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"Femminicidio":analisi socio-criminologica di una violenza definita di genere.

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Academic year: 2021

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Introduzione...3

1. La violenza sessuale all’interno della storia del diritto penale moderno. Una violenza di genere...6

1.2 Femmicidio o Femminicidio?...9

1.2.1 Il femicide di Diana Russell...9

1.2.2 Dal femicide al feminicidio di Marcela Lagarde...12

2. La violenza sulle donne: un dato reale e mondiale...18

2.1 Il riconoscimento giuridico naviga in acque internazionali.. 26

2.1.1 Convenzione per l'eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne...27

3. L'evoluzione normativa italiana...32

3.1 Codice Zanardelli VS Codice Rocco...32

3.2 “De Bello Fallico”: meglio la legge attuale che una cattiva nuova legge?...35

3.3 Introduzione ai reati di Maltrattamento in famiglia e di Stalking...43

3.4 “ Atti persecutori”: la violenza di genere assume un proprio Modus operandi...49

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3.4.1 Condizione di applicabilità della legge...53

3.4.2. “Salvo che il caso non costituisca più grave reato”...56

3.4.3 Lo Stalker...59

4. L'attuazione della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica non basta: serve una Legge...63

4.1 Misure in materia di prevenzione e contrasto alla violenza di genere contenute nel Decreto-legge 14 agosto 2013 numero 93.69 4.2. Esame delle nuove norme di diritto sostanziale...74

4.3 Il metodo Scotland contro il femminicidio arriva in Italia..101

5. Gli uomini abusanti e le loro partner...105

5.2 Uno sguardo verso l' Europa. Possibilità di intervento?...112

5.3 Italia: se non ora quando?...119

Conclusioni...128

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Introduzione

<< ...Siamo donne giovani e meno giovani, eterosessuali e

omosessuali, che il femminismo degli anni settanta non l'hanno fatto, ma abbiamo qualcosa di urgente e fondamentale da dire rispetto al presente, alle nostre vite frammentate, al desiderio di libertà e di nuovi percorsi di liberazione umana a partire dalle contraddizioni e i conflitti da cui siamo attraversate(1)...>>

La scelta di terminare il mio percorso di studi con una tesi così complessa, per l'insufficienza dei dati, per la difficile reperibilità dei testi e delle informazioni e per l'assenza di un dibattito, europeo e nazionale, in materia, nasce dall'intollerabile passività occidentale di fronte alle continue violazioni dei diritti fondamentali a cui ogni giorno assistiamo.

Il “Femminicidio” è un problema con radici giuridiche, politiche, economiche e non da ultimo culturali e fin quando verrà discriminata dallo Stato, dalle leggi, dai giudici, dalla società, la donna avrà una vita precaria. Ponendo la donna in una perenne condizione di inferiorità, in determinate relazioni sociali, familiari,

1 Linda Santilli, Dove siamo e chi siamo. Generazioni di donne e di femminismi.,

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lavorative, gli uomini, soprattutto quelli che intrattengono rapporti più vincolanti, si sentiranno sempre nel diritto di discriminarle, maltrattarle e assassinarle.

Che piaccia o no, <<femminicidio>> è un termine che a livello internazionale sta facendo storia, sta segnando una rivoluzione dal basso e da qui nasce l'importanza di parlarne, per sottolineare come è proprio la disparità di potere tra uomo e donna a generare violenza.

L'intento non è mai stato, fin dal principio, quello di schierarsi nei confronti di un genere a cui io appartengo per andare contro ad un altro quello maschile; non è mai stato nemmeno quello di affermare principi come l'emancipazione della donna o darle un connotato di debolezza che purtroppo le viene continuamente affibbiato; non è mia volontà classificare gli uomini, nella loro generale categoria, come irrispettosi e crudeli per natura, un male da combattere a priori. Mi preme dire ciò per il semplice fatto che chi si immerge in queste tematiche tende ad assumere la parte della categoria che rappresenta e le appartiene, quasi senza una reale cognizione di causa, senza guardare l'altra faccia della medaglia che, in questo caso, sono gli uomini, e sono spesso amanti affidabili

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e protettivi, e che anche loro possono essere vittime in questa società.

La scelta di addentrarsi in questa oscura realtà risiede esclusivamente nell'idea che per poter rendere in femminicidio un problema politicamente risolvibile è indispensabile riconoscerlo nelle forme in cui globalmente si manifesta. L'analisi di questa realtà è un passo indispensabile e primario al fine di quantificare il dolore, perché solo attraverso la conoscenza della sua portata sarà possibile affrontarlo.

Come sostiene, infatti, la psicologa Patrizia Romito,(2) <<il

non-detto è indicatore politico di indifferenza e oscurantismo verso realtà problematiche, che generano un dolore non riconosciuto e non quantificato, in quanto tale non guaribile>>.

2 P. Romito, Un silenzio assordante. La violenza occultata su donne e minori,

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1. La violenza sessuale all’interno della storia del

diritto penale moderno. Una violenza di genere.

Il fenomeno della violenza contro le donne è un fenomeno che nel nostro Paese ha una diffusione e un radicamento profondo. Attraverso l’evoluzione storica e culturale soprattutto è possibile rendersi conto del diverso connotato, sociale e giuridico, che la violenza sessuale ha assunto nel tempo, una diversa considerazione che, ovviamente, va di pari passo con l’immagine stessa della donna. I dati statistici odierni, infatti, potrebbero essere accostati proprio alla diversa rilevanza che la donna assume nell’attuale società moderna: il riconoscimento di un’eguaglianza fra uomo e donna e l’abbandono di una visione di controllo tipica della famiglia patriarcale hanno sicuramente reso meno accettabili le violenze e probabilmente hanno contribuito ad un aumento delle denunce.

Facendo un passo indietro possiamo renderci conto di come in passato, senza guardare alla storia più antica, il monopolio della violenza sulle donne risiedesse in capo al pater familias o al marito

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quasi come diritto “giustamente” rivendicabile.

L’ ancien régime(3) rappresenta l’esempio di un’epoca in cui

questo fenomeno non solo, nella maggior parte dei casi, rimane impunito, ma viene anche ben tollerato. Lo stupro rientrava tra crimini contro la moralità, non di certo tra i crimini violenti, associato al ratto come furto della proprietà altrui senza alcun riconoscimento di diritti in capo alla vittima.

Nel XIX secolo si inizia ad intravedere un mutamento: si raggiunge la consapevolezza di una necessità di tutela della vittima. Si inizia a differenziare le varie forme di violenza, ci si concentra maggiormente sulla vittima, la violenza morale assume un certo rilievo, compare la figura dello stupratore.

Arriviamo così al XX secolo dove l’aspetto più innovativo risiede nel non considerare più la moralità il bene giuridico da tutelare, bensì la libertà sessuale. La violenza sessuale si afferma come una violenza grave e discriminante, una violenza che, non solo in passato, è violenza di genere, tanto da arrivare oggi a parlare di femminicidio inteso come violenza contro la donna “in

3 L'espressione ancien régime è divenuta oggi, a livello popolare, sinonimo di società

tradizionale, pre-industriale, anteriore cioè a tutti i fenomeni di modernizzazione,

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quanto donna”.

Come è noto, l’omicidio rappresenta la prima causa di morte delle donne in Europa e nel mondo. Tuttavia la violenza sulle donne non sempre lascia tratti evidenti e visibili nel corpo sempre che si voglia prendere in considerazione la violenza come qualunque pratica non solo fisica ma anche psicologica che vada ad annientare l’identità della vittima fino alla sottomissione e, nei casi peggiori, alla morte. La violenza di genere è ancora oggi una violenza sessista e misogina che si rivolge contro la donna per il solo fatto di essere donna. Parlare di femminicidio è importante perché chiamare le cose con il proprio nome non solo può aiutare a prendere coscienza della realtà delle cose ma anche perché col termine in questione si pone la giusta attenzione sulle vittime che sono sempre delle donne. Sicuramente per delle realtà come quella del nostro paese e più in generale dei paesi “civilizzati”, ammettere l’esistenza di un fenomeno così brutale e barbaro e di conseguenza l’utilizzo di un termine che, alle orecchie dei più, sembra essere cacofonico, non è per niente facile, ma prendere consapevolezza che non solo è un fenomeno reale ma che è anche un problema sociale, è decisamente il primo passo. L’obiettivo di quanti ne

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parlano, infatti, non è e non deve essere solo quello di denuncia, bensì quello di rendere pubblico un problema che per troppo tempo è stato considerato privato e farne elemento di dibattito politico.

1.2 Femmicidio o Femminicidio?

1.2.1 Il femicide di Diana Russell.

La creazione e la successiva divulgazione dei vocaboli femmicidio e femminicidio non sono state prive di problemi bensì un percorso frammentato e difficoltoso. Ad oggi la definizione di femminicidio, a seconda delle lingue e dei contesti in cui viene utilizzato, sta ad indicare un insieme più o meno ampio di comportamenti violenti nei confronti delle donne «perché donne (4)».

Partendo dalla ricostruzione storica di questi vocaboli, Diana Russell, sociologa e criminologa femminista statunitense, può essere considerata la teorica del femmicidio. Termine che, per quanto riguarda la lingua inglese, era stato in uso per circa due secoli col significato di «uccisione di una donna». Appurato ciò, la

4 B.Spinelli,”Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico

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Russell non si capacitava di come il termine femicide, da cui deriva femmicidio, potesse ricomprendere qualunque uccisione di donna. Il termine doveva, piuttosto, rimarcare l'aspetto sessista e misogino di questo fenomeno. L'intenzione della Russell, infatti, era quella di politicizzare il termine, un termine che desse un nome ad un fenomeno ben preciso, un fenomeno da trattare con la massima urgenza da quanti si occupano della violenza contro le donne. Questo è lo scopo che cerca di perseguire con l'antologia intitolata

The politics of women killing(5), ovvero quello di rendere di

dominio pubblico un problema che non è privato, non riguarda esclusivamente la donna che subisce violenze o l'uomo che la esercita, ma un problema che è politico perché ci riguarda tutti. In quest'opera la Russell spiega che:

«É importante domandare che il problema del femminicidio sia riconosciuto, così come è importante che gli operatori specializzati nel sociale, chi incaricato di applicare la legge e gli altri, facciano proprio il problema del femminicidio e lo inseriscano nelle loro agende, agende che invece ad oggi ridondano di insegnamenti antifemministi, razzisti […]. Questo è il motivo per

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cui è necessario riconoscere la natura politica della lotta contro il femminicidio».

Nel 1990 la Russell ha definito il femminicidio «l'assassinio di una donna da parte di un uomo per motivi di odio, disprezzo, passionali o per un senso di possesso sulla donna (6)».

Nel 1992 lo definisce «l'uccisione misogina di una donna da parte di un uomo (7)».

In Femicide in global prospective(8),spiega di voler

ricomprendere all'interno del vocabolo tutte le forme di uccisione sessiste, quindi non solo quelle alimentate da un sentimento di odio verso le donne, ma anche quelle che scaturiscono da un senso di superiorità da parte degli uomini o da una presunzione di possesso sulle donne. Una definizione, questa, che ricomprende le più diverse condotte a patto che abbiano come risultato diretto la morte della donna.

6 Caputi J., Russell D.H.E. (1990), p. 34-37. 7 Russell D.H.E., Radford J., op. cit., p. 3. 8 Russell D.H.E., Harmes A. R., (2001).

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1.2.2 Dal femicide al feminicidio di Marcela

Lagarde.

Marcela Lagarde(9) è stata una delle prime studiose ad

appassionarsi, ed immergersi poi totalmente, all'opera di Diana Russell, dandone tuttavia un'interpretazione più estensiva e distaccandosene un po'. Mentre infatti la Russell parla di femminicidio quando i comportamenti violenti causano la morte della donna (come evento quindi necessario), secondo la Lagarde non è proprio così. Col tempo, infatti, darà vita ad una nuova concezione di femminicidio, caratterizzato dal fatto di ritenere tale non solo la violenza che vede come risultato indispensabile la morte della donna, dove si arriva nei casi più estremi, ma anche quella che tende all'annientamento fisico e psicologico.

La Lagarde sostiene di aver utilizzato per la prima volta questo termine nel 1997 per spiegare quanto stava accadendo a Ciudad Juarez(10). Questa città è nota ormai al mondo per le morti

9 Femminista, Professoressa di Antropologia e Sociologia alla UNAM, fu fortemente voluta

in Parlamento dalle donne. Come deputata creò la Comisiòn Especial de Feminicidios presso la Camera Nazionale dei Deputati del Messico. Attualmente collabora con

associazioni femministe, istituti nazionali ed organismi di cooperazione internazionale. È la Presidente della Red por la Vida y la Libertad de las Mujeres.

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delle donne migranti che, nel cercare lavoro nelle maquiladoras(11),

scompaiono nel nulla per essere poi ritrovate nel deserto, stuprate e ammazzate. Per anni le mujeres de Juarez(12) hanno cercato di

rendere sempre più noti gli accaduti lanciando appelli per far sì che questa tragica strage trovasse una fine nonostante il Governo fosse sempre apparso restio ad intervenire. Ma probabilmente proprio il numero dei crimini e la non indifferente impunità degli assassini, così come l'indifferenza dello Stato davanti alle più crudeli violazioni dei diritti umani delle donne, hanno fatto sì che donne ed organizzazioni iniziassero questa battaglia volta a sollecitare una mobilitazione concreta dinnanzi a questa atroce realtà.

Nel 2003, quando Marcela Lagarde viene elette deputata, si aprì una Comisiòn di Equidad y Gènero e più tardi venne istituita a livello statale una commissione speciale dedita alle indagini sul femminicidio. La Lagarde, nel dirigerla, è stata la prima ad “istituzionalizzare” le indagini criminologiche e a farne uno strumento necessario per analizzare il grado di violenza contro le donne in quel territorio(13). Nonostante le difficoltà nel dare un

apporto scientifico ad un problema che spesso viene trattato con

11 Grandi fabbriche multinazionali di assemblaggio.

12 Associazione di madri delle vittime scomparse: www.mujeresdejuarez.org 13 B.Spinelli, Femminicidio. op. cit. p.89.

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superficialità dalle autorità, tuttavia, questo approccio appare idoneo a mostrare quanto meno la realtà dei fatti. Con ottimi risultati, aggiungerei, considerato che, nonostante il femminicidio sia un dramma vissuto da tutto il Centro e Sud America, a livello mondiale il simbolo del femminicidio resta pur sempre Ciudad Juarez. Questo è soprattutto dovuto alla stampa che ha internazionalizzato la lotta contro il femminicidio rendendo questa città un emblema a livello mondiale. Ma quello di Ciudad Juarez non è di certo un caso isolato o un problema che riguarda esclusivamente il Messico. Allargando il raggio, le percentuali di donne uccise in Guatemala, Brasile, Venezuela, o Colombia, risultano essere più alte rispetto al Messico. In questi paesi il femminicidio rappresenta dunque un fenomeno endemico. Ovviamente parliamo di realtà in cui fattori come povertà,

impunità, delinquenza e machismo(14) sono fortemente

accentuati; realtà in cui la donna viene disprezzata e dequalificata, cercando di dimostrarne la totale inadeguatezza in ogni campo, sia dentro che fuori dalle istituzioni. Quindi se lo Stato non riconosce e non condanna la violenza sulle donne, o seppur facendolo poi come

14 Il machismo consiste in una serie di credenze, atteggiamenti, azioni che hanno la funzione

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conseguenza non riesce a perseguire e condannare adeguatamente gli uomini che la praticano, ecco che la realtà sociale machista prende il sopravvento laddove, invece, la figura della donna rimane del tutto marginale. Pur essendo la violenza un fenomeno tutto sommato abbastanza trasversale, in America Latina, tuttavia, le donne più indifese e molestate da parte degli uomini, e molto spesso dei propri, sono quelle indigene e le ragazze madri(15),

perché sono le categorie più colpite dalla povertà.

Ma il Messico risulta, tuttavia, il Paese latinoamericano che registra il maggior numero di indagini sul femminicidio, sicuramente per via delle pressioni internazionali che sono scaturite dalla rilevanza mediatica del caso, ma soprattutto per l'attivismo sociale dei movimenti femministi. Questi hanno condotto il proprio lavoro a livello accademico, istituzionale e sociale, perseguendo con estrema determinatezza obiettivi ben precisi, ovvero presentare un modello sociale alternativo a quello patriarcale dove le donne possono riconoscersi come soggetti meritevoli di tutela, e soprattutto quello di vedere finalmente i propri diritti rispettati.

Ma in questa difficile battaglia spesso le donne sono state

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abbandonate al loro destino senza ricevere una adeguata considerazione proprio dalle stesse istituzioni che per prime avrebbero dovuto impegnarsi concretamente al loro fianco. Fin quando la donna sarà discriminata dallo Stato e le sue leggi, dai giudici, dalla società intera, continuerà ad avere una vita sostanzialmente precaria.

Irene Khan, ex segretaria generale di Amnesty International, in un suo intervento spiega le ragioni del femminicidio:

«[...] Questo tipo di violenza si diffonde perché sono troppi i governi pronti a chiudere un occhio e a lasciare che la violenza sulle donne abbia impunemente luogo. In troppi paesi, le leggi, le politiche e le usanze sono discriminatori nei confronti delle donne: negano gli stessi diritti degli uomini, rendendole così più vulnerabili di fronte alla violenza.

La proliferazione delle armi di piccolo calibro, la militarizzazione in atto di molte società e l'attacco al cuore dei diritti umani nell'ambito della “guerra al terrorismo” non fa che peggiorare il calvario di molte donne. I diritti umani sono universali: la violenza sulle donne è un abuso dei diritti umani su

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scala universale. Donne di continenti e paesi diversi, di religione, di culture di retroterra sociali differenti, istruite o analfabete, ricche o povere, che vivano in tempo di guerra o di pace, sono legate dal filo comune della violenza subita da gruppi armati, dallo Stato, dalla comunità o dalla loro stessa famiglia(16)».

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2. La violenza sulle donne: un dato reale e

mondiale.

Se si arriva ad accettare il fatto che il femminicidio è effettivamente un fatto sociale, appare molto più semplice, a questo punto, rendersi conto di come la sua diffusione sia di portata globale. Ovviamente si manifesterà con connotati locali differenti a seconda della struttura sociale che andiamo ad analizzare ma questo non toglie che il problema di fondo rimane comune al mondo intero.

Si passa da realtà in cui la violenza sulle donne non viene riconosciuta se non nei casi più estremi a quelle in cui si tende a classificare eventi del genere come casi a sé, rari ed eccezionali, a quelle ancora dove alcune forme di violenza vengono ritenute normali in quanto l'idea di base, socialmente riconosciuta, vuole la donna sottomessa all'uomo.

Quando poi è lo Stato con il suo apparato a porre in essere norme a dir poco discriminatorie, allora sarebbe lecito parlare di “violenza di Stato”. Da qui gli esempi da fare potrebbero essere

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molteplici.

In Cina ogni anno spariscono milioni di bambine, condannate dalla loro femminilità in virtù di una legge, varata nel 1979, che vieta ai cinesi di avere più di un figlio in famiglia; per via delle forti radici patriarcali, secondo cui le donne non sono neanche considerate soggetti, questa legge ha come ovvia conseguenza la preferenza per i figli maschi.

Nel continente Africano non solo le donne rimangono perennemente in uno stato di soggezione rispetto all'uomo, sono persino costrette a seguire pratiche e usanze tradizionali, considerate una barbarie da molte organizzazioni internazionali e un reato in tutti i paesi democratici: dalle modificazioni degli organi genitali di bambine e adolescenti al femminicidio di massa provocato dal contagio per AIDS .

Per non parlare della violenza di matrice religiosa generata e legittimata dagli Stati che seguono le disposizioni della sharia(17),

secondo cui le donne non hanno mai avuto una loro identità. Illuminante ed estremamente illustrativo in questo contesto appare un versetto del Corano:

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«Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre. […] Ammonite quelle di cui temete l'insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele. Se poi vi obbediscono, non fate più nulla contro di esse(18)».

Toccante anche il caso avvenuto in Arabia Saudita, dove in un incendio di una scuola morirono quattordici bambine e altre rimasero ferite perché la polizia impedì loro di abbandonare l'edificio per l'assenza del volto coperto(19).

Ovviamente parliamo di quella parte del mondo che spesso noi stessi guardiamo sempre con molto distacco, come semplici spettatori. Parliamo di quel mondo in cui la donna non è altro che merce di scambio costretta ai matrimoni forzati e a subire la volontà dell'uomo. Ma anche questo e molto altro è femminicidio e quando è lo Stato a tollerare questi fenomeni senza nessun intervento che lo veda nelle vesti di garante nei confronti delle proprie cittadine, allora anche questo diviene un Crimine di Stato.

Ma se questo risulta essere, come già detto, un problema che

18 Sura IV del Corano, versetto 34. 19 Fonte: Amnesty International.

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non ci tocca poi così da vicino, a noi che, per lo meno, crediamo di appartenere e vivere in realtà che hanno sviluppato maggiormente un senso di umanità, i dati che, per quel che è possibile, ci giungono dal continente Europeo non sono molto più rassicuranti.

Come in tutti gli Stati del mondo, anche in quelli Europei, infatti, la violenza sulle donne è un fenomeno costante e trasversale. Gli uomini che abusano delle donne non sono né poveri né ricchi, non abitano né a Nord e né a Sud, non hanno credo o nazione.

Uno studio del Consiglio d' Europa ha ormai accertato che, anche in Europa, la causa principale della morte delle donne è l'omicidio e che questo, nei casi maggiori, viene commesso da mariti, ex mariti, conviventi, figli, o comunque da persone che sono in intimità con la donna.

In Svezia il numero di violenze e morti di donne è in aumento dal 2003, in Spagna dal 2001 e in Francia è ormai un'emergenza, considerato che ogni quattro giorni una donna muore assassinata(20).

Da un 'indagine effettuata dall'Organizzazione Mondiale della

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Salute (Oms) emergono comparazioni esatte per quattro Stati: Germania, Svezia, Italia e Svizzera.

Lo studio Violence against women: an international

prospective segnala che il 27,9% delle tedesche ha subito violenza

fisica, contro il 12,2% dell'Italia, l'11% della Svezia e il 9,95% della Svizzera. Ma altre ricerche, effettuate su base nazionale, rilevano che il tasso di violenza della Danimarca raggiunge il 22.19%, in Norvegia il 26,8% e in Gran Bretagna il 19,9%(21). Da

questo si evince che sia nel freddo Nord che nel caldo Sud gli uomini tendono a picchiare, maltrattare e uccidere le donne.

Naturalmente si deve considerare che parte della violenza subita non viene denunciata, il che rende i dati difficili da stimar,e e che la loro diversa provenienza li rende altrettanto difficili da comparare. Ma una cosa si evince facilmente, come ci suggerisce Claudia Garcia-Moreno, ricercatrice dell'Oms a capo del dipartimento sulla Salute sessuale e di genere: «bisogna riflettere su una differenza: in Bangladesh le donne non hanno di certo i mezzi per sottrarsi alla violenza di coppia che hanno italiane e tedesche. Se i tassi sono alti anche nei paesi sviluppati è perché qui le donne

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non lasciano i conviventi violenti».

Venendo all'Italia, a dispetto delle drammatiche notizie che arrivano quotidianamente, in realtà le violenze sulle donne, in particolar modo quelle in famiglia, sono una costante del panorama omicida italiano. L'azione mediatica dei mezzi di comunicazione, tuttavia, mira, oggigiorno come non mai, a rendere noti accaduti di questo tipo, anche più volte nell'arco del tempo, quasi come a rendere allarmante un fenomeno che in realtà è sempre stato presente.

Dai dati pubblicati dall'Eures, limitatamente agli anni dal 2000 al 2006, non è possibile segnalare un andamento tale da poter mettere in risalto l'eccezionalità del momento come invece ci suggerisce gran parte dell'opinione pubblica (Tabella1).

Anno N. vittime di in famiglia % sul totale degli omicidi

2000 226 29,9 2002 223 35,2 2003 201 30,5 2004 187 26,7 2005 174 29,1 2006 195 31,7

Tabella 1: Vittime di omicidio in famiglia e percentuale sul totale degli omicidi (dati Eures. Il 2001 non è pubblicato)

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Ciò non toglie che la violenza in famiglia e quella tra i partner in modo particolare siano obiettivamente un'emergenza sociale soprattutto in Paesi sviluppati e civilizzati come i nostri, dove non è accettabile l'esistenza di questi fenomeni.

Eppure, proprio l'uxoricidio è proprio il più frequente tra i delitti che vengono consumati in famiglia (Tabella 2).

Anno Omicidi di coppia % rispetto agli omicidi in famiglia

2000 101 44,7 2002 106 47,5 2003 111 55,2 2004 100 53,5 2005 80 46 2006 103 52,8

Tabella 2: Omicidi di coppia e la loro incidenza negli omicidi in famiglia (elaborazione dati Eures)

Precisamente, nell'anno 2006, una maggior incidenza ci viene data da relazioni costituite da autori e vittime coniugate o conviventi. In generale, la letteratura criminologica, aveva segnalato che «circa le donne vittime di omicidio, […] emerge che nel 90% dei casi le donne sono vittimizzate da un membro della famiglia o da persone in qualche modo a loro conosciute; in particolare, la situazione più frequente è quella della moglie che viene uccisa dal marito(22)». Inoltre, «le donne hanno un terzo delle

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probabilità si essere uccise rispetto agli uomini. In compenso, rispetto agli uomini, hanno quattro volte più di loro la possibilità di essere uccise dal coniuge o dal partner(23)».

Ad ogni modo, gli omicidi rimangono comunque un evento raro a dispetto delle sopraffazione, violenze sessuali, e in generale violenze fisiche non letali. Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha effettuato un'indagine in 48 paesi, una percentuale tra il 10% e il 69% -a seconda delle realtà geografiche-di donne ha geografiche-dichiarato geografiche-di aver subito un abuso fisico da parte del partner almeno una volta nella vita(24).

Per quanto riguarda l'Italia, l'Istat ha condotto una ricerca telefonica, nel 2006, dalla quale è emerso che che 2 milioni e 938 mila italiane sono state vittima di violenza fisica da parte del partner (Tabelle3).

Spinta, strattonata, presa per i capelli 63,40%

Minacce di violenza fisica 48,60%

Schiaffi, pugni,calci e morsi 47,80%

Colpita con vari oggetti 25,20%

Minacce con armi 6,80%

Tentato strangolamento 6,60%

Altro 3,90%

23 Roth (1994), “.Understanding and preventing violence”.

24 Isabella Merzagora Betsos, “ Uomini violenti. I partner abusanti e il loro trattamento”,

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Tabella 3: Forme di violenza subite dalle donne italiane nel 2006 (elaborazione dati Istat)

Naturalmente il numero dei delitti che vengono concretamente perpetrati è superiore a quello che emerge; ma non solo, come è spontaneo pensare, come conseguenza delle innumerevoli denunce che non vengono effettuate, ma anche perché in molti casi gli abusi non lasciano tracce evidenti nel corpo delle donne a partire dalla violenza psicologica in quanto, a differenza di quella fisica, che può più facilmente essere circoscritta ad un unico evento, questa il più delle volte si presenta come una condizione abituale se non quotidiana.

2.1 Il riconoscimento giuridico naviga in acque

internazionali.

Quando fu redatta la Dichiarazione Universale del Diritti Umani, nel 1948, grazie alle forti pressioni provenienti dalle organizzazioni internazionali di donne, venne inserita la frase «uguali diritti di uomini e donne(25)». Ma in realtà in quella sede

non fu effettivamente riconosciuta una totale uguaglianza femminile e fu quindi necessaria un'ulteriore mobilitazione da parte

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delle delegate femministe per far sì che venisse creata un'apposita Commissione sullo status delle donne. Fu proprio questa Commissione che, nel 1979, redasse e fece approvare la CEDAW, la Convenzione per l'eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne .

2.1.1 Convenzione per l'eliminazione di ogni

forma di discriminazione contro le donne.

All'interno del diritto internazionale, questa Convenzione ha una rilevanza primaria, in quanto rappresenta l'unico strumento giuridico che, in riferimento alla condizione della donna, sviluppa una specifica forma di tutela in tema di discriminazione.

La Convenzione consiste di un preambolo e di 30 articoli. Il preambolo introduce il diritto di eguaglianza mettendo in relazione il collegamento esistente tra le questioni che attengono alle donne con le tematiche dello sviluppo e della pace; il testo si articola in sei parti, di cui le prime quattro enunciano i diritti nonché le misure che gli stati aderenti si impegnano ad attuare al fine della rimozione delle situazione discriminatorie, mentre le ultime due riguardano le procedure di monitoraggio dei diritti umani delle donne e i

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meccanismi concernenti la ratifica e l'adesione insieme ad ulteriori aspetti tecnici-procedurali.

Il Comitato, le cui funzioni sono descritte agli artt. 17-22, consta di 23 esperti con il compito di esaminare dei rapporti periodici, forniti dagli Stati, sulle misure di ordine legislativo, giudiziario o di altro genere per l'attuazione delle disposizioni contenute all'interno della Convenzione e, ovviamente, sui progetti concretamente messi in atto. Nel 1982 il Comitato predispone una serie di direttive, General Guidelines, dando indicazioni precise circa le modalità di compilazione dei rapporti iniziali.

La CEDAW, infatti, è una delle poche convenzioni internazionali che non pone solo un divieto alla base degli obiettivi da perseguire ma sancisce anche, in capo agli Stati, dei veri doveri di agire, di attivarsi al fine di rimuovere gli ostacoli che ne possano impedire l'attuazione. Ma essa si esprime fondamentalmente tramite delle raccomandazioni generali che sono vincolanti solo sotto un profilo politico e morale, quindi non permettono al Comitato né di segnalare eventuali violazioni da parte degli Stati né di dare seguito ad un'azione sanzionatoria(26). Bisogna considerare

26 Paola Degani, Nazioni Unite e genere: il sistema di protezione dei diritti umani delle

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inoltre che un alto numero di Stati ha posto riserve su alcune disposizioni della Convenzione, possibilità espressamente regolata dall'art. 28.

Queste riserve nascono dal fatto che la richiesta di annientamento di ogni forma di discriminazione rivolta agli Stati ha, di conseguenza, comportato l'ulteriore richiesta di modificare determinati schemi culturali che vedono la donna in una posizione vulnerabile e sottomessa.

In conclusione appare difficile che le violazioni dei diritti umani possano risolversi solo attraverso le raccomandazioni del Comitato CEDAW.

2.1.2 Il Protocollo facoltativo.

Inizialmente, dunque, non esisteva un rimedio efficace per la violazione degli obblighi inviati dalla Convenzione e rivolti a tutti gli Stati che avessero deciso di prendervi parte. L'unica possibilità offerta era rappresentata dal ricorso al Comitato e, a livello europeo, alla Commissione e alla Corte europea dei diritti dell'uomo.

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umani a favore della donna, nel corso della Conferenza di Vienna del 1993 sui diritti umani, un gruppo di esperti predisponeva un Protocollo opzionale alla Convenzione per l'eliminazione di ogni discriminazione contro le donne che introduceva un ricorso individuale al Comitato.

Si tratta di una procedura che permette ai singoli di presentare al Comitato delle comunicazioni circa la violazione di un qualsiasi diritto tutelato dalla Convenzione. Sulla base delle informazioni ricevute, quest'ultimo può sollecitare lo Stato oggetto d'indagine a prendere delle misure tempestive di protezione nei confronti della vittima. Al termine delle verifiche, il Comitato trasmetterà le proprie raccomandazioni e lo Stato in questione avrà il termine di sei mesi per presentare le proprie osservazioni.

Questo strumento, seppur non abbia effetti propriamente vincolanti sul piano giurisdizionale, è comunque capace di incidere sulla condotta degli Stati, implicando la condanna, anche se solo morale, di quanti violino gli obblighi della Convenzione.

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3. L'evoluzione normativa italiana.

3.1 Codice Zanardelli VS Codice Rocco.

Il primo codice penale unitario, il codice Zanardelli del 1889, collocava i reati sessuali (artt. 331-344) nel Libro II, cap. I e II del titolo VIII, dei “delitti contro il buon costume e l'ordine delle famiglie”. Il titolo veniva suddiviso in sette capi: nel primo dettavano le norme contro la violenza carnale, atti di libidine violenti, corruzione di minorenni, incesto, atti osceni in luogo pubblico, distribuzione/esposizione/messa in vendita di scritture, disegni o altri oggetti osceni mentre negli altri venivano contemplati vari delitti (ratto, induzione o costrizione alla prostituzione, adulterio e bigamia).

Fondamentalmente il delitto di violenza sessuale veniva quindi sdoppiato in due fattispecie: la violenza carnale (art. 331) e gli atti di libidine violenti (art. 333). Del primo delitto si rende responsabile “chiunque con violenza e minaccia avesse costretto

una persona dell'uno o dell'altro sesso a congiunzione carnale”.

Del secondo delitto, invece, viene imputato “chi con violenza e

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dell'altro sesso atti di libidine non diretti a commettere il delitto di violenza carnale”.

Abbiamo quindi una una visione del corpo femminile priva di unità come dimostra la distinzione fra atti di libidine e violenza carnale.

Tale schema resta pressoché invariato anche nel Codice Rocco del 1930. La violenza carnale viene collocata nel Libro II al titolo IX dei “delitti contro la moralità pubblica e il buon costume” e, in particolar modo, nel capo I vengono disciplinati i delitti di violenza carnale (art. 519) e gli atti di libidine violenti (art. 521).

Secondo l'art. 519 risponde di violenza carnale “chiunque,

con violenza o minaccia, costringe taluno a congiunzione carnale” mentre l'art. 521 punisce “chiunque, usando mezzi o valendosi delle condizioni indicate nei due articoli precedenti, commette su taluno atti di libidine diversi dalla congiunzione carnale” o “costringe o induce taluno a commettere gli atti di libidine su se stesso, sulla persona del colpevole o su altri”.

Anche qui si può osservare la forte discrepanza dell'istituto non ancora ipotizzabile come unica fattispecie di reato.

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Negli altri reati qualificati come delitti contro la libertà sessuale (ratto a fine di libidine o di matrimonio, seduzione con promessa di matrimonio), il Codice Rocco mantiene una visione patriarcale continuando ad affermare una «scissione fra corpo e mente di donna, giacché il corpo della donna era ipotizzato come proprietà di un uomo, padre, marito, ed era concepito come oggetto di scambio tra uomini. Infatti la donna aveva statuariamente come destinazione un uomo, cioè, il matrimonio; lo dimostra il fatto che la pena per il ratto a fine di libidine era aggravata in caso di donna coniugata. Inoltre il ratto a fine di libidine era più gravemente punito di quello a fine di matrimonio: la presa di possesso su una donna ha delle regole e chi le rispetta deve pur essere premiato (27)».

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3.2 “De Bello Fallico”: meglio la legge attuale che

una cattiva nuova legge?

Susan Brownmiller(28), femminista americana, diceva che lo

stupro è un atto di guerra degli uomini contro le donne un Bello

Fallico, una guerra sul territorio della sessualità. La legge, quella

che c'era del Codice Rocco e quella nuova, è uno strumento per tenere sotto controllo la bellicosa sessualità maschile.

Il 23 maggio 1995, XII legislatura, settantaquattro deputate presentano la proposta di legge “Norme contro la violenza sessuale”. Trecentoventotto deputati aggiungono le loro firme, cinque deputate non firmano la proposta.

Il 14 febbraio 1996 il Senato approva le “Norme contro la violenza sessuale”, legge numero 66, una legge promossa e fortemente voluta dai movimenti femminili, dalle donne parlamentari, dalle donne italiane che in quegli anni continuavano a chiedere «l'approvazione di una legge che mutasse la collocazione sistematica del reato di violenza; unificasse il delitto di violenza carnale con il delitto di atti di libidine violenti; prevedesse un

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regime di procedibilità coerente e con la libertà di ciascuna e con la tutela dei soggetti più deboli ed esposti; contenesse norme processuali che congiungessero le esigenze di accertamento della verità e quella di tutela di esigenze di riservatezza(29)», una legge

che, come si legge nella relazione di accompagnamento, «trova ragione nell'assunzione di responsabilità che, da elette, abbiamo ritenuto di dover assumere nei confronti della maggioranza delle donne di questo Paese(30)».

Fra i punti salienti della legge 15 febbraio 1996 numero 66 troviamo il trasferimento delle norme che regolano e puniscono la violenza carnale dai Delitti contro la moralità pubblica e il buon costume ai Delitti contro la persona. All'interno del Libro II, Titolo XII, Capo III, Sezione II, l'articolo 609 bis c .p. sancisce:

“chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: 1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; 2) traendo in inganno la

29 Virgilio, op. cit., 164. 30 Fonte: www.parlamento.it

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persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. Nei casi di minor gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi”.

Innanzitutto quindi l'iniziativa di riforma si è espressa nel riconoscimento che i reati di violenza sessuale dovessero essere considerati come reati contro la persona, per sottolineare che non è più la moralità pubblica e quindi un bene di natura collettiva ad essere tutelato da questa norma, ma un bene individuale che è appunto la libertà sessuale. Si va così a ribaltare quella che era la tradizione giuridica presente al momento della codificazione penale italiana del 1930, che si esprimeva nell'idea che gli interessi che scaturivano dalla libertà sessuale non fossero interessi meritevoli di tutela di per sé, ma piuttosto che dovessero essere collegati a dei valori superiori dai quali esse traevano, di conseguenza, consistenza(31).

Tale spostamento ha sicuramente favorito l'abbandono di quella visione paternalistica che impediva pienamente la tutela della donna in quanto persona.

Un altro dato significativo è stato raggiunto con l'unificazione,

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in un'unica fattispecie, della violenza carnale e degli atti di libidine violenti, distinzione prevista dal Codice Rocco prima della riforma, che adesso troviamo all'interno dell'unica figura di “atti sessuali”.

Questo comporterebbe e mirerebbe soprattutto ad evitare, alla parte offesa, le insidiose indagini mediche volte ad individuare, molto spesso, la esatta fattispecie incriminatrice da adottare, gettando nella più generica categoria di atti sessuali qualsivoglia condotta libidinosa.

Si vuole in sostanza dare una maggiore tutela alla vittima che si troverebbe a subire come una doppia umiliazione nonché una devastante interferenza nel proprio privato causata dalle indagini e dai magistrati.

Spinge tuttavia in senso contrario la previsione dell'accertamento anti-Aids che è obbligatorio in tutti i casi in cui le modalità del fatto possono prospettare un rischio di trasmissione della patologia, e dunque obbliga il giudice ad una accurata indagine sulle stesse modalità del fatto(32). Mi riferisco al tanto

discusso articolo 16 della legge in esame che prevede che “l'imputato per i delitti di cui agli articoli 660-bis, secondo comma,

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609-bis, 609-ter, 609-octies del codice penale è sottoposto, con le forme della perizia, ad accertamenti per l'individuazione di patologie sessualmente trasmissibili, qualora le modalità del fatto possano prospettare un rischio di trasmissione delle patologie medesime”. Senza entrare troppo all'interno dei dibattiti che sono

stati animati sulla fattispecie in questione, l'imposizione, da parte del giudice, di accertamenti intesi a documentare l'avvenuta trasmissione di patologie sessualmente trasmissibile è parsa ai più(33) un provvedimento che contrasta con la salda tradizione in

tema di consenso dell'avente diritto. Ma oltre a porre problemi legati a tematiche quali la difesa dell'autonomia individuale non reggerebbe nemmeno l'idea di intendere la norma come finalizzata alla sola tutela della vittima nel momento in cui quest'ultima risulterebbe rassicurata dall'idea di non aver contratto possibili infezioni. Questo perché, se si considera il tempo di latenza tra l'infezione e la sieroconversione, non si può ipotizzare che una riduzione del trauma della vittima venga soddisfatto da un

33 Cfr. D. Demartino, Problematiche giuridiche in ordine all'accertamento dell'infezione da

HIV: il consenso del paziente in Giornlt AIDS 1991, 2, 4 ; V. Boroni: il test per

l'accertamento dell'infezione da HIV tra consenso ed imposizione, in Medicina e diritto, a cura di M. Barni e A. Santosuosso , Milano 1995, 202. V. anche B. Magliona,

l'accertamento dell'infezione da HIV per l'imputato di violenza sessuale, in Dir. pen. Proc. 1996, 514-517.

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accertamento immediato, nei primi mesi subito dopo il fatto(34), e

per lo stesso motivo risulterebbero inutili se analoghi accertamenti venissero disposti sulla vittima stessa. Probabilmente l'unica finalità attribuibile alla norma è quella di tutelare un interesse della vittima, che potrebbe voler ricostruire la propria eventuale malattia, per avere, in altre parole, la consapevolezza di essersi procurata l'infezione in occasione della violenza o altrimenti.

Inoltre, considerando che la pena comminata per la violenza sessuale è molto elevata, risulta spesso necessario per il giudice distinguere e cercare di graduare in qualche modo le ipotesi più gravi di congiunzione carnale dai meri comportamenti libidinosi per i quali, tra l'altro, è prevista una diminuzione di pena. Tutto questo comporta inevitabilmente il fatto di dover rivolgere alla vittima domande specifiche e invasive sulle dinamiche dei fatti facendo venir meno quella che, apparentemente, era l'iniziale intenzione della riforma.

Detto ciò, il dato forse ancor più rilevante risiede nel fatto che la nuova legge non si distacca minimamente dal Codice Rocco nella parte che riguarda la costrizione con violenza e minaccia.

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Proprio questo aspetto rappresenta, probabilmente, l'incontro tra la libertà sessuale e la moralità pubblica come era precedentemente disciplinata. L'art. 609 bis ha mantenuto fondamentalmente la scelta, della vecchia normativa, di basare la fattispecie incriminata proprio su quegli elementi che per primi andavano abbattuti, lasciando così sopravvivere il tradizionale “onere di resistenza(35)”,

laddove avrebbe dovuto invece tutelare la libertà sessuale indipendentemente da qualsiasi coartazione a favore della mancanza di consenso.

Quest'ultima direzione porrebbe finalmente le basi per superare quella concezione di donna incapace di autodeterminarsi dando esclusivamente alla vittima la facoltà di nominare come violento l'atto non voluto.

Bisogna inoltre considerare che, se non sussistono particolari problematiche nel valutare come violenta e criminosa una condotta posta in essere da un estraneo, sicuramente qualche nota di ambiguità potrebbe presentare e, di fatto, presenta la violenza esercitata da soggetti legati da vincoli di conoscenza, così come il sempre più frequente caso della violenza da parte del coniuge o

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partner. In questi casi, infatti, la rilevanza del mero dissenso potrebbe eliminare in gran parte il problema di sindacare le dinamiche interpersonali che spesso portano ad erronee valutazioni. Ma ad ogni modo la violenza a sfondo sessuale fa parte di un più ancora generico contenitore che ricomprende qualsiasi forma di violenza esercitata sulla donna, sia essa un mera estranea o una compagna consolidata. E se la violenza sessuale emerge, il più delle volte, in rapporti occasionali ed estranei, la violenza di genere perpetrata in tutte le sue forme si fa strada proprio all'interno del focolaio domestico.

La violenza domestica comprende varie forme: violenza fisica, psicologica, sessuale, economica spesso diversamente combinate ed associate tra di loro; esiste inoltre una violenza assistita: quella subita dai figli che assistono ai maltrattamenti agiti sulla madre.

Il clima di violenza nella coppia si sviluppa nel corso del tempo, in modo graduale, attraverso litigi che pian piano diventano sempre più frequenti e pericolosi. Non si tratta di reazioni impulsive e tanto meno occasionali, sono tutte azioni che si inseriscono nello scenario quotidiano con continuità e “coerenza”.

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Ed è proprio all'interno di questo scenario che si innesca la figura del molestatore, spesso un partner o un ex partner, divenuto un problema radicato e in molti Paesi ampiamente conosciuto. Lo

stalking, che da sempre colpisce nell'80% dei casi soggetti

femminili e che pertanto entra pienamente nel concetto di violenza di genere, è stato finalmente regolamentato in Italia anche se con parecchio ritardo rispetto al resto dell'Europa, quasi a voler mettere in luce il ritardo culturale che in materia di tutela della donna ci appartiene.

3.3 Introduzione ai reati di Maltrattamento in

famiglia e di Stalking.

Risulta opportuno effettuare una, seppur breve, introduzione ai reati di Maltrattamento in famiglia (articolo 572 c. p.) e di Atti persecutori (articolo 612-bis) al fine di tracciare una linea di confine tra la disciplina previgente e quella che viene modificata dalla legge 15 ottobre 2013 n. 119 che verrà successivamente analizzata.

Per quanto concerne il reato di Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, questo è stato, di recente(36), oggetto di ampie

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modifiche apportate in sede di approvazione del ddl n. 1969-D , ossia la legge di ratifica della Convenzione di Lanzarote del 25 ottobre 2007.

In realtà la modifica dell'articolo 572 c. p. non rientrava, nemmeno indirettamente, nell'elenco di condotte delittuose prese in considerazione dalla Convenzione. È solo nel corso dei lavori parlamentari, infatti, che si è ritenuto di inserire la rilettura dell'articolo e l'introduzione di una nuova versione testuale.

Il vecchio testo sanzionava la condotta di “chiunque maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte” mentre, in sede di modifica, viene presentato nel seguente modo “chiunque maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte”.

d'iniziativa del Governo, già approvato dalla Camera dei Deputati, modificato dal Senato, nuovamente modificato dalla Camera dei Deputati, ulteriormente modificato da Senato e di nuovo modificato dalla Camera dei deputati.

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Nulla cambia nella descrizione della condotta “maltratta”, che, data la sua genericità tende a ricomprendere qualsiasi forma di aggressione, vessazione o persecuzione fisica e morale, dirette o indirette, alla quale la persona offesa può essere sottoposta, e nemmeno a livello strutturale. Quello che muta è il l'impianto sanzionatorio nonché la cerchia di possibili vittime.

In primo luogo troviamo quindi innalzati gli estremi edittali, anche se in maniera contenuta, sia per l'ipotesi ordinaria che per le ipotesi aggravate ( morte, lesioni gravi e gravissime).

Ma l'aspetto a mio avviso di innovazione risiede nella rivisitazione delle persone offese che, al primo comma, aggiunge, in riferimento alla persona di famiglia, “o comunque convivente”. L'introduzione della nozione di convivenza va a rimarcare quanto già in varie occasioni aveva avuto modo di affermare la giurisprudenza di legittimità, riconoscendo l'estensione della nozione di famiglia non solo alle convivenze more uxorio(37), ma

anche alle situazioni in cui vi fossero rapporti di affetto e di

37 Corte di Cassazione, sentenza n. 24647 del 2008: “ai fini della configurabilità del reato di

maltrattamenti in famiglia, non assume alcun rilievo la circostanza che l'azione delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente more uxorio, atteso che il richiamo contenuto nell'art. 572 c. p. alla famiglia deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo”.

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assistenza e solidarietà al di fuori di una vera e propria convivenza. Maggiori perplessità sono sorte, invece, in relazione alla vittima minorenne poiché al primo comma dell'articolo 572 novellato non compare più la locuzione “minore degli anni

quattordici”. Il fatto che in precedenza venisse annoverato e

specificato tra le possibili vittime rendeva il minore infraquattordicenne meritevole di tutela penale a prescindere dal possibile legame familiare che lo unisse all'autore del reato. Nonostante il minore che si trovi a subire dei maltrattamenti, nella maggioranza dei casi, si trova anche, rispetto al soggetto attivo, in una delle relazioni elencate dalla norma, nel caso in cui così non fosse verrebbe escluso dalla tutela penale che in genere dovrebbe estendersi con riguardo alle vittime minorenni dei reati.

Potrebbe sopperire a questa mancanza l'inserimento del secondo comma che prevede l'aumento di pena nel caso in cui la vittima sia un minore di quattordici anni. Potrebbe se si interpretasse la norma in maniera evolutiva nel senso di riferirsi alla generalità dei casi di minore infraquattordicenne e quindi anche a quelli che, stando alla lettera, non rientrerebbero nella casistica disciplinata dal primo comma.

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Di seguito, al terzo comma, non si spiega però il motivo per il quale le aggravanti speciali che si verificano nel caso in cui qualcuno muoia o riporti lesioni gravi o gravissime, a seguito della condotta criminosa, non prevedano un diverso regime sanzionatorio a seconda dell'età della vittima. Di conseguenza abbiamo una pena più severa nel caso in cui l'ipotesi base si verifichi in danno ad un minore di anni quattordici ed un regime indifferenziato nel caso di reato aggravato.

Sempre all'interno dei delitti contro la famiglia, il legislatore italiano, ha optato per inserire la c. d. violenza domestica. Predisponendo infatti una fattispecie piuttosto generica di maltrattamenti familiari, dove la condotta non viene descritta nelle sue modalità di esecuzione, è pacifico farvi rientrare «qualsiasi comportamento attivo o omissivo tendente ad infliggere sofferenze (38)». In questo modo, il delitto di maltrattamenti in ambito

familiare, può essere integrato da una molteplicità di azioni attraverso le quali si manifesta la volontà dell'aggressore di maltrattare la vittima dal punto di vista fisico, psicologico, morale o sessuale(39).

38 Cass. Pen., sez. VI del 16 maggio 1996, Cambria, in CP 1997, 29. 39 A.C. Baldry, “La violenza domestica”, cit., 196

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In generale, la violenza domestica, potrebbe essere inserita dentro una pluralità di incriminazioni astratte, tra loro differenti soprattutto in base al bene giuridico protetto: nei Delitti contro la vita nel caso in cui dall'azione violenta ne scaturisca la morte; nei Delitti contro l'integrità fisica e psichica, dato che in molti casi la violenza domestica si concretizza in una lesione personale della vittima; ancora nei Delitti contro l'integrità morale come la violenza privata o la minaccia; nei Delitti contro la libertà sessuale ovviamente; nei delitti contro l'onore, considerato che reati quali l'ingiuria e la diffamazione sono l'incipit di una violenza domestica.

Si diceva “ in base al bene giuridico protetto” perché,

optando per i reati familiari, sembrerebbe che la tutela, in

siffatto modo, ricada sulle relazioni familiari e, più in

concreto, sulla pacifica convivenza in seno al gruppo

familiare(

40

), che comprende non solo il rapporto tra i

coniugi ma anche quello con i figli ed eventuali figure

esterne al nucleo familiare.

40 Carlos Vazquez Gonzalez, Ana I. Luaces Gutiérrez, “La violenza domestica a confronto in

Spagna e in Italia: dimensioni del fenomeno dei maltrattamenti e risposta penale”, in Legislazione penale, 2005.

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3.4 “ Atti persecutori”: la violenza di genere

assume un proprio Modus operandi.

Il reato di stalking costituisce una novità nel nostro sistema legislativo. La normativa pregressa non era in grado, infatti, di affrontare il problema, poiché le fattispecie penali applicabili erano di poco conto (come la contravvenzione di molestie o i delitti di violenza privata o minaccia) e non consentivano interventi adeguati al contrasto del fenomeno, essendo teoricamente possibile attivare strumenti quali ad esempio l’arresto in flagranza e le misure cautelari solo in relazione al reato di violenza privata.

Altri mezzi per procedere in ambito giudiziario erano diretti a colpire altri tipi di illeciti che accompagnavano questo tipo di molestie: art. 575 c. p. (omicidio), art.582 c. p. (lesioni personali), art.594 c. p. (ingiuria), art. 595 c. p. (diffamazione), art. 610 c. p. (violenza privata), art. 612 c. p. (minaccia), art. 614 c. p. (violazione di domicilio).

Se poi l'autore era un membro della famiglia convivente con la vittima entrava in gioco, e vi entra tutt'ora, la legge 154/2001 che prevede l'allontanamento del soggetto maltrattante.

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L'esigenza di una legislazione specifica in materia di stalking è stata per lungo tempo sottovalutata sia dal legislatore italiano che dalla dottrina, nonostante gli atti persecutori risultino particolarmente lesivi di quella libertà morale che, la stessa dottrina considera come «il fondamento su cui si ancorano tutte le altre libertà bisognose di protezione, dalla libertà di movimento alla libertà economica e a tutte le altre libertà, inevitabilmente pregiudicate dall'aggressione alla libertà morale: rappresenta, dunque, un bene-valore assoluto ed anticipato, in senso figurato, rispetto a tutte le altre forme di libertà(41)».

l'introduzione di questo reato risponde proprio a quest'esigenza, ovvero quella di trovare una valida ed adeguata risposta giuridica nei confronti delle molestie persecutorie che si concretizzano in una vera e propria violenza psicologica, di rilevanza tale da limitare la libertà di autodeterminazione di chi le subisce.

Prima dell'ingresso dell'articolo 612 bis, che introduce il suddetto reato, mancava una figura idonea a contrastare le condotte che non rientravano tra quelle previste nei delitti menzionati per via

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del connotato continuo e persecutorio che le caratterizza.

L'unica previsione in tal senso era quella disciplinata dall'articolo 660 c. p. che sanziona come contravvenzione la molestia o disturbo alle persone , che vengono tuttavia punite, se commesse in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono. Si lasciavano fuori praticamente tutte le molestie arrecate in luoghi privati o attraverso un mezzo che non sia il telefono. La contravvenzione, inoltre, si sa che ha un'efficacia deterrente pressoché nulla quindi si capisce come la norma, nel suo complesso, non risulti particolarmente adatta.

Nemmeno la fattispecie regolata all'articolo 610 c. p., riguardante la violenza privata, non trovava particolare applicazione data la sussidiarietà e la natura generica di tale condotta. Le singole condotte caratterizzanti il fenomeno di stalking, come molestie, minacce, percosse e ingiurie, se prese e sanzionate singolarmente hanno obiettivamente una portata lesiva minore rispetto allo stalking e come tali anche una pena ridotta al fine di prevenire il delitto in questione.

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giungesse una legge con l'obiettivo di riconoscere lo stalking come una fattispecie autonoma di reato a causa della particolare potenzialità lesiva che lo contraddistingue.

Come già anticipato, l'articolo 612 bis è stato introdotto dal decreto legge 23 febbraio 2009 n. 11, convertito in legge 23 aprile 2009 n. 38, intitolato “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori”. Viene previsto che “Salvo che il caso costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”, “La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato o da persona che sia legata da relazione affettiva alla persona offesa” “La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza, o di una persona con disabilità di cui all'articolo 3

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della legge 5 febbraio 1992 n. 104(42), ovvero con armi o da

persona travisata”.

Come risulta dai lavori preparatori il nuovo reato ha lo scopo di punire determinati episodi di minacce e molestie reiterate al fine di evitare che queste possano degenerare in condotte ancora più gravi quali la violenza sessuale o addirittura l'omicidio anche perché, in genere, vengono preceduti proprio da una serie di atti insistenti e ripetuti che, da questo momento, potranno essere contrastati dal nostro ordinamento.

3.4.1 Condizione di applicabilità della legge.

Affinché sussista la fattispecie delittuosa degli atti persecutori e sia dunque possibile applicare la legge in questione nei confronti dell'autore di tale condotta sarebbe quindi necessario che si configuri:

 il ripetersi della condotta ovvero i comportamenti volti alla minaccia e alla molestia devono essere reiterati;

 i comportamenti devono essere finalizzati ed

42 Persona handicappata: “colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale,

stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”.

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intenzionali alla molestia;

 i suddetti comportamenti devono avere l'effetto di provocare disagi psichici, timore per la propria incolumità o quella delle persone care, pregiudizio alle abitudini di vita e un grave stato d'ansia e di paura che, altre che grave, deve essere anche prolungato nel tempo.

La struttura di questo reato è realizzata sulla falsariga del reato di violenza privata e ciò che lo differenzia da quest'ultimo è proprio il fatto che le condotte devono essere reiterate e che possono concretizzarsi non solo in atti minacciosi ma anche in molestie e comunque non in violenza fisica come invece previsto nel caso della violenza privata(43).

Discutibile potrebbe apparire la scelta di porre l'accento su gli effetti della condotta stessa della psiche della vittima. Se il “grave

stato d'ansia” può essere accertato con l'ausilio delle conoscenze

mediche, “lo stato di paura e fondato timore per l'incolumità” magari si presenta in una connotazione più soggettiva anche se comunque rapportabile nell'esperienza comune. La stessa dottrina

43 B. Spinelli, gruppo di studio “ Generi e Famiglie”, Associazione nazionale Giuristi

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d'altronde ha evidenziato che sarebbe stato meglio basarsi sull'idoneità della condotta, dato maggiormente oggettivo, piuttosto che su aspetti difficili da accertare(44).

Detto ciò, l'articolo pone, di seguito, una serie di aggravanti sicuramente riferibili alle circostanze più frequenti.

Troviamo una prima situazione in cui la pena è inasprita in caso in cui le condotte vengano poste in essere dal coniuge, legalmente separato o divorziato, o da una persona che sia stata legata da relazione affettiva alla vittima. In merito alla relazione potrà essere valorizzato qualunque vincolo affettivo, fosse anche solo amicale, data la mancanza di ulteriori precisazioni. Per quanto riguarda invece il primo requisito qualcosa sembra stonare. Non si comprende quale sia la ragione che spinge a includere chiunque abbia avuto una rapporto affettivo con la persona offesa però, in caso di matrimonio, solamente il coniuge che sia legalmente separato o divorziato. Non di meno, anche l'uso temporale dei verbi, prettamente al passato, lasciano intravedere una disparità di trattamento tra chi ha concluso una relazione con la vittima. come se fosse più grave, e chi invece la intrattiene al momento della

44 A, Cadoppi, “Decreto anti-violenze,Efficace la misura dell'ammonimento del questore”.

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consumazione del reato.

Per il terzo comma non sono state avanzate particolari perplessità se non nel caso della donna in stato di gravidanza, in quanto si tratta di una condizione che , specie nei primi mesi, può essere conosciuta o conoscibile solo sulla base di una comunicazione diretta o dalla visione degli esiti di accertamenti medici.

3.4.2. “Salvo che il caso non costituisca più grave

reato”.

L'articolo 612 bis c. p. condiziona l'applicabilità della previsione di atti persecutori alla non rinvenibilità di altro reato, il che ha comportato dubbi interpretativi in tema di concorso.

Il reato in commento, assorbirebbe pienamente le fattispecie di molestia, ingiuria, minaccia, e anche quella di violenza privata dato che l'alterazione delle abitudini di vita può considerarsi una peculiare ipotesi di questa. Deve però ritenersi che le incriminazioni appena dette possono essere comunque apprezzabili quale autonome ipotesi di reato laddove vi sia un singolo episodio e quindi, per la tipologia e le modalità della lesione arrecata, non

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siano sussumibili nello schema di cui all'articolo 612 bis c. p..

Maggiori perplessità sono sorte con riguardo al reati di maltrattamenti in famiglia. Che questa fattispecie possa tranquillamente adattarsi alla realtà di atti persecutori è deducibile da una definizione che ci perviene dalla Suprema Corte: «una serie di atti lesivi dell'integrità fisica, della libertà o del decoro del soggetto passivo, nei confronti del quale è posta in essere una condotta di condizionamento e/o vessazione sistematica e programmata tale da rendere la stessa convivenza dolorosa: atti sorretti dal dolo generico integrato dalla volontà cosciente di ledere l'integrità fisica o morale della vittima (45)».

Sempre sul piano oggettivo la Corte ha dichiarato che il delitto di maltrattamenti integra un'ipotesi di reato necessariamente abituale che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti che acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo(46).

In realtà, il reato di atti persecutori parrebbe caratterizzato da condotte di appostamento e comportamenti intenzionali finalizzati alla molestia con effetto di provocare disagi psichici senza arrivare

45 Cfr. Cass, sez. III, 9 marzo 1998, n. 47 52, CED 210707. 46 Cfr. Cass., Sez. VI, 28 febbraio 1995, n. 4636, CED 218543.

Riferimenti

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