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Videoarte: dal segno all'opera finita. Percorsi di polisemia estetica dalla grafica alla videoinstallazione.

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

Il percorso che mi ha condotto fino alla stesura della Tesi di Dottorato ha origini diverse, rintracciabili sia nella mia storia passata, fatta di molti disegni, di tanti spostamenti e di curiosità verso le manifestazioni del “non verbale”, che in quella più recente, rappresentata dallo studio e dal lavoro nel contesto delle arti elettroniche e della cinematografia indipendente. Tra le origini però credo ci sia anche il piacere per la ricerca, un piacere cresciuto proprio grazie all' occasione della tesi, ma di cui all'inizio ero poco e per nulla consapevole; è emerso a partire da una scelta tematica azzeccata, rientrata a pieno nelle mie corde.

Il tema dunque.

Il titolo è leggermente cambiato rispetto all'inizio,1 è maturato anche lui come tutto il

resto, ma il filo conduttore dell'analisi è rimasto sempre lo stesso: il rapporto tra segno, disegno e opera finita negli artisti che si occupano di videoinstallazioni.

All'interno del processo creativo, trasversale alle arti e alla storia, per molti artisti il disegno assume da sempre un ruolo significativo. Sul suo conto negli anni sono state scritte parole importanti e a titolo di esempio si possono citare teorici come Vasari, che lo ha considerato il «principio di tutte le arti», o come Panofsky che, in merito al contesto rinascimentale, lo ha reputato nevralgico; o ancora, per giungere a tempi a noi più vicini, come Jacques Derrida che in Memorie di cieco, nel fare il punto, sempre a proposito del disegno, sull' incapacità «originaria dell'occhio» di «cogliere» il visibile, espone l'atto grafico, atto del vedere, come un'identità fisiologicamente inscindibile da un'idea di relazione.2

Proprio come medium, epifania del pensiero e come oggetto di relazione, il disegno continua a farsi partecipe delle varie sfumature dello scenario artistico contemporaneo; e, tra queste, nel contesto delle arti elettroniche, soprattutto nel dialogo con le videoinstallazioni, diventa particolarmente signigicativo

L'arte elettronica comincia il proprio viaggio fatto di diretta televisiva, di 1Questo il titolo iniziale: Il disegno nell’arte elettronica. Una ricerca sui diversi aspetti del disegno e

della grafica nell’ideazione, progettazione e allestimento in videoarte.

2 J. Derrida, Mémoires d'aveugle. L'autportrait et autres ruines, éditions de la réunion des musée

nationaux, Paris 1990, tr. it. Alfonso Cariolato, Federico Ferrari, Memorie di cieco. L'autoritratto e altre rovine, Abscondita, Milano 2003, p. 73.

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installazioni e spazializzazioni del monitor, nel corso degli anni Cinquanta, anni nei quali in parte della scena della ricerca e della sperimentazione artistica è in atto un'importante revisione critico-estetica. Nel sottrarsi con forza sempre maggiore a un concetto di cornice inteso nell'accezione più estesa, e nel sovvertire le proprie condizioni operative, l'arte contemporanea muove verso un contesto sempre più dematerializzato e «indetermanente»,3 in cui assumono importanza parole come

istantaneità, cancellazione, azzeramento, riduzione, trasfigurazione, processualità e simultaneità. Tutto questo sul piano pratico si traduce in una profonda metamorfosi centrata sul superamento sia dell'opera, sia dell'autore, come sulla ibridazione tra le arti. Una mutazione oggettuale, autoriale e artistica che implica anche una ri-collocazione dello spettatore, coinvolto sempre più in qualità di attivo com-partecipante.

In un'atmosfera di espansioni, dinamiche processuali e convergenze artistiche multiple, in cui il segnale e l'immagine elettronica saranno contemplati proprio per la loro natura – fisiologicamente processuale, effimera, immateriale, simultanea e istantanea, almeno fin quando non si affermano, miniaturizzati, e resi commerciabili i sistemi di registrazione – l'arte, attraverso più interlocutori4, si trasforma secondo

alcuni in «ambiguità fenomenica».5

Nel clima artistico così rimodulato, e qui tratteggiato a grandi linee, segno e disegno cominciano anch'essi a farsi espressione del concetto di «dematerializzazione» e di frammentazione soprattutto per mezzo di un'idea, di un pensiero progettuale realizzato in «studio»6 ma eseguito, fisicamente, da una manovalanza esperta che

spesso non coincide con l'artista.7

É qui che l'idea comincia a prevalere sul fare – con un fare che sembra raccordarsi a tipologie esecutive con radici nella bottega medioevale o, in modo diverso, rinascimentale - e ad assumere valore indipendendentemente dal fatto che l'opera non venga realizzata.

Questo concetto ha una valenza del tutto particolare nella dimensione elettronica delle videoinstallazioni, dove il «principio di tutte le arti»,8 il disegno, è

ulteriormente sfaccettato.

Oltre a essere schizzo, bozzetto, progetto, idea, nel senso concettuale, ha una nuova 3 Giovanna Borradori, Il pensiero post-filosofico, Edizioni Universitarie Jaca Book, Milano 1988,

pp. 275-276.

4 Da Fontana a Cage, da Pollock a Cunninghum, passando per il New America Cinema, il Living Theatre e l'estetica Fluxus nel suo complesso.

5 Gillo Dorfles, Ultime tendenze nell'arte d'oggi. Dall'informale al neo-oggettuale, Universale

economica Feltrinelli, Milano 2001, p. 88.

6 Lucy R. Lippard, John Chandler, The Dematerialization of Art (1967), in «Art International», v. 12, n. 2, febbraio 1968, p. 31.

7 Ibidem.

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capacità: nel lasciare lavorare prima l'autore con pensiero e gesto, poi una collettività varia di esecutori, rappresentata da tecnici specializzati e aiutanti, nelle videoinstallazioni di volta in volta il disegno diventa una «partitura»9 capace di

generare, sempre, una nuova opera d'arte.

Il disegno diventa dunque matrice replicabile, potenzialmente all'infinito, ma anche una generatrice di opere sempre nuove e sempre temporanee che sono il risultato dialettico, e altresì complementare, di tradizione e innovazione, corporeo e incorporeo, visibile e invisibile, bidimensionale e tridimensionale, pensiero dell'autore e immaginario dello spettatore, che comunque ha un ruolo chiave.

Il disegno dunque nel dialogo con l'arte elettronica non appare più “soltanto” come un mezzo per rappresentare, mantenere memoria, calibrare e verificare l'organizzazione e la progettualità dell'opera, ma passa dall'essere oggetto di riferimento estetico. ad avere una natura maggiormente autonoma e soggettiva, indipendente dalla realizzazione. Un'identità in grado cioè di porsi sia come idea che come strategia.

La storia della sperimentazione elettronica è ricca di disegni, ma, al di là di rare occasioni , è priva di studi che ne approfondiscano non soltanto il valore documentale, ma anche il portato estetico e il valore storico. E questo soprattutto nel quadro di relazioni più ampie in cui sono centrali le dialettiche tra fissità e movimento, tra spazi bidimensionali e spazi tridimensionali, e tra media della tradizione e media dell’innovazione tecnologica.

Questa ricerca, quindi, propone uno sguardo restrospettivo in cui segno e disegno sono il collante di un intero processo - intermediale, multimediale e talvolta crossmediale – e, in certa misura, ridimensionano il primato dell’opera finita a favore della complessità del processo stesso. Nell’intimità del percorso che va di carta in carta, di medium in medium e di relazione in relazione, leggere il disegno e il segno, non solo in chiaro ma anche, tra gli spazi, come nel tra le righe delle pagine e delle parole di un testo, apre a nuove conoscenze e arricchisce la storia dell'arte elettronica di più contenuti. Restituendole anche un passato, per quanto recente, molto meno trascorso di quanto possa apparire. Un passato che, come raccontano i disegni, appare tutt'altro che chiuso nella sua rigidità; una grandezza «aperta» e orientata più al movimento che alla fissità.

9 Così lo definisce Anne Marie Duguet. Cfr. Anne-Marie Duguet IInstallazioni video e interattive.

Definizioni e condizioni di esistenza, in Valentina Valentini, a cura di, Visibilita Zero, Graffiti,

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La rosa di autori scelta per approfondire la ricerca è costituita da nomi significativi nel panorama nazionale e internazionale: Wolf Vostell, Bruce Nauman, Bill Viola, Fabrizio Plessi, Studio Azzurro, Michele Sambin, Giacomo Verde, William Kentridge, Grazia Toderi, Gianni Toti. Tutti autori impegnati a vario titolo nel contesto videoartistico e multimediale con all’attivo una vastissima produzione grafica che va, come emerge dall'analisi, dall'essere una sorta di laboratorio del pensiero, alla stesura progettuale, alla sintesi programmatica, alla pratica narratologica e altro ancora. Il fare del disegno l'interfaccia preliminare dell'opera pare significare per tutti loro, condurre, già in piano, una ricerca di tipo tattile, concreto.

L'analisi è stata portata avanti su opere che hanno una funzionalità o progettualità videoinstallativa: la tangibilità, quindi, può apparire come una naturale conseguenza. Ma anche laddove alcuni tra gli artisti citati abbiano trattato l'arte elettronica nella versione monocanale, questo aspetto si evince lo stesso. Di foglio in foglio, di situazione in situazione, il segno si trasforma in uno strumento di investigazione, del pensiero e dell'azione. E tra le tracce depositate, cancellate, gli spazi lasciati vuoti o riempiti e ispessiti, appare, insieme al configurarsi dell'opera, l' artista con la sua esperienza e il suo sentire.

Nel processo creativo, possono variare le carte, i formati, gli strumenti del mestiere del disegnatore, ma la cifra autoriale rimane, e si legge nei segni, nei modi in cui sono stati fatti, nei vocabolari espressivi utilizzati, nei moduli stilistici proposti e registrati al variare delle opere; nel tempo.

Nel quadro quindi dell’attività, a volte multiforme, dei videoartisti che vi si relazionano, l’analisi delle fisionomie assunte dal disegno è assai significativa e oltre ad aggiungere un tassello alla conoscenza del singolo operato artistico, in un’ottica di maggior respiro implementa e arricchisce la comprensione storica, culturale, sociale e tecnica dell’arte elettronica.

A partire da questa angolazione la tesi ha preso in considerazione un corpus di disegni che, per qualità e caratteristiche - andando anche oltre il nesso con un'opera di riferimento specifica e il periodo storico in cui è stata realizzata - possono essere considerati rappresentativi di uno stile, di un modus operandi ed essere, al tempo stesso, connotativi e denotativi di uno specifico contesto.

I l corpus, costituito da decine e decine di carte, di cui fanno parte degli inediti e disegni non facilmente rintracciabili, è il frutto di uno spoglio di materiale documentale in parte fornito dagli stessi autori, rinvenuto presso i loro archivi personali, o presso quello dei collezionisti, in parte negli archivi di istituzioni

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pubbliche e private, e in parte nella documentazione fornita e accessibile dai cataloghi, da riviste storiche e da pubblicazioni a carattere monografico, alcune molto rare e rintracciabili anch'esse, come i disegni, solo nei fondi d'archivio. In parte tale

corpus è derivato anche dalla pluriennale frequentazione di mostre, dagli studi e dalle

attività svolti anche precedentemente alla ricerca dottorale,che sono fra le radici da cui è nata la tesi stessa.10 Alla mole dei documenti così rinvenuti, vanno aggiunte, ed

è stato possibile nella maggior parte delle volte, le interviste agli stessi autori, ai collezionisti e ai curatori, da cui scaturiscono riflessioni preziose, e inedite, che ricostruiscono storie e contesti.

Obiettivo della tesi è stato anche quello di redigere, traendo spunto dalla tradizione storico-artistica, un’ipotesi di ventaglio tipologico di riferimento; una sintesi paradigmatica delle declinazioni riscontrate.

La tesi è costituita dalla ricerca vera e propria, storicamente e teoricamente inquadrata, disseminata dei disegni presi in esame, e una raccolta di altri disegni collegati al percorso di analisi, utilizzati come documenti di corredo e di approfondimento alle scelte principali.

Nella prima parte, storico-teorica, a partire dalla Avanguardie storiche si è indagato il rapporto tra segno, disegno e opera, facendo attenzione a prendere in considerazione artisti e opere attraverso cui poter costruire un parallelismo di senso con l’oggetto della ricerca.

Gli artisti e le opere scelte dunque hanno una rispondenza mirata tesa a significare e a dispiegare le relazioni tra tipologie diverse di media, tra la fissità e il movimento e tra gli spazi bi e tridimensionali. Seguendo questa ottica l’excursus storico affronta con particolare attenzione le opere più significative dell’arte suprematista di Malevic, l’astrattismo di Eggeling e Richter e l’estetica «espansa» di László Moholy-Nagy, di Ejzenstejn e di Duchamp.

Lo svolgimento teorico si sviluppa poi prendendo in considerazione l’esigenza di apertura alla tridimensionalità e alla tattilità (tra gli elementi significativi del dispositivo vide installato) di artisti come Fischinger e McLaren.

Nell’avvicinamento al periodo dell’arte elettronica la ricerca si focalizza su Fontana, la sperimentazione negli anni Cinquanta, l’estetica della dematerializzazione e i primi sconfinamenti metodologici che vedono cambiare parallelamente sia il ruolo del disegno che quello dello spettatore, diventati entrambi centri-dislocati.

10 Sono infatti partita da una passione per la grafica e il disegno, dalla formazione storico artistica e dalla pluriennale esperienza lavorativa nell'ambito dell'arte elettronica e della produzione cinematografica indipendente, in cui i disegni sono sempre apparsi molto importanti.

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La seconda parte è specificamente analitica e si basa sul vasto corpus di disegni già introdotto, oggetto vero e proprio della ricerca di dottorato.

L' introduzione all’analisi illustra l’orientamento tipologico. Come anticipato, traendo spunto dalla tradizione storico artistica è stata redatta una ipotesi classificatoria in cui, sulla base del materiale analizzato, è stato declinato il disegno: dagli schizzi, alle bozze, più compiute, agli studi per singoli aspetti dell’opera, ai progetti inediti e mai realizzati, a quelli approvati, agli elaborati con valenza autonoma.

La parte dedicata all’analisi, che prende in esame gli artisti sopra elencati, studiando i diversi modi in cui il disegno assume valenze particolari rispetto all'immagine elettronica (e i rapporti fra poetica e segno come tra disegno e contesto) è preceduta da una premessa più generale tesa a inquadrare il contesto dell’arte elettronica e delle videoinstallazioni.

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I. CAPITOLO - STORIE Premessa

Nel momento in cui cominciano a fare capolino i primi “lungometraggi” narrativi, e con essi le prime strutture, stabili, che ne consentono la visione,11 nel contesto delle

arti visive appare, in controtendenza, una «immagine-segno»12 che azzera ogni forma

di narrazione e che, al tempo stesso, spalanca una porta proprio sul futuro delle immagini in movimento: il Quadrato nero su fondo bianco (1915) [fig.1] di Malevič. Con questo dipinto, nel trasformare in materia tangibile e concreta il proprio pensiero, l'artista ucraino dà di fatto luogo a una forma di negazione della tangibilità. Il dipinto del 1915 è un orientamento verso la valorizzazione di un'idea e di un immaginario dalle infinite potenzialità. Malevič con un atto e una presa di posizione mette letteralmente nero su bianco, siglandone un possibile inizio, quel processo di rimozione e astrazione che di lì a poco comincerà ad emergere con maggiore chiarezza, fino a confluire, nella seconda metà del Novecento, in filoni artistici enucleati intorno al concetto di dematerializzazione. Prima di spingere oltre l'approfondimento, è necessario prendere in considerazione il fatto che l'embrione produttivo del famoso doppio quadrato vada predatato. L'opera del 1915 ha infatti un precedente specifico in un disegno del 1913: è qui che è conservata la testimonianza del primo orientamento verso quello che sarà, già proprio per Malevič, un fermo rifiuto alla limitatezza fenomenologica e, contestualmente, la celebrazione di un immaginario dinamico dalle potenzialità infinite.

A differenza dell'opera la notizia, però (il fatto che esista della riflessione di Malevič e del suo dipinto una testimonianza grafica), di per sé non ha, almeno all'apparenza, niente di straordinario.

In fin dei conti il disegno anticipa da secoli, con schizzi e bozzetti, pitture, sculture e architetture, e senza addentrarsi in approfondimenti e studi di settore, Vasari, per fare un nome su tutti, lo aveva considerato non a caso il «padre delle tre arti nostre, archietettura, scultura e pittura».13

Ma il disegno del 1913 [fig.2] è particolarmente significativo, ed è anche collettore e detonatore di più di una storia.

Se infatti a ridosso della prima Guerra Mondiale, in un contesto scientifico, tecnico e 11 Fra i molti contributi sull'argomento mi limito a segnalere Gabriele Pedullà, In piena luce. I Nuovi

spettatori e il sistema delle arti, Bompiani, Milano 2008, pp. 9-72.

12 Jean-Jacques Wunenburger, Philosophie des images, Presses Universitaires de France, Paris 1997, tr.it. di Sergio Arecco, Filosofia delle immagini, Einaudi, Torino 1999, pp. 173-177.

13 Giorgio Vasari, Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Introduzione di Maurizio Marini, Edizione integrale, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma 2012, p. 73.

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culturale in rapida evoluzione, il Quadrato nero su fondo bianco appare come un segnale verso quell'arte fluttuante, volta a divenire progressivamente immateriale, col senno di poi quel disegno oltre a essere, come per il quadro di Malevič, un testimone nevralgico dell'opera, è anche un primo ideale interlocutore di un cambiamento epocale.

Dopo una prima fase in cui Malevič ha aderito alle idee degli artisti Nabis e dell'Idealismo simbolista, la nascita del dipinto14 e prima ancora del disegno, è

connessa a un'ottica «non-oggettiva» che si fa strada nell'opera dell'artista ucraino tra il 1911 e il 1913, anni in cui gli ambienti moscoviti e sanpietroburghesi si aprono alle novità apportate dal cubismo e dal futurismo, assimilati dallo stesso Malevič e calati nella dimenione sociopolitica del proprio presente. Sono gli anni delle opere definite «alogiche» e «transarazionali»15 in cui confluisce anche una visione filosofica legata

alle trattazioni sulla «quarta dimensione»16 ad opera soprattutto del teosofo

Uspenskij. Ma saranno gli incontri con il poeta Kručenych, tra i teorici del linguaggio zaum (parola formata dall'unione di za, oltre, e um, mente) e con il musicista-pittore Matjušin a segnare l'approdo al Suprematismo.

Nel 1913 Malevič partecipa, disegnandone i costumi [fig.3] e le scenografie [fig.4] , alla realizzazione dello spettacolo futurista, e molto iconoclasta per l'epoca, la

Vittoria sul sole17 organizzato proprio intorno ai testi di Kručenych e alle musiche di

Matjušin.

Anche se ancora distanti dal Malevič suprematista, i disegni hanno le stesse componenti astratte delle opere coeve,18 dove la propensione al futurismo è sinonimo

della determinazione di abitare il prorio tempo, e in cui si riscontrano le dinamiche linguistiche di Picasso e, soprattutto, il «tubismo» di Léger. Pur trattando costumi e scenografie in modo diverso, colorando i primi e lasciando in bianco e nero le seconde, dove il colore è presente è evidente come questo sia in prevalenza piatto e si stagli su un fondo bianco. La scelta di forme geometriche cade poi su forme semplici, che in scena avrebbero permesso alle figure di essere «tagliuzzate da rasoiate di luce» di perdere «di volta in volta... mani, piedi, testa, perché per Malevič erano solo entità geometriche, che potevano non solo essere scisse nelle rispettive 14 Kasimir Malevič, lettera a Matjušin, maggio 1915, RO IRLI, f. 625, in Kasimir Malevič,

Suprematismo: il mondo della non-oggettività, tr. it, dal tedesco, di F. Rosso, De Donato, Bari

1969, p. 142.

15 Jolanda Nigro Covre, Malevič, «Art Dossier», n. 200, Giunti, Roma 2004, p. 16. 16 Ivi, p. 23.

17 Lo spettacolo, presentato dal 3 al 5 dicembre 1913 al Teatro Luna Park di San Pietroburgo ha espliciti richiami al teorie del Futurismo: «Il sole, simbolo di un mondo oggettivo che appartiene al passato, viene catturato e sconfitto e si instaura un nuovo mondo dominato da atleti futuristi. Le scene e i monologhi sono una successione di episodi sconnessi, realizzata in base al valore del puro suono nel testo poetico e nella partitura musicale». Ivi, p. 19.

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componenti, ma anche dissolte in tutto lo spazio pittorico.»19

Come già anticipato, ai disegni colorati fanno da contraltare, contrastandoli, i disegni in bianco e nero delle scenografie, tutti concentrati sulla forma del quadrato, rappresentazion schematizzata del contenitore scenico. Una specie di «cubo opaco» definito appunto su un volume quadrangolare e pensato come elemento modulabile su cui potevano essere strutturati, a mo' di scatole cinesi o di specchi riflettenti, ambienti su ambienti. E qui, in questi bozzetti scenografici, di fatto convergono, inseriti in totale casualità, note musicali, elementi della punteggiatura e tutta una serie di linee e forme astratte in libertà.

È tra questi ultimi che si trova il riferimento al Quadrato nero su fondo bianco. Una delle scenografie è costituita infatti solo da due forme quadrangolari poste l'una all'interno dell'altra, la più piccola delle quali è tagliata in senso diagonale in due metà, una bianca e una nera. È il disegno del sipario, diventato nell'ultima scena dello spettacolo «uno sfondo nero che risaltava sulla superficie bianca».20La Vittoria sul sole, simbolo della realtà fisica, per interrogare il non-oggettuale, un invisibile dai

significati molteplici.

Di lì a due anni il disegno si trasforma nell'opera icona del suprematismo e come tale è esposta nel dicembre del 1915 a San Pietroburgo alla mostra dal titolo Ultima

esposizione futurista. 0,10. Il dipinto infatti:

occupa un posto d'onore, disposto com'è in alto, obliquamente, all'angolo con il soffitto, richiamando la posizione dell'icona nelle case russe e confermandosi così, nel suo angolo “sacro”, in tutto il suo valore emblematico.21

È interessante inoltre notare come riportato da Marcadé22 che nonostante il dipinto

sia noto come Quadrato nero su fondo bianco, il termine esatto non sia quadrato ma quadrangolo. Il quadrato è una figura piana importantissima per Malevič, tanto da essere presente in varie composizioni pittoriche e da essere ripetuta con variazioni cromatiche, come accade ad esempio nel Quadrato rosso. Ma i quadrati amati da Malevič non sono quasi mai costruiti con rigore ortogonale. Anzi, come fa notare Jolanda Nigro Covre,23il più delle volte assumono una impercettibile forma

«trapezoidale», così come quasi mai esiste nell'ambito della sua produzione suprematista il parallelismo tra le linee.

19 Sulla questione del quadrato nero nell’opera Vittoria sul sole cfr. C. Beltramo, C. Zevi, a cura di,

Kazimir Malevič, oltre la figurazione e oltre l’astrazione, Artificio Skira, Firenze 2006, pp. 145–

149.

20 Ivi, p. 146.

21 Jolanda Nigro Covre, Malevič...cit., p. 24. 22 Ibidem.

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A sostegno del pensiero di Marcadé, Jolanda Nigro Covre infatti scrive:

L'atteggiamento di Malevič nasce dalla meditazione sulla realtà, piuttosto che da un'esigenza puramente spirituale, e ciò lo distingue da Kandinskij; nasce dalla riflessione filosofica sui contrasti dinamici in una realtà altra rispetto a quella codificata dalla ragione occidentale, e ciò lo distingue dall'equilibrio e dall'armonia di Mondrian. […] Anche se in tutti e tre questi artisti esiste un documentato legame con la teosofia connesso a indubbie componenti neoplatoniche, la partenza di Malevič è una forma di realismo, non a caso collegato al rapporto con il dinamismo futurista, ein ciò è una delle principali ragioni del suo carattere peculiare.24

Nel 1916 nel testo dal titolo Dal cubismo e dal futurismo al suprematismo. Il nuovo

realismo pittorico, Malevič scrive: «mi sono trasfigurato nello zero delle forme e

sono andato al di là dello 0-1».25

Quadrato nero su fondo bianco ci porta in un universo tutto da immaginare, privo di

gravità ma penetrabile, mobile e teso, ante litteram, alla sintesi.

La sequenza produttiva avviata con la «riproducibilità tecnica» e a cui hanno fatto seguito le rivoluzioni apportate da Edison, Hertz, Einstein, e successivamente sopratutto da Heisenberg, da tutto il mondo della fisica quantistica e delle particelle subatomiche, ha prodotto un humus in cui non solo, come evidenziato da Benjamin, l'opera uscisse da dinamiche «cultuali» e diventasse più «democratica», almeno ipoteticamente; ed è indicativo che ben venti anni prima della pubblicazione del testo di Benjamin la forma quadrangolare di Malevič modulata e ripetibile, sostituisse, come appena scritto, nello spazio e nella rappresentazione un'icona sacra. Un panorama così movimentato ha fatto sì che tutto ciò che era assimilabile a un'idea di concretezza e compattezza cominciasse a desolidificarsi, ad alleggerirsi, a sgretolarsi e a dar luogo a imprevedibili universi particellari – non più quindi solo la riproduzione di tipo meccanico e le ripercussioni estetiche dovute alle varie formulazioni deterministiche, implicite nella dialettica causa-effetto di Eisesteiniana memoria - che alternano, in una rete a maglie sempre più fitte, frammenti corporei e incorporei.

Un'altalena di pieni e vuoti tra loro in equilibrio sinergico che, nel contesto sperimentale, nell'arco di neanche un secolo, ha contribuito a spostare l'attenzione da tipologie di continuità analogica a tessiture di fluida discontinuità sempre più indirizzate verso un superamento del figurativismo, e con esso delle riproduzioni realistiche, della forma, della materia; e anche del medium, dello spazio e della 24 Ibidem.

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temporalità, per poi recuperarli, questi ultimi, in altri modi.

Un'idea del pieno inscindibile dall'idea del vuoto, che è poi il concetto fondamentale della parola «zaum», noché la dimensione da cui scaturisce nel 1918, e di nuovo con Malevič, quel Quadrato bianco su fondo bianco che determina una cesura definitiva col passato e la nascita di un'arte nuova proiettata su orizzonti infiniti in cui le immagini in movimento rientrano a pieno titolo.

La sua ultima opera (di Malevič n.d.c), un quadrato bianco su una tela quadrata bianca, costituisce chiaramente il simbolo dello schermo cinematografico, il simbolo della transizione dalla pittura di pigmento alla pura configurazione della luce. Sulla superficie bianca può essere proiettata direttamente la luce in movimento.26

Un'estetica dunque iconoclasta verso ogni dimensione compiuta e limitata che in seguito, nello scenario del cosiddetto postmoderno, termine equivoco e assai discusso,27 sembrerà non volere più ancoraggi e spostare la propria attenzione verso

un'epifania, non speculativa, dell'invisibile, così come verso una poetica del fuoricampo.

Uno spazio quindi di senso che allude a un altrove o che si pone tra. Si potrebbe ipotizzare come in bilico tra una dimensione percettivo-immaginativa infinita e il concetto di «intervallo», di «scarto» «produttivo» dove può abitare un'idea, un significato, un'azione, ma anche la percezione dello spettatore. O un disegno. Quel disegno che, come per Malevič, si traduce in uno spunto di riflessione, testimonianza di un pensiero, territorio d'indagine, icona laica di una «immagine-segno», ma che può diventare nel tempo anche attore principale.

Nell'orizzonte della sperimentazione e delle immagini in movimento lo «scarto» è stato più volte considerato un vuoto generativo. Appunto un «intervallo» inteso come u n fuori coincidente con un potente detonatare del pensiero. E se per il Bergson di

L'evoluzione creatrice (1907) che lo considera come «uno stato che muta»,28

l'intervallo non poteva essere assimilato al tempo spazializzato delle scienze 26 László Moholy-Nagy, Pittura fotografia film (1925), a cura di A. Somaini, Piccola Biblioteca

Einaudi, Torino 2010, p. XXVI.

27 Non essendo questa la sede per approfondire la discussione, mi limito a riportare questa riflessione di Eco: «Malauguratamente “post-moderno” è un termine buono à tout faire. Ho l’impressione che oggi lo si applichi a tutto ciò che piace a chi lo usa. D’altra parte sembra ci sia un tentativo di farlo slittare all’indietro: prima sembrava adattarsi ad alcuni scrittori o artisti operanti negli ultimi vent’anni, poi via via è arrivato sino ainizio secolo, poi più indietro, e la marcia continua, tra poco la categoria del post-moderno arriverà a Omero. Credo tuttavia che il post-moderno non sia una tendenza circoscrivibile cronologicamente, ma una categoria spirituale, o meglio un Kunstwollen, un modo di operare. Potremmo dire che ogni epoca ha il suo post-moderno.» Umberto Eco,

Postille a “Il nome della rosa”, in Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1983, p. 528.

28 Henry Bergson, La pensée et le mouvant, Puf, Paris 1934, tr. it. Francesca Sforza, Pensiero e

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matematiche, somma di istanti, o del cinema, preso a paradigma per il montaggio,29

sarà proprio nel contesto dell'avanguardia cinematografica che diventa oggetto di discussione fruttuosa tanto da essere in personalità contrastanti come Vertov e Ejzenstein un «momento di convergenza».30

È lì come, scrive Somaini, che si «fonda il suo potere “dinamizzante”, la sua capacità di creare tensione e di trasmetterla allo spettatore».31

A distanza di alcune decadi, nella relazione tra il disegno e l'arte elettronica, o meglio, nel rapporto più specifico con le opere videoinstallate, quel fuori oltre ad essere generativo e dematerializzato è un punto di duplice riferimento, che da un lato fa capo proprio al disegno, dall'altro ai vuoti produttivi disseminati prima all'interno del processo creativo dell'opera e poi all'interno di quello percettivo-esperenziale. Un fuori che connota spazi e tempi, utile a rendere singolare tale rapporto e a restituirlo in un inedito acuto espressivo.32

Nei primi decenni del Novecento questo era ancora lontano. Nella strada aperta da Malevič però il dialogo tra segno, disegno e immagini in movimento si arricchisce di significati e assume interessanti prospettive, in seno ai sogni e ai progetti della prima e della seconda avanguardia. E ciò avviene sia trasponendo il ruolo della grafica all'interno del film, sia utilizzando il disegno come studium e quindi come supporto all'interno di un contesto di ricerca e di nuove ipotesi linguistico-produttive che ruotano intorno ai dispositivi di proiezione e di ricezione delle immagini in movimento.

Nel primo caso rientra parte del cosiddetto «cinema dei pittori», epicentro del secondo è invece l’idea di una cinematografia «espansa».

29 Questo perché la realtà risponde a una dimensione fluida.

30 Antonio Somaini, Ejzenstejn. Il cinema, le arti, il montaggio, Einaudi, Torino 2011, p. 71. 31 Ivi, p.72.

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Immagini con didascalie

[fig.1] Malevič, Quadrato nero su fondo bianco (1915)

[fig.2] Malevič, Vittoria sul sole (1913) Disegno fondale scenografico 1 [fig.3] Malevič, Vittoria sul sole (1913) Disegno fondale Costume [fig.4] Malevič, Vittoria sul sole (1913) Disegno fondale scenografico 2

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I.1 Il film astratto

Migrazioni di segni e di forme

A ridosso del 1918, lo stesso anno di Quadrato bianco su fondo bianco, la ricerca sull'astrazione, portata avanti, benché con presupposti diversi, da Kandiskij, Van Doesburg, e Mondrian,33è percorsa anche da artisti che nell'intento di «far uscire la

pittura dal quadro» e darle movimento, rivolgono il proprio sguardo al cinema, in una significativa dialettica con il segno ed il disegno.

Già Picasso, nel 1912, in una conversazione con Daniel-Henry Kahweiler, aveva pensato (anticipando in certo qual modo quanto Clouzot avrebbe fatto con Le

Mystère Picasso nel 1956) alle proprietà del supporto, della ripresa e della

proiezione, tipiche del dispositivo cinematografico, per dare alla pittura «l'impressione del movimento»:

[…] c’è un altro metodo per provocare nella mente dello spettatore l’impressione del movimento: il metodo stroboscopico. Su di esso è basato il cinematografo […] ed è già stato impiegato nei cartoni animati. Dipingendo varie immagini su un materiale trasparente e proiettandole su uno schermo cinematografico, si aprirebbe alla pittura tutto un campo nuovo, con possibilità incommensurabili.34

Benché non siano mai pervenute, se non attraverso la testimonianza dei loro scritti, vanno anche citate le sperimentazioni dei futuristi Ginna e Corra (Arnaldo Ginanni Corradini e Bruno Ginanni Corradini) che, in Italia, ancora prima di Picasso, sfruttandone le possibilità tecniche di movimento e di proiezione, si erano interfacciati direttamente con la pellicola dipingendovi sopra il colore.35

Così come non si può non ricordare Le Rythme coloré (1912),36film del pittore russo

Léopold Survage a cui Apollinaire dedica un doppio omaggio: nel 1917, una mostra con l'esposizione di «un centinaio di cartoni preparati per il film»37 [fig.5] e, tre anni

prima, nell’estate del 1914, la pubblicazione sulla rivista «Le Soirées de Paris» della spiegazione del film stesso, corredata della sua riflessione teorica.38 Qui Survage

parla di «forma visiva propriamente detta (astratta)», spiegando, nella veste di pittore cubista, come tradurne in movimento l'immobilità, traendo spunto da «l'arte del 33 Jolanda Nigro Covre, Malevič...cit., p. 26.

34 Standish D. Lawder, The cubist cinema, New York University Press, New York 1983, tr. it. Maria Flora Giubilei e Clario Di Fabio, Il cinema cubista, Costa e Nolan, Genova 1983, p. 32.

35 Andrea Martini, a cura di, Utopia e Cinema. Cento anni di sogni, progetti, paradossi, Marsilio Editori, Venezia 1994, pp. …. In merito alle relazioni tra il cinema e il Futurismo cfr. Augusto Sainati, a cura di, Cento anni di idee futuriste nel cinema, ETS, Pisa 2012.

36 J. Mitry, Storia del cinema sperimentale, Mazzotta, Milano 1971, p. 30. 37 Ibidem.

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ritmo».39 E, come dice nel progetto, ciò sarebbe infatti potuto accadere dipingendo

delle «forme visive colorate» su una lunghissima serie di cartoni preparatori - alcuni dei quali esposti appunto nella mostra del 1917 - che in un secondo momento sarebbero stati ripresi, uno alla volta, dal mezzo cinematografico e messi in successione come dei fotogrammi.40

La svolta arriva, invece, intorno al 1918, con le ricerche avviate in parallalelo da Eggeling e da Richter, e arriva come contaminazione linguistica e intermediale di segno, disegno, pittura, cinema e ancora una volta (come era già accaduto con i fratelli Corradini e Survage) di ritmo e musica. Siamo ancora distanti dall'avvento del sonoro, ma per rendere attuabile e restituire il loro pensiero in modo efficace, i due artisti, attivi entrambi nel contesto dadaista, prendono a paradigma il linguaggio della musica, estrapolando da questo sia il concetto di spartito che quello di ritmo.

«La tela da cavalletto – scrive Richter - rappresentava un limite e per

superare questo limite si doveva trovare un ‘inizio’ e una ‘fine’ tra loro progressivi. Così abbiamo introdotto delle tele arrotolabili. Grazie a questi rolli abbiamo scoperto, senza volere, un modo d’espressione dinamico differente dalla pittura da cavalletto […] ma contrariamente a quanto avevamo creduto quei rolli non potevano servirci come ‘partitura’ per un film. Per un paio d’anni ci eravamo sforzati di orchestrare delle forme, ma per obbedire alle leggi del cinema bisognava che orchestrassimo il tempo. È il tempo che doveva diventare il fondamento estetico di questo nuovo ‘strumento’ bisognava ricominciare da zero[…]: mi misi a filmare dei rettangoli e dei quadrati di carta di tutte le grandezze, e passando dal grigio più scuro al bianco; […] li facevo ingrandire e sparire, li muovevo a sbalzo o li facevo scivolare, non senza calcolare con cura i tempi, e seguendo ritmi precisi […]. Agendo in modo simile a quanto avevo tentato negli anni precedenti, con la tela e i ‘papiri’. E provavo una sensazione nuova, che condensava tutte le mie 39 «Intendo per forma visiva astratta ogni generalizzazione o geometrizzazione di una forma, di un

oggetto, di ciò che ci circonda. […] Il mezzo proposto per rappresentare astrattamente la forma irregolare di un corpo reale è quello di ricondurlo a una forma geometrica semplice o complicata; e queste rappresentazioni trasformate starebbero alle forme degli oggetti del mondo esterno, come il suono musicale sta al rumore. […] Una forma astratta immobile non è ancora abbastanza eloquente. […] Solo mettendosi in movimento, trasformandosi ed incontrando altre forme è in grado di evocare un sentimento. È per la sua funzione e destinazione che diviene astratta. Trasformandosi nel tempo, percorre lo spazio; incontra altre forme in via di trasformazione; si combinano insieme ora camminando fianco a fianco, ora combattendo fra loro o danzando seguendo il ritmo imposto da una certa cadenza […] così il ritmo visivo diviene analogo al ritmo sonoro della musica. In questi due campi il ritmo svolge la stessa funzione. Di conseguenza, nel mondo plastico, la forma visiva di ciascun corpo ci è preziosa solo come fonte, come mezzo per esprimere ed evocare il nostro dinamismo interiore e non già per rappresentare il significato o l’importanza che questo corpo assume, di fatto nella nostra vita […] Il colore. Dal punto di vista psicologico, non sono né il colore né il suono, assoluti, isolati, che ci toccano e ci influenzano; ma le sequenze alternate di colori e di suoni. Quindi, grazie al suo principio di mobilità, l’arte del ritmo colorato aumenta questa alternanza […] col movimento il carattere di questi colori acquista una forza superiore alle armonie immobili. Perciò il colore a sua volta si collega al ritmo. Cessando di essere un accessorio degli oggetti esso diviene il contenuto, l’arma stessa della forma astratta.» J. Mitry, Storia...cit., pp. 29-30.

40 «Per un brano di tre minuti bisogna preventivare la ripresa dalle mille alle duemila immagini. È molto!» Leopold Survage in J. Mitry, Storia...cit., p. 29.

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prime esperienze artistiche: la sensazione del ritmo. Sono ancora oggi persuaso che il ritmo, ovvero l’articolazione delle unità di tempo, costituisce la sensazione per eccellenza che può provocare ogni

espressione del movimento nell’arte del cinema.»41

L'idea dei «rolli» era nata con molta probabilità da Eggeling e forse la genesi di questa scelta si trova in quei «cartoni preparatori» di Survage visti dal pittore svedese nella mostra di Apollinaire.42

Gli studi sui rotoli di carta trovano effettivo compimento per Eggeling in Diagonale

symphonie (1925) e per Richter nella serie dei Rhythmus avviata con Rhythmus 21.43Il tracciato di fondo di ogni inquadratura in Diagonale symphonie è a forma di

«X», ma tale forma si intuisce solamente. Sullo schermo non appare mai nella sua interezza ed è solo l’alternanza, da un asse della X all’altro, di linee bianche su fondo nero che la rende percepibile. Ad ogni evoluzione sul primo asse fa riscontro una controparte identica sul secondo, in un crescendo sempre più articolato. Il ritmo è dato dalla «velocità» con cui la composizione di linee e curvilinee si forma, si alterna, si complica e si ridimensiona seguendo le «regole musicali del contrappunto»44.

Eggeling […] – primo dopo i futuristi – sviluppò ulteriormente il problema del tempo, sconvolgendo ogni estetica esistente e impostando una rigorosa problematica scientifica. Egli fotografava sul tavolo di montaggio una sequenza di movimenti ricavati da elementi lineari estremamente semplici e cercava di rendere accessibile all’occhio il processo che conduce dalla forma semplice a quella complessa considerando attentamente i rapporti che si andavano sviluppando quanto a dimensioni, ritmo, ripetizione, discontinuità e così via. I suoi esperimenti si accostavano dapprincipio fortemente alla problematica musicale, alla sua struttura complessiva. Lentamente si impose però alla sua attenzione il fenomeno ottico- temporale e così il suo lavoro, precedentemente impostato come dramma di forme, diventò un abbicci dei fenomeni di movimento in variazioni di chiaroscuro e di direzione.45

Figli del proprio tempo Eggeling e Richter cercano di mettere a punto nuovi e autonomi elementi linguistici che non stanno per qualcos'altro, non hanno ricadute sul fronte del significato e del significante. In linea con gli assunti della «perdita 41 Hans Richter, Dada, Kunst und Antikunst, M. DuMont Schauberg, Colonia 1964; tr.it.: M. L. Fama

Pampaloni, a cura di, Dada Arte e Antiarte, Mazzotta, Milano 1966, pp. 75-78. 42 J. Mitry, Storia cit., p. 30.

43 Richter realizza di lì a poco anche Rhythmus 23 (1923) e Rhythmus 25 (1925).

44 Paolo Bertetto, Cinema d’avanguardia in Europa, Il Castoro, Milano 1996, pp. 161-162; cfr. anche Carlo Montanaro, Dall’astrattismo all’astratto, in Michele Emmer, a cura di, Matematica e

cultura 2008, Springer-Verlag Italia, Milano 2008, pp. 193-194.

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dell'aura» il segno o la forma implicano soltanto modalità di osservazione processuali che insistono sul valore dell'alternanza relazionale. La “orchestrazione” armonica dei segni pittorici e delle linee di Eggeling così come quella dei «dei

rettangoli e dei quadrati» di Richter, anch'essi composti e giustapposti secondo la

dinamica del «contrappunto», se ha richiesto insieme alla mediazione del tempo musicale, quella della carta e della partitura scritta, ha dato ai due artisti l'opportunità di operare concretamente una transizione intermediale del segno e della forma, una traduzione spazio-temporale delle dinamiche del processo creativo, una trasposizione concettuale dell'idea - che quando diventerà filone estetico, nella seconda parte degli anni Sessanta, con appunto l'affermazione dell'Arte Concettuale, trasformerà radicalmente proprio la posizione del disegno - l'approfondimento di una formula basata sull'alternanza del bianco e del nero, del pieno e del vuoto, dell'affermazione e della negazione e su quella iterazione modulare che seguiva le logiche industriali e scientifiche dell'epoca «la cui dinamica (velocità), variabilità (creazione di nuovi oggetti) e artificialità (ruolo delle macchine nella produzione) oltrepassavano lo sguardo stabile che il pubblico era abituato a esercitare sul mondo».46

Ma il dinamismo, la variabilità e l'artificio sono più che mai proprie anche del contesto videoartistico. Forse, allora, insieme alla ricerca delle radici e del filo storico che conduce alla relazione tra le immagini elettroniche e il disegno, non è azzardato sostenere, ad esempio, che nello studio di Eggeling, così puntuale, preciso, matematico, scientifico, articolato su una dinamica generativa e frutto di una contrapposizione crescente, si possa intravedere, anzi tempo, e al di là dell'affinità con l'anticonvenzionalità del video, un paralellismo con quel flusso di creazione e distruzione di natura foto-matematica tipico della dimensione elettronica.

Più chiaro e indicativo appare invece, e già oggetto di altre analisi,47 il legame di

Richter tra lo studio del «quadrato» e la forma quadrangolare dello schermo, con le conseguenti ricadute estetiche. Ripresa, sebbene con un accento più lirico, pure da Ruttmann nei suoi Opus,48 la composizione e scomposizione del quadrato, caro a

Malevič, ma anche a Mondrian e ad altri illustri astrattisti, si inserisce nel panorama delle nuove configurazioni spaziali degli anni Venti, che contemplavano insieme alla quarta dimensione gli sviluppi delle geometrie non euclidee, e nel dibattito culturale 46 Pierre Sorlin, Astrattismo, pittura, cinema: l’esperienza dell’avanguardia cinematografica tedesca

negli anni Dieci, in Leonardo Quaresima, Laura Vichi, a cura di, La decima musa, il cinema e le altre arti, Atti del 6. Convegno internazionale di studi sul cinema, Udine-Gemona del Friuli, 21-25

marzo 2000, Dipartimento di storia e tutela dei beni culturali, Università degli studi di Udine. -Forum, Udine 2001, p. 389.

47 Antonio Somaini, Ejzenstejn...cit., pp. 97-99.

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sulla ridefinizione dei sistemi ottico-cinetici.

I.2 Sguardi fluttuanti

Un'altra questione urgente si innesta quindi sul problema posto dal quadro: è giusto che oggi, all'epoca dei fenomeni mobili di luce riflessa e del cinema, si continui a praticare come configurazione cromatica la singola immagine statica? L'essenza del quadro singolo è la produzione di tensioni nei rapporti di colori e (o) di forme sul piano, è la produzione di nuove armonie cromatiche in condizioni di equilibrio. L'essenza dei giochi di luce riflessa è la produzione in modo cinetico di tensioni di luce-spazio-tempo in armonie cromatiche o chiaroscurali e (o) in forme varie, in una continuità di movimento come decorso ottico del tempo in condizioni di equilibrio. Qui, il nuovo fattore temporale insorgente e il suo progressivo articolarsi generano una accresciuta disposizione attiva nello spettatore, il quale – invece di meditare sulla immagine statica e di sprofondarsi in essa, dopo di che solamente ha inizio la sua attività – viene costretto in certo qualmodo a svolgere una doppia azione, per poter esercitare un controllo e contemporaneamente essere partecipe degli avvenimenti ottici.49

L'articolazione del «quadro» in modo dinamico si inserisce per Moholy Nagy, una delle colonne portanti del Bauhaus, in una visione più ampia che investe l'intero universo della visione, dalla pittura al cinema passando attraverso l'architettura ma anche la dimensione grafica e tipografica. Il segno è immagine, parola e luce.

Ogni tempo ha un atteggiamento ottico che gli è proprio. Il nostro tempo: quello del film, della pubblicità luminosa, della simultaneità degli avvenimenti percepibili coi sensi. Anche nel procedimento tipografico esso ha prodotto per noi una nuova base creativa in continuo sviluppo.50

Moholy-Nagy, nel 1926, dedica un intero scritto alla «tipografia moderna». Nell’assecondare e sostenere il continuo sviluppo delle sollecitazioni visive, l’artista ungherese attribuisce alla tipografia il compito di superare la progressione lineare tipica dell'era Gutenberg e dar conto dei mutamenti tecnologici e mediali in atto, nonché della ricchezza di dati contenuta al loro interno, in modo qualitativo. A tale proposito indica, come caratteristiche che determinano il concetto di modernità la chiarezza, la concisione, la precisione e un efficace impatto visivo, perseguibile attraverso la sperimentazione fotografica, ovvero la «rappresentazione visiva di ciò 49 László Moholy-Nagy, Pittura fotografia film...cit., pp 21-22.

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che è afferrabile otticamente» e il fotomontaggio, tecnica di grande forza per cui auspica uno «sviluppo meccanico».51

Nell'ambito della «cultura della luce»,52 che deve accumunare ogni «specificità»,

secondo Moholy-Nagy è necessario attivare nuovi modi «produttivi» e «riproduttivi»53 dove sono chiamate in causa tutte le superfici: dalle pagine dei libri

ai manifesti, dal vetro delle architetture alle pellicole, ai fotogrammi, agli schermi di proiezione. L'intervento su di esse deve dare luogo a dinamiche percettive non abituali e a quella «visione simultanea» tipica delle architetture delle metropoli e dei nuovi materiali inseriti nell’urbanistica, che amplifichi l’idea di leggerezza e di «compenetrazione ottica», dettata dalle sollecitazioni ritmiche e vibranti a cui lo sguardo contemporaneo è sottoposto.

Si dovrebbe costruire una sala cinematografica le cui attrezzature e piani di proiezione servano a scopi sperimentali diversi. Si può ad esempio immaginare che la comune superficie di proiezione sia divisa, mediante semplici attrezzature regolabili, in diversi piani e spazi posti obliquamente come un paesaggio a monti e valli […] Un'altra proposta per modificare le superfici di proiezione sarebbe questa: uno schermo a forma di settore di sfera al posto di quelli attuali, rettangolari. Questa superficie di proiezione deve avere un raggio molto grande, quindi una profondità minima, e la si deve collocare a un angolo visivo di circa 45° rispetto allo spettatore. Su questo schermo si dovranno proiettare diversi film...non però in posizione fissa ma in continuo movimento da sinistra verso destra, o da destra verso sinistra, dal basso verso l'alto, dall'alto verso il basso, ecc.54

L’anima geometrica quadrangolare della porzione di spazio frontale rispetto alla proiezione è pronta per la trasformazione.

Pronta a prendere in considerazione nuove angolazioni e nuove forme geometriche, come la sfera. Pronta ad adeguarsi alle mutazioni cinetiche e tecnologiche in atto e a diventare un indice rappresentativo di una «dinamica dell’ottico» smaterializzante, già presente nella realtà.

51 Ivi, pp. XVI-XVII. 52 Ivi, p. XXVI.

53 László Moholy-Nagy: «L’arte cerca di stabilire relazioni nuove e più ampie tra fenomeni ottici, acustici ed altri fenomeni funzionali noti e quelli ancora sconosciuti, così da promuovere poi l’acquisizione da parte degli apparati funzionali, in via di costante miglioramento. È nell’indole umana che a ogni nuova acquisizione l’apparato funzionale solleciti ulteriori nuove impressioni. Questo è uno dei motivi dell’insopprimibile necessità di nuovi esperimenti creativi. Sotto questo punto di vista, le creazioni sono valide solamente qualora producano nuove relazioni, fino ad allora sconosciute. Con ciò è di nuovo affermato che la riproduzione (ripetizione di relazioni già esistenti) priva di aspetti innovativi, dal particolare punto di vista della composizione creativa, è da considerare nel migliore dei casi, alla stregua di un virtuosismo. Poiché la produzione (creatività produttiva) serve soprattutto allo sviluppo dell’uomo, noi dobbiamo cercare di estendere a scopi produttivi quegli apparati (mezzi) finora usati solo a fini riproduttivi.» Ivi, p. 28.

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Laslo Moholy-Nagy ha ben presente il mondo fenomenico e parte da questo.

Nel 1918 il Quadrato bianco su fondo bianco di Malevič ha dato il via alla ridefinizione pittorica. L’opera di Malevič nell'ottica di Moholy-Nagy è determinante perché mette la pittura di fronte alla sua stessa evidenza. La crisi, cominciata con l'avvento della fotografia, è come se fosse giunta all'apice della consapevolezza. La pittura non deve occuparsi di mimesi, deve fare altro. Ma lo stesso vale per la fotografia e per gli altri mezzi di «riproduzione», che sono, al contrario, «apparati» per eccellenza «produttivi», capaci cioè di quella creatività e visione nuova in grado di rispondere alle sollecitazioni sensoriali, coeve e future, e farsi, allo stesso tempo, portavoci di crescita sociale.

Non dunque un azzeramento del reale, ma, come dimostra anche la produzione dei “fotogrammi”,55 uno stare dentro per ricevere al meglio e nella maniera più variata i

suoi stimoli. Uno stare dentro chiamato inevitabilmente ad attivarsi perché indotto a osservare la stratificazione e la giustapposizione delle immagini, declinate attraverso la negazione di ogni tipo di spessore e la labilità delle linee di demarcazione, e quindi, prefigurando uno scenario proprio della contemporaneità e soprattutto dell'arte elettronica e delle videoinstallazioni, senza certezze definite ma con degli interrogativi aperti sia nei riguardi della bidimensionalità che della tridimensionalità degli spazi.

Nel dialogo a distanza con l'arte elettronica e il mondo delle videoinstallazioni anche Vertov, Epestein o Gance56 avevano teorizzato e praticato uno sprofondamento

spaziale, rendendolo possibile sia attraverso l'uso di una «cinepresa scatenata» e audace,57 sia pensando per la fase di proiezione ad una moltiplicazione degli

schermi.58 Ma per le implicazioni connesse alla pratica del disegno Ejzenštejn lo

rende ancora più interessante, rendendo la sua figura un importante riferimento anche da questa angolatura. Ejzenštejn, infatti, in qualità di teorico crea le premesse di un parallelismo con la contemporaneità videoartistica sia a proposito del suo illuminante pensiero sul montaggio, sostenendo l'importanza anche di un montaggio «interno» all'inquadratura, sia introducendo proprio in merito al “Quadrato” e alla sua 55 Per fotogramma qui si intende la fotografia senza macchina fotogafica.

56 Philippe Dubois, Marc-Emmanuel Mélon, Colette Dubois, Cinema e video: compenetrazioni, in Sandra Lischi, a cura di, cine ma video, Ets, Pisa 1998, p. 92.

57 Punti di vista inediti e diversificati.

58 Abel Gance per il Napoléon (1927) pensa a una polivisione su tre schermi. Su Napoléon cfr. N. Kaplan, Manifesto di una nuova arte: la polivisione, in A. Martini, a cura di, Utopia e cinema.

Cento anni di sogni, progetti e paradossi, Marsilio,Venezia 1994, p. 52; Silvia Boraso, Napoléon vu par Abel Gance: epopea di una ricostruzione, «Cinergie», n. 5, settembre 2002; Yann Tobin, SurNapoléon d’Abel Gance, «Positif», n. 256, giugno 1982; Andrea Mariani, Il colore perduto di Napoléon, in Giulio Bursi, Simone Venturini, a cura di, Quel che brucia (non) ritorna. What burns (never) returns. Lost and found films, Campanotto, Udine 2011.

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relazione con lo schermo il concetto di «quadrato dinamico»,59 ovvero una

quadrangolarità suscettibile, a seconda del contenuto a cui debba essere rapportata, di modifiche sia in senso orrizzontale che verticale, a mo' di quella «pittura da srotolare» di tradizione giapponese60 e con anche qualche sintonia con i «rolli» di

Eggeling e Richter.

Ejzenštejn è un grande disegnatore e nella classificazione dei disegni da lui realizzati Somaini evidenzia almeno tre tipologie:

I disegni realizzati nel contesto del lavoro alle regie teatrali e cinematografiche (studi per scenografie, costumi, inquadrature, pose, sili di recitazione, spesso mostrati agli assistenti e agli attori durante la preparazione di spettacoli e film, al fine di veicolare nel modo più diretto possibile le proprie scelte di regia); i disegni realizzati con obiettivi didattici o teorici (tutti i disegni su carta o alla lavagna realizzati durante le lezioni di regia all'Istituto statale di cinematografia GIK...con cui Ejzenštejn spiegava agli studenti le regole del gioco e della messa in scena, così come quelli concepiti come illustrazione di saggi teaorici, per esporre determinate tesi sul montaggio, analizzare opere tratte dalle arti figurative o ricostruire ex post il senso di sequenze e inquadrature riprese dai propri film); infine tutti quei disegni che furono realizzati da Ejzenštejn senza un obiettivo esplicitamente legato alla pratica della regia, alla didattica o alla scrittura teorica, ma piuttosto all'interno di una sfera creativa autonoma, privata, libera da tutti quei vincoli di cui bisognava tener conto nelle opere destinate a una presentazione pubblica, eppure capace di avere delle ripercussioni molto profonde sul suo modo di fare e di pensare il cinema e l'arte in genere.61

Ejzenštejn, come fa anche Moholy Nogy, inserisce il disegno in qualità di estetica grafica tradotta per le immagini inmovimento, anche all'interno del film. Sempre Somaini fa notare le reiterazioni di alcuni moduli grafici tipici del Costruttivismo, riscontrabili in figure geometriche che contemplano ancora una volta il quadrato ma anche il rettangolo diagonale, il cerchio e il triangolo «come se Ejzenštejn considerasse l'iscrizione della luce sulla pellicola cinematografica, la foto-grafia, come una naturale prosecuzione del disegno su carta che aveva smesso di praticare».62

Nel richiamo al rapporto tra il disegno e le videoinstallazioni il parallelismo va con un caso ancora diverso. I disegni in questione, corredati spesso da note, riguardano il

59 Titolo della conferenza tenuta da Ejzenštejn a Hollywood nel 1930 presso la Academy of Motion Picture Arts and Sciences. Per il testo cfr. Antonio Somaini, Ejzenstejn. ...cit., pp. 412-422. 60 Antonio Somaini, Ejzenstejn. ...cit., p. 101.

61 Ivi, p. 141. 62 Ivi, p. 145.

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progetto di Glass House (1926-1930), mai trasformatosi in film. In questi disegni Ejzenštejn, sposando, come Moholy Nogy, un'estetica smaterializzante, prefigura degli spazi mobili e «fluidi» [fig.6] [fig.7] che rendono enigmatico il rapporto tra interno ed esterno e restituiscono anche un'idea di sospensione spazio-temporale che contempla l'idea di vuoto e di straniamento.

Glass House oltre ad essere inscidibile, come sempre nel cinema di Ejzenštejn, da

una riflessione sociopolitica inserita sia in quel dibattito architettonico, centrato, per la creazione di una nuova società russa, sulla difficile relazione pubblico-privato (case come «incubatori sociali» con una dimensione privata se non annulata resa minima), sia conseguente all'affermazione e alla riflessione sul vetro, la leggerezza e potenza dei nuovi materiali, indagata in quel periodo soprattutto in Russia e in Germania anche da Ruttmann con Berlino. Sinfonia di una grande città (1927), Fritz Lang con Metropolis (1927), o ancora da architetti come Grophius, Le Corbusier e Chareau e con precedenti anche letterari,63riflette nei disegni, e le delinea, le

potenzialità dello spazio cinematografico che, come accade con la trasparenza del vetro, dovrebbe, da un lato, mettere lo sguardo in grado di cambiare continuamente il punto di vista, dall'altro, e allo stesso tempo, renderlo spaesato e sorvegliato – e qui non possono non venire alla mente le videoinstallazioni realizzate con le videocamere di sorveglianza all'inizio del percorso videoartistico da Nauman, Viola, Gary Hill e altri ancora.

Uno spazio che nei disegni non contempla quasi mai il margine, o meglio, facendosi corpo trasparente rende marginale ogni centralità e rende superflua anche la gravità. Uno spazio che doveva essere immersivo e far vivere la percezione dell'immersività allo spettattore attraverso, questa l'ipotesi di Ejzenštejn, la proiezione su un

«écran-monstre» un schermo di dimensioni mostruose grande almeno quattro volte più del

normale,64 da percorrere con uno sguardo disturbato nella frontalità prospettica e

capace di spaziare.

La labilità dei confini tra spazi bidimensionali e tridimensionali così come il dialogo tra la fissità del formato quadrangolare dell'inquadratura e dello schermo e la figura del cerchio-sfera, si riafacciano con i prototipi dei rotorelief65 di Duchamp in Anémic

63 Cfr. ad esempio Che fare?di Nikolaj Gavrilovic Cernysevskij.

64 Antonio Somaini, Ejzenstejn. ...cit., p. 103.

65 I Rotorelief veri è propi saranno realizzati nel 1936. In questo caso i suppurti in cartone costinuiscono diciannove dischi ottici rotanti, di cui dieci con il tema del cerchio e della spirale, e nove costituiti da nonsense dadaisti. I supporti, in cartone e dipinti a olio, possono essere letti anche come metafora del movimento circolare della proiezione e della pellicola.

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cinéma (1926),66 film realizzato in collaborazione con Man Ray.

Marcel Duchamp, pittore, scultore, personalità tra le più stimolanti del Dadaismo e poi del surrealismo, aveva avviato una stretta amicizia e collaborazione con Man Ray, altra colonna portante del Dadaismo, a partire dal 1912 e nel 1920 è con il suo aiuto che realizza la prima delle sue macchine rotanti: Rotative plaques de verre (1920) [fig.8].67

Cinque supporti di vetro, rettangolari, con dimensioni a scalare, equidistanti l'uno dall'altro e graficamente trattati alle estremità da linee leggermente incurvate bianche e nere, sono attraversati nel centro da un unico asse, azionabile da un motore esterno, come accade per l'aberino di un giradischi.

La messa in moto produce la rotazione dei supporti e, per chi vi si pone di fronte, l'illusione ottica di un unico disco in continuo movimento.

Pochi anni dopo, nel 1925, Duchamp realizza un'altra macchina rotante che chiama

Rotative Demi-Sphère [fig.9]. In questo caso al posto dei supporti in vetro Duchamp

pone un'unica semisfera convessa, a sfondo nero, su cui dipinge, in bianco, dei cerchi «eccentrici», non centrati l'uno rispetto all'altro. Una volta azionato il movimento la semisfera produce come effetto ottico una sequenza di spirali alternate bianche e nere.

Anémic cinéma parte da qui, dai due precedenti del 1920 e del 1925, dall'essenza di

due dispositivi scultorei e mobili. Parte da un contesto tridimensionale per diventare bidimensionale e alimentare, di nuovo, una tridimensionalità, in questo caso puramente ottica e immateriale, indice di uno sguardo giocato!

La linea spiraliforme è la dominante di Anémic cinéma [fig.10].

Riportata su ogni disco con spessore diverso - sulla cui traccia saranno organizzati anche i giochi di parole presenti su solo alcuni dei supporti – una volta messo in moto il dispositivo, posto davanti alla cinepresa e funzionante come i precedenti, questa linea produce un continuo scambio tra la bidimensionalità, reale, della superficie e la tridimensionalità, illusoria, creata dagli effetti di profondità e di rilievo che prendono corpo col movimento. Sul fronte prettamente grafico, l'ambivalenza 66 Per Anémic cinéma cfr. A. Costa, Cinema e Avanguardie storiche, in G.P. Brunetta, a cura di,

Storia del cinema mondiale. Miti, luoghi, divi, Volume I, Einaudi, Torino 2001, pp. 339.

67 Guy Brett, Force Fields: Phases of the Kinetic, exhibition catalogue, Force Fields. Phases of the

Kinetic, MACBA Museu d’Art Contemporani, Barcellona, 19 aprile-18 giugno; Hayward Gallery,

Londra, 13 luglio - 17 settembre, Paperback, London 2000, p. 47; Antonio Bisaccia, Punctum fluens: comunicazione estetica e movimento tra cinema e arte nelle avanguardie storiche,

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spaziale nel caso delle parole trasforma queste in immagini, creando un'ambiguità linguisitica tra i caratteri che le compongono e il segno grafico; in qualità, invece, di pura linea dà luogo all'illusione di una serie di cerchi fugaci e concentrici. Lo spaesamento percettivo che ne emerge mette in discussione lo sguardo ma anche l'idea di staticità, propria di una dimensione fissa. Quella che si muove è un'unica forma tracciata su un supporto. E attraverso un impulso meccanico, dando movimento a quell'unica forma, Duchamp si sposta nello spazio riempiendo gli «intervalli», lo «scarto» determinato dalla consequenzialità lineare o dalla circolarità parallela, di tempo. Un tempo che, volendolo avvicinare, dal 1913 - l'anno del disegno di Malevič – di Ruota di bicicletta, il primo ready-made di Duchamp, al 1926 ha continuato a girare e ad attraversare lo spazio, pluridimensionato, della fisicità e dell'incommensurabile, restituendo, in linea con il pensiero benjaminiano, copie moltiplicate di un concetto e numerose variazioni, fisiche, di un tema.

Già nel 1913 ebbi la felice idea di montare una ruota di bicletta su uno sgabello di cucina e di osservarla mentre girava. Un paio di mesi più tardi comprai una riproduzione a buon mercato di un paesaggio invernale, che io intitolai Pharmacy (Farmacia) dopo averci dipinto sull'orizzonte due piccoli punti, uno rosso e uno giallo. A New York, nel 1915, comprai in un negozio di ferramenta una pala per spalare la neve sulla quale scrissi “In advance of broken arm” (in previsione di un braccio rotto). Circa in quell'epoca mi venne in mente la parola “ready-made” per definire questo genere di lavori.

C'è un particolare che vorrei sottolineare, e cioè che la scelta del ready-made non era mai dettata da un senso di godimento estetico. La scelta era fatta in base a una reazione ottica di assoluta indifferenza che prescindeva completamente dal buono o dal cattivo gusto... insomma in uno stato di completa anestesia (assenza di coscienza). Una caratteristica importante consisteva nella brevità delle frasi con le quali talvolta intitolavo i miei ready-made. Queste frasi avevano lo scopo di guidare il pensiero dell'osservatore verso altre sfere, di natura più verbale (letteraria). Talvolta vi aggiungevo un particolare grafico per soddisfare il mio gusto per le allitterazioni – e poi lo chiamavo “ready-made-aided” (ready-made aiutato).

Un'altra volta, per mettere a nudo l'inconciliabilità e contraddittorietà sostanziale dell'arte e del made, inventai un “reciprocal ready-made”: un Rembrandt come asse da stiro. Ben presto compresi il pericolo di un ripetersi indiscriminato di questo tipo di espressione e decisi di limitare a un certo numero per anno la produzione di ready-made. Mi rendevo ben conto a quel tempo che, ancor più per lo spettatore che per l'artista, l'arte è un mezzo per autointossicarsi (come l'oppio) e volevo preservare i miei ready-made da una simile profanazione. Un'altra caratteristica dei ready-made è che mancano di esclusività...La riproduzione di un ready-made comunica lo stesso messaggio e, effettivamente, non uno dei ready made oggi esistenti è un “originale” nel senso tradizionale della parola.

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Per concludere, ancora un'osservazione a proposito di questo circolo vizioso: poiché tutti i tubetti di colori usati dal pittore sono prodotti industriali e ready-made, ne dobbiamo far conseguire che tutti i dipinti esistenti al mondo sono dei ready-made voluti.68

68 Marchel Duchamp in Hans Richter, Dada, Kunst und Antikunst, M. DuMont Schauberg, Colonia 1964; tr. it.: M.L. Fama Pampaloni, a cura di, Dada Arte e Antiarte, Mazzotta, Milano 1966, p. 156, il testo è anche in Jean Jacques Lebel, Gabriele Mazzotta, Ewald Rathke, Il Disegno del nostro secolo: prima parte, da Klimt a Wols, Mazzotta, Milano 1994, pp. 286-287.

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Immagini con didascalie 2 pagine

[fig.5] Léopold Survage, Le Rythme coloré (1912), uno dei cartoni [fig.6] Ejzenštejn, Glass House (1926-1930), disegno

[fig.7] Ejzenštejn, Glass House (1926-1930), disegno [fig.8] Marcel Duchamp, Rotative plaques de verre (1920) [fig.9] Marcel Duchamp, Rotative Demi-Sphère (1925) [fig.10] Marcel Duchamp, Anémic cinéma (1926)

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