economica, sociale, politica del contesto; viceversa per altrettanti elementi è stato più funzionale il percorso inverso, dal generale al particolare.

Le tematiche che si intrecciano in una trattazione del genere sono numerose e non sempre nettamente distinguibili tra loro. Come cornice generale credo sia comunque opportuno tenere presente una costante, quella delle varianti intrinseche nella circolazione di uomini e merci in quel determinato momento storico: accanto al ruolo fondamentale giocato dalla Peste del 1348 nella ridistribuzione di proprietà tra i superstiti - e quindi nella conseguente nuova fase di prosperità

7 Sulla questione v. ad esempio A. Poloni, Trasformazioni della società e mutamenti delle forme politiche

in un Comune italiano: il Popolo a Pisa (1220-1330), Pisa 2004 e F. Del Tredici, La popolarità dei partiti. Fazioni, popolo e mobilità sociale in Lombardia (XIV-XV secolo), in A. Gamberini (a cura di), La mobilità sociale nel Medioevo italiano 2 – Stato e istituzioni [pp. 305-334], Roma 2017.

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mediterranea8 - occorre riflettere anche su un cambiamento di mentalità negli uomini del tempo, una

sorta di ritrovato ottimismo che rimise in moto gli ingranaggi del commercio, compreso quello marittimo9. Molti mercanti mediterranei, e in larga parte anche le istituzioni delle località di transito

o di snodo, seppero approfittarne. Città come Pisa ritornarono con rinnovato slancio poli attrattivi soprattutto per personaggi e famiglie intraprendenti degli ormai spopolati centri minori. Entrarono dunque in gioco anche processi di inurbamento, guidati da motivazioni diverse ma quasi sempre riconducibili ad una volontà di cambiamento economico e sociale. Un cambiamento qualitativo ma anche quantitativo, poiché acquisire prestigio e fama nelle varie comunità mercantili implicava un aumento esponenziale delle merci che passavano tra le proprie mani e un contatto con circoli commerciali di entità maggiore che permetteva ascensioni come quella dei Ciampolini, da San Gimignano a Pisa passando per il Mediterraneo.

La questione fondamentale che ha guidato la mia ricerca è stata l’intersezione tra la storia del commercio tardomedievale e quella di un nucleo familiare. Su quali direttrici si muoveva una famiglia (che come vedremo incarnava pienamente uno spirito imprenditoriale quasi stereotipato) in un contesto che concedeva ancora ampie possibilità di investimento e di ascesa sociale? Quali cause determinavano movimenti e decisioni? E quali esiti potevano avere tali scelte, per il singolo e per il nucleo, quali conseguenze sulla sfera sociale, politica, addirittura artistica, oltre che economica?

Per facilitare l’esposizione il lavoro è composto di due parti, che abbracciano (nei limiti consentiti dalla documentazione) due secoli di storia, dalla metà del Duecento alla fine del Quattrocento. La prima parte, suddivisa in due capitoli, ricostruisce il contesto di partenza in cui ho potuto ritrovare le prime tracce dei membri della famiglia nel luogo d’origine e termina con l’arrivo del suo membro di maggior spicco a Pisa dopo la metà del Trecento, dopo un primo periodo di vertiginosa ascesa. La seconda parte, costituita da tre capitoli e dall’epilogo, si colloca quasi interamente nella città toscana e tratta della parte sommitale e discendente della parabola familiare.

8 La posizione “ottimista” sulla Peste Nera sembra ormai condivisa dalla maggior parte degli specialisti,

che non sminuiscono le drammatiche conseguenze psicologiche sulla popolazione decimata, ma semplicemente pongono l’attenzione su aspetti diversi. Dopo il 1348 la peste divenne endemica in Europa, tornando a più riprese (1362-63, ’73-’74, 1400): quasi una nuova presenza davanti a cui le società dovettero prima resistere e poi trasformarsi (v. Duval, Poloni, Quertier, Pise dans la seconde moitié du XIVe siècle: sortir d’une vision décliniste, par. 3).

9 Per il caso pisano questione del commercio marittimo sembra ancora in parte controversa, in linea con

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È necessario almeno accennare alle condizioni in cui gran parte di questa ricerca è stata condotta ed elaborata, poiché si tratta di una contingenza storica che ha già portato enormi cambiamenti nell’economia mondiale e probabilmente anche nella mentalità di chi la sta vivendo, proprio come una Peste del XXI secolo. Nel momento in cui scrivo queste righe il mondo sembra aver appena superato la fase peggiore di una pandemia di COVID-19, un virus che colpisce le vie respiratorie. L’Italia è rimasta in assoluta quarantena dai primi giorni di marzo all’inizio maggio, quando alcune restrizioni sono state rimosse, nonostante i segnali di miglioramento non siano assolutamente definitivi. In queste condizioni si è rivelato fondamentale poter lavorare tramite database e risorse digitalizzate online, che mi hanno permesso di lavorare da casa durante la reclusione quasi come se fossi in biblioteca o in archivio: aveva ragione Régine Pernoud, quando già nel 1977 scriveva che «i moderni mezzi di sfruttamento dei documenti» avrebbero permesso «di rinnovare ed estendere lo studio delle carte medievali»; l’informatica era già destinata «a rendere immensi servizi»10. Credo che chiunque abbia avuto a che fare con la ricerca, in qualsiasi ambito, se ne sia reso conto senza riserve durante questi mesi.

Ma soprattutto internet, nonostante l’insostituibilità dei rapporti umani coltivati di persona, mi ha permesso di continuare in qualche modo l’esperienza universitaria cominciata poco meno di due anni fa a Pisa, restando in contatto con tutte le persone a cui vanno i più grandi ringraziamenti per il suo compimento. Una su tutte, la mia relatrice Alma Poloni, che non ha mai smesso di condividere il suo entusiasmo e il rispetto per la materia fin dalla prima lezione di esegesi delle fonti storiche medievali, dedicandomi tempo e pazienza ogni volta che l’ho braccata nei corridoi. Un pensiero va anche a tutti i professori e i ricercatori del dipartimento, che non hanno mai esitato ad aiutarmi quando ho avuto bisogno di un consiglio, di un confronto, di una spiegazione.

E infine grazie ai pisani, che dell’accoglienza di noi forestieri hanno sempre fatto una delle loro più grandi ricchezze.

A tutte le vittime del COVID-19

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PARTE PRIMA

CAPITOLO I

I CIAMPOLINI A SAN GIMIGNANO

(1285-1355)

Sarebbe impossibile elaborare una trattazione specifica come è quella familiare senza una contestualizzazione adeguata, quantomeno riguardo a ciò che influì sulle decisioni di individui e gruppi oggetto della ricerca. In questo senso mi è sembrato un valido punto di partenza ricercare le radici del rapporto commerciale tra San Gimignano e Pisa, anche se situate in pieno XIII secolo, un momento lontano dal cuore di questo lavoro: dopotutto una famiglia che decideva di trasferirsi dall’una all’altra realtà soprattutto per scopi commerciali lo faceva presumibilmente su basi che considerava solide e risalenti nel tempo, verso un luogo che aveva una dimensione di rilievo anche nell’immaginario dei migranti.

Le cause di uno spostamento nel corso della storia, i push and pull factors della sociologia anglosassone, non si possono mai definire nella loro complessità con precisione assoluta, e questo vale anche per il Medioevo; erano certamente numerose e complesse perché includevano una dimensione familiare più ristretta, una sociale, una politica, insieme a tanti elementi contingenti che non possiamo conoscere o azzardare senza sconfinare nel delicato campo della storia della mentalità. Fa parte tuttavia del mestiere proporre ipotesi adeguate al contesto a partire dalle fonti a disposizione.

Un ramo rilevante dei Ciampolini lasciò San Gimignano per Pisa insieme ad altre famiglie sicuramente prima del 1355, come dimostrato da una cronaca locale scritta nello stesso anno: proprio questa fonte è stata il mio punto di riferimento iniziale per ipotesi e ricostruzioni precedenti e successive. Le tracce rimaste nel luogo d’origine nella prima metà del secolo sono poche, e la ricostruzione dei rapporti tra i membri e delle loro attività è stata in parte ipotetica: la prima comparsa del cognome risale al 1336 e non ho rintracciato comunque apparizioni esatte fino al 1350. Mi sono quindi basato sul ricorrere dei nomi, su parentele esplicite e professioni: ne è emerso il piccolo spaccato di una realtà borghigiana che dal punto di vista economico e sociale è stata studiata in modo complessivo per l’ultima volta molto tempo fa e che necessiterebbe di un organico rinnovamento.

Mi riferirò a San Gimignano preferibilmente come a una bourgade, nell’accezione data da Charles Marie de La Roncière, ossia «agglomerazioni attive di qualsiasi dimensione a vocazione mercantile» in cui i mercanti «costituiscono i quadri privilegiati di una società varia ed animata, con il suo quantitativo di artigiani, di uomini di legge, di notai, di religiosi, di proprietari fondiari, di uomini

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tuttofare; in altri termini: una città in miniatura»11. Chiamare San Gimignano bourgade significa tener

da conto il fatto che agli abitanti mancasse effettivamente solo un vescovo per diventare cittadini, elemento che la definizione di borgo non è sufficiente a definire per questioni demografiche, economiche, di prospettiva e composizione sociale.

1.1) ALLE RADICI DI UN RAPPORTO: LA RETE SPINATA DEL MONDO MERCANTILE

Cominciando dagli aspetti commerciali più risalenti, per il rapporto tra San Gimignano e Pisa è risultato illuminante il saggio Crocuses and crusaders: San Gimignano, Pisa and the Kingdom of Jerusalem di David Abulafia12. Vi viene ricostruita la filiera che permetteva allo zafferano – il grocus nelle fonti - di San Gimignano e di tutta la Valdelsa di essere probabilmente il più commerciato del Mediterraneo (e certamente dell’area occidentale) tramite numerose rotte marittime verso Oriente che avevano in Pisa il loro naturale luogo di imbarco13; i traffici fiorirono interamente all’interno del XIII secolo, con una prima traccia nel 1221 e andando a scemare a partire dalla perdita di Acri nel 129114. Proprio questa città costituiva infatti lo snodo tra le rotte mediterranee e quelle terrestri, soprattutto verso Aleppo e Tripoli.

Ad interessarci è il fatto che tutta la tratta che andava da San Gimignano alle destinazioni finali passando per Pisa ed Acri rimanesse nella quasi totalità dei casi in mano a mercanti di San Gimignano dall’inizio alla fine15; costoro non erano tuttavia gli unici ad esserne avvantaggiati, poiché mentre i

sangimignanesi ottenevano il ricavo diretto delle loro esportazioni, i pisani guadagnavano dal noleggio delle loro navi per i trasporti. Non solo: gli uomini di San Gimignano agivano sulle piazze estere qualificandosi direttamente come pisani, ottenendo di conseguenza i privilegi commerciali garantiti ai cittadini della repubblica nei porti mediterranei e consistenti soprattutto in sconti sulle tariffe di dogane e depositi (i dazi sulle importazioni ad esempio scendevano dal 4% al 2%)16; in

cambio della “cittadinanza nominale” i mercanti sangimignanesi accettavano di sottomettersi ai consoli pisani e alla loro giurisdizione nelle varie piazze commerciali estere, pagando loro anche una piccola percentuale su ogni trattativa conclusa e soprattutto una sorta di imposta di successione

11 C. M. de La Roncière, Firenze e le sue campagne nel Trecento. Mercanti, produzione, traffici, Firenze

2005, p. 397.

12 in D. Abulafia, Italy, Sicily and the Mediterranean. 1100-1400, Londra 1987. 13 Ivi, p. 227.

14 Ivi, p. 228. Dopo questo momento il commercio dello zafferano sembra aver comunque continuato a

prosperare a livello locale (v. C. M. de La Roncière, Firenze e le sue campagne nel Trecento. Mercanti,

produzione, traffici, p. 4).

15 Abulafia, Italy, Sicily and the Mediterranean. 1100-1400, p. 231.

16 F. Cardini, La Toscana Medievale e l’Oriente musulmano, in Studi in onore di Giovanni Donini,

«Oriente Moderno», anno 24 (85), n. 2/3 [pp. 363-375], p. 366. Erano sottomessi ai consoli pisani in Terrasanta anche lucchesi e senesi, oltre ai fiorentini fino al 1324, quando Bardi e Peruzzi ottennero «autonomamente la riduzione dei dazi» (ivi, p. 365).

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qualora morissero in zone sotto il loro controllo17. In questo modo tutti gli agenti in gioco ottenevano

il massimo del guadagno con uno sforzo minimo. Pisa garantiva vantaggi enormi (compresa la protezione dei consoli in aree non sempre sicure, elemento da non sottovalutare) a chiunque fosse stato disposto ad agire sotto alla sua autorità. Ne era il naturale sviluppo l’affermarsi come punto di riferimento per mercanti di un borgo dinamico come San Gimignano, dotati spesso di capitali consistenti e desiderosi di investire nel commercio internazionale, l’attività che con le mosse corrette diventava la più fruttuosa in assoluto. Secondo questa logica l’orizzonte commerciale delle località toscane orientate all’esportazione si legò a quello di Pisa, o per dirla come Abulafia «the Tuscans simply followed where the Pisans led them»18.

In linea con questa cronologia, è attestato al 21 febbraio 1238 l’accordo tra il podestà pisano Buonaccorso del fu Enrico de Cane e i procuratori di arti e mercanti di San Gimignano, che assegnava ai mercanti di quest’ultima due case a Pisa, una per gli uomini e una per gli animali19; il corrispettivo d’affitto per il comune consisteva in mezzo denaro per ogni lira di merci importate in città20. Entrambi

gli edifici si trovavano nella parrocchia di Santa Cristina a Kinzica, il quartiere che sarebbe rimasto il riferimento per tutta l’immigrazione rurale ed estera verso Pisa per almeno altri due secoli. Non ci risulta difficile immaginare che a Pisa in quel momento vivessero già, più o meno stabilmente, numerosi mercanti in cerca di fortuna. Ma questo era solo l’inizio.

Il rapporto tra San Gimignano e Pisa nei mercati mediterranei una volta terminato il secolo d’oro dello zafferano - per quanto in parte ridimensionato - continuava ancora a metà del Trecento (e quindi nel pieno della presunta decadenza della repubblica). Lo attesta una fonte letteraria decisamente autorevole: il Decameron di Giovanni Boccaccio. L’autore assegna a Filomena la quinta novella della quarta giornata (gli amori infelici), di cui questo è l’incipit:

Erano adunque in Messina tre giovani fratelli e mercatanti, e assai ricchi uomini rimasi dopo la morte del padre loro, il quale fu da San Gimignano; e avevano una loro sorella chiamata Elisabetta, giovane assai bella e costumata, la quale, che che se ne fosse cagione, ancora maritata non aveano. E avevano oltre a ciò

17 Abulafia, Italy, Sicily and the Mediterranean. 1100-1400, p. 236. 18 Ivi, p. 243.

19 G. Volpe, Studi sulle istituzioni comunali a Pisa. Città e contado, consoli e podestà (secoli XII-XIII),

Firenze 1970, p. 436n.

20 P. Cammarosano, Documenti fiorentini per la storia di San Gimignano nel Duecento e nel primo

Trecento, in F. Ciappi e O. Muzzi (a cura di), Studi in onore di Sergio Gensini, «Biblioteca della Miscellanea

storica della Valdelsa» n. 25 [pp. 99-104], Firenze 2013, p. 100; documento: ASFi, Diplomatico, San Gimignano, Comune, 1238 Febbraio 21.

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questi tre fratelli in un lor fondaco un giovinetto pisano chiamato Lorenzo, che tutti i lor fatti guidava e faceva […]21

Al di là del tragico amore di Lisabetta da Messina («Chiusa entro la rete spinata del mondo mercantile») e Lorenzo, è in questa sede opportuno riflettere sulle “nazionalità” dei personaggi22. Boccaccio scrisse la sua opera tra il 1349 e il 1352, facendo riferimento a un immaginario, quando non classico-mitologico, vicino a quegli anni o perlomeno ancora conosciuto dal suo pubblico, anche nel caso di novelle che circolavano da qualche tempo. Vediamo agire qui i figli di un mercante di San Gimignano che si era trasferito a Messina, evidentemente in funzione dei suoi affari, i quali continuano con profitto l’attività paterna ormai ben avviata; in un lor fondaco lavora, probabilmente come garzone o al più come sensale, un pisano.

La scelta del narratore non sembra casuale, e anche se l’ispirazione per la novella fosse venuta da un reale evento di cronaca sarebbe per noi significativa la scelta del Boccaccio di utilizzarlo23. Ci segnala infatti che la collaborazione tra sangimignanesi e pisani era ancora un elemento ben presente nella mente della collettività a metà di un secolo in cui un rapporto tra le due località sembrerebbe improbabile, al punto di poter essere inserito in una raccolta di novelle senza destare estraneità nei lettori, i quali sapevano che c’era un legame tra pisani e sangimignanesi in ambito mercantile.

La presenza di fitti rapporti tra San Gimignano e Pisa non si concretizzava quindi solo in una dimensione regionale, anzi, trovò i suoi migliori sviluppi in campo commerciale proprio sulle piazze estere. Gli aspetti politici scendevano di conseguenza in secondo piano finché non interferivano con il commercio, dato che la priorità assoluta rimaneva garantire continuità nel flusso di uomini, di merci, di capitali.

1.2) GLI SPAZI DI SAN GIMIGNANO

L’esempio del commercio abituale con il Vicino Oriente dimostra come le famiglie mercantili sangimignanesi eminenti tra Duecento e Trecento fossero emerse in un contesto decisamente dinamico. San Gimignano era un punto di passaggio obbligato per uomini e merci, sul tracciato originario della via Francigena e all’incrocio delle direttrici Pisa-Siena e Volterra-Firenze. Al 1147 risaliva la prima istituzione comunale, mentre il primo podestà fu eletto nel 1199. È anche il comune di cui ci siano pervenuti i frammenti di verbali consiliari più risalenti, datati 122924.

21 Giovanni Boccaccio, Decameron, ed. a cura di A. E. Quaglio, Milano 2008. 22 Cit: ivi, p. 333.

23 Secondo A. E. Quaglio l’ispirazione della novella sarebbe provenuta da una canzonetta citata dallo stesso

Boccaccio al termine della stessa, dunque non da modelli del racconto precedenti; Decameron, p. 381.

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Forse proprio a causa della vicinanza di centri ingombranti come Siena e Firenze o di altri minori come Volterra (sede della diocesi), Prato e San Miniato, per l’élite sangimignanese era stato necessario concentrarsi su fonti di reddito diverse da un semplice controllo territoriale, come appunto il commercio sulla lunga distanza. Questo non significa peraltro che San Gimignano non fosse riuscita a ritagliarsi un certo controllo - costituendo un vero e proprio contado - su località vicine, come dimostrato ad esempio dalle numerose e ripetute sottomissioni riportate nel Libro bianco del Comune25. Nel 1251 la bourgade trovò una nuova forma di reggimento politico nell’elezione di dodici capitani e rettori del popolo, tre per ognuno dei quattro quartieri26.

Come accennato, la posizione di San Gimignano consentì alle finanze comunali di fondarsi almeno fino al 1276 esclusivamente «sui proventi del passaggio lungo la via Francigena e sul denaro riscosso tramite il dazio sulla Libra», oltre che sulle multe per condanne giudiziarie27. L’entità del traffico di merci e persone permetteva di mantenere sui pedaggi un tasso minimo che favoriva più di tutti i sangimignanesi stessi.

È facile immaginare in questo contesto l’affermazione di un ceto imprenditoriale-mercantile stabile e compatto che aveva la possibilità di mettere da parte una quota di denaro consistente per investimenti anche sulla lunga distanza, soprattutto grazie ad una pressione fiscale relativamente lieve sui beni immobili e sui trasporti. In aggiunta, per quanto riguarda il conflitto tra i partiti guelfo e ghibellino locali si può parlare di un secolo meno divisivo che altrove, dato che i bandi dell’una o dell’altra parte, seppur frequenti, durarono sempre pochi anni e non frammentarono il ceto dirigente poiché colpivano con l’allontanamento solo i membri di spicco delle fazioni; ciò permise un arricchimento ben distribuito accanto ad un grande sviluppo urbanistico, sia all’interno che all’esterno del nucleo originale dell’abitato, quasi sempre finanziato privatamente dalle famiglie stesse28.

A spezzare l’equilibrio fu l’escalation di conflitti interni alla Toscana degli ultimi decenni del Duecento, che si dimostrarono impossibili da sostenere con un apparato finanziario poco pervasivo e basato esclusivamente su pedaggi e prelievi occasionali come era ancora quello del comune sangimignanese. Dopo le vittorie su Pisa ad Asciano (1275) e sul Fosso Rinonico (1276) da parte della Lega Guelfa, di cui faceva parte anche San Gimignano, le finanze della bourgade erano allo

25 D. Ciampoli (a cura di), Il libro bianco di San Gimignano. I documenti più antichi del comune (secoli

XIII-XIV), Siena 1996.

26 L. Pecori, Storia della terra di San Gimignano, Firenze 1853, p. 72.

27 R. Castiglione, Le gabelle del Comune di San Gimignano nei secoli XIII e XIV, in «Miscellanea storica

della Valdelsa», nn. 315/317 [pp. 21-51], Firenze 2010, p. 22.

28 E. Guidoni e S. Manacorda, voce San Giminiano, in «Enciclopedia dell’Arte Medievale», Treccani,

1999. Su guelfi e ghibellini sangimignanesi: D. Waley, Guelphs and Ghibellines at San Gimignano, c.

1260-c. 1320: a political experiment, in «Bulletin of the John Rylands University library in Manchester», n. 72 [pp.

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stremo e fu necessario correre ai ripari. Già da alcuni anni il comune aveva trasformato i prelievi occasionali in un’imposta fissa, ma un ulteriore rialzo dei dazi nel 1276 fece raggiungere al ceto mercantile il punto di rottura e il pagamento venne di fatto ignorato. Si optò quindi per un nuovo sistema di gabelle stabili basato sui fuochi ad esplicita imitazione dei modelli lucchese, fiorentino e senese, da accompagnare ad un progressivo alleggerimento dei dazi29.

Apparentemente il nuovo sistema di prelievi riuscì a reggere almeno in parte, garantendo per almeno tutto il decennio successivo un afflusso di denaro non sempre costante ma perlomeno di una certa entità: per i primi mesi del 1285 gli introiti registrati dal comune sono bassi, per poi incrementare grazie al recupero di arretrati e prelievi dal contado30.

1.3) MERCANTI E MACELLAI

È ora opportuno distogliere l’attenzione dal contesto, perché proprio nel 1285 è stato possibile collocare la prima traccia della famiglia Ciampolini31. Ma andiamo con ordine: date le grandi incertezze causate dalle fonti, è stato necessario procedere a ritroso a partire da quella documentazione che si riferisce alla famiglia senza alcun margine di dubbio. In questo senso i documenti cardine risalgono entrambi agli anni Cinquanta del Trecento: si tratta del Libro delle Bocche di San Gimignano del 1350, utile per l’individuazione dei primi nomi di una genealogia ampia e ramificata, e della Cronachetta di San Gemignano, scritta da Fra Matteo Ciaccheri nel 1355, a cui ho accennato all’inizio del capitolo32.

Partiamo da quest’ultima: l’opera è un breve poema tra il serio e il faceto il cui primo intento era presentare una carrellata degli eventi principali della bourgade nei decenni antecedenti la stesura, ma soprattutto elencare le principali famiglie che vi avevano agito, talvolta affiancandovi alcune caratteristiche. Tra i versi 103-105 appaiono quelle che si erano dedicate alla mercatura: «Stannovi [a Pisa] Ciampolini [con Mosca e Jesi]». È un dato fondamentale, perché garantisce che nel 1355, al momento della stesura del poemetto, il nucleo della famiglia si era certamente già spostato da San Gimignano, perciò le cause e il momento della partenza vanno ricercati negli anni precedenti.

29 Castiglione, Le gabelle del Comune di San Gimignano nei secoli XIII e XIV, pp. 24 e 27. 30 Ivi, p. 32.

31 “Ciampolini” deriva quasi certamente da una contrazione di Gian/Giampaolo (quindi letteralmente i

discendenti di un Giampaolino), come dimostrano anche casi di utilizzo del nome Ciampolo/Ciampolino almeno dall’inizio del Trecento.

32 Per il Libro delle Bocche v. E. Fiumi, Storia economica e sociale di San Gimignano, Firenze 1961, p.

249; documento: ACSG, P 59, cc. 61-62. L’opera del Fiumi, nonostante alcune naturali imprecisioni dovute ai sessant’anni di ricerca successivi, risulta tuttora una fonte sorprendentemente efficace anche per questo tipo di ricerca, oltre che la più completa in assoluto sulla San Gimignano medievale.

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Anche Giovanni Vincenzio Coppi nella sua opera celebrativa del 1695 Annali, memorie ed huomini illustri di Sangimignano fece riferimento alla Cronachetta del Ciaccheri. Apparire nel poemetto trecentesco assicurava ai Ciampolini la presenza nell’elenco fatto dal Coppi delle trecentoquarantasei «famiglie nobili e potenti in San Gimignano»33; ne rilevò lo spostamento a Pisa, «nella quale città anticamente si partirono da S. Gimignano, ed andarono le famiglie de’ […] Ciampolini»34. Sulla stessa linea Enrico Fiumi avrebbe parlato di loro tra le famiglie emigrate «per ragione dei loro commerci»35.

Per facilitarne lo studio si può quindi concepire la storia della famiglia Ciampolini come divisa in due fasi, una precedente al 1355, legata a San Gimignano e meno ricostruibile, e una successiva, gravitante attorno a Pisa e su cui disponiamo di una documentazione molto più ampia.

Per quanto riguarda il Libro delle Bocche del 1350, appaiono finalmente dei nomi propri: Matteo di Vanni Ciampolini e Lorenzo di Chele Ciampolini risultano residenti nel quartiere di San Giovanni. A questo punto per procedere abbiamo a disposizione quattro nomi da sfruttare nella ricerca (Matteo, Vanni, Chele, Lorenzo): in particolare occorre prestare attenzione ad eventuali Vanni e Chele - padri di Matteo e di Lorenzo - in qualche modo relazionati tra loro nei decenni precedenti a questo. Le liste di nomi raccolte dal Fiumi per esemplificare aspetti economici del primo Trecento si sono rivelate fondamentali: sia nel 1320 che nel 1340 Vanni e Chele di Ciuccio apparivano negli elenchi dei macellai che prestavano giuramento a San Gimignano36. A metà tra le due date, nel 1332, «Vannes

Ciuccii et fratres» (dunque Vanni, il fratello Chele e almeno un altro individuo) sono inclusi nel pagamento di una gabella speciale sul capitale mobile investito al di fuori della bourgade37: ci indica

che la famiglia, accanto all’attività di macellai, ne praticava anche una di natura mercantile. A dimostrare che si trattava di investimenti di quel tipo è la presenza nella stessa gabella di altre famiglie che sappiamo per certo praticassero abitualmente il commercio. Troviamo Chele di Ciuccio ancora una volta nel 1318, segnalato come macellaio e proprietario terriero38.

Chiude l’ascendenza un Ciuccio di Ildebrandino, presente nel giuramento dei macellai sangimignanesi addirittura del 128539; reputo possibile collocare quest’ultimo nel quadro familiare

33 G. V. Coppi, Annali, memorie ed huomini illustri di Sangimignano, Firenze 1695, p. 19. 34 Ivi, p. 219.

35 Fiumi, Storia economica e sociale di San Gimignano, p. 74 36 Ivi, p. 147.

37 Ivi, pp. 80-81; documento: ACSG, P 78 – FRA cc. 166-167; ACSG, Delibere e partiti, 470, cc.

167r-171v; sulla gabella v. anche Castiglione, Le gabelle del Comune di San Gimignano nei secoli XIII e XIV, p. 50 e S. Mori, Documenti e proposte per una ricerca prosopografica sulla famiglia Salvucci di San Gimignano

(secoli XIII-XIV), in F. Ciappi e O. Muzzi (a cura di), Studi in onore di Sergio Gensini [pp. 137-177], p. 139n

38 Fiumi, Storia economica e sociale di San Gimignano, p. 301. 39 Ivi, p. 108.

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sia per la sua professione che per la presenza di un Ildebrandino di Ciuccio tra i discendenti (suo figlio o suo nipote ex filio), che apparirà però solo negli anni Settanta del Trecento e per il quale sarebbe stato utilizzato quindi il nome di un vicino parente (v. cap. III). Nel 1329 un Ciuccio di Ciuccio viveva a San Giovanni, lo stesso quartiere in cui risiedevano Vanni e Chele; per le stesse ragioni di Ciuccio di Ildebrandino reputo anche lui un membro della parentela in quanto fratello di Vanni e Chele40.

Riassumendo, per ora conosciamo:

• Ciuccio di Ildebrandino (Ciuccio I): macellaio nel 1285. L’esistenza di un Ildebrandino di Ciuccio Ciampolini a Pisa tra gli anni Settanta e Ottanta del Trecento, imparentato sicuramente con Lorenzo di Chele Ciampolini, consente di collocare Ciuccio I nella famiglia, insieme alla professione di macellaio che praticavano anche Vanni e Chele di Ciuccio Ciampolini, due dei figli.

• Vanni di Ciuccio: macellaio con il fratello Chele nel 1320 e 1340; mercante nel 1332: nella gabella si parla di Vanni di Ciuccio «e fratelli», di cui uno era certamente Chele; padre di Matteo Ciampolini. • Chele di Ciuccio: macellaio e proprietario terriero nel 1318, segnalato come macellaio ancora nel 1320 e nel 1340; uno dei fratres di Vanni che praticavano il commercio estero nel 1332; padre di Lorenzo Ciampolini.

• Ciuccio di Ciuccio (Ciuccio II): indicato come residente nel quartiere di San Giovanni nel 1329; potrebbe essere un fratello di Vanni e Chele. Per ora terremo da parte la possibilità di un quarto fratello più giovane, Ildebrandino di Ciuccio, che potrebbe anche essere il figlio di questo Ciuccio e appartenere quindi a una generazione successiva41.

• Matteo di Vanni, residente a San Giovanni nel 1350. Va rilevata la presenza di un ser Matheus ser Vannis nella matricola dei notai di San Gimignano redatta nel 1347, ma nonostante il cognome qui sia assente si tratta di Matteo di Vanni dei Becci, uno dei redattori dello statuto42. Un Ciampolini notaio avrebbe d’altronde lasciato almeno un minimo numero di tracce, utilizzando il proprio cognome.

• Lorenzo di Chele, residente a San Giovanni nel 1350.

40 Ibid.

41A rendere difficoltosa la collocazione di Ildebrandino è la sua tarda apparizione nelle fonti (1372).

Tratterò di lui in modo approfondito nel capitolo III.

42 J. Paganelli, «Et hec vocetur matricula notariorum terre Sancti Geminiani». Lo statuto e la matricola

dei notai sangimignanesi del 1347, in «Miscellanea storica della Valdelsa» CXXV [pp. 3-22], Firenze 2019,

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Ildebrandino (prima del 1285)

Ciuccio I di Ildebrandino (1285)

Vanni (1320, ’32, ’40) Chele (1318, ‘20, prob. ’32, ’40) Ciuccio II (1329, prob. ’32)

Matteo (1350) Lorenzo (1350) [Ildebrandino (1373…)]

(Per l’albero genealogico generale v. Appendice II)

1.4) …COME AMICI E SICCOME CITTADINI PISANI

L’indicazione del quartiere di residenza della famiglia non è un dato superfluo: in un estimo del 1336 una famiglia “Ciambolini” risultava tra i proprietari di una casa a San Giovanni43; si è visto che lo stesso Ciuccio di Ciuccio nel 1329 abitava qui, così come i parenti Matteo e Lorenzo nel 1350. Un ulteriore dato è che la sepoltura di famiglia dei Ciampolini era collocata nella Chiesa di San Francesco, sull’arteria principale del quartiere44. Si può quindi affermare senza esitazione che i

Ciampolini vissero nel quartiere di San Giovanni probabilmente per tutta la storia borghigiana della famiglia. Questo potrebbe dimostrare, insieme al cognome (un comune patronimico senza legami con personaggi eminenti del Duecento), un’origine umile e il trasferimento relativamente recente all’interno delle mura di San Gimignano, poiché è indicato come il quartiere preferito da chi arrivava dal contado tra XIII e XIV secolo45.

Questo passaggio ci permette di completare il percorso sugli avvenimenti nella bourgade in quei decenni. Nella seconda metà del XIII secolo la struttura comunale sangimignanese aveva raggiunto la sua completezza con l’allargamento dei seggi nei consigli; nel frattempo la pratica della mercanzia continuava a far arricchire quegli abitanti che riuscivano ad inserirsi nei circuiti commerciali di medio ed ampio raggio, grazie agli sforzi per mantenere rapporti equilibrati sia con Firenze che con Pisa46.

43 ASS, Estimo del contado 186; v. anche G. Casali, San Gimignano. L’evoluzione della città tra XIV e

XVI secolo, Firenze 1998, p. 147.

44 R. Razzi, Le chiese dei frati Minori di San Gimignano, Poggibonsi 2009, p. 52. I Ciampolini avrebbero

finanziato un affresco alla fine del secolo nella chiesa di San Francesco di Pisa, forse in memoria della parrocchia d’origine (v. cap. IV).

45 Casali, San Gimignano. L’evoluzione della città tra XIV e XVI secolo, p. 22. 46 Pecori, Storia della terra di San Gimignano, p. 76.

Genealogia dei primi Ciampolini. I legami incerti sono indicati con la linea tratteggiata.

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Anche il ritiro dei mercanti da quest’ultima, dovuto ai conflitti tra Guelfi e Ghibellini toscani degli anni Ottanta del Duecento, fu di breve durata47.

Nel 1308 San Gimignano - in cui la presenza fiorentina era sempre più pervasiva - cominciò una lunga e logorante guerra contro Volterra, arrivando ad un naturale, ulteriore, scontro con Pisa: è tuttavia interessante notare che in ogni momento di trattativa per la tregua (1310, 1314 e 1317) gli emissari pisani non persero l’occasione per ricordare i rapporti stretti che la loro città intratteneva con i sangimignanesi. Luigi Pecori riporta l’incipit del discorso letto da un legato davanti al Consiglio di San Gimignano nel 1310: «Lo Comune di Pisa e li Pisani ebbero ed ano del tempo del quale non è memoria, et ora lo Comune e li huomini di San Gimignano per amici spesiali, tractando loro come amici e siccome cittadini Pisani in tutte parti e luoghi»48. Al di là della retorica diplomatica, è interessante vedere i riferimenti ad un’amicizia risalente nel tempo che i pisani prima di tutti volevano tenere viva. Lo stesso termine amici sembra ricordare la terminologia che i mercanti mediterranei avrebbero usato tra loro per la corrispondenza privata nella seconda metà del secolo. A prescindere dall’andamento della guerra e dalla situazione confusionaria della regione (che si concretizzava nella presenza di ghibellini, guelfi bianchi e guelfi neri che si scontravano in modi diversi per ogni singolo centro abitato), l’interesse a trattare dovunque i sangimignanesi «siccome cittadini Pisani» è significativo: ricorda il “trattamento di favore” che abbiamo visto applicare nel commercio verso il Levante nel secolo precedente. Non è esagerato vedere qui la volontà di preservare traffici che erano fondamentali per la vitalità dei centri – ancor prima dei rapporti politici – in un momento complicato per tutte le realtà toscane.

Rapporto con Pisa da una parte, con Firenze dall’altra: le richieste fiorentine di uomini armati e prestiti finanziari a una San Gimignano ormai nettamente nella sua orbita risultavano sempre più pressanti con il passare del tempo, anche per la difesa della bourgade stessa. Nel 1290 fu necessario mobilitare centosessanta fanti sotto l’insegna del comune e fornirne duecento ai fiorentini, oltre a versare 105 fiorini d’oro a bimestre per la Lega guelfa49; nel 1305 il comune dovette assoldare trecento fanti per 500 lire50; nel 1312 servirono cinquanta cavalieri e duecento fanti per proteggere Firenze dall’assedio di Enrico VII51. A tutto questo si accompagnava intanto il conflitto su scala

minore contro Volterra e Pisa, che solo nel 1308 richiese duemila fanti e trecento cavalieri52.

47 Ivi, p. 111.

48 Ivi, p. 135; rif. Ai Libri di Provvigione del Comune. 49 Ivi, pp. 114-115.

50 Ivi, p. 125. 51 Ivi, p. 136. 52 Ivi, p. 129.

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Erano spese che il comune non poteva sostenere in modo costante. Per tentare di rimediare si istituirono prestiti forzosi, nuove gabelle e tariffe doganali, ma l’aumento del debito pubblico fu inevitabile; con il senno di poi, il Pecori non esagerava a definirlo «uno dei primi tarli segreti che ne [di San Gimignano] prepararono la decadenza»53. Fu probabilmente tale situazione di emergenza, unita alla definitiva affermazione di alcuni nuclei familiari (che gravitavano intorno ai Salvucci e agli Ardinghelli in senso fazionale), a portare ad una “serrata ereditaria” del consiglio comunale almeno dal 1314: da quell’anno lo statuto iniziò a prevedere che ognuno dei consiglieri, al termine del mandato, scegliesse il suo successore54.

Le spese non diminuirono nel periodo di Castruccio Castracani in Toscana (terminato nel 1328), né nei due decenni successivi. Se la gabella sul capitale mobile del 1332 in cui appaiono i fratelli Ciampolini da un lato ci dimostra la presenza salda di un ceto mercantile (anche se fortemente ibridato con quello artigiano) a San Gimignano, dall’altro manifesta la debolezza finanziaria - e possiamo immaginare anche politica - del comune: l’imposta era di 14 soldi per ogni 100 fiorini dichiarati, l’introito su 9692 fiorini dichiarati fu solo di 67 lire e 16 soldi (corrispondenti a 20 fiorini)55. Come

osservato da Roberto Castiglione, se anche si fosse trattato di una gabella mensile o bimestrale e non annuale, l’introito del comune sarebbe stato di soli 100 o 200 fiorini l’anno: una cifra che anche sommata agli altri incassi comunali sarebbe risultata «troppo bassa per poter essere di qualche utilità all’erario, in grado di spendere dai sei agli ottomila fiorini» annuali56.

1.5) DECLINO DI UNA BOURGADE

Nel 1336 Firenze chiedeva ancora a San Gimignano 5000 fiorini per le spese difensive, una cifra evidentemente impossibile da pagare per il comune: lo dimostra anche una drastica riduzione della richiesta, abbassata a 2400 fiorini da pagare entro l’anno57. È a questo periodo che il Pecori si riferiva

come ai «Preludj di soggezione a Firenze», locuzione da ridimensionare (il comune agiva ancora in modo totalmente autonomo), ma come abbiamo visto non del tutto errata58.

Il passaggio sotto l’effettiva dominazione fiorentina avvenne in due fasi: nel febbraio 1349, dopo alcuni anni di intensificato scontro fazionale tra Salvucci e Ardinghelli, il comune accettò una prima soggezione triennale dai termini vaghi nella speranza che ciò riportasse la pace interna, dando il

53 Ivi, p. 134. Sulle gabelle a questa altezza cronologica v. anche R. Castiglione, Le gabelle del Comune di

San Gimignano nei secoli XIII e XIV, pp. 49-50.

54 Tanzini, A consiglio. La vita politica nell’Italia dei comuni, p. 77.

55 Castiglione, Le gabelle del Comune di San Gimignano nei secoli XIII e XIV, p. 50. Il totale di 56 Ibid.

57 Pecori, Storia della terra di San Gimignano, p. 155. 58 Ivi, p. 152.

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tempo alle istituzioni di riorganizzarsi59. Ma la situazione non si quietò e i bandi continuarono, finché

l’11 agosto 1353 la sottomissione definitiva di San Gimignano a Firenze venne ufficializzata. Stavolta i termini furono stabiliti con estrema precisione: per dieci anni i sangimignanesi sarebbero stati esentati da dazi e imposte del loro comune, sostituiti da un pagamento fisso alla nuova dominante da rinnovare poi triennalmente; tutti sarebbero diventati popolani del contado, eccetto i magnati, per i quali erano previsti trattamenti specifici a seconda del caso. E secondo questa logica si definì ogni singolo aspetto della nuova condizione della bourgade, tutelando nel frattempo gli statuti comunali: più che una sostituzione vera e propria possiamo notare un tentativo di inglobare le istituzioni e gli abitanti in uno schema preesistente. Nel verbale del primo consiglio del Popolo, due mesi dopo la sottomissione, non apparivano né Salvucci né Ardinghelli, i capi-fazione evidentemente emarginati dalla vita politica borghigiana. Tornerò su questo documento nel prossimo paragrafo.

In tutto questo non va dimenticata la Peste del 1348, demograficamente devastante per la popolazione di San Gimignano. Comparando i dati delle gabelle del 1332 con quelli del Libro delle bocche del 1350 è possibile stimare un declino medio del 61% della popolazione - da 11441 individui a 4467 - tra il contado e l’area entro le mura (il margine di errore sta nella presenza di focolai domestici di cui non è indicato il numero di appartenenti): nel contado si passò dalle 4145 persone stimate nel 1332 alle 1968 del 1350 (un calo del 52,5%), in città da 7296 a 2500 (calo del 66%)60.

Oltre alle conseguenze economiche complesse dello spopolamento improvviso delle aree rurale ed urbana, va tenuto conto anche del forte impatto psicologico che tale riduzione dovette avere in una realtà densamente abitata come era quella interna alle mura - che aveva costituito peraltro la «situazione esplosiva» ideale per il dilagare dell’epidemia61. San Gimignano va annoverata tra quelle

località in cui «la peste del 1348 comportò un tale tracollo da impedire loro di sopravvivere come entità indipendenti»62.

A questo riguardo risultano significative alcune informazioni collaterali, come il fatto che l’attribuzione degli appalti per le gabelle fosse stata improvvisamente sospesa a metà del 1348, dopo la registrazione dei primi quindici decessi63. La quantità di edifici abbandonati e pericolanti era un problema prioritario nei consigli e i quattro quartieri tradizionali di San Gimignano erano stati

59 Mori, Documenti e proposte per una ricerca prosopografica sulla famiglia Salvucci di San Gimignano

(secoli XIII-XIV), p. 152.

60 O. J. Benedictow, The Black Death, 1346-1353. The complete History, Woodbridge 2006, pp. 294-296. 61 C. M. Cipolla, Storia economica dell’Europa pre-industriale, Bologna 2002, p. 188.

62 F. Somaini, Il tracollo delle città-Stato e il ruolo dei centri urbani, in A. Gamberini e I. Lazzerini (a cura

di), Lo Stato del Rinascimento in Italia [pp. 221-239], Roma 2014, p. 225.

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addirittura ridotti a tre nell’organizzazione istituzionale64. E ancora, per stimare i beni di tutti i defunti

e riallocarli fu necessario nominare ben quattro funzionari appositi65.

Mario Ascheri ha visto nella peste, insieme alla drammatica contingenza finanziaria, uno dei fattori dei disordini politici di quegli anni e della conseguente sottomissione di San Gimignano a Firenze: la situazione di crisi avrebbe portato gli uomini che sedevano nelle istituzioni del comune «a pensare che non ci si potesse più permettere il lusso della partecipazione tradizionale», e addirittura a sentirsi «assediati, e perciò portati al governo duro, inflessibile, poliziesco che avrebbe condotto al loro crollo per perdita dei consensi tradizionali»66. A prescindere dall’effettivo peso che ebbe il reggimento politico sulla crisi finale della bourgade, è innegabile che lo scenario di quegli anni ci appaia davvero negativo, quasi invivibile. Da decenni San Gimignano affrontava a singhiozzo guerre insostenibili per le sue finanze, trascinato dalla Lega guelfa che gli garantiva protezione ma nel frattempo chiedeva più di quanto i suoi abitanti potessero dare; questo logorava il ceto che si era affermato economicamente e politicamente nel secolo precedente, alimentando gli scontri di fazione in un circolo vizioso che portò una parte della popolazione a vedere nell’inglobamento fiorentino la stabilità che mancava da tanto tempo.

Questa probabilmente arrivò, e per molti aspetti riportò ad una certa stabilità l’economia del borgo. Ma non per tutti: i mercanti fiorentini occuparono - legittimamente - la fetta di mercato che i sangimignanesi erano riusciti a conservare per se’ fino ad allora.

1.6) CAMBIAMENTI

Riprendendo le parole di Paolo Prodi, Giuliano Pinto sostiene che, a partire dall’ascesa mercantile di XIII secolo nelle regioni europee all’avanguardia, «nei momenti di difficoltà» i detentori di capitali liquidi fossero «in grado di far fronte all’emergenza» meglio di chi avesse posseduto «esclusivamente solo case e terre»; la vera ricchezza della popolazione urbanizzata nel Tardo Medioevo consisteva quindi «nella disponibilità immediata di migliaia di fiorini e nell’investimento di ingenti capitali nelle società mercantili»67.

Gli anni Quaranta e Cinquanta del Trecento si possono certamente definire un momento di emergenza o di crisi per San Gimignano, culminata appunto nella perdita dell’indipendenza. Per le

64 Casali, San Gimignano. L’evoluzione della città tra XIV e XVI secolo e Guidoni, Manacorda, voce San

Giminiano, in Enciclopedia dell’Arte Medievale.

65 Pecori, Storia della terra di San Gimignano, p. 166.

66 M. Ascheri, Novità sul Costituto volgarizzato del 1310 e sui Nove a Siena, in F. Ciappi e O. Muzzi (a

cura di), Studi in onore di Sergio Gensini [pp. 201-210], p. 208.

67 G. Pinto, Ricchezza e povertà in Toscana: città e campagna, in Firenze medievale e dintorni [pp.

109-128], p. 113; rif. a P. Prodi Il mercato come sede di giudizio sul valore degli uomini e delle cose, in P. Prodi (a cura di), La fiducia secondo i linguaggi del potere, Bologna, il Mulino, 2007, p. 161.

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famiglie imprenditoriali della bourgade che potevano permetterselo era necessaria una scelta radicale: restare e adattarsi alla prospettiva di un ridimensionamento o spostarsi, tentando la fortuna altrove. I Ciampolini evidentemente ebbero la seconda possibilità.

Il primo consiglio del Popolo di San Gimignano dopo la conquista fiorentina risale al 27 ottobre 135368. La stessa organizzazione del testo e dell’assemblea segnalano i cambiamenti avvenuti con la nuova dominante (ad esempio per la presenza di un vexillifero e di altre figure nuove, o delle formule), ma ciò che ci interessa maggiormente è all’interno dell’ampia lista dei presenti: tra gli altri troviamo infatti Matheus olim Vannis Ciampolinj [Figura 1.1].

È lo stesso Matteo di Vanni che abbiamo già incontrato tre anni prima nel Libro delle Bocche insieme al cugino Lorenzo di Chele. Reputo che l’assenza di quest’ultimo a un evento importante come il primo consiglio sotto al nuovo reggimento (dove possiamo pensare che le famiglie avessero tutto l’interesse ad essere presenti in modo rilevante, come in effetti si può rilevare dallo stesso elenco dei presenti) vada letta insieme alla certezza che due anni dopo, secondo la Cronachetta del Ciaccheri, i Ciampolini fossero considerati tra i sangimignanesi definitivamente stabiliti a Pisa.

[Fig. 1.1, ASFi, Diplomatico, San Gimignano, Comune, 1353 Ottobre 27. Screenshot acquisito da me sul sito dell’ASFi (© ASFi)]

Proviamo a sommare i dati recenti, limitandoci anche solo ai precedenti cinque anni: San Gimignano stagnava in una crisi finanziaria decennale che non dava segnali di miglioramento; la sottomissione a Firenze era evidentemente una prospettiva migliore della continua fornitura di prestanze al comune senza più alcuna garanzia che sarebbero stati ripagate. Oltre a questo, la presenza dei mercanti fiorentini era ormai praticamente incontrastata nell’area grazie alle esenzioni di cui godevano, e la peste del 1348 aveva spopolato il borgo - ma nel frattempo anche permesso di redistribuire parte della ricchezza tra i superstiti. Per quale motivo un personaggio dotato di capitale mobile sarebbe dovuto rimanere in un ambiente che non gli avrebbe permesso di farlo fruttare?

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I Ciampolini erano sì una famiglia di macellai da almeno tre generazioni, ma è evidente che già negli anni Trenta avessero denaro sufficiente per investire in commerci esteri, e nulla ci fa pensare che la loro situazione economica da allora fosse peggiorata al punto di farli arrivare totalmente impreparati ad affrontare le vicende del quinquennio 1348-1353. È impossibile collocare con precisione la partenza del primo membro della famiglia da San Gimignano, ma è probabile che sia stato lo spostamento di Lorenzo di Chele (che, anticipo qui, troveremo dal 1357 nei registri doganali di una città mediterranea a cinquecento chilometri dal luogo d’origine) tra il 1350 e il 1355 a cambiare definitivamente gli equilibri anche per gli osservatori contemporanei.

Non ho trovato invece tracce di Matteo di Vanni dopo il consiglio del 1353, né a San Gimignano né altrove, ma è probabile che fosse rimasto nel luogo d’origine e con lui si sia estinto quel ramo della famiglia; in nessuna fonte i parenti emigrati si riferirono a lui e nel catasto fiorentino del 1428 non appare nessun Ciampolini. I rami che avevano abbandonato San Gimignano (quelli di Lorenzo e di Ildebrandino di Ciuccio) mantennero invece rapporti reciproci anche dopo essersi ben distinti a Pisa e altrove, raggiungendo enormi successi commerciali e politici.

È quindi tempo, come per i Ciampolini, di abbandonare San Gimignano e allargare lo sguardo alla Toscana e al Mar Tirreno.

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CAPITOLO II

PISA, CAGLIARI, IL TIRRENO: UN MERCANTE A METÀ TRECENTO

(1355-1369)

Dagli studi documentari sul contado fiorentino nel pieno Trecento emergono due tratti fondamentali: la vitalità di una burocrazia emanata dalla dominante che mirava all’armonia con le comunità soggette muovendosi in un’intricata rete di prerogative locali e regionali, e la pervasività degli agenti economici fiorentini, in larghissima parte mercanti69. Il contado della città andava

allargandosi inesorabilmente, inglobando località che gravitavano nella sua orbita già da tempo (come abbiamo visto per San Gimignano), ma questo non implicava necessariamente un annullamento in toto della loro eventuale dinamicità economica. Le produzioni specializzate, l’attribuzione di diritti di riscossione doganali lungo le vie di comunicazione fluviali e terrestri, gli incarichi per l’approvvigionamento alimentare, continuarono a garantire la sopravvivenza di numerosi centri minori e della stessa Firenze: in breve, era raro che la sottomissione trasformasse radicalmente la vita produttiva, poiché al massimo i cambiamenti si innestavano su trasformazioni in corso da decenni. L’atto era d’altronde, nella grande maggioranza dei casi, solo una formalità che ufficializzava situazioni di fatto.

A rendere così efficace il processo di conquista era piuttosto la capacità dei mercanti fiorentini di sostituirsi ai vecchi intermediari commerciali locali, sostenuta ovviamente dalla legislazione della dominante: ad esempio l’esenzione o la riduzione dal pagamento dei pedaggi per i fiorentini e le loro merci era uno dei primi provvedimenti che si imponevano alle comunità da poco sottomesse, così come le immunità da molte gabelle nei mercati del contado70. In politiche di questo tipo si può vedere anche uno tentativo di attrazione verso Firenze per i mercanti di tali comunità, che nella logica del commercial capitalism fiorentino avrebbero valutato il trasferimento per ottenere la cittadinanza (e quindi i privilegi), incrementando in questo modo il flusso di fiorini che attraversava la città71.

In modo progressivo avvicinandosi alla metà del Trecento - e in modo inconfutabile dalla Peste del 1348 - rivolgersi agli intermediari fiorentini divenne per gli artigiani delle località inglobate nel contadola via privilegiata per accedere a qualsiasi rete di vendita più ampia del proprio villaggio o al

69 Nello specifico qui ho in mente i già citati Firenze medievale e dintorni di G. Pinto (Roma 2016) e C.

M. de La Roncière, Firenze e le sue campagne nel Trecento. Mercanti, produzione, traffici (Firenze 2005).

70 De La Roncière, Firenze e le sue campagne nel Trecento, pp. 74-75 e 152.

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più della propria valle72. Per una famiglia del nuovo contado dotata di un capitale investibile arrivava

un momento in cui scegliere se restare nel territorio - spostandosi al più a Firenze - cercando di ritagliarsi un proprio spazio tramite alleanze familiari et similia, oppure lasciare tutto cercando di far fruttare denaro ed esperienza in un luogo che concedesse spazi anche a dei parvenus o aprisse addirittura prospettive più ampie73.

È probabile che alcuni dei Ciampolini si fossero già trasferiti a Pisa negli ultimi complicati decenni prima della conquista fiorentina e non solo a ridosso della stessa, ma gli anni tra il 1348 e il 1353 sembrano essere stati decisivi per l’emigrazione di un membro della famiglia che al netto delle fonti, per quantità e tipologia, risulterà di gran lunga il più dinamico ed eminente: si tratta di Lorenzo di Chele (Laurentius Ghelis), che abbiamo già incontrato nel Libro delle Bocche di San Gimignano del 1350. La sua importanza in questa ricerca è stata fondamentale, poiché rappresenta il più saldo punto di contatto tra la vita della famiglia nella prima metà del Trecento e quella dei decenni successivi. Si accenna a lui in vari lavori di storia economica sul commercio tirrenico nel Tardo Medioevo, essendo anzitutto un tipico mercante dell’epoca - con la sua corrispondenza, il suo giro di conoscenze e la sua dinamicità - nonché, aggiungerei, un uomo che sembra essersi fatto da sé. Non ci sono elementi che possano far dedurre la sua data di nascita, ma la sua attività mercantile e politica si collocò dalla fine degli anni Cinquanta del Trecento al 1407 circa.

Abbiamo visto che Lorenzo non era presente insieme al cugino Matteo di Vanni al primo consiglio del Popolo sangimignanese dopo la sottomissione a Firenze nel 1353. Questo non ci dà la conferma che si fosse già allontanato dal luogo d’origine, ma certamente non partecipava alla vita politica: ciò che conta maggiormente è che due anni dopo i Ciampolini fossero una delle tre eminenti famiglie emigrate a Pisa, e Lorenzo prima o poi dovette passare da qui.

72 De La Roncière, Firenze e le sue campagne nel Trecento. Mercanti, produzione, traffici, pp. 17-19;

sull’esistenza di due livelli di mercato: ivi, pp. 167-170. Il mercato di riferimento per i sangimignanesi era quello di Poggibonsi, prima e dopo la sottomissione a Firenze (ivi, p. 182).

73 Un esempio contrapposto all’abbandono è rappresentato da Michele Benenati, studiato da Giuliano Pinto

(Su Michele Benenati, mercante sangimignanese nell’età del declino (1353 circa-1437) in Firenze medievale

e dintorni [pp. 93-108]): di ceto pari ai Ciampolini, la sepoltura di famiglia era nella loro stessa chiesa a San

Francesco; la sua carriera da mercante era indubbiamente stata possibile grazie al matrimonio con l’abbiente fiorentina Bartolomea di Filippo Casati (forse seguaci degli Albizzi, v. p. 93), che aveva permesso al Benenati di inserirsi in un ampio giro di alleanze sovra-regionali. Michele non smise di sentirsi sangimignanese, e proprio nella tomba di famiglia si sarebbe fatto seppellire, ma nelle missive commerciali si indicò più volte come fiorentino (p. 100) e trascorse naturalmente un’ampia parte della sua vita a Firenze.

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2.1) E ANDREA GAMBACORTA CON SUOI SEGUACI SE NE FECIONO SIGNORI

Sul piano strettamente commerciale, i mercanti pisani davano segnali di ripresa già dagli anni Quaranta, trainati da nuovi investimenti soprattutto nello smercio di panni di tessuto di qualità media e lana74. La perdita della Sardegna a favore degli Aragonesi nel 1326 aveva colpito fortemente l’economia cittadina (senza considerare il danno che aveva rappresentato sul piano politico e strategico), ma i mercanti seppero deviare in tempo gli investimenti e si reinventarono armatori in tutta l’area dell’alto Tirreno. Entro pochi anni riuscirono a ristabilirsi saldamente sulle vecchie tratte e nelle località sarde in cui la componente pisana era stata forte, nello specifico Iglesias, Cagliari (in entrambe le città fortificate erano avvenute espulsioni di pisani, sostituiti con omologhi catalani) e le curatorie di Gippi e Trexenta75. Un ruolo non secondario lo giocarono i rapporti con le altre comunità mercantili sull’isola, che non si interruppero mai76.

Il ceto mercantile cittadino tendeva in genere all’omogeneità e alla stabilità politica favorevoli ai commerci, ma queste era continuamente minate dagli scontri tra due fazioni, entro la metà del secolo ormai ben definite: i Bergolini e i Raspanti. Questi ultimi avevano subito un duro colpo nel 1347, alla morte di Ranieri della Gherardesca, ultimo conte di Donoratico, sotto il quale negli ultimi anni la politica del comune aveva spinto verso un protezionismo che favorisse le produzioni cittadine: i Della Rocca, famiglia a capo del partito raspante, ne erano stati sostenitori in prima persona (anche come tutori dello stesso giovane Ranieri), ritrovandosi quindi totalmente compromessi nel momento in cui la cittadinanza pisana cominciò a risentire dell’isolamento commerciale in cui la città rischiava di ritrovarsi77. I Bergolini, sotto la guida dei Gambacorta e dei loro alleati, erano riusciti a radunare nelle

proprie fila tutto il malcontento accumulato. Nella sua Nuova Cronica Giovanni Villani (certamente a ridosso degli eventi, poiché morì di peste nel 1348) spiegava già come tale opposizione al governo fosse cetualmente variegata e accomunata dall’esclusione da ogni incarico nelle istituzioni comunali: vi si riunivano sia ricchi mercatanti che popolani, ma anche dei nobili78. Dopo una serie di tumulti i Della Rocca e i loro alleati più stretti furono in parte esclusi dalla vita politica, in parte esiliati: i Bergolini si trovarono al comando di Pisa con Andrea Gambacorta.

74 Duval, Poloni e Quertier, Pise dans la seconde moitié du XIVe

siècle: sortir d’une vision décliniste, par.

3 e A. Poloni, Pisa negli ultimi decenni del Trecento: i mercanti-banchieri e i ritagliatori, Roma 2017.

75 O. Schena, Il regno di Sardegna e Corsica, in A. Gamberini e I. Lazzarini (a cura di), Lo Stato del

Rinascimento in Italia [pp. 53-68], Roma 2014, p. 55.

76 Poloni, Gli uomini d’affari pisani e la perdita della Sardegna, pp. 172-173. Alcune famiglie, come i

Bonconti o i del Mosca (questi ultimi arrivati da San Gimignano a inizio secolo) avrebbero continuato stabilmente l’attività di armatori anche dopo i decenni di crisi, rendendola la propria principale fonte di reddito.

77 Silva, Il governo di Pietro Gambacorta in Pisa, p. 20.

78 G. Villani, Nuova Cronica, CXIX, ed. a cura di G. Porta, Parma 1991, p. 1637. V. anche M. Tangheroni,

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