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Innovazione e Valore: dagli indicatori accounting-based e value-based a quelli di misurazione dell'intellectual capital

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DI PISA

Dottorato regionale congiunto tra l'Università degli Studi di

Firenze, l'Università degli Studi di Siena e l'Università di Pisa

in ECONOMIA AZIENDALE E MANAGEMENT

XXX Ciclo

Tesi di dottorato

Innovazione e Valore: dagli indicatori accounting-based e

value-based a quelli di misurazione dell'intellectual capital

Candidato

Elena Baroni

Relatore

Prof.ssa

Giovanna Mariani

Coordinatore

Prof.

Giuseppe D'Onza

ANNO ACCADEMICO 2016/2017

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INDICE

INDICE ... 3

ABSTRACT... 4

INTRODUZIONE ... 6

CAPITOLO 1: VALORE ... 9

1.1 Le radici storiche del principio della creazione di valore per l'azionista ... 9

1.2 Il valore come scopo: le misure di valore diventano misure di performance ... 15

1.3 EVA: una misura di performance orientata al valore ... 22

1.4 Valore e performance ... 26

1.5 Performance e capitale intellettuale ... 38

1.6 Capitale intellettuale e innovazione ... 50

CAPITOLO 2: IL CASO WELCOME ITALIA ... 58

2.1 Metodo ... 58

2.2 Dati ... 61

2.3 Welcome Italia spa ... 63

2.4 La misurazione in Welcome Italia ... 70

2.5 Valore, performance, capitale intellettuale ... 73

2.6 Valore, capitale intellettuale e innovazione ... 90

2.7 Principali risultati ... 99

2.8 Implicazioni ... 106

2.9 Future ricerche e limitazioni ... 109

CONCLUSIONI ... 113

RINGRAZIAMENTI... 117

BIBLIOGRAFIA ... 118

APPENDICE A - Database case study ... 140

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ABSTRACT

Purpose – This thesis seeks to examine the link between intellectual capital, innovation and value creation by presenting a case study of intellectual capital (IC) practice over ten years at an Italian SME, Welcome Italia spa

Design/methodology/approach – The paper uses a longitudinal case study method to examine critically over ten years of research based on direct observation, semi-structured interviews and internal and external documents

Findings – This study shows that IC can, in some specific context, be useful to align strategic objectives with operational objective and allow value creation through innovation. From the evidence presented that it is possible to effectively implement IC practices without necessarily disclose IC measures. This is not because IC measures are not useful, but because IC reporting needs evolve based on the external stakeholders needs so a lot of measurement remains undisclosed because useful for employees and managerial purpose.

Research limitations/implications – The observations and conclusions reached here are limited to the case of Welcome Italia spa and are based on the author’s objective analysis. Therefore, care should be taken in generalizing any findings and this highlights the need to understand the IC context before applying the findings. This study contributes to the field of IC “in practice”; In Welcome Italia spa IC has fostered long-lasting changes in the management accounting system and how IC may allow the creation of new managerial objects to achieve value creation

The link between IC, innovation and performance has many implication: for researchers to test correlation considering innovation settorial patterns, for manager to manage IC for innovation and for policy makers to enhance innovation in organizations

Originality/value – The conclusion highlights that companies that don’t disclose IC not necessarily don’t manage it. This study focuses on practices rather than accounting adopting a longitudinal view and shows that financial

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performances allow to develop IC which is expressed in innovation that modifies the composition of IC and allow to create value.

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INTRODUZIONE

Analizzando lo stato dell’arte degli ultimi vent’anni nell’ambito della ricerca internazionale, partendo dal lavoro che ha riaperto la questione sulle misure di performance [Biddle et al., 1997], si coglie che qualcosa ci sta sfuggendo.

Innumerevoli misure di sintesi analizzate, dalle più tradizionali, accounting-based, alle più ”evolute”, value-based, non hanno dato risultati conclusivi su quale sia la misura di performance più rappresentativa della creazione di valore, valida per tutte le imprese e per tutti i settori.

La difficoltà nel trovare un robusto legame può risiedere, come sostenuto dai professori Baruch Lev e Feng Gu nel loro libro “The End of Accounting” [2016], nel fatto che attualmente i prezzi delle azioni sono determinati per circa il 50% da informazioni finanziarie, come reddito netto e asset, mentre fino agli anni Ottanta tali valori rappresentavano fino al 90% dei prezzi di mercato.

Se, quindi, fino anni Ottanta, la tematica del valore era prerogativa della finanza e dell’accounting, successivamente si apre anche verso altre discipline

come management e strategia1 e capitale intellettuale.

È necessario comprendere anche la componente immateriale del valore per poterlo esplorare compiutamente.

A partire dai primi anni Novanta nella ricerca sul capitale intellettuale si sviluppano quelli che sono definiti da Guthrie et al. [2012] i tre stadi della ricerca. Lo scopo del primo stadio “was to render the invisible visible by creating a discourse that all could engage in” [Petty e Guthrie, 2000]. In questa fase la ricerca è profondamente radicata nel lavoro dei professionisti in nord Europa con Edvisson presso Skandia e Sveiby presso Affärsvärlden (Svezia) e il giornalista Thomas Stewart Oltreoceano.

In questa fase dello studio del capitale intellettuale si fa largo riferimento a grand theories per creare consapevolezza dei concetti intorno al capitale intellettuale [Dumay, 2013]. Tra queste il concetto di market-to-book ratio, MTB, [Stewart, 1997], dato dal rapporto tra il valore di mercato e valore contabile del

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patrimonio netto. Secondo questo approccio il capitale intellettuale dovrebbe spiegare gran parte del differenziale tra il valore di mercato e il valore di bilancio. Il MTB non può essere considerato un indicatore esaustivo perché fornisce solo una prima approssimazione della componente intangibile del valore dell’impresa, perché il valore di mercato è troppo legato alla forte volatilità e ad altri fattori di natura psicologica come le aspettative.

La seconda ondata degli studi sul capitale intellettuale indaga l’impatto del capitale intellettuale sulla creazione di valore, vedendo il capitale intellettuale come value driver e la conoscenza come fonte di vantaggio competitivo [Mouritsen et al., 2001]. Anche in questo caso le prove empiriche e i casi di studio sono lontani dall’ottenere un consenso generale [Dumay, 2012] e presentano risultati contrastanti [Mavridis, 2004; Youndt et al., 2004; Chen et al., 2005; Firer e Williams, 2003].

Il capitale intellettuale è da sempre legato alla produzione di valore in letteratura, ma raramente se ne discute sistematicamente [Mouritsen, 2006]. Alcuni autori come Petty e Guthrie [2000], Andriessen [2004] e Roos et al. [2005] sostengono che molti modelli di capitale intellettuale sono direttamente collegati alla creazione di valore.

Si crea valore quando, grazie alle capacità interne, si crea qualcosa che qualcuno fuori dall’impresa reputa di valore [Mouritsen, 2006]. Gli specifici investimenti del passato servono, quindi, a creare le risorse e le capacità affinché l’impresa sia in grado di creare valore. In questa ottica il passato è importante perché è qui che si creano capacità e conoscenze, ed è anche qualcosa che deve essere riesaminato per essere una risorsa per il futuro.

Si ritiene, inoltre, che in un’economia della conoscenza [Drucker, 1994] l’innovazione assuma un’importanza sempre maggiore e i nuovi mercati, prodotti o servizi vedono crescere la loro componente immateriale grazie all’utilizzo sempre più marcato delle tecnologie di comunicazione e informazione (ICT) [Sveiby, 1997]. In un'economia basata sulla conoscenza, l'importanza del capitale intellettuale è riconosciuta perché i beni della conoscenza influiscono sul vantaggio competitivo a lungo termine dell'impresa e sulla creazione di valore

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[Lev, 2001, 2004; Cabello-Medina et al., 2011]. Inoltre, il capitale intellettuale è una risorsa importante per l'innovazione e lo sviluppo del capitale umano dell'impresa attraverso la condivisione della conoscenza [OCSE, 2010, 2013; Nonaka e Takeuchi, 1995].

Indagando come il capitale intellettuale è utilizzato nella pratica si vuole cercare rispondere alla domanda di ricerca su come il capitale intellettuale è collegato al valore, per capire se effettivamente è un enabler dell’innovazione, coerentemente con la grand theory [Dumay, 2013], o se i suoi indicatori, meglio di altri approcci, riescono a catturare la componente del valore legata all’innovazione.

Il presente lavoro si inquadra nel terzo stadio della ricerca sul capitale intellettuale. Si vuole rispondere alla call dell'agenda di ricerca performative [Mouritsen, 2006] che è diretta a indagare come il capitale intellettuale sia attuato e utilizzato nella pratica [O'Donnell et al. 2006; Dumay, 2012, 2014; Guthrie et al., 2012], per capire cosa realmente accade nelle aziende in cui il capitale intellettuale viene misurato e gestito [Dumay, 2012] utilizzando un approccio bottom-up [Mouritsen, 2006].

Un tale approccio teorico necessita, quindi, di una metodologia di ricerca conduce all’utilizzo di un case study, nell’ambito di una ricerca qualitativa.

Si analizzerà ciò che fa, e ha fatto, Welcome Italia spa negli ultimi 10 anni, in cui nell’accademia si sviluppavano quelle che sono state definite da Guthrie et al. [2012] le ondate della ricerca sul capitale intellettuale.

Come la ricerca sul valore inizia in ambito accademico ma riceve forti contributi da practicioner, anche il presente lavoro rappresenta entrambe le anime perché condotto da una dottoranda con una profonda visione da practicioner, perché ha lavorato nell’azienda oggetto dello studio negli ultimi sette anni.

Studiare il contributo del capitale intellettuale al processo di creazione di valore proprio in un contesto in cui ciò avviene nella pratica, può fornire alla ricerca una prospettiva di analisi nuova.

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CAPITOLO 1: VALORE

1.1 Le radici storiche del principio della creazione di valore per l'azionista

Prima di addentrarsi nel cuore della ricerca più recente sui temi di valore, capitale intellettuale e innovazione, si propone un breve excursus storico per capire se i caratteri del valore individuati dai nostri Maestri sono ancora attuali.

Il valore costituisce da sempre uno dei temi più interessanti e stimolanti dell’economia ma è contemporaneamente uno dei meno chiari mai espressi dagli studi in materia. Esso è stato di volta in volta inteso come prezzo, come utilità, come contropartita, come quantità di lavoro, come energia (Smith, Ricardo, Pareto).

Di fronte a tale indeterminatezza, è però bene riflettere che la teoria del valore non è solo una parte della scienza economica, ma è il fondamento di essa [Napoleoni, 1994]; il valore non è solo una delle tante definizioni, è il perno intorno al quale ruotano le imprese, il motivo stesso della loro esistenza.

Il concetto di valore, dunque, così centrale nelle discipline economico-aziendali, è poco esplorato, dato per scontato e definito solo per consuetudine [Vicari, 1995].

Il termine valore acquista tuttavia un rilievo importante nell’ambito delle discipline aziendali quando viene associato a quello di capitale economico nell’espressione generale di “valore del capitale economico” [Comuzzi, 2016].

Zappa [1950, 1957] alla metà del secolo scorso inizia il dibattito sul concetto di capitale economico affermando che “non può valutarsi consapevolmente che sul fondamento dei presunti redditi futuri capitalizzati ad un saggio di reddito o di interesse detto appunto saggio di capitalizzazione” e che “il capitale economico è un valore unico, risultante dalla capitalizzazione dei redditi futuri”.

Il concetto di capitale economico è stato introdotto per distinguere la nozione di valore dell’impresa da quella del capitale contabile, risultante dallo

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stato patrimoniale del bilancio [Ardemani, 1958; Ferrero, 1966; Guatri 1990] (vedi fig. 1) da cui differisce, per natura, scopi e principi.

Figura 1 - Configurazioni di capitale - Primi contributi

Capitale di liquidazione

Capitale di

funzionamento Capitale economico

Avviamento

Capitale contabile ∑ asset

Scopo

Determinare il valore di

liquidazione Misurare il reddito Determinare il valore di scambio

Ipotesi

Cessazione della vita aziendale

Continuità della vita aziendale

Continuità con eventuali cambiamenti nella sfera del soggetto economico Principi

Valori di

realizzo/estinzione Principi contabili

Capitalizzazione dei redditi/flussi di cassa futuri

Logica Analitico-atomistica Analitico-sistematica Sintentico-unitaria

Fonte: propria elaborazione da Gonnella [2012]

La nozione di capitale assume un significato più ampio e complesso, poiché non si tratta di valutare la struttura patrimoniale come conglomerato di beni e ricchezze a disposizione dell’impresa in un dato momento, ma di configurare il valore del reddito attraverso la determinazione del sistema unitario delle condizioni produttive interdipendenti riferite alla gestione [Andrei, 2004]. Infatti, a seconda della configurazione di capitale ricercata, la sua quantificazione può variare, pur considerando i medesimi elementi patrimoniali [Onida, 1963].

Il capitale economico non può essere separato nelle sue parti analitiche e

differisce dal capitale di funzionamento2 ed è ben distinto dal capitale di

liquidazione3 o dalla somma dei singoli asset che ne fanno parte.

2 Che rappresenta un fondo di valori in uno specifico momento, funzionale alla determinazione dei risultati

di periodo [Giannessi, 1979] e presuppone una valutazione sistemica

3 Rappresenta il fondo di valori di un’azienda nell’ipotesi di cessazione della vita aziendale. La logica di

valutazione è analitica, i cespiti vengono valutati singolarmente e realizzati per stralcio per estinguere le passività

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Per questa ragione, il valore del capitale economico può talvolta essere significativamente differente dal valore rappresentato del patrimonio netto in bilancio.

In definitiva con valore economico del capitale si intende il valore attribuibile al capitale investito in azienda in funzione dei flussi futuri attesi, siano essi reddituali o monetari, destinato a remunerare il capitale investito e il rischio ad esso associato ad un’azienda in funzionamento in ottica interna. Ci sono infatti momenti particolari della vita dell’azienda, come ad esempio la liquidazione, che

non verranno considerati nella presente trattazione4.

Nella definizione di Zappa si evidenziano dei caratteri ancora attuali nella ricerca sul valore come lo sguardo al futuro, la ricerca di una misura unitaria di sintesi e la semplicità del modello. In quest’ottica i risultati passati non sono che un indicatore, neanche tra i più importanti, per la previsione dei redditi futuri.

Facendo un passo indietro nel tempo occorre ricordare che Onida [1939] aveva già proposto ulteriori elementi anch’essi molto attuali come i concetti di piani, ipotesi e preventivi economico-finanziari al fine di pervenire ad una stima dei flussi futuri più veritiera. Il testo di Onida è abbastanza rappresentativo dello stato dell’arte dell’epoca. Forte interesse per un’azienda “in avviamento” e un valore del capitale economico composto da due elementi: la redditività e il patrimonio. In questo momento storico infatti l’avviamento è visto come l’eccedenza del capitale economico rispetto al capitale netto contabile in ipotesi di trasferimento (vedi fig. 1).

Con riferimento all’avviamento, Zappa [1957], lo descrive come un insieme di condizioni grazie alle quali l’impresa può essere ritenuta idonea a produrre utilità future. Si comprendono, allora, le motivazioni per cui l’avviamento è considerato un elemento complementare il cui valore risulta difficile da determinare, così come altri elementi che concorrono alla determinazione della redditività futura dell’impresa, come la ditta, l’insegna, la clientela, la fiducia. È interessante notare come Zappa abbia, inoltre, percepito e, quindi, evidenziato la difficoltà delle procedure di valutazione delle risorse in questione, sottolineando

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come tali beni partecipino alla formazione del valore di un complesso economico ma non siano atti ad essere considerati separatamente dallo stesso. Si comprende, quindi, come le criticità afferenti alla definizione e determinazione del valore delle risorse intangibili, oggetto di interesse dell’attuale contesto accademico, fossero già state colte, seppur in modo secondario, dal pensiero zappiano.

Amodeo [1967] in merito agli elementi immateriale esprime concetti in linea con Zappa. In particolare la valenza attribuita alle risorse immateriali si coglie soprattutto alla luce delle considerazioni che Amodeo esprime in merito agli elementi immateriali non acquisiti all’esterno, ma il cui sviluppo è avvenuto grazie a costi sostenuti internamente “spese ingentissime stanno alla base del conseguimento di quei risultati (lavoro dei collaboratori e dei centri di ricerca sperimentazione) i quali sovente nemmeno si coprono con brevetti”. È allora evidente come l’Autore sottolinei il valore strategico derivante dalla disponibilità di tali risorse, sensibilizzando gli studi di ragioneria verso l’analisi del differenziale produttivo apportato dal patrimonio intangibile.

In questa fase storica però la ricerca è orientata alla definizione dei concetti di capitale e reddito e la ricerca del valore deve rispondere a due esigenze fondamentali: determinare il valore di scambio e affinare la misurazione di reddito e capitale al fine di determinare il valore economico del capitale.

In questo periodo infatti nascono i metodi di valutazione del capitale economico basati su grandezze flusso, su grandezze stock e in seguito metodi misti.

Nei primi del Novecento l’unico metodo a disposizione per la valutazione del capitale era il metodo patrimoniale, che consiste in una valutazione analitica dei singoli elementi appartenenti al capitale. Come detto, ed illustrato in figura 1, il capitale economico non può essere separato nelle sue parti analitiche quindi questa metodologia è stata fortemente criticata ed appare accettabile solo quando “il valore dei beni patrimoniali non vari notevolmente col variare della presunta capacità di reddito dell’azienda” [Onida, 1952].

A causa di queste limitazioni nascono così ulteriori metodologie: nel mondo anglosassone tutte le modellizzazioni collegate ai flussi finanziari o monetari, noti

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come Discounted Cash Flow, DCF e il metodo reddituale, sviluppatosi in Italia e Germania.

Il modello DCF vede come variabili chiave per la determinazione del valore il Free Cash Flow from Operations e Free Cash Flow to Equity, attualizzati rispettivamente al costo medio ponderato del capitale, WACC, o al costo del capitale proprio Ke. Tale impostazione, che ha trovato largo consenso in letteratura, si pome come un adattamento dei primi contributi sulla valutazione degli investimenti basati sul valore attuale netto, VAN [Fisher, 1930; Williams, 1938, Hirshleifer, 1958].

In questa logica, l’approccio si propone di determinare il valore del capitale economico assume che esso sia determinato dal valore attuale dei flussi di cassa, al netto del valore del debito.

Nel modello reddituale, nella formulazione zappiana [1950], si attualizzano invece flussi reddituali, redditi netti o operativi, ad un tasso espressivo del rendimento-opportunità del capitale.

In seguito si affacceranno anche modelli misti, multipli di Borsa e transazioni comparabili, coerentemente con l’esigenza di determinare il valore di scambio, più che di comprendere come si crea valore.

Da Oltreoceano, invece, giunge un contributo con uno scopo differente, quello di spiegare le determinanti del valore. In particolare la Q di Tobin [1951; 1955; 1958] spiega esplicitamente che un’azienda può valere di più, o di meno, costo di sostituzione dei suoi asset tangibili.

Il valore è quindi la stima dell’ammontare del capitale economico e come tale è caratterizzato dalla soggettività [Amodeo, 1965]. Il valore è diverso in relazione al soggetto che compie la stima e assume la natura di giudizio. “il processo di valutazione non è una procedura automatica a risultanze inequivoche e indubitabili, [...] richiede da parte del valutatore l’esercizio di un’avvisata facoltà di decisione e la composizione di stime, apprezzamenti, di giudizi”. Per rispondere a questa obiezione, e facendo riferimento a lavori più recenti [Jovenitti, 1991; Guatri 1998; Zanda et al. 2013], si può affermare che affinché la valutazione

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conduca a valori di capitale economico deve presentare alcune caratteristiche: razionalità, dimostrabilità, neutralità e stabilità.

La razionalità si estrinseca attraverso la coerenza tra il modello interpretativo dell’azienda e le metodologie adottate per la stima del capitale economico e l’adozione di un processo valutativo chiaro, logico e razionale.

La dimostrabilità inerisce la credibilità o aleatorietà dei parametri utilizzati. Si tratta di basarsi su risultati acquisibili con relativa certezza in tempi contenuti, altrimenti si travalicano i confini del valore di capitale economico e si sfocia nel valore potenziale5.

La neutralità indica l’attitudine della valutazione ad essere svincolata da prospettive soggettive che potrebbero comportare differenti quantificazioni dei parametri necessari alla valutazione. Non si parla quindi di prezzo per l’acquirente, prezzo per il venditore, né valore della quota di controllo.

La stabilità mira a vedere il valore del capitale economico come tendenzialmente indipendente da eventi congiunturali.

Le difficoltà di stima del capitale economico nell’epoca sono illustrate da Ferrero [1968], quando sottolinea il carattere etereo del valore, affermando che “il capitale economico d’impresa, come valore logicamente derivabile dalla capitalizzazione economica dei flussi di reddito connessi alla dinamica futura, non è suscettibile di coerente determinazione se non in astratto”. Le principali motivazioni portate dall’Autore risiedono principalmente nelle difficoltà di previsione della redditività che quindi non consente di pervenire ad una “determinazione quantitativa atta a rifletterne fedelmente il contenuto”.

Queste difficoltà non significano impossibilità di stima del capitale economico ma devono essere letti come sinonimo di una insoddisfazione nei confronti dei metodi a disposizione.

5 Si vedano ad esempio tutti i modelli di pricing sviluppati nella teoria delle opzioni reali [Black e Scholes,

1973]. Secondo Massari e Zanetti [2004] si parla di valore potenziale quando non sono individuabili le condizioni di dimostrabilità delle risorse intangibili.

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1.2 Il valore come scopo: le misure di valore diventano misure di performance

Negli anni Settanta, soprattutto nel mercato statunitense, la perdita di competitività delle imprese e la scarsa redditività nei confronti degli azionisti conduce a numerose operazioni di finanza straordinaria, che all’epoca diventano quasi “ordinarie” per la frequenza in cui avvengono. Queste operazioni mettono in evidenza il cosiddetto value gap, il significativo scostamento tra il valore che l’impresa avrebbe se operasse per massimizzare il valore per l’azionista e il valore corrente dell’impresa [Amaduzzi, 2000].

Le cause di questo scostamento sono state individuate nell’inadeguatezza dei tradizionali sistemi di misurazione delle performance a guidare le imprese verso la creazione di valore [Donna, 1999].

Con i modelli contabili, si misurano il reddito e il capitale di funzionamento che, come illustrato precedentemente, risultano temi concettualmente differenti dal capitale economico. Inoltre l’influenza della legislazione civilistica e tributaria, nel dettare i principi e criteri di valutazione, può limitare la capacità esplicativa del modello che deve rispondere ad esigenze diverse da quelle della creazione di valore [Guatri, 1998]

Nel 1993, Peter Drucker afferma, in un articolo sul Wall Street Journal, che le informazioni economico-finanziarie provenienti dal bilancio e dalla contabilità analitica sono come una radiografia tramite la quale si evidenzia solo lo scheletro di una azienda e che i sintomi delle malattie, che in quegli anni cominciavano a colpire le aziende, non erano individuabili da una radiografia.

La maggiore concorrenza ha avuto come principale effetto un incremento dei rischi, intesi nel senso di incertezza e variabilità dei risultati, che l’azienda deve essere in grado di fronteggiare e tenere in considerazione nei propri calcoli di convenienza economica. Anche in questa direzione il modello contabile si è mostrato carente in quanto il risultato di periodo non è ponderato in alcun modo con la sua rischiosità [Invernizzi e Molteni, 1991].

Circa l’incapacità degli indicatori contabili di informare su alcuni aspetti del valore creato Galeotti ne sottolinea l’orientamento al passato [2001] e aggiunge

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che “il reddito/margine di periodo […] infatti tende a riflettere una nozione di ricchezza orientata essenzialmente al passato, che tralascia buona parte di quelle componenti che investono invece le modificazioni nelle prospettive gestionali”.

I lavori pionieristici di Solomons [1965] e Anthony [1973; 1988], che saranno descritti in seguito nel presente paragrafo, si inquadrano nella seconda svolta della ricerca sul valore che ha luogo negli anni Settanta grazie all’integrazione della teoria finanziaria con le discipline manageriali. Prima di analizzarli, per cogliere come gli Autori si pongono e cercano di superare le limitazioni delle misure contabili, è opportuno comprendere perché si sono sviluppati.

Negli anni Settanta si aggiungono ulteriori ordini di problematiche che il valore è chiamato a risolvere: l’implementazione di sistemi direzionali imperniati sul valore e l’approfondimento del ruolo delle leve gestionali e dei fattori che portano alla creazione di valore [Kaplan e Roll, 1972].

Negli anni Ottanta viene assegnata al concetto di valore un’ulteriore responsabilità: quella di obiettivo primario dell’azione del management [Rappaport, 1981], con un’ottica tipicamente anglosassone di coincidenza tra massimizzazione del valore aziendale e massimizzazione del valore azionario. Il valore è chiamato rispondere alle aspettative dei suoi proprietari [Rappaport, 1998]. Per far questo sono necessarie nuove misure orientate al valore e queste misure devono diventare misure di performance, attraverso le quali le imprese perseguono la creazione di valore.

Martin e Petty [2000] considerano il Value Based Management, VBM, come una sintesi di molte discipline economiche come finanza, strategia, contabilità e organizzazione. Da una prospettiva finanziaria gli obiettivi del VBM sono di creare valore per gli azionisti. Da un punto di vista della strategia il VBM è il risultato di investire nelle nicchie di mercato e di differenziarsi alla ricerca del vantaggio competitivo. Il VBM influenza la struttura e la contabilità dell’impresa e la modifica per i suoi scopi. Rispetto ad una prospettiva organizzativa il VBM costituisce un sistema di misure e ricompense “designed to encourage employees to focus their activities on the creation of shareholder value”.

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Vedere il valore come obiettivo porta ad un orientamento manageriale, il VBM, che può essere definito come un approccio manageriale integrato basato su una pluralità di elementi, compreso il sistema di controllo di gestione, che pone la creazione di valore al centro della strategia aziendale [Ittner e Larcker, 2001; Ameels et al., 2002; Copeland, 2002; Burkert e Lueg, 2013].

In merito alla creazione di valore si affiancano, e talvolta si contrappongono due approcci, lo shareholder approach e lo stakeholder approach.

Secondo il primo, il VBM [Friedman, 1970] è interpretato come l’allineamento di tutte le attività aziendali per creare valore aggiunto per gli shareholder, facendo investimenti con un rendimento superiore al costo del capitale [Simms, 2001].

Le dichiarazioni di Friedman riflettono tre presupposti fondamentali che spingono le imprese a massimizzare il valore per gli azionisti.

Il primo è che i costi sociali e ambientali delle imprese dovrebbero essere sostenuti solo nella misura richiesta dalla legge. Tutti gli altri costi dovrebbero essere lasciati all’esterno.

Il secondo è l'interesse personale il principale responsabile della motivazione dell’attività umana. Come tale, le persone e le organizzazioni agiscono razionalmente nel proprio interesse personale, per massimizzare l'efficienza e il valore per la società.

In terzo luogo, l'impresa è fondamentalmente il nodo di relazioni che hanno maggiore impatto sulla redditività dell'impresa.

In quest’ottica i risultati di un’azienda vengono valutati in relazione alla capacità di offrire un rendimento del capitale proprio almeno pari a quello garantito per investimenti caratterizzati dallo stesso livello di rischio oppure maggiore del costo ponderato del capitale acquisito dall’azienda [Stewart, 1991]. Obiettivo primario di ogni impresa diviene la “massimizzazione” del valore per l’azionista; ciò ha conseguenze sui modelli per la determinazione del capitale economico in quanto pone in una situazione di centralità l’apportatore del capitale di rischio, non trascurando gli altri stakeholder ma sostenendo che, tramite una adeguata

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remunerazione del capitale, si soddisfano contemporaneamente le attese di tutti i gruppi di stakeholder [Copeland et al., 2000].

Al contrario il concetto alla base della stakeholder theory è concepito da Freeman [1984] quando sostiene che i manager hanno l’obbligo morale di ponderare e bilanciare adeguatamente gli interessi di tutti gli stakeholder.

Evan e Freeman [1993] sostengono che “A stakeholder theory of the firm must redefine the purpose of the firm [...] the very purpose of the firm is, in our view, to serve as a vehicle for coordinating stakeholder interests”.

Secondo questo approccio è possibile creare valore soltanto col supporto di differenti gruppi di stakeholder [Ameels et al., 2002] “despite the fact that the objectives of the different stakeholder group not always converge, they realize that working together to realize the multiple goals of the firm is the only way to reach some of their own objectives”.

Questa concertazione di interessi è possibile soltanto adottando misure di performance per valutare il successo del management nel creare valore per gli azionisti e motivare i dipendenti a lavorare in un’ottica di creazione di valore [Young e O’Byrne, 2001].

Su queste basi la pianificazione strategica, la misurazione delle performance e le politiche di compensation devono essere integrate per massimizzare il valore concentrando il decision-making sui principali driver di valore.

In generale, e indipendentemente dall’approccio utilizzato, il VBM dovrebbe fornire un quadro generale attraverso il quale i manager possono definire e implementare strategie di creazione di valore e fornire ai proprietari mezzi di monitoraggio e allineamento.

In quest’ottica per creare valore occorrono misure value-based che combinano il costo del capitale investito con la redditività dell'impresa [Copeland, 2002] e un insieme correlato dei driver di valore connessi a queste misure. Questi strumenti sono destinati a sostituire le misure contabili per diventare indicatori principali di performance dell'impresa.

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Le misure basate sul valore dovrebbero aiutare nello sviluppo di strategie, allocare risorse e definire obiettivi, allineando obiettivi interni con la creazione del valore degli azionisti.

L'integrazione di metriche basate sul valore all'interno del sistema di compensation aziendale dovrebbe portare un ulteriore allineamento degli obiettivi dei manager agli interessi dei proprietari [Claes, 2006]. Questo potrebbe risolvere i principali problemi di agenzia e fornire ai manager i giusti incentivi per prendere tutte le decisioni di investimento e di finanziamento in un’ottica di massimizzazione del valore [Dallocchio e Tamarowski, 2005].

Infine, come sistema di controllo olistico che porta trasparenza, responsabilità e orientamento al valore a tutti i livelli di una società, il VBM dovrebbe ulteriormente facilitare l'accesso al capitale di finanziamento [Beck e Britzelmaier, 2012].

Il valore è quindi chiamato a raccogliere nuove sfide inserendosi anche nel controllo e nel governo delle aziende, entrando sempre più nella gestione aziendale quotidiana. Per fare ciò è necessario avvalersi di misure di performance orientate al valore; in questo senso i lavori pionieristici sono quelli di Solomons [1965] e Anthony [1973; 1988] sul reddito residuale.

Analizzare i primi lavori sul tema delle misure di performance orientate al valore permette di definire alcuni concetti fondamentali, come il reddito residuale e di comprendere come gli Autori si pongono o superano le limitazioni delle misure contabili.

A differenza del reddito economico il reddito residuale, Residual Income, RI, misura la perfomance di valore nella prospettiva dell’azionista tenendo conto del costo sostenuto per le risorse finanziarie destinate all’investimento. Il valore creato è calcolato come il maggior reddito, o il reddito che residua, dopo aver adeguatamente remunerato il capitale investito. Così facendo il reddito residuale incorpora anche il profilo di rischio [Galeotti, 2001].

In prima battuta, Solomons, elabora il concetto di reddito residuale divisionale, RDD, con lo scopo prioritario di valutare la performance di divisione, partendo da due constatazioni che evidenziano ulteriori limiti della contabilità

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generale come misura di performance: comparare business unit con redditività e livelli di investimento differenti.

Le variabili di Solomons per la determinazione del reddito residuale divisionale sono: il reddito operativo al netto delle imposte normalizzato, il capitale investito e il costo opportunità del capitale che può idealmente essere investito in altre attività aziendali.

Solomons, utilizza come variabile il reddito operativo, un indicatore di derivazione contabile, ma, consapevole dei suoi limiti per la misurazione delle performance, afferma che “La maggior parte delle aziende, forse, è disposta ad accettare queste insufficienze apportandovi solo correttivi di natura puramente soggettiva ogni qualvolta si ritiene necessario il riconoscimento di tali carenze. È una conseguenza dei principi contabili il fatto che queste correzioni debbano essere compiute dalla direzione sotto forma di riserva mentale piuttosto che esplicitamente quantificate da parte dei contabili. In ogni caso, almeno per ora, ciò deve essere accettato, e probabilmente sarà sempre così”. L’Autore, suggerisce che potrebbe essere sufficiente essere consapevoli dei limiti delle misure contabili, anziché tentare con ogni mezzo di superarli.

Solomons sostiene, inoltre, che il costo del capitale sia unico per tutte le divisioni, non perché i redditi delle divisioni non possano presentare diversi profili di rischio, ma perché i portatori di capitali finanziano l’azienda nel suo complesso, non la singola divisione.

È interessante segnalare come l’Autore veda le limitazioni di significatività dei risultati di derivazione contabile, che quindi portano a configurazioni di reddito solo approssimative del valore creato dall’azienda, quindi suggerisce di integrarlo all’interno di un sistema di misure per comprenderne maggiormente i risultati e spiegare gli elementi che li hanno determinati. Suggerisce in definitiva di abbandonare l’utilizzo di una sola misura di sintesi.

Anthony, invece, nel tentativo di avvicinare la contabilità generale alla contabilità direzionale, prova a superare i limiti delle misure contabili lavorando in maniera interessante sia sugli ammortamenti, che su costo del capitale proprio.

(21)

Anche gli ammortamenti sono un elemento fortemente criticato ed annoverato tra i limiti delle misure contabili. A causa dei principi contabili e fiscali gli ammortamenti in bilancio tendono a non riflettere la reale perdita di utilità dei beni durevoli. Inoltre, talvolta, non è possibile procedere all’ammortamento di beni che hanno effettivamente una durata pluriennale come le spese di ricerca e sviluppo o pubblicità [Donna 1992; Rappaport 1997; Martin e Petty, 2000].

Anthony, quindi, suggerisce di scollegarsi dai principi contabili e trattare gli investimenti considerandone adeguatamente le prospettive di sviluppo.

In merito al costo del capitale proprio suggerisce di iscriverlo idealmente negli interessi passivi. Il capitale versato di conseguenza si incrementa di anno in anno per questi interessi mai corrisposti.

Alla ricerca di una semplicità di applicazione, Anthony, suggerisce anche che il costo medio del capitale possa essere soddisfacentemente approssimato utilizzando il tasso applicato ai debiti prima delle imposte.

Sebbene questa semplificazione sopravvaluti il costo del capitale di debito fiscalmente deducibile, dovrebbe sottovalutare in maniera pressoché analoga il costo del capitale proprio, che presenta un profilo di rischio superiore a quello di debito. Si ricerca quindi una semplicità di identificazione e immediatezza di utilizzo delle variabili.

I caratteri, quindi, che si possono cogliere dai primi lavori sulle misure di performance orientate al valore sono, da un lato, la possibile incapacità di una sola misura di sintesi di essere esplicativa del valore creato [Solomons, 1973], dall’altro di superare i limiti delle misure contabili attraverso rettifiche ed adattamenti allo scopo [Anthony, 1973; 1988]. Non sono evidenti, invece, riferimenti a concetti di elementi immateriali o capitale intellettuale.

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1.3 EVA: una misura di performance orientata al valore

Dopo aver colto come il valore sia diventato obiettivo per le imprese, e quindi le misure di valore sono divenute misure di performance, atte a guidare le imprese nel decision-making, formulazione della strategia e compensation verso la creazione di valore, e compreso le esigenze che hanno spinto a formulazione di nuovi indicatori, è opportuno analizzare in dettaglio la misura di performance orientata al valore più testata nella literature review che segue nel prossimo paragrafo, per coglierne potenzialità e limiti.

Sebbene anche altre misure siano state sviluppate nel tempo sia in Italia6

che all’estero7, la ricerca internazionale volta a comprendere quale sia la misura

più rappresentativa della creazione di valore, come vedremo nel prossimo paragrafo, si è concentrata principalmente nella contrapposizione tra l’Economic Value Added, EVA e alcune misure di derivazione contabile.

Nei primi anni Novanta, Oltreoceano, dal mondo della consulenza, Stewart [1991, 1994] elabora EVA, un metodo che ha avuto grande diffusione nella prassi

6 Nei primi anni Novanta, in Italia, Guatri [1991; 1998] elabora il concetto di risultato economico integrato

residuale, REIR, che parte da risultati contabili, dal risultato economico integrato, REI, e sottrae il costo del capitale proprio.

Il REI esprime una misura di performance aziendale basata sia sul risultato contabile “normalizzato” che sulla variazione del valore degli asset intervenuta nel periodo. Questo metodo tende a colmare le lacune derivanti dalla legislazione civilistica e tributaria nel dettare i principi e criteri di valutazione.

REI = RN + ∆P + ∆I Dove:

•RN reddito di bilancio, normalizzato per eliminare gli effetti di componenti straordinarie ed extracaratteristiche

•∆P variazione di plusvalenze e minusvalenze non espresse contabilmente •∆I variazione dello stock di beni immateriali

Il processo da seguire suggerito dall’Autore parte da una normalizzazione dei risultati contabili per poi integrare alcuni dei valori che la contabilità non è in grado di esprimere, come i beni immateriali.

Il REIR come indicatore di creazione o distruzione di valore si basa sull’assunto che maggiore è la capacità dell’azienda di generare reddito in un determinato periodo, maggiore è il valore che l’attività aziendale ha creato.

REIR = REI – i x K’ Dove:

•i costo opportunità del capitale

•K’ capitale netto rettificato che include anche le componenti immateriali e le plusvalenze e minusvalenze latenti

Con Guatri le componenti intangibili hanno una loro esplicitazione.

Tra gli altri lavori in Italia abbiamo la Creazione di valore d’esercizio e Totale, CVE [Donna, 1999]

7 Tra questi Shareholder Value Added, SVA creato da Rappaport e LEK/Alcar Consulting Group

[Rappaport, 1997], Cash Flow ROI, CFROI proposto da proposte da HOLT Value Associates diffuso a livello dottrinale da Madden [1996], Cash Value Added, CVA [Ottosson e Weissenrieder, 1996] saranno esposti di seguito nella trattazione. Tra gli altri possiamo annoverare l’Economic Profit [McTaggart, Kontes e Mankins, 1994], Market to Book Ratio, MTB [Luthy e Stewart, 1998]

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e tra gli operatori di mercato. Si basa sul concetto che si ha creazione di valore quando l’impresa è in grado di avere un sovraprofitto dopo aver remunerato il capitale investito, sia esso di terzi o proprio.

Nella sua formulazione originale, di cui in seguito sono state proposte numerose varianti, EVA è calcolato sottraendo al reddito operativo netto rettificato rapportato il costo medio ponderato del capitale moltiplicato per capitale investito netto.

EVA = NOPAT – WACC x CIN

NOPAT: reddito operativo netto rettificato

WACC: costo medio ponderato del capitale determinato con il CAPM in base alla struttura finanziaria obiettivo

CIN: capitale investito netto

Per il calcolo di EVA non vengono utilizzati il risultato operativo (EBIT) e il capitale investito come rappresentati in bilancio, rispettivamente nel conto economico e nello stato patrimoniale. Queste due voci devono essere opportunamente rettificate per esprimere una reale valutazione del capitale effettivamente investito e del reddito monetariamente disponibile. Così dal

risultato operativo si ottiene il NOPAT8 e dal capitale investito il capitale investito

rettificato.

È il caso di sottolineare che queste, tra le tante e possibili rettifiche proposte, si scontrano sulla concreta possibilità e opportunità di svolgere le stesse. L’Autore stesso specifica le condizioni in cui è opportuno operare alle rettifiche:

 l’impatto è significativo;

 i responsabili possono influenzare i risultati rettificati;  l’informazione richiesta è rapidamente disponibile;

8 Il NOPAT presenta alcune caratteristiche che lo rendono più esplicativo rispetto all’EBIT: non risente di distorsioni contabili, quali oneri e proventi straordinari, è neutrale rispetto alle modalità di finanziamento in termine di capitale (capitale di rischio, capitale di debito), è espressione del reddito prodotto al netto dell’imposizione fiscale “normale”.

NOPAT e CIN sono rettificati per garantire una corretta valutazione di alcuni asset: scorte, avviamento, fondi rischi e spese, componenti straordinarie per essere maggiormente idonei a orientare l’azione del management verso l’obiettivo della creazione di valore.

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 le rettifiche sono di facile comprensione anche ad un pubblico non specializzato.

In caso contrario è preferibile non procedere.

La logica con cui è nato EVA è quella di massimizzare il valore per gli azionisti attraverso un efficiente utilizzo del capitale. Ciò dovrebbe riflettersi nelle decisioni a tutti i livelli aziendali.

Più recentemente questo metodo viene utilizzato per valutare la performance organizzativa. EVA è utilizzato anche come misura per valutare se il capitale intellettuale è utilizzato efficacemente [Ngwenya, 2017] e può fornire informazioni sull'effetto del capitale intellettuale sulle performance aziendale [Ghosh e Mondal, 2009]. Si tratta di una misura di performance globale include variabili di capital budgeting, pianificazione finanziaria, goal-setting, misurazione delle performance, comunicazione nei confronti degli azionisti e compensation.

Per comprendere meglio il contributo informativo di EVA si propone una sua scomposizione attraverso il Market Value Added, MVA, dato dalla differenza tra il valore di mercato del capitale investito e il valore contabile rettificato dello stesso.

Figura 2 - Scomposizione EVA

VA

VA Incrementi FGV

MVA EVA EVA

Valore di attesi EVAt/

mercato WACC Valore

impresa delle

Capitale Capitale Capitale attività investito investito investito correnti

COV

Fonte: propria elaborazione

Come si può vedere dalla figura 2 la scomposizione di EVA permette di quantificare il peso delle diverse componenti del valore di un’impresa. Il MVA, visto come valore attuale degli EVA attesi, può a sua volta essere scomposto in due componenti. Il valore attuale della rendita perpetua dell’EVA al tempo t e il valore attuale degli incrementi di EVA. Questa scomposizione permette di

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rappresentare il valore attuale dell’attuale strategia (Current Operations Value, COV) e il valore attuale dei miglioramenti futuri attesi (Future Growth Value, FGV).

EVA sembrerebbe quindi un indicatore di performance che supera le principali limitazioni delle misure accounting-based perché tiene conto del livello di rischio e del valore finanziario del tempo.

Non è pero un indicatore esente da critiche, che saranno approfondite attraverso i lavori presentati nel paragrafo successivo.

In prima approssimazione, tra i limiti di EVA c’è da notare il fatto che non evidenzia le risorse, e il loro consumo, necessarie per il mantenimento della redditività prospettica e non fornisce informazioni sulla qualità del reddito [Coda, 1991].

In pratica pur integrando in modo utile la qualità dell’informazione contabile non permette di individuare le cause di “quel” determinato risultato [Olivotto, 2000].

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1.4 Valore e performance

Dopo aver compreso qual è il percorso storico, gli scopi con cui si sono sviluppate le misure del valore e colto quali sono le principali limitazioni delle misure accounting-based è opportuno analizzare se a livello empirico si riscontrano indicazioni circa la superiorità di uno, o alcuni indicatori, in merito alla capacità di spiegare la creazione di valore.

Solo alcuni estratti dai lavori di Stewart:

“Abandon earnings per share. EVA is the one measure that properly accounts for all the complex trade-offs involved in creating value”9

“EVA is almost 50% better than its closest accounting-based competitor in explaining changes in shareholder wealth”10

“EVA stands well out from the crowd as the single best measure of wealth creation on a contemporaneous basis. As such it can be adopted with confidence as a company’s primary performance metric”11

Se fino al 1997 la proposizione di Stewart, circa la superiorità di EVA come misura esplicativa del valore, aveva raccolto molti consensi, soprattutto nella pratica, in quell’anno arriva il primo studio che contrasta apertamente quelle evidenze.

In particolare, Does EVA beat earnings? Evidence on associations with stock returns and firm values [Biddle et al., 1997] dal titolo già evocativo è considerato uno dei paper più influenti nell’ambito dello studio delle misure di performance.

Nello studio della relazione tra valore e performance, per comprendere quali misure siano più esplicative del valore creato, è stata svolta una literature review tra i paper che fanno esplicito riferimento al lavoro su citati di Biddle et al., considerato un seminal paper.

I risultati degli studi empirici che fanno esplicito riferimento al lavoro di Biddle et al. fondamentalmente si dividono in 3 categorie:

9 Stewart GB (1991), The Quest for Value, Harper Business, New York

10 Stewart GB (1994), “EVA: Fact or Fantasy,” Journal of Applied Corporate Finance, Vol 7, No 2 11 Stewart GB (1995), “EVA Works—But Not If You Make These Common Mistakes,” Fortune, 1 Maggio

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 quelli a sostegno di EVA o RI [Lehn e Makhija, 1997; Brewer et al., 1999; Felthan et al., 2004; Pasrvei e Farahadi, 2013];

 quelli i cui risultati spingono all’utilizzo di misure contabili [Biddle et al., 1997; Bao e Bao, 1998; Clinton e Chen, 1998; Chen e Dodd, 2001; Ismail, 2006; Kyriazis e Anastassis, 2007; Nuttawatt et al., 2008; Kaur e Narang, 2009; Maditinos et al., 2009; Kumar e Sharma, 2011; Nakhaei et al., 2016; Altaf, 2017; Bhasin, 2017];

 quelli che non trovano una differenza significativa tra gli indicatori [Chen e Dodd, 1997; Salmi e Virtanen, 2001; Holler, 2008; Leong et al., 2009; Alsoba, 2017].

Nella figura 3 sottostante si riassumono i principali indicatori testati e i principali findings dei lavori analizzati. EVA è l’indicatore presente in tutti gli studi, sia come indicatore nella sua formulazione originale che con gli indicatori da esso derivati come REVA e MVA. Tra gli altri indicatori di reddito residuale il più testato è proprio il RI (10 studi su 26) mentre sono scarsi gli studi connessi agli indicatori di performance legati alla creazione di valore come CFROI, SVA e EM. Molti invece gli indicatori accounting-based testati, sia di tipo economico che finanziario (9 studi su 26) inclusi ratios come ROI e ROE (14 studi su 26).

I mercati più testati sono stati inizialmente relativi al modo anglosassone, con una marcata presenza degli Stati Uniti, mentre di recente si evidenzia la tendenza ad analizzare anche marcati meno maturi ed emergenti come quello indiano o malese.

Figura 3 - Risultati contrastanti valore e performance

n Anno Autore Mercato Variabili testate Findings

1 1997 Lehn e Makhija US EVA, MVA, ROA, ROE

EVA > MVA > ROA > ROE 2 1997 Chen e Dodd US EVA, RI, EPS, ROA, ROE EVA = RI ± 3 1997 Biddle et al. US EVA, RI, EBEI e CFO EBEI +

4 1998 Bao e Bao US VA, EEA (EVA) VA > EEA (EVA)

5 1998 Clinton e Chen US

OI, adjusted OI, CFO, RI, EVA, residual CF, ROI, adjusted ROI, CFROI

CFO, adjusted OI e residual CF > RI, EVA e CFROI 6 1999 Brewer et al. - EVA, ROI EVA > ROI

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7 2001

Salmi e

Virtanen - EVA, ROI, ROE, TIR

EVA = ROI ma più instabile

8 2001 Chen e Dodd US

OI, RI, EVA, RI - OI, EVA -

RI OI > RI > EVA

10 2004 Feltham et al. EVA, RI, EBEI, and CFO EVA o RI

11 2006 Ismail UK EVA, NI, OCF, RI, NOPAT NOPAT, NI > EVA 12 2007

Kyriazis e

Anastassis GR EVA, NI, OI, RI NI, OI > EVA 13 2008 Holler US EVA, RI, CFO, EBEI EBEI = RI > EVA 14 2008 Nuttawat et al. US EVA, CFO, EBIT, RI EBIT, CFO > EVA

15 2009 Kaur e Narang IND

EVA, EVA%, NI, ROCE, ROE, ROTA, EPS, ROI, capital productivity,

employees’ productivity NI > EVA

16 2009 Maditinos et al. GR EPS, ROI, ROE, EVA, SVA EPS > EVA, SVA 17 2009 Leong et al. US EVAM, EP, BM EVAM = EP = BM 18 2011

Kumar e

Sharma IND

EVA, ROE, NOPAT, ROCE, EPS, CFO

NOPAT, CFO > EPS, EVA 19 2011 Tutino

UK, DE,

FR, I EVA, CFFO, EBIT dipende dal mercato 21 2013

Parvaei e

Farhadi IL EVA, NI, RI, FCF EVA > NI, RI 22 2014 Iazzolino et al. I VAIC, EVA VAIC <> EVA

23 2016 Nakhaei et al. MAL NI, NOPAT, EPS, REVA

NI, NOPAT > EVA ± REVA

24 2016 Altaf IND EVA, EBIT, ROCE, ROE, ROI OI > EVA 25 2017 Bhasin IND EVA, ROE, ROCE e EPS

ROE, ROCE, EPS > EVA

26 2017 Alsoboa IND

EVA, ROA, CSV-F (Fernandez), Debit ratio,

Growth, MVA EVA ± ROA

Fonte: propria elaborazione

Nel loro studio Biddle et al. [1997] hanno analizzato la correlazione dei prezzi delle azioni con alcuni indicatori di derivazione contabile sia finanziari,

come Cash Flow from Operations, FCFO12, che economici come Earnings Before

Extraordinary Items, EBEI13 e con alcune misure di reddito residuale Residual Income14, RI e EVA, misure di performance orientate alla creazione di valore.

12 Rappresenta il flusso di cassa operativo, misura l'ammontare di cassa generato dalla gestione caratteristica

di un business. Indica se un'azienda è in grado di generare abbastanza cassa per mantenere o incrementare le sue attività.

13 Rappresenta l'utile netto rettificato da componenti straordinari, come ad esempio cambiamenti nei

principi contabili, proventi e oneri straordinari, imposte sulle partite straordinarie

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Gli Autori hanno inoltre scomposto EVA nelle sue componenti per valutare se ce ne sono alcune più esplicative di altre.

Biddle et al. non hanno potuto riscontrare una marcata superiorità di EVA rispetto agli altri indicatori. I loro risultati contrastano apertamente con la preposizione di Stewart [1991] circa la superiorità di EVA rispetto agli altri indicatori. Dai loro risultati emerge che EBEI spiega più delle altre misure le

variazioni dei prezzi di mercato15 sia in termini di variazioni positive che negative.

Inoltre EBEI risulta particolarmente adatto a spiegare la performance di lungo termine.

Gli Autori concludono che EVA possa comunque essere utilizzato per decision-making, compensation e misura di performance a consuntivo. Il valore di mercato include anche le aspettative future ed EVA non sembra essere in grado di spiegarle appieno.

Nello stesso anno Lehn e Makhija [1997] sostengono da un lato che EVA e MVA siano correlati positivamente con il rendimento azionario, in maniera leggermente superiore a ROA e ROE mentre Chen e Dodd [1997] dopo aver testato

EVA, RI, EPS16, ROA, ROE giungono alla conclusione che EVA e RI siano

correlate nello stesso modo con il rendimento azionario, ma non fortemente. Le tradizionali misure di profitto non devono essere scartate in favore dell'EVA.

Arriva ben presto la risposta di O’Byrne [1999], ex partner di Stern Stewart&Co, che sottolinea la capacità di EVA di spiegare i rendimenti di mercato maggiormente correlati con gli EVA attesi piuttosto che con gli EVA storici, ribaltando, quindi, le evidenze di Biddle et al.

Bao e Bao [1998] ottengono un risultato interessante, riscontrano che il

valore aggiunto, Value Added, VA17, è la variabile più esplicativa. Il valore

aggiunto risulta superiore rispetto al reddito netto, Net Income, NI, e EVA. Questo dato risulterà interessante più avanti nel corso della trattazione quando saranno

15 In ordine di capacità esplicativa EBEI > RI >EVA > CFO

16 Earnings per Share, EPS, è una misura di utile netto espressa in termini monetari con riferimento a

ciascuna azione

17 Si ottiene dalla differenza tra il valore della produzione e il costo dei beni e dei servizi acquistati da terzi.

Sono considerati solo i costi esterni mentre gli elementi interni come personale, costo dei finanziamenti e degli investimenti ne sono esclusi

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analizzati gli indicatori di capitale intellettuale, il valore aggiunto sarà un elemento portante di alcuni di essi.

Nello stesso anno Clinton e Chen [1998] indagano 9 indicatori tra cui misure:

 reddituali: reddito operativo, Operating Income, OI, adjusted OI, ROI, adjusted ROI;

 finanziarie: CFO, residual CF18;

 di reddito residuale: RI, EVA, CFROI19.

In accordo con Biddle et al., gli Autori suggeriscono l’utilizzo di misure reddituali o finanziarie in luogo delle misure di reddito residuale.

Conclusioni interessanti ci arrivano da Brewer et al. [1999] al termine di una disamina dei principali punti di forza e debolezza di EVA rispetto al ROI.

Rispetto ai lavori precendentemente analizzati in cui si ricercava una maggiore correlazione degli indicatori con i prezzi di mercato in questo paper si evidenziano le limitazioni di due indicatori molto utilizzati, uno accounting-based e uno value-based.

La principale limitazione nell’utilizzo del ROI può essere sintetizzata in una sub-ottimizzazione dell’impiego del capitale. Sebbene si potrebbero effettuare investimenti che creano valore per l’azienda, utilizzando il ROI come misura di performance, i manager sarebbero propensi ad effettuare solo quegli investimenti che ottimizzano i risultati della divisione ma che effettivamente non rappresentano la miglior soluzione possibile per l’azienda. In sostanza questo limite conduce a una sottoutilizzazione del capitale e a scelte non coerenti con la creazione di valore aziendale.

18 Noto anche come valore aggiunto monetario. Il flusso di cassa residuale è calcolato sottraendo il costo

del capitale dai flussi di cassa netti rettificati dell'esercizio riportati nel rendiconto finanziario. I flussi di cassa netti adjusted includono sia il flusso di cassa complessivo del periodo che i costi di ammortamento e le imposte.

19 Il Cash Flow Return on Investment, CFROI [Madden, 1996], e le sue varianti, proposte da HOLT Value

Associates e Boston Consulting Group. CFROI è un indicatore di creazione di valore poiché si crea valore quando CFROI è superiore al costo del capitale. I fattori attraverso cui calcolare l’indicatore sono ancora dati storici [Damodaran, 2000]: investimenti lordi (GI), cash flow lordo (GCF), vita utile attività in essere (n), valore atteso delle attività alla fine della vita utile

Il CFROI può essere considerato un tasso interno di rendimento composito, in termini reali, perché è il tasso di sconto che rende il valore attuale netto dei flussi finanziari di cassa lordi e il valore di recupero pari all’investimento lordo.

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Tra le limitazioni nell’utilizzo di EVA c’è da evidenziare che, in primo luogo, non consente di considerare la dimensione dell’investimento o dell’azienda (grandi investimenti, divisioni, aziende avranno probabilmente EVA maggiori solo per una questione di “taglia”). Potrebbe inoltre essere soggetto a manipolazioni da parte del management e portare ad un orientamento di breve termine o al risultato, ovvero spostare l’attenzione alla misura piuttosto che alle cause e alle radici di un successo o rendimenti non soddisfacenti.

In conclusione, sebbene EVA sembri essere una misura superiore al ROI, non è che un pezzo del puzzle che solo insieme ad un set correlato di misure può fornire un quadro completo della performance. Gli Autori suggeriscono di inquadrare EVA in una balanced scorecard.

Ulteriori limitazioni all’utilizzo di EVA le aggiungono Salmi e Virtanen [2001]: EVA risulta molto più instabile degli indicatori tradizionali come ROI e ROE.

Nel 2001 Chen e Dodd propongono un modello, che sarà oggetto di critiche, ma che vede il reddito operativo, OI, più esplicativo dei prezzi delle azioni sia del reddito residuale, RI, che rispetto a EVA. Inoltre, suggeriscono di non utilizzare EVA perché i suoi costi di implementazione sono superiori ai vantaggi in termini di capacità descrittiva del valore. In pratica, suggeriscono di implementare il reddito residuale come misura della performance perché permette di usufruire di tutti i vantaggi promessi da EVA con inferiori costi di implementazione. Come Brewer et al. [1999] consigliano di non basarsi esclusivamente su una misura, ma suggeriscono di integrare misure non finanziarie per aggiungere capacità esplicativa a quelle finanziarie. Suggeriscono di considerare ad esempio alcuni fattori legati alla soddisfazione di clienti, dei dipendenti e della comunità, alla qualità dei prodotti, alla crescita della quota di mercato o alla spesa per ricerca e sviluppo.

Uno degli elementi più criticati del modello è l’utilizzo della metodologia

CAPM20 per la stima del valore del costo del capitale proprio. Gli Autori ribattono

20 Il CAPM (Capital Asset Pricing Model) è un modello matematico proposto da William Sharpe nel 1964,

che determina una relazione tra il rendimento di un titolo e la sua rischiosità, misurata tramite un unico fattore di rischio, detto beta. Il modello CAPM permette di trovare il rendimento atteso di un titolo come la

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che si tratta del modello con maggior diffusione tra accademia e pratica ma si dichiarano anche aperti all’utilizzo del modello dei tre fattori di Fama and French [1995], benché ad oggi non ci sia uno studio che dimostri inequivocabilmente la superiorità di un modello rispetto all’altro.

Feltham et al. [2004] si propongono di ritestare il modello di Biddle et al. su differenti imprese, periodi temporali e mercati e giungono a dei risultati assolutamente in contrasto con Biddle et al.: secondo il loro studio EVA, o comunque RI, risultano superiori a EBEI (vedi fig. 4). Con questo lavoro in cui la risposta alla domanda “Does EVA beat earnings?” è positiva e suggerisce che il dibattito sulle misure di performance debba continuare.

Figura 4 - Risultati contrastanti con lo studio di Biddle et al.

Fonte: Feltham, Issac, Mbagwu e Vaidyanathan 2004 pag 88

Risultati in accordo con Chen e Dodd [2001] li ottiene Ismail [2006] nel mercato UK.

Nel suo modello testa la capacità di EVA, NI, OCF, RI, NOPAT di spiegare il valore di mercato delle azioni. Risulta che NOPAT e NI sono più esplicativi di EVA, ma non sono comunque in grado di spiegare completamente la variabilità del valore di mercato che rimane, in larga parte, legato ad altri fattori.

Quindi, come Chen e Dodd [2001], Ismail [2006] suggerisce che ci siano altri fattori non reddituali e non legati a EVA che determinano il valore azionario

somma tra il tasso risk-free e un premio di rischio che esprime il rischio non diversificabile. Il premio dipenderà molto da un coefficiente beta che misura la reattività del rendimento di un titolo ai movimenti del mercato. Tanto maggiore è il coefficiente beta, tanto maggiore sarà il rendimento atteso perché l’attività possiede un maggior grado di rischio non diversificabile

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e che dovrebbero essere presi in considerazione per la creazione di valore per gli azionisti e relativamente alla remunerazione dei manager.

Ismail [2006] aggiunge che in realtà questi fattori potrebbero essere interessanti per aumentare il potere esplicativo ma è necessario fare un salto in avanti per cercare di incorporare una componente importante, le aspettative future. La difficoltà sta nel cogliere questo problema con una metrica finanziaria che sembra essere oltre quelle già esistenti.

Risultati ancora in linea con Chen e Dodd arrivano da un’analisi condotta nel mercato greco. L’analisi di Kyriazis e Anastassis [2007] risulta interessante perché, mentre gli studi precedentemente citati interessano fondamentalmente mercati maturi, il mercato greco presenta caratteristiche probabilmente più in linea con il mercato italiano. Ad esempio, la natura di mercato emergente, la dimensione più ridotta delle imprese, differenti principi contabili e assetti proprietari avrebbero potuto influire sui risultati.

Nuovamente i risultati vedono OI superiore rispettivamente a NI, RI e EVA. Gli autori giustificano questi risultati asserendo che:

 i player calcolano diversi WACC;

 le rettifiche proposte da Stern Stewart&Co sugli EVA di fatto eliminano informazioni rilevanti per il mercato;

 la maggioranza degli investitori non riconosce l’importanza di tenere in considerazione il costo del capitale;

 nuovamente poiché il rendimento delle azioni riflette le aspettative, dato che EVA potrebbe riflettere il valore reale di un’impresa, la correlazione potrebbe in ogni caso risultare debole (coerentemente con Holler, 2008, Nuttawat et al. 2008).

Anche Holler [2008] fornisce ulteriori motivi per cui EVA presenta risultati relativamente scarsi rispetto alle altre misure di performance:

 l’EBEI potrebbe costituire una migliore previsione dei flussi di cassa futuri (coerentemente con Biddle et al., 1997; Chen e Dodd, 2001);  il calcolo degli aggiustamenti contabili potrebbe essere viziato;  gli investitori potrebbero avere un costo del capitale trascurabile;

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 potrebbero non esistere indicatori adatti per tutte le imprese e settori. A questo proposito Nuttawat et al. [2008] cercano di spiegare quale misura spieghi maggiormente i rendimenti di settore. L’EBIT si dimostra superiore a RI, CFO e EVA. Gli Autori giustificano questi risultati dicendo che le misure contabili spiegano meglio i rendimenti di settore perché a differenza di EVA non necessitano di rettifiche. Un altro studio che mira a verificare se si ottengono diversi risultati a seconda del settore è Altaf [2016]. nel mercato indiano testando

vari indicatori come EVA, EBIT, ROCE21, ROE, ROI conferma la superiorità del

reddito operativo, che spiega molto più di EVA il rendimento delle azioni. Testando diversi settori l’Autore non riscontra alcuna differenza significativa tra il settore manifatturiero e quello dei servizi.

Kaur e Narang [2009] nel mercato indiano affiancano agli indicatori di bilancio ulteriori due coefficienti, la produttività di capitale e lavoro, che però si classificano agli ultimi posti in termini esplicativi del MVA. Un altro aspetto interessante di questo studio è che RI risulta la variabile in grado di spiegare quasi il 50% della variabilità del MVA. La produttività del lavoro, e gli EPS, non risultano statisticamente correlati alla variabile dipendente MVA.

Relativamente agli EPS, risultati simili per Nakhaei et al. [2016] che hanno

riscontrato che NI, NOPAT, e REVA22 sono correlate col rendimento azionario

ma non gli EPS. In questo studio REVA non si dimostra superiore alle misure tradizionali NI e NOPAT.

21 Il rendimento del capitale investito, comunemente noto con l'acronimo inglese ROCE (return on capital

employed) Fornisce delle informazioni su come un'azienda sta utilizzando i capitali per generare il reddito ed è dato dal rapporto tra EBIT e il capitale investito. Quest’ultimo valore è dato dalle attività totale meno le passività correnti enon comprende le poste rettificative del capitale netto, iscritte nel passivo di bilancio, quali ad esempio i fondi ammortamento dei beni strumentali oppure i fondi accantonamento TFR. Include invece, in accordo con i principi contabili internazionali i beni oggetto di contratto di locazione finanziaria devono essere valorizzati nel capitale investito, come se il cespite fosse di proprietà.

22 Ulteriori evoluzioni dei metodi basati su EVA si hanno con Bacidore, Boquist, Milbour, Thakor [1997]

che propongono un modello noto come Redefined Economic Value Added, REVA, con lo scopo di evidenziare la reale capacità dell’azienda di remunerare gli azionisti per un ammontare pari alle risorse effettivamente apportate. Sostengono infatti che dato che il WACC nel modello EVA è calcolato sulla base del capitale investito netto rettificato e questo non corrisponde all’effettivo investimento in azienda e in questo si tende a sottovalutare l’effettivo costo medio del capitale.

Gli Autori propongono quindi di sostituire il capitale investito netto rettificato con il capitale investito a valori di mercato

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