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Le Private Label tra evoluzione del consumo ed economia contrattuale in agricoltura

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Academic year: 2021

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INDICE

INTRODUZIONE ... 3

CAPITOLO PRIMO Evoluzione del consumo e affermazione della grande distribuzione organizzata 1.1. L’evoluzione storica del consumo e dei luoghi ad esso dedicati ... 9

1.2. La GDO e i moderni luoghi del consumo ... 18

1.2.1. Nozione di GDO ... 19

1.2.2. Origini ... 22

1.2.3. L’affermarsi della GDO in Italia ... 25

CAPITOLO SECONDO La fidelizzazione dei nuovi consumatori attraverso le Private Label 2.1. Dai non-luoghi di consumo alla crescente partecipazione dei nuovi consumatori al processo di distribuzione... 31

2.2. La nuova razionalità dei consumatori e l’esigenza di una risocializzazione del luogo di vendita: la risposta della GDO. I casi Coop e Conad ... 37

2.3. La conquista della fedeltà dei consumatori attraverso le “linee premium” della marca privata ... 50

2.4. Le Private Label ... 55

2.4.1. Nozione ... 55

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2.4.3. La crescita e l’affermazione delle Private Label in Europa e in

Italia ... 62

CAPITOLO TERZO Rapporto distributore-produttore 3.1. Le aziende produttrici di private label ... 72

3.1.1. Requisiti delle organizzazioni che producono per la GDO ... 73

3.2. I contratti fra distributori e produttori ... 79

3.2.1. Economia contrattuale in agricoltura. I contratti di integrazione verticale ... 81

3.2.2. La mancanza di una disciplina specifica del sistema agro-alimentare italiano ... 89

3.2.3. I contratti di coltivazione, allevamento e fornitura ... 94

3.2.4. La legge 88/1988 ... 97

3.2.5. Il d.lgs. 102 del 2005 ... 99

3.2.6. L’applicabilità ai contratti di coltivazione, allevamento e fornitura della normativa sui contratti di cessione dei prodotti agroalimentari ... 104

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE ... 112

BIBLIOGRAFIA ... 115

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INTRODUZIONE

Nelle economie moderne le imprese della distribuzione sono costrette a confrontarsi all’interno di mercati globali caratterizzati da un eccesso strutturale di offerta, una condizione questa che ha lentamente condotto allo sviluppo delle Private Label. Con tale termine, in Italiano “marca privata o commerciale”, si definiscono i prodotti e/o servizi solitamente realizzati da aziende produttrici terze e venduti con il marchio del distributore, ovvero con il nome della catena distributiva o del supermercato che li pone in vendita. Questi prodotti sono utilizzati dagli operatori commerciali come uno strumento attraverso il quale poter rafforzare il proprio potere nei confronti dell’industria e poter migliorare i propri margini di profitto.

Il ruolo rivestito dalle Private Label nella distribuzione commerciale non si esaurisce in questo. Difatti, le imprese della grande distribuzione, attraverso lo sviluppo di questa tipologia di prodotti, possono conseguire un vantaggio competitivo rispetto ai propri concorrenti e possono migliorare le relazioni con i consumatori, dato che la Private Label costituisce un valido strumento di fidelizzazione del cliente.

Questa tesi affronta il tema delle Private Label nell’ambito alimentare della Grande Distribuzione Organizzata, con il proposito di effettuare un’analisi del ruolo da esse assunto all’interno del sistema distributivo alla luce dello sviluppo che nel corso degli anni ha interessato il settore del commercio degli alimenti.

In merito al ruolo assunto dalle Private Label all’interno della Grande Distribuzione Organizzata, esistono quattro profili di grande interesse che potrebbero essere oggetto di analisi giuridica: (i) il profilo industrialista, concernente la contrapposizione tra i prodotti di marca industriale e gli omologhi venduti con marca commerciale. Fra le problematiche giuridiche che si sollevano sotto questo profilo, un esempio è costituito di quesiti sulla

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liceità delle tipologie di packaging – il c.d. problema del look-alike - a cui ricorrono le insegne della GDO per propri prodotti a marchio private label le quali, nella maggioranza dei casi, risultano essere quasi identiche al packaging dei prodotti a marchio industriale. Questione di non facile soluzione nel nostro ordinamento, poiché tale problematica investe una pluralità di istituti giuridici e distinte disposizioni di legge che costringono l’azienda che voglia agire contro l’indebita ripresa di un packaging proprietario, a confrontarsi con una pluralità di disposizioni di legge spesso applicabili in via alternativa o residuale; (ii) il profilo della comunicazione, relativo alle problematiche insorte successivamente all’entrata in vigore, nel dicembre del 2014, del regolamento (CE) 1169/2011 avente ad oggetto la

nuova etichetta europea. La normativa, infatti, dimostra una lacuna laddove

non obbliga le imprese distributrici di un prodotto, nel caso in cui non abbiano anche proceduto al confezionamento dello stesso, a menzionare in etichetta l’azienda confezionatrice. Ne conseguono effetti rilevanti proprio nello specifico settore di mercato delle private label, dato che le imprese della grande distribuzione europea che operano nel nostro Paese e i grandi marchi italiani posseduti da multinazionali estere, possono delocalizzare la produzione al di fuori dei confini italiani, con danno per le nostre imprese che dovranno quindi concorrere sul mercato con prodotti apparentemente “made in Italy”, ma che in realtà hanno solo parvenza italiana; (iii) il profilo della responsabilità delle aziende distributrici di private label nei confronti dei consumatori per i danni arrecati agli stessi da vizi o difetti dei prodotti, tali da renderli inidonei all’uso a cui sono destinati. Apparentemente non sembrerebbero sussistere in tale ambito rilevanti differenze dalla classica ipotesi della responsabilità civile del rivenditore, se non ché, di fatto, un’impresa distributrice operante nella Grande Distribuzione Organizzata è un soggetto ben organizzato, certamente non carente dei mezzi necessari ad eseguire accurati controlli sui prodotti e quindi passibile di un grado maggiore di responsabilità. Questo aspetto è ancor più marcato nel caso in

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cui la responsabilità dell’impresa sia riconducibile a danni procurati ai consumatori da prodotti a marchio commerciale, dato che in tal caso l’impresa di distribuzione non si limita a vendere il prodotto, ma gestisce attivamente la fase di produzione dello stesso, nella quale pertanto dovrebbe effettuare precisi controlli sulla sicurezza e qualità; (iv) l’ultimo profilo è quello contrattuale–agraristico, sul quale si concentra parte della presente tesi. Difatti, osservando i rapporti tra le imprese di distribuzione che si avvalgono di Private Label e aziende produttrici, si mira ad approfondire il tema dell’economia contrattuale in agricoltura, dedicando un’attenzione particolare alle varie tipologie di relazioni contrattuali che l’esperienza giuridica ha registrato negli ultimi decenni per fare fronte alla debolezza degli agricoltori nei confronti della parte forte, quella industriale e/o commerciale, ed evidenziando come il nostro ordinamento sia carente di un’adeguata disciplina giuridica in materia. Infatti, dalla stipulazione di contratti di integrazione verticale ad opera dei produttori agricoli e delle industrie di trasformazione e/o distribuzione deriva una situazione di squilibrio contrattuale svantaggiosa per gli agricoltori, schiacciati dal forte potere contrattuale delle imprese di distribuzione derivante dalla mancanza, nella disciplina vigente, di una soluzione soddisfacente, che consenta di dare un durevole ed equo assetto ai rapporti tra gli operatori economici.

L’elaborato è strutturato in tre capitoli.

Nel primo capitolo oggetto di analisi sarà l’evoluzione storica del consumo e dei luoghi ad esso dedicati. In particolare si dirà come, partendo dall’Antica Grecia, si sia giunti all’affermazione della Grande Distribuzione Organizzata che caratterizza il mercato moderno. Nella prima parte del capitolo saranno infatti messe in risalto le ragioni e le dinamiche che, nel corso dei secoli, hanno determinato l’evoluzione dei consumi, facendo sì che essi si tramutassero da semplici contrattazioni tra venditore e cliente ad ”atti muti” di acquisto, come oggi è nell’ambito dei moderni luoghi di

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distribuzione. Nella seconda parte del capitolo sarà la Grande Distribuzione Organizzata, in quanto moderno luogo del consumo, a costituire oggetto di analisi; segnatamente, l’attenzione verrà posta sulla nozione, sulle origini storiche e sulle dinamiche che hanno condotto alla diffusione della GDO in Italia.

Nel secondo capitolo l’analisi verterà sul processo di affermazione, all’interno delle moderne economie, dei così detti “non-luoghi del consumo” e sul modo in cui essi abbiano comportato una modificazione dei rapporti tra consumatore e venditore. Tali rapporti, infatti, ricalcando quella che è stata l’evoluzione della società da una fase artigianale ad una industriale di produzione di massa, sono passati dal trovare fondamento in una relazione particolare e individuale ad essere atti impersonali.

Il capitolo prosegue evidenziando come nell’attuale fase post-industriale si stiano verificando continui cambiamenti nella struttura della distribuzione delle merci e delle relazioni di vendita, originati dalla maggiore consapevolezza del consumatore. In particolare saranno oggetto di analisi le modalità con cui le imprese distributrici Coop Italia e Conad hanno risposto ai nuovi bisogni del consumatore, quanto ad esempio a qualità e eco-sostenibilità dei prodotti, e alla necessità di una sempre maggiore partecipazione dello stesso al processo di distribuzione, mediante una risocializzazione del luogo di distribuzione di massa. Inoltre, sarà sottolineato come le Private Label, ed in modo particolare le “linee premium” delle stesse, rappresentino un valido strumento per la riconquista della fedeltà dei consumatori da parte degli operatori della grande distribuzione organizzata.

La seconda parte del capitolo sarà dedicata all’analisi delle Private Label. Nello specifico, essa consisterà nella descrizione della nozione e delle origini storiche, per poi allargare l’osservazione allo scenario nel quale, dal 2009 ad oggi, si è realizzata la definitiva affermazione delle marche private. Sarà evidenziato come l’Italia rappresenti, quanto a questo palcoscenico,

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una realtà in forte sviluppo, sia pur ancora non al passo con gli altri Paesi europei.

Il terzo ed ultimo capitolo passerà in rassegna le tipologie di aziende produttrici di Private Label, nonché gli specifici requisiti e standard che le stesse dovranno soddisfare per essere idonee alla produzione di tali prodotti ed alla distribuzione, sia in Italia sia in Europa, degli stessi tramite il canale della grande distribuzione organizzata. Altresì, saranno oggetto di analisi i particolari rapporti contrattuali che vengono ad instaurarsi tra le aziende produttrici italiane, generalmente piccole medie imprese (PMI) impegnate nel ruolo di fornitrici di prodotti per la marca commerciale, e le insegne commerciali, e le implicazioni della loro stipulazione.

L’attenzione sarà inoltre concentrata sull’economia contrattuale in agricoltura evidenziando come la costante crescita delle produzioni agricole sottratte alla destinazione dei mercati all’ingrosso dai quali normalmente giungono ai consumatori finali oppure alle industrie di trasformazione, sia una delle più significative manifestazioni dello sviluppo di un moderno sistema agroalimentare. Tali produzioni agricole divengono, infatti, oggetto di dirette relazioni contrattuali tra produttori agricoli ed imprese di trasformazione e/o distribuzione, relazioni che costituiscono i cc.dd. “Contratti di integrazione verticale”. Il capitolo prosegue evidenziando come l’ordinamento giuridico italiano, se confrontato con le esperienze giuridiche di quei Paesi in cui il sistema agro-industriale è particolarmente sviluppato, sia carente di un’adeguata strutturazione della disciplina dei contratti di integrazione in agricoltura e di quanto gli interventi legislativi, realizzati in tempi diversi, non siano stati in grado di riequilibrare i rapporti di forza all’interno del sistema agroalimentare. Questo, infatti, è ancora oggi caratterizzato da un squilibrio causato dal forte potere contrattuale proprio dei clienti intermedi (non consumatori finali) dei produttori agricoli e delle piccole e medie imprese

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agroalimentari le quali, in tal modo, si trovano schiacciate all’interno del rapporto contrattuale.

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CAPITOLO PRIMO

Evoluzione del consumo e affermazione della grande

distribuzione organizzata

Sommario:

1.1. L’evoluzione storica del consumo e dei luoghi ad esso dedicati. – 1.2. La GDO e i moderni luoghi del consumo. – 1.2.1. Nozione di GDO. – 1.2.2. Origini. – 1.2.3. L’affermarsi della GDO in Italia.

1.1. L’evoluzione storica del consumo e dei luoghi ad esso dedicati

Il mercato dei prodotti alimentari ha registrato negli ultimi decenni importanti trasformazioni dovute prevalentemente alla mobilità umana e alla produttività del lavoro, agricolo e non. In seguito al continuo progredire della tecnologia sia in campo agricolo che in altri settori, si sono avute migrazioni di lavoratori dal settore primario al secondario che hanno comportato la mutazione delle stesse tecniche e dell’organizzazione dello scambio dei prodotti della terra. La produzione di eccedenze rispetto al fabbisogno dei produttori agricoli ha, innanzitutto, originato i primi agglomerati urbani e, inoltre, ha dato vita alla divisione fra produttori agricoli e proprietari della terra. Per quanto riguarda l’aspetto distributivo, la nascita di piccoli centri urbani, i quali progressivamente hanno assunto dimensioni sempre maggiori, ha comportato la necessità che il surplus

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agricolo fosse trasportato al fine di metterlo a disposizione di chi non lavorava la terra.1

“Luoghi specificamente destinati alle attività di tipo commerciale sono presenti in quasi tutti gli insediamenti umani”.2 In effetti, nella

maggioranza dei casi, i centri urbani sono nati e si sono sviluppati non tanto in conseguenza della concentrazione di attività di produzione o della popolazione, ma in funzione della presenza di scambi commerciali. E’ dunque lo sviluppo del commercio ad aver condizionato quello socioeconomico e di conseguenza quello demografico ed è per questo motivo che le città sono sorte in prossimità dei luoghi in cui era più facile svolgere delle attività commerciali.

Ad esempio, l’agorà, nelle città dell’Antica Grecia, era un luogo in cui l’uomo, oltre a poter esercitare il suo potere di cittadino partecipando alle assemblee pubbliche, poteva acquistare merci di varia provenienza. All’epoca la vendita era costituita da una semplice contrattazione che si svolgeva sulla strada o nelle botteghe. Queste ultime erano essenzialmente costituite da un locale rettangolare avente un’apertura verso l’esterno, occupato dal banco di vendita e da gradini sui quali venivano esposte le merci.

Alle origini dell’Antica Roma erano presenti numerosi negozi, ma l’attività commerciale si svolgeva soprattutto in una vasta zona aperta riservata ai mercati, denominata Foro. Soltanto in un secondo tempo quest’ultimo divenne il luogo centrale per lo svolgimento dell’intera vita cittadina.3

Con lo sviluppo della civiltà romana, la quale divenne un grande impero dominante su terra e mari, si realizzò un processo di movimentazione sia delle materie prime per la produzione di beni alimentari sia di opere d’arte

1 Luigi Costato, Dai produttori agricoli primari ai consumatori: percorsi della storia, Rivista

di diritto alimentare, N.3, 2013, p. 3.

2 V. Codeluppi, Metropoli e luoghi del consumo, Mimesis, Milano-Udine, 2014, p. 29.

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e altre merci, il quale può essere considerato, seppur limitatamente al bacino del Mediterraneo, una prima forma di globalizzazione.4

Conseguentemente vennero creati degli ampi edifici appositamente dedicati alle attività commerciali; ne sono un esempio i Mercati Traianei risalenti all’inizio del II secolo d.C., i quali costituirono un’anticipazione dei moderni centri commerciali.

Per quanto concerne l’atto di vendita, come è stato evidenziato da D. Secondulfo,5 un ruolo fondamentale è stato ricoperto dal

venditore-artigiano: questi, infatti, ha costituito il tramite tra il bene e il consumatore garantendo, con la sua competenza, la qualità dell’oggetto. Il cliente, a sua volta, sulla base della relazione sociale instaurata con il venditore si sentiva garantito circa la correttezza di quest’ultimo, considerandolo un esperto di fiducia. I prodotti, quindi, ricoprivano un ruolo passivo e desumevano i significati che erano in grado di esprimere dal luogo in cui si trovavano e dalla relazione che veniva a stabilirsi tra il venditore e il compratore. In epoca Medievale la piazza, luogo nel quale da secoli si svolgeva il mercato, complice lo svilupparsi di un’intensa attività commerciale, divenne il polo primario della vita economica e culturale. La nuova economia urbana, infatti, era caratterizzata dal consumo dei beni primari, non anche dalla loro produzione. La costante crescita del numero di abitanti metteva in risalto la necessità di disporre di un’ampia offerta di tali beni e solamente una manifestazione ciclica caratterizzata da un’elevata frequenza periodica, quale era il mercato, poteva essere in grado di garantirla.6

4 Luigi Costato, Dai produttori agricoli primari ai consumatori: i percorsi della storia,

Rivista di diritto alimentare, N.3, 2013, p. 3.

5 D. Secondulfo, Bottega e ipermercato: luoghi e non luoghi del consumo, in G. Triani (a cura di), Casa e supermercato. Luoghi e comportamenti del consumo, Elèuthera, Milano, 1996, p. 68.

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La conferma dell’importanza che aveva assunto il mercato si ebbe anche in epoca comunale, durante la quale vennero realizzate mura in grado di garantire la sicurezza dei commercianti e strutture stabili, appositamente progettate e costruite per la piazza in cui si sarebbe tenuto il mercato. I mercati iniziarono a specializzarsi (ne sono un esempio le corti delle Uova e del Pesce e le piazze dei Cocomeri, della Legna e delle Erbe di Lucca) e, a partire dal Quattrocento, iniziò la c.d. “rivoluzione commerciale”.7 Questa

è consistita sia nel rendere disponibili nei mercati, grazie agli enormi progressi compiuti nel settore dei mezzi di trasporto, una vasta serie di prodotti fino ad allora sconosciuti provenienti da altri Paesi o addirittura continenti, sia nel dar vita a quella che è stata definita “cultura materialistica”.8 All’inizio di tale periodo, difatti, le botteghe erano povere,

semplicemente costituite da un laboratorio artigianale, da un deposito e da un piccolo spazio destinato al commercio. Successivamente, le botteghe cominciarono gradualmente a differenziarsi in base alla merce offerta e, a tale scopo, si sviluppò anche l’impiego delle insegne commerciali. Queste ultime, così come le decorazioni che successivamente vi si sostituirono, apparivano sulle facciate e all’interno dei negozi e avevano una funzione estetica di richiamo del cliente. Anche i venditori dovettero sviluppare capacità e abilità commerciali idonee ad attirare i clienti e convincerli all’acquisto. La rivoluzione commerciale del Quattrocento ha determinato anche una differenziazione fra due tipi di commercio: uno diffuso e riservato al popolo ed uno concentrato, in quanto rivolto esclusivamente all’élite sociale. Nacquero così le botteghe specializzate nei beni di lusso, quali stoffe e gioielli, rivolte ad una clientela nobiliare, ma frequentate anche da cittadini benestanti e ricchi forestieri di passaggio. La loro progressiva moltiplicazione e qualificazione fu in gran parte dovuta allo

7 Ibidem.

8 C. Mukerji, From Graven Images: Pattern of Modern Materialism, Columbia University Press,

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svilupparsi di una fascia borghese altolocata, sempre più numerosa ed esigente. L’incremento sia demografico sia commerciale delle città borghesi ha fatto sì che ad una clientela conosciuta e abituale se ne sostituisse una formata da clienti anonimi e frettolosi, i quali dovevano essere persuasi ad entrare nelle botteghe. Questo comportò la necessità di operare una modifica al secolare rapporto tra la bottega e la strada, la quale venne principalmente realizzata attraverso l’introduzione delle vetrine, mediante le quali i commercianti potevano esporre verso la strada le merci in vendita. Già nel Settecento, probabilmente a Londra, i venditori iniziarono a chiudere con i vetri le aperture delle proprie botteghe rivolte alla strada; inizialmente, data la difficoltà tecnica di realizzare grandi lastre di vetro, si trattò di piccole finestre le quali, però, riuscirono comunque a rappresentare una sorta di palcoscenico sul quale disporre al meglio le merci. E’ in questo modo che nacque il negozio moderno, caratterizzato dalla capacità di attrarre i clienti sul piano visivo e dalla rinuncia ad ospitare un laboratorio interno che venne progressivamente trasferito al di fuori delle città. La vendita, adesso, veniva realizzata all’interno del negozio, nel quale le merci non erano più immagazzinate nel retro bottega e nascoste alla vista, bensì esposte e valorizzate. Iniziò così una nuova fase di evoluzione del commercio caratterizzata, come afferma Secondulfo, dal fatto che “i beni non traggono più la maggior parte del loro significato dal rapporto sociale diretto e personale all’interno del quale vengono venduti, ma sono “nudi” rispetto al cliente, ormai divenuto consumatore, e affidano a strutture esterne (le comunicazioni di massa e la pubblicità) il loro “appeal” nei suoi confronti. Il consumatore, dal canto suo, si “emancipa” dal rapporto individuale di affidamento e di fiducia nel venditore, e sviluppa una autonoma competenza di acquisto. Lasciato solo di fronte al prodotto, costruisce una propria conoscenza che gli permette di selezionare i prodotti

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migliori”.9 Si diffuse, inoltre, l’usanza di esporre prodotti confezionati

anziché preparati su ordinazione,10 in corrispondenza soprattutto con la

seconda rivoluzione industriale degli inizi dell’Ottocento, che rese possibile una produzione di grandi quantità di merci la quale, assieme ad un’intensa fase di sviluppo caratterizzata dai processi di “metropolizzazione” del sociale, ha permesso la rapida moltiplicazione dei consumi e dei luoghi di acquisto.

A Parigi, in ambito commerciale, si verificò un fenomeno particolare. Nonostante la città ospitasse un elevato numero di negozi aperti, questi si dimostravano essere insufficienti tanto rispetto ai progressi fatti dalla produzione industriale, quanto a soddisfare l’enorme domanda di beni proveniente dalle masse urbane. Inoltre, l’inadeguatezza della struttura dell’ambiente urbano, risalente all’epoca medievale e caratterizzata da strette vie sprovviste di marciapiedi, spinse i venditori al dettaglio a spostarsi dal centro urbano e a dirigersi verso i viali più ampi e confortevoli situati a Nord della città. Nacque in tal modo l’esigenza di creare nel perimetro della città degli spazi potenzialmente accessibili a tutti, i quali avrebbero dovuto essere lussuosi e confortevoli ed in essi la funzione commerciale avrebbe dovuto potersi fondere con quelle ludiche, di relazione sociale e di affari. In essi, pertanto, i negozi dovevano poter convivere con caffè, sale da tè, sale di lettura, ritrovi e locali di spettacolo. Era nata così la nuova tipologia commerciale basata su una galleria coperta denominata “passage”. Probabilmente la prima galleria di questo tipo ad essere stata realizzata fu quella che, nel 1786 su progetto dell’architetto Victor Louis, venne costruita all’interno del giardino del Palais Royal per volontà del Duca D’Orléans. Contava ben 355 negozi, ma non molto tempo

9 D. Secondulfo, Bottega e ipermercato: luoghi e non luoghi del consumo, in G. Triani (a cura di), Casa e supermercato. Luoghi e comportamenti del consumo, Elèuthera, Milano, 1996, p. 70.

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dopo la sua realizzazione fu distrutta da un incendio. Venne ricostruita nel 1829 con una struttura in ferro e vetro e, con il nome Grande Galérie d’Orleans au Palais-Royal, era all’epoca il più grande passage di Parigi. Sono, però, i due periodi compresi tra il 1823 e il 1828 e tra il 1839 e il 1847 a registrare il massimo sviluppo di tali luoghi commerciali a Parigi, dove nel 1828 se ne potevano contare già ben 280.

Questa invenzione francese si diffuse immediatamente anche in altre nazioni, poiché le principali città del mondo compresero ben presto la necessità, per poter incrementare il loro fascino, di possedere gallerie commerciali esteticamente migliori di quelle delle altre città concorrenti, avviandosi così un’intensa competizione internazionale. Tra le gallerie europee più significative possono esser ricordate la Sillem’s Bazar di Amburgo del 1845 e le Galeries Royales e St.-Hubert, realizzate a Bruxxelles nel 1847. In Italia, dopo le prime di ridotte dimensioni, vennero realizzate le grandi gallerie urbane, fra cui possono essere ricordate: la galleria Mazzini a Genova, terminata nel 1875, la Vittorio Emanuele II a Milano, ultimata nel 1878, la Principe di Napoli e l’Umberto I a Napoli, rispettivamente inaugurate nel 1878 e nel 1891. La galleria Vittorio Emanuele II di Milano, con una cupola centrale di 36,6 metri di diametro e 47 metri di altezza, costituisce probabilmente la più grande galleria del mondo. I Passages ebbero l’effetto di modificare il significato proprio dell’atto di acquisto, almeno per una parte della popolazione. Questo, difatti, si trasformò sempre più in un’occasione per vestirsi elegantemente, poiché fare acquisti all’interno di questi spazi chiusi, al riparo dalle intemperie oltre che dalla sporcizia e dai pericoli della strada, offriva la sensazione di appartenere ad una ristretta élite e di essere parte del nuovo mondo borghese che si stava imponendo nella società. Allo stesso tempo si poteva essere visti e questo permetteva ai ricchi commercianti borghesi di differenziarsi socialmente, ostentando così il nuovo status sociale acquisito. I passages rappresentavano, dunque, una delle massime espressioni della

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seconda rivoluzione industriale e della borghesia. Allo stesso tempo costituivano anche un tipico luogo del consumo, composto da una pluralità di negozi diversi ma presentati uno di seguito all’altro, in grado di realizzare un effetto straniante sul cliente, il quale veniva così portato a passare dal mondo reale ad uno fuori dal tempo e privo di una collocazione precisa.11

Il procedere dei processi di industrializzazione e massificazione della società portarono, progressivamente, all’affermazione di una nuova cultura del consumo, la quale determinò la necessità di modificare la natura dei luoghi del consumo, provocando in tal modo l’inizio della crisi dei passages. Il rapido afflusso sul mercato dei beni prodotti dalle fabbriche ottocentesche necessitava, infatti, di luoghi d’acquisto adeguati, i quali avrebbero dovuto essere di grandi dimensioni, facilmente raggiungibili usufruendo dei mezzi di trasporto pubblico urbano ed in grado di comunicare immediatamente ai clienti che ivi avrebbero potuto trovare qualsiasi cosa di cui avessero avuto bisogno. In tal modo nacquero, sempre a Parigi, i grandi magazzini, cioè i nuovi luoghi di vendita appositamente dedicati alle masse urbane. Questo modello si diffuse rapidamente nelle principali città mondiali: a Londra, ad esempio, nacquero nel 1849 Harrods e nel 1875 Liberty; in Italia i fratelli Bocconi aprirono a Milano nel 1877 Aux villes d’Italie il quale, dopo essere stato ricostruito in seguito ad un incendio, nel 1921 venne ribattezzato come La Rinascente; negli Stati Uniti tra il 1860 e il 1880 si svilupparono progressivamente su tutto il territorio i department stores, o empori commerciali, tra i quali possono ricordarsi per importanza Macy’s, aperto a New York nel 1857, e Woolworth, aperto nel 1879 sempre a New York. Nel Novecento le gallerie entrarono definitivamente in crisi poiché non erano più in grado di reggere la forte concorrenza esercitata dai grandi magazzini e dalle principali strade commerciali delle maggiori città

11 Ivi, pp. 36-41.

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europee. I grandi magazzini si rivolgevano ad un pubblico preciso: quello costituito dalla classe borghese la quale, seppur in ascesa sul piano sociale e in crescita dal punto di vista quantitativo, non era ancora in grado di poter acquistare nei negozi di lusso, ma non era nemmeno più disposta a frequentare le botteghe e i mercati popolari, dato che il suo obiettivo era quello di riuscire a conquistare una posizione più elevata nella società attraverso il possesso di nuovi beni. I grandi magazzini, quindi, rappresentavano per questa tipologia di clienti la possibilità di acquistare beni di basso prezzo e dunque accessibili dato che, per la prima volta, erano stati prodotti industrialmente su larga scala. Questo, però, determinava una scarsa qualità degli stessi e, pertanto, la necessità di un luogo di vendita che riproducesse un’atmosfera lussuosa in grado di conferirgli prestigio. Fu così che nei primi grandi magazzini vennero gratuitamente offerti ai clienti dei servizi ed un trattamento di cortesia, in modo da ricreare un ambiente quasi aristocratico. Inoltre, vi fu un forte utilizzo di innovativi messaggi pubblicitari su giornali, manifesti, volantini e cartoline; tali messaggi, anziché riportare, come avveniva in passato, spiegazioni razionali del prodotto che veniva offerto al consumatore, adesso erano costituiti da slogan e frasi accattivanti in grado di far divenire le merci oggetto di desiderio.

Le principali caratteristiche dei grandi magazzini erano quelle: di essere orientati alla ricerca dei maggiori volumi di vendita possibili; dell’offerta di prodotti a prezzi decisamente più bassi di quelli della concorrenza; della possibilità offerta ai clienti di poter girare liberamente al loro interno senza sentirsi obbligato all’acquisto; di un’offerta di prodotti ampia e sempre diversificata; della possibilità di poter cambiare o ritirare la merce che non avesse soddisfatto il cliente; dell’innovativo principio del prezzo fisso applicato direttamente sui prodotti. Quest’ultima caratteristica ha costituito un forte elemento di rottura in un contesto commerciale quale quello dell’epoca, nel quale la prassi era quella della trattativa fra cliente e

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venditore. Ciò ha radicalmente ridimensionato il ruolo di quest’ultimo, il quale è passato da essere l’unico soggetto che promuoveva i prodotti ad un semplice consigliere. Sono le merci che hanno acquisto il ruolo di promotrici di se stesse, seducendo e convincendo al loro acquisto i clienti, grazie anche alla capacità dei grandi magazzini di metterle in mostra. Quindi, i grandi magazzini hanno spinto i consumatori ad abbandonare un atteggiamento orientato alla contrattazione con il venditore e ad acquisirne uno più passivo, caratterizzato dalla possibilità di guardare, toccare, provare e acquistare i prodotti esposti, ma in una situazione di isolamento all’interno della folla dei consumatori.12 Dunque, “se la galleria era il mezzo di

espressione della borghesia la cui emancipazione era stata avviata dalla rivoluzione francese, il grande magazzino è l’espressione dell’industrializzazione, della produzione e del consumo di massa”.13

1.2. La GDO e i moderni luoghi del consumo

Il centro commerciale probabilmente costituisce la più importante tipologia dei moderni luoghi del consumo. Esso è generalmente composto da una o più gallerie contenenti un grande ipermercato attorno al quale è poi disposta una pluralità di negozi, ristoranti, punti di ristoro e di divertimento di ogni genere. Il modello del centro commerciale, oggi diffuso in tutto il mondo, è nato negli anni venti del secolo scorso negli Stati Uniti d’America e per la precisione il primo fu il Country Club Plaza, costruito a Kansas City nel 1924. Tale modello di shopping centre si sviluppò velocemente negli anni trenta, come reazione alla profonda crisi economica attraversata dagli Stati Uniti a partire dal 1929, ma non avrebbe potuto effettivamente insediarsi senza la disponibilità della refrigerazione

12 Ivi, pp. 44-45.

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domestica per gli alimenti, la quale rese possibile concentrare gli acquisti, e la diffusione della motorizzazione privata, che favorì gli spostamenti per le spese. Dall’insieme di tali eventi ed innovazioni, derivò la possibilità di sviluppare un modello distributivo alternativo a quello urbano, costituito da grandi strutture commerciali, facilmente raggiungibili in automobile poiché collocate in aree strategiche vicine alle più importanti arterie di collegamento, e fornite di ampi parcheggi. Questa tipologia di struttura rappresenta la perfetta unione tra due diversi modelli commerciali: quello pre-industriale del mercato del centro urbano, basato su molteplici punti di acquisto e nel quale il rapporto di vendita era personale e umano; quello industriale, nato con il grande magazzino, ma perfezionatosi con il modello del supermercato prima e con l’ipermercato poi.14 Questi ultimi, a loro volta,

devono la loro nascita e la successiva affermazione, le quali saranno oggetto di analisi nei prossimi paragrafi, allo svilupparsi, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, di una nuova tipologia di vendita, la Grande

Distribuzione Organizzata.

1.2.1. Nozione di GDO

GDO è la sigla che indica la “Grande Distribuzione Organizzata”, tipologia di vendita al dettaglio di prodotti alimentari e non alimentari di largo consumo, realizzata tramite la concentrazione dei punti vendita in grandi superfici (non minori di 200 m2 ma che arrivano anche a superare 4000 m2)

e la gestione a carico di catene commerciali che fanno capo a un unico marchio.15

Consultando l’enciclopedia Treccani, il significato assunto dalla Grande distribuzione organizzata nel lessico del XXI secolo è il seguente: un’attività

14 V. Codeluppi, Metropoli e luoghi del consumo, Mimesis, Milano-Udine, 2014, p. 57.

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commerciale consistente nella vendita al dettaglio di prodotti alimentari e non alimentari eseguita in esercizi a libero consumo. Le caratteristiche tipiche di questa forma di attività sono l’impiego di grandi superfici, con una soglia dimensionale minima generalmente individuata in 200 m2 per i

prodotti alimentari e in 400 m2 per le categorie non alimentari, e la gestione

dei singoli punti vendita ad opera di “catene commerciali”, composte da più esercizi controllati da un unico marchio, dal quale vengono dispiegate le strategie promozionali.16 E’, infatti, a livello centrale di ogni singola

catena commerciale che vengono elaborate le politiche commerciali e le relative campagne pubblicitarie e, altresì, le politiche di gestione degli acquisti e quelle di prezzo. Questa riunione della distribuzione sotto un coordinamento unitario comporta vantaggi di gestione comune degli ambienti ed anche la possibilità di ottenere condizioni di affitto più convenienti.

Sotto il profilo della gestione del singolo punto vendita possono essere distinte la Grande Distribuzione dalla Distribuzione Organizzata. La prima è caratterizzata da imprese di considerevoli dimensioni, anche a livello internazionale, che conducono direttamente i punti vendita, considerati dunque come filiali di un’unica entità economica (detta anche “rete diretta”). Nella seconda, diversamente, venditori al dettaglio indipendenti si organizzano per esercitare in comune alcune funzioni aziendali quali ad esempio la centralizzazione degli acquisti (con l’obiettivo primario di aumentare il proprio potere contrattuale nei confronti dei fornitori), le promozioni commerciali ecc. (detta anche “rete associata”).17 Tuttavia, la

tipica conformazione a “rete associata” della Distribuzione Organizzata ha manifestato nel tempo alcuni punti deboli nelle relazioni con i fornitori. Frequenti, infatti, sono stati i casi in cui singoli membri dello stesso gruppo

16 E. Tieri – A. Gamba, La grande distribuzione organizzata in Italia, Funzione Studi del Banco Popolare, 2009, p. 5.

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21

organizzato, a seguito di una crescita dimensionale che ha comportato per essi l’acquisizione di un maggiore potere contrattuale ed economico, abbiano ricercato una maggiore indipendenza dalla struttura centrale. Struttura centrale che però si dimostra essere necessaria per fronteggiare problemi strategici e di governo, in quanto i contratti di fornitura e le condizioni economiche che si ottengono sono un elemento essenziale nel risultato economico di un’impresa commerciale. Un altro aspetto da prendere in considerazione, in quanto può portare un indebolimento della struttura centrale nelle relazioni con i fornitori, sono le molteplici tipologie di vendita realizzabili nella distribuzione organizzata. Difatti, queste impediscono frequentemente all’organo centrale l’esercizio di un controllo e di un coordinamento unitario. Quindi, il distinguo fra le due modalità di direzione si attenua quando le imprese della Grande Distribuzione attribuiscono più autonomia ai singoli esercizi commerciali e le associazioni della Distribuzione Organizzata acquistano maggiori poteri economici. E’ quindi corretto considerare in modo unitario questo fenomeno economico sotto la denominazione di “Grande Distribuzione Organizzata”.18

Un contributo importante è stato offerto dalla società Nielsen, la quale ha operato una classificazione dei punti vendita della GDO in canali (in base alla superficie in m2 adibita ad area di vendita). Ne risulta che i canali di

vendita della grande distribuzione sono i seguenti:19

- Ipermercato: superficie di vendita al dettaglio superiore a 2.500 m2.

Comprende anche l’Iperstore: da 2.500 m2 a 4.000 m2.

- Supermercato: superficie di vendita al dettaglio compresa fra 400 m2

e 2.500m2. Include il Superstore: da 1.500 m2 a 2.500 m2.

18 E. Tieri – A. Gamba, La grande distribuzione organizzata in Italia, Funzione Studi del Banco Popolare, 2009, pp. 5-6.

19http://www.federdistribuzione.it/studi_ricerche/files/Mappa_Distributiva.pdf

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22

- Libero Servizio: superficie di vendita al dettaglio compresa fra 100 m2 e 400 m2. Ne fa parte il Superette: da 200 m2 a 400 m2.

- Discount: si caratterizza per non vendere prodotti di marca.

- Self Service-Drug: esercizi riservati alla vendita di prodotti per la casa e la cura della persona.

- Cash & Carry: punto di vendita all’ingrosso.

1.2.2. Origini

La Grande Distribuzione Organizzata rappresenta un approdo dell’evoluzione del piccolo commercio al dettaglio. Quest’ultimo era caratterizzato da un’interazione fra cliente e commerciante: i prodotti in vendita, quasi mai distribuiti singolarmente, venivano pesati ed incartati dal commesso. I clienti, effettuata la richiesta, attendevano al banco. Ne conseguiva lentezza nel servizio e limitazioni al numero di clienti che contemporaneamente potevano essere soddisfatti. L’origine della moderna distribuzione risale alla seconda metà dell’Ottocento, periodo di importanti cambiamenti avvenuti grazie all’impetuoso sviluppo tecnologico. A quest’ultimo è, infatti, dovuta la nascita del modello industriale dei supermercati, al quale seguirà l’ideazione del Self-Service e dei supermarket. Come spiegato da Bernardo Caprotti nell’intervento all’Accademia dei Georgofili di Firenze nel 2014, la comparsa della moderna distribuzione è collegata a due fenomeni distinti: la nascita dei negozi a catena (chain stores) e l’applicazione della modalità di acquisto self-service20 ai supermercati. Caprotti, inoltre, precisa che i due eventi

20 “Punto di vendita (negozio di generi alimentari e vari, grande emporio, ristorante, mensa, distributore di benzina, ecc) in cui l’acquirente si serve da sé, prendendo direttamente la merce scelta, senza avvalersi dell’opera di addetti, camerieri o commessi”, Treccani, 2015, http://www.treccani.it.

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23

sopra esposti rappresentano “la più grande rivoluzione della storia del commercio”.21

Il primo fenomeno, chain stores, è cronologicamente collocabile alla fine dell’Ottocento ed in esso un ruolo centrale è stato ricoperto dalla società americana A&P (Great Atlantic and Pacific Tea) dei due fratelli Hartford, la quale era specializzata nella vendita di tè per corrispondenza. Mossi dall’idea di sviluppare l’impresa attraverso la vendita al dettaglio, intorno al 1870 aprirono i primi negozi di drogheria, grocery. Gradualmente vi aggiunsero, ricorrendo all’uso di spazi dati in affitto a terzi operatori (macellai, fruttivendoli), banchi adibiti alla vendita di prodotti deperibili e nel momento in cui iniziarono a gestirli direttamente, ebbe inizio la Chain Stores Revolution. Quest’ultima fu portatrice di una standardizzazione dei negozi, di un affinamento della logistica e della centralizzazione, la quale comportò una progressiva diminuzione dei venditori di specifici prodotti alimentari al dettaglio e una definitiva affermazione dello One Stop Shopping (“tutta la spesa sotto lo stesso tetto”)22.

Il secondo fenomeno, ovvero la nascita del supermercato e l’affermazione della vendita self-service, fu la naturale conseguenza del primo. La comparsa del self-service viene considerata da Caprotti come uno stadio successivo all’affermarsi dei negozi a catena, coadiuvato e sospinto dal peculiare momento storico. Quest’ultimo, per l’appunto, fu segnato da continui cambiamenti sociali e culturali ad opera di invenzioni rivoluzionarie come radio e motorizzazione dei trasporti, ma anche di

21 http://www.georgofiliinfo/detail.aspx?id=1616 (09/10/2015).

22 Con tale termine si fa riferimento alla possibilità di acquistare nel medesimo punto vendita, “One Stop Shop” generalmente di grandi dimensioni, una grande varietà di prodotti, eliminando in tal modo ai consumatori l’onere di doversi recare in singoli negozi

specializzati per l’acquisto di ogni diversa tipologia di merce.

(24)

24

innovazioni specifiche per il commercio (packaging, refrigerazione, registratore di cassa, ecc.).23

Il primo ad applicare il concetto di self-service ad un negozio di generi alimentari fu l’imprenditore americano Clarence Sounders. Nel 1916 Sounders aprì a Memphis, Tennessee, il primo punto vendita della catena Piggly Wiggly Shops. Tali esercizi commerciali erano però di piccole dimensioni, non erano serviti da strade asfaltate e la motorizzazione dei trasporti, così come il packaging, erano ancora in una fase embrionale. Fu soltanto nel 1930, sulla spinta della crisi economica del 1929, che negli Stati Uniti venne inaugurato il primo vero supermercato. Ciò avvenne per opera di Michael J. Cullen, un ex dipendente di Kroger e A&P, che non essendo stato supportato nel suo progetto da queste società lo sviluppò in proprio. Una posizione facilmente accessibile, parcheggio gratuito, un’ampia superficie di vendita per un vasto assortimento di articoli, forte utilizzo di pubblicità, uniti a bassi costi, bassi margini ed alti volumi, furono le chiavi del successo del supermercato. Infatti, in soli sei anni furono aperti diciassette King Kullen.24

Sebbene con qualche anno di ritardo rispetto agli Stati Uniti, anche in Europa si diffuse la GDO. Nel 1950 in Inghilterra Sainsbury’s, la catena di negozi più importante del Regno Unito, inaugura il suo self-service. In Francia i fratelli Denis e Jacques Defforey assieme a Marcel Fournier aprono nel 1963 il primo ipermercato, formula questa che non tardò a diffondersi in tutto il Paese. Sul territorio tedesco fu il discount il sistema che si affermò maggiormente, grazie all’operato dei fratelli Albrecht.25

In Italia l’impulso alla diffusione della Grande Distribuzione Organizzata fu dato dalla fiera internazionale dedicata alla distribuzione alimentare

23 http://www.georgofiliinfo/detail.aspx?id=1616 (09/10/2015).

24 http://www.centro-commerciale.eu/italia/supermercati-discount/tutti/lista

(08/10/2015).

(25)

25

allestita a Roma nel 1956 per volontà del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti. Difatti, prima delle guerre mondiali e del boom economico l’Italia non conosceva il commercio così com’è oggi. La scena della spesa e del consumo era dominata dal dettagliante. Il droghiere era in grado di reperire in pochi giorni qualsiasi tipo di merce, instaurando un rapporto confidenziale e di fedeltà con il cliente. Tale esposizione internazionale fornì ad un gruppo di imprenditori italiani l’occasione per acquistare i mezzi necessari ad allestire i primi supermercati, o “negozi americani” come all’epoca erano definiti. Il primo supermercato italiano venne inaugurato nel 1957 a Milano, in via Regina Giovanna, recante l’insegna “Supermarket” (oggi modificata in Esselunga). A partire da questa data si sono moltiplicate le cooperative ed i marchi della GDO in tutta la penisola.26

1.2.3. L’affermarsi della GDO in Italia

Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, le imprese della grande distribuzione organizzata assunsero misure considerevoli nei paesi maggiormente avanzati. Ma, a causa di fattori di diversa natura, lo sviluppo dell’attività distributiva di grandi dimensioni avvenne con ritmi diversi. In particolare, in Italia le imprese della grande distribuzione acquisirono si una posizione di rilievo, ma le loro dimensioni erano nettamente inferiori a quelle delle rispettive concorrenti estere.

Come spiegato da Eliana Viviano in una pubblicazione della Banca d’Italia del 2014, le differenze dimensionali delle imprese italiane della grande distribuzione potrebbero essere dovute ad un processo di ammodernamento del settore commerciale italiano eccessivamente lento, oltre che alla specificità dell’economia nazionale.27

26 Edoardo Vitale, Storia del supermercato, DudeMag, 2014,

(26)

26

Altri studiosi, come ad esempio Zamagni nel 1982, hanno invece individuato nella regolamentazione italiana un argine allo sviluppo delle imprese della grande distribuzione28, anche se l’autrice mette in luce quanto

sia arduo accertare il ruolo realmente avuto dalla regolamentazione nello sviluppo del settore in Italia. Se, infatti, da un lato è riscontrabile la necessità di un intervento dello Stato in questo ambito, al fine della salvaguardia dei controlli e della salute pubblica, dall’altro lato è difficile stabilire quanto la mancata crescita delle imprese commerciali italiane sia effettivamente dovuta alla regolamentazione specifica del settore. Mancano, infatti, dati comparabili relativi ai periodi storici più risalenti e, allo stesso tempo, anche altri e diversi fattori strutturali hanno limitato la crescita in tutti i campi, non solo in quello commerciale. E’, dunque, importante analizzare le caratteristiche proprie della legislazione di settore dal secondo dopoguerra ad oggi e quanto essa abbia effettivamente ostacolato il pieno sviluppo della concorrenza e della crescita della rete distributiva italiana.

Nel periodo immediatamente successivo al primo conflitto mondiale la distribuzione organizzata, benché agli albori, iniziava a diffondersi negli Stati Uniti e nel Regno Unito, mentre in Italia la situazione era ben diversa. Infatti, si era registrata una forte crescita dei negozi di piccola dimensione che andò a caratterizzare la natura della regolamentazione del settore, operata dal legislatore attraverso il Regio Decreto Legge n° 2174 del 1926. Quest’ultimo introdusse una particolare struttura di concessione delle licenze amministrative, nella quale l’organo competente ad emetterle, con ampi poteri discrezionali, era il Comune. Il sistema era, inoltre, dotato di un apparato di controlli e licenze di polizia poste a tutela dell’ordine pubblico e dell’igiene.

27 Eliana Viviano, L’affermarsi della grande distribuzione commerciale in Italia, p. 1,

http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/altri-atti-convegni/2014-concorrenza-mercato-crescita/VIVIANO_t.pdf (13/10/2015).

28 V. Zamagni, Alle origini della grande distribuzione in Italia, Commercio, N. 4, 1982, pp.

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27

Dopo la fine della seconda guerra mondiale l’Italia conobbe fenomeni di associazionismo fra piccoli commercianti tradizionali. La Confederazione Generale italiana del commercio nata nel ’46 ne era un esempio. Queste strutture nascevano con l’intento di far fronte alle sempre crescenti richieste di produzione provenienti da tutti quei lavoratori che, allontanati dall’agricoltura, vedevano nel settore commerciale un’opportunità di lavoro.29

Negli anni del boom economico, dal 1958 al 1963, la “società Italiana con(obbe) in un brevissimo volgere di anni una rottura davvero grande con il passato: nel modo di produrre, di pensare e di sognare, di vivere il presente e di progettare il futuro. E’ messa in movimento in ogni sua parte”.30 Il boom economico produsse i suoi effetti anche sul legislatore

nazionale che, emanando la legge n° 424 del 1971, rivide l’impianto della legge del 1926. La legge 424/71 modificò la normativa del settore commerciale trasformandolo da una struttura vincolata di tipo corporativo-fascista ad una di tipo programmato. La volontà del legislatore era quella di sostituire al sistema delle licenze amministrative, rilasciate spesso arbitrariamente dalle commissioni comunali, un sistema autorizzativo. All’interno di quest’ultimo sarebbe stata la pubblica amministrazione a valutare la qualificazione dei nuovi operatori commerciali, procedendo alla loro iscrizione nel Registro degli Esercenti il commercio; tutto ciò nel rispetto dei piani di programmazione della rete distributiva fatti dai Comuni. Ogni soggetto che avesse voluto aprire un proprio esercizio commerciale doveva richiedere l’autorizzazione. In tal modo, però, non si realizzò quell’effetto di rimozione degli ostacoli all’ingresso nel settore

29 Eliana Viviano, L’affermarsi della grande distribuzione commerciale in Italia, pp. 2-4,

http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/altri-atti-convegni/2014-concorrenza-mercato-crescita/VIVIANO_t.pdf (13/10/2015).

30 G. Crainz, Storia del miracolo italiano, culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e

sessanta, Danzelli Editore, Roma, 1998, p. 7. (Fonte: http://www.storiaXXIsecolo.it/larepubblica/repubblicaboom.htm (13/10/2015)).

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28

commerciale che, tuttavia, il passaggio dal sistema delle licenze ad uno di autorizzazione avrebbe dovuto comportare. Spesso, in effetti, i Comuni, nei limiti della discrezionalità concessagli dalla legge, nel regolare gli accessi al settore commerciale favorivano chi, essendo già in possesso delle autorizzazioni necessarie, era attivo sul mercato, a discapito di nuovi operatori. Era, infatti, la stessa legge nazionale a prevedere esplicitamente questa possibilità nell’intento di evitare un incremento della concorrenza in un settore considerato sovraffollato.31 Inoltre, la legge ostacolava la crescita

dimensionale degli esercizi di vendita prevedendo ulteriori oneri autorizzativi nel caso di superamento di determinate soglie di superficie di vendita.

Come affermato in precedenza, è difficile valutare se effettivamente la struttura distributiva sia stata influenzata dalla legislazione o se, invece, in assenza di quest’ultima il settore commerciale avrebbe potuto espandersi omogeneamente su tutto il territorio nazionale. Quello che può rilevarsi con certezza è che, nel corso dei quasi trent’anni di vigenza della legge 424/71, profonde sono state le modificazioni subite dal settore commerciale in corrispondenza con interventi legislativi mirati a favorire l’apertura di negozi di grandi dimensioni. La lenta, ma progressiva, crescita della distribuzione organizzata (sia nel comparto alimentare che in quello non alimentare) ha contribuito a far sì che si realizzasse una razionalizzazione della struttura distributiva nazionale. Questa riorganizzazione ha comportato una riduzione del numero degli esercizi commerciali per abitante ed un conseguente incremento dei punti vendita di dimensioni più estese. La crescita delle forme distributive moderne è però avvenuta attraverso l’apertura di strutture aventi una superficie di vendita in media di circa 400 m2, dunque molto inferiore rispetto ai colossi che

31 Eliana Viviano, L’affermarsi della grande distribuzione commerciale in Italia, pp. 5-7,

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29

contemporaneamente si stavano affermando all’estero.32 Dunque, in Italia

il numero delle strutture con estese superfici di vendita rimase nettamente inferiore rispetto a quello degli altri Paesi europei.

Il primo atto di liberalizzazione del settore commerciale italiano fu il Decreto legislativo n°114 del 1998, detto “Decreto Bersani”, introduttivo di un nuovo sistema normativo volto a regolamentare l’ingresso nel mercato degli operatori commerciali. Le principali caratteristiche del decreto erano: l’esplicita definizione dei principi generali in materia di concorrenza e ammodernamento del settore; la liberalizzazione delle aperture degli esercizi commerciali di piccole dimensioni, per i quali adesso è sufficiente l’invio di una semplice comunicazione al comune di avvenuta apertura e il comune può opporsi solo per ragioni urbanistiche; l’assegnazione ai comuni del potere di autorizzare l’apertura di strutture di medie dimensioni (fino a 400 m2); l’attribuzione alle Regioni del potere di

autorizzare le strutture di maggiori dimensioni (più di 400 m2), sulla base

di una valutazione esclusivamente urbanistica.

Il Decreto Bersani, in particolare, da un lato ha permesso di liberalizzare completamente il piccolo commercio sottraendolo a qualsiasi potere autorizzativo, dall’altro ha tentato di riaffermare un principio già sotteso alla legge 424/71, in base al quale i vincoli alle aperture degli esercizi di rilevanti dimensioni dovevano trovare fondamento in un piano di sviluppo urbanistico e territoriale stabilito dalle Regioni. Riguardo a quest’ultimo aspetto, il decreto fissava anche un termine entro il quale le autorità regionali avrebbero dovuto emettere i regolamenti di indirizzo relativi all’apertura di grandi strutture di vendita. Fino a che i suddetti regolamenti non fossero stati emanati, ogni richiesta sarebbe rimasta bloccata. Le Regioni italiane hanno agito con estrema discrezionalità, approfittando

32 Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Indagine conoscitiva sul settore della

GDO-IC43, 2013, p. 16, http://www.agcm.it/trasp-statistiche/doc_download/3796-ic43.html (16/10/2015).

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30

degli ampi margini concessi dalla normativa nazionale. L’orientamento perseguito dalle Regioni era, quindi, chiaramente riconducibile ad un intento di tutela del commercio tradizionale; intento che, tuttavia, era contrario a quello prefigurato dal legislatore nazionale. Ne fu dimostrazione il fatto che nel biennio 1998-1999, a fronte di un’inerzia totale da parte delle Regioni nell’emanazione dei regolamenti di indirizzo, l’accesso al mercato fu totalmente bloccato. Esemplare della discrezionalità dell’agire delle Regioni fu anche la suddivisione del territorio locale in aree, accompagnata dall’individuazione di limiti quantitativi alle strutture ammesse in ciascuna di esse.

Da ultimo, merita rilevare come quasi tutte le normative regionali favorivano gli accorpamenti di strutture già esistenti, disincentivando l’ingresso di nuovi concorrenti per mezzo di norme più stringenti, rifacendosi in questo modo agli orientamenti della legge 424/71.

Tuttavia, nel corso degli anni gli interventi dei legislatori locali diretti a frenare lo sviluppo del settore commerciale si sono rivelati vani. La combinazione di interventi legislativi (quali ad esempio la riforma del Titolo V della Costituzione; la Direttiva 123/2006/CE) e la contemporanea spinta fornita dall’innovazione tecnologica hanno, infatti, determinato una forte crescita delle strutture commerciali italiane. Sebbene la dimensione media delle imprese della GDO italiana sia ancora oggi inferiore rispetto quella dei principali partner europei, l’originario gap è stato in buona parte colmato.33

33 Eliana Viviano, L’affermarsi della grande distribuzione commerciale in Italia, pp. 9-12,

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31

CAPITOLO SECONDO

La fidelizzazione dei nuovi consumatori attraverso le Private

Label

Sommario:

2.1. Dai non-luoghi di consumo alla crescente partecipazione dei nuovi consumatori al processo di distribuzione. – 2.2. La nuova razionalità dei consumatori e l’esigenza di una risocializzazione del luogo di vendita: la risposta della GDO. I casi Coop e Conad. – 2.3. La conquista della fedeltà dei consumatori attraverso le “linee premium” della marca privata. – 2.4. Le Private Label. – 2.4.1. Nozione. – 2.4.2. Origini. – 2.4.3. La crescita e l’affermazione delle Private Label in Europa e in Italia.

2.1. Dai non-luoghi di consumo alla crescente partecipazione dei nuovi consumatori al processo di distribuzione.

Volendo focalizzare l’attenzione sull’atto di acquisto e sulla sua socialità, è necessario premettere che questo -l’atto di acquisto di un bene sul mercato come premessa del consumo- allo stesso modo del consumo, è un atto comunicativo e sociale nella misura in cui avviene all’interno di una relazione sociale.34 Quest’ultima contribuisce a dare senso all’acquisto

stesso e, spesso, interagisce con il contenuto simbolico del prodotto che

34 D. Secondulfo, La danza delle cose. Le funzioni comunicative dei beni nella società

post-industriale, Angeli, Milano, 1990. D. Secondulfo, Ditelo con i fiori. Strutture del consumo e comunicazione sociale, Angeli, Milano, 1995.

(32)

32

viene comprato. Pertanto, l’acquisto di un bene si colloca sempre all’interno di una relazione sociale ed il senso dello stesso atto si lega, in tal maniera, con gli equilibri generali della società in cui esso viene posto in essere. Quanto detto avviene proprio grazie al suo essere collegato ai meccanismi di senso della società che, anche attraverso tale atto, si esprime e si realizza.35

La relazione sociale nella quale si concretizza l’atto di acquisto, insomma, non può non essere in sintonia con il clima generale della società che la comprende e che le dà significato.36 In base a siffatta relazione, infatti, è

possibile individuare diversi consumatori e venditori, i quali essendo in relazione con le diverse e particolari tipologie di società mutano al variare delle stesse. Dunque, il senso dell’atto di acquisto cambia e con esso anche i nuovi tipi di consumatori.

In generale, sostiene Secondulfo,37 considerando l’atto di acquisto come una

relazione sociale, possono in esso individuarsi diversi livelli: - Quello della relazione con la società in generale;

- Quello della relazione con il venditore e con la situazione di vendita il quale, a sua volta, si articola in: a) affidamento alla competenza del venditore per quanto concerne le caratteristiche del prodotto; b) visibilità sociale dell’atto di acquisto.

Considerando quanto appena riportato in merito alla socialità dell’atto di acquisto e riferendolo alle diverse fasi storiche, descritte nei paragrafi precedenti, di evoluzione del consumo e dei luoghi ad esso dedicati nelle

35 D. Secondulfo, Bottega e ipermercato: luoghi e non luoghi del consumo, in G. Triani (a cura

di), Casa e supermercato. Luoghi e comportamenti del consumo, Elèuthera, Milano, 1996, pp. 66-67.

36 L. Althusser, Per Marx, Editori Riuniti, Roma, 1972.

37 D. Secondulfo, Bottega e ipermercato: luoghi e non luoghi del consumo, in G. Triani (a cura

di), Casa e supermercato. Luoghi e comportamenti del consumo, Elèuthera, Milano, 1996, p. 67.

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33

società mercantili occidentali, è possibile evidenziare quanto i rapporti fra consumatore e venditore si siano nel tempo modificati e continuino a farlo. Nella fase storica di esistenza della società mercantile artigianale,38 l’atto di

vendita veniva principalmente in essere in specifici luoghi, quali la bottega e il negozio e si caratterizzava per l’importanza del ruolo ricoperto dal venditore-artigiano. A tale soggetto, infatti, era attribuita tutta la fase della vendita dato che, per la competenza che esso possedeva con riferimento ai prodotti venduti, era in grado di garantire sulla qualità degli stessi. Il cliente, pertanto, sulla base della relazione sociale instaurata con il venditore si sentiva tutelato circa la correttezza di quest’ultimo e lo qualificava come un esperto di fiducia. Tale relazione era di tipo particolaristico dato che, al tempo, ogni negozio risultava essere radicato in un determinato territorio al quale offriva il suo servizio sottoponendosi, allo stesso tempo, al suo controllo. Ed era proprio in quel radicamento che trovava fondamento la fiducia del consumatore. Dunque, la principale caratteristica di questa tipologia di luoghi di vendita era individuabile in una forte relazione particolaristica e personale: il venditore gestiva la clientela come un patrimonio fondato sulla relazione di fiducia personale che intratteneva ed era al contempo garante dei beni che consigliava e vendeva. Vendita che spesso, grazie all’instaurarsi della suddetta relazione, poteva avvenire anche in forma di credito concesso dal venditore al cliente. In tal modo, i beni assumevano buona parte del loro significato proprio in ragione del luogo e della relazione di vendita e, allo stesso tempo, ad opera della relazione sociale e delle caratteristiche sia del venditore che del luogo della vendita, si presentano personalizzati al consumatore.39

38 Si veda a tal proposito Par. 1.1.

39 D. Secondulfo, Bottega e ipermercato: luoghi e non luoghi del consumo, in G. Triani (a cura

di), Casa e supermercato. Luoghi e comportamenti del consumo, Elèuthera, Milano, 1996, pp. 68-69.

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34

Rispetto all’appena trattata fase artigianale di produzione e distribuzione delle merci, la successiva fase industriale si differenziò in entrambi gli ambiti. Infatti, per quanto concerne l’attività di produzione delle merci, il periodo industriale fu caratterizzato dalla concentrazione dei mezzi di produzione, dalla standardizzazione delle procedure, dall’impersonalità delle relazioni e dalla perdita, da parte dell’artigiano divenuto operaio, del sapere relativo alla produzione stessa. Molte di queste caratteristiche proprie della produzione di massa si trasmisero anche all’ambito della distribuzione delle merci dando vita al consumo di massa,40 che costituì

anche il presupposto per la delocalizzazione e la globalizzazione dei consumi alimentari. L’alimentazione, infatti, iniziò a dipendere dagli acquisti effettuati in negozi sempre più grandi che proponevano ai consumatori una gamma di prodotti “industriali” preparati da grandi imprese che competevano sul mercato nazionale e internazionale.41 In tal

modo, ad esclusione dei beni status symbol per i quali si mantenne la forma del negozio come garanzia di visibilità sociale, per la maggior parte dei prodotti il modello distributivo del piccolo negozio venne sostituito da una distribuzione massificata degli stessi, eseguita per mezzo dei supermercati.42 Non venne a mancare la varietà dei prodotti, anzi questa

aumentò rispetto al passato, perché le case produttrici presero spunto per le loro produzione dalle tradizioni locali, ma la generalizzazione e la standardizzazione della proposta indusse a comportamenti di consumo assai meno marcati da tradizioni locali.43 All’interno di questo ambito di

40Ivi, p. 70.

41 V. Zamagni, L’evoluzione dei consumi fra tradizione e innovazione, in A. Capatti – A. De Bernardi – A. Varni, Storia d’Italia, Annali 13, L’alimentazione, Giulio Einaudi editore, Torino, 1998, p.197. 42 D. Secondulfo, Bottega e ipermercato: luoghi e non luoghi del consumo, in G. Triani (a cura di), Casa e supermercato. Luoghi e comportamenti del consumo, Elèuthera, Milano, 1996, p.70. 43 V. Zamagni, L’evoluzione dei consumi fra tradizione e innovazione, in A. Capatti – A. De Bernardi – A. Varni, Storia d’Italia, Annali 13, L’alimentazione, Giulio Einaudi editore, Torino, 1998, p.197

(35)

35

distribuzione e vendita si perse la dimensione particolaristica e personale della relazione sociale la quale, seguendo l’evoluzione della società, divenne perlopiù impersonale. I beni, infatti, non trovavano più il loro significato nel rapporto sociale diretto e personale entro il quale venivano venduti, ma diventarono “nudi” di fronte al cliente e affidarono alla comunicazione di massa e alla pubblicità la loro capacità di attrarre lo stesso consumatore.44 Al contempo anche quest’ultimo si svincolò da quel

rapporto di affidamento e di fiducia che fino ad allora aveva riposto nel venditore, sviluppando un’autonoma competenza di acquisto; difatti, rimasto da solo di fronte al prodotto fu costretto a costruirsi una propria conoscenza utile a selezionare i prodotti migliori.

Com’è stato poc’anzi accennato, a sua volta il prodotto non derivava più il proprio significato dal contesto di vendita bensì dalla pubblicità commerciale, cioè da una fonte esterna alla relazione sociale di vendita, che si concentrava prevalentemente sulla convenienza economica della merce, andando così a sottolineare la differenza di status tra i prodotti distribuiti nei supermercati e quelli venduti nei tradizionali negozi al dettaglio. Contemporaneamente, la qualità dei prodotti acquistati veniva garantita al consumatore tramite la marca industriale, mediante la quale poteva essere segnalato che un prodotto aveva certi requisiti e, al contempo, l’industria produttrice era in grado di offrire garanzie (“soddisfatti o rimborsati”) così da facilitarne la vendita.45 Tutto ciò, come ha specificato Secondulfo,

condusse alla “lotta dello scaffale” tra i vari prodotti i quali, all’interno dei punti vendita della grande distribuzione, si trovarono ad essere disposti soli di fronte ad un consumatore sempre più autonomo ed esperto. L’Hard

44D. Secondulfo, Bottega e ipermercato: luoghi e non luoghi del consumo, in G. Triani (a cura

di), Casa e supermercato. Luoghi e comportamenti del consumo, Elèuthera, Milano, 1996, p. 70.

45 V. Zamagni, L’evoluzione dei consumi fra tradizione e innovazione, in A. Capatti – A. De Bernardi – A. Varni, Storia d’Italia, Annali 13, L’alimentazione, Giulio Einaudi editore, Torino, 1998, pp.198-199.

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3/12/2010, in vigore dal 1°gennaio 2011, ha disciplinato i termini e le entità per il versamento dei contributi obbligatori all’Autorità per la Vigilanza dei contratti pubblici

Per importi superiori a 20.000,00 euro, nel caso di affidamento diretto la stazione appaltante, prima di stipulare il contratto, nelle forme di cui all’articolo 32, comma 14, del