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Le notti della paura. Pratolini e Bassani nel cinema.

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Academic year: 2021

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Le notti della paura

Cronaca di due massacri compiuti dai fascisti e analisi dei romanzi di Pratolini e Bassani e dei film di Lizzani e Vancini che ce li hanno raccontati

L‟idea che mi sono proposta con questo lavoro è quella di analizzare due romanzi collocabili nell‟area del Neorealismo stabilendo dei confronti con la loro trasposizione cinematografica, per individuare analogie, parallelismi, contrasti, diverse tipologie di lettura e di interpretazione.

I testi da me scelti sono: Cronache di poveri amanti di Vasco Pratolini (1946) e Una notte del „ 43 (compreso in “Cinque storie ferraresi”) (1956) di Giorgio Bassani. I film, ispirati al romanzo di Pratolini e al racconto di Bassani sono: Cronache di poveri amanti, diretto da Carlo Lizzani (1954) e La lunga notte del ‟43, diretto da Florestano Vancini (1960)

Ho voluto restringere questa mia analisi a due romanzi che, sotto vari aspetti, rappresentano in modo più o meno emblematico quella che viene definita la stagione del Neorealismo.

Prima, però, di iniziare l‟analisi dei testi e dei film, mi sembra opportuna una riflessione iniziale sui due temi che andrò a trattare: da una parte, il cinema, dall‟altra la cornice storico – ideologica in cui questi romanzi hanno visto la luce, che è quella, appunto del Neorealismo per proseguire poi con l‟analisi del romanzo e del racconto e dei film, nello specifico delle loro corrispondenze e diversità. Suddividerei, quindi, questa prima parte della mia trattazione, relativa a Pratolini e Lizzani, nei seguenti capitoli :

1. Cinema e letteratura

2. Il Neorealismo: definizione e contesti

3. Cronache di poveri amanti: il romanzo

4. Brevi riflessioni di narratologia

4. Il punto di vista di Carlo Lizzani

5. Repertori e linguaggi

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7. Corrispondenze e diversità tra romanzo e film

La seconda parte, relativa al racconto di Bassani e al film di Vancini sarà così ripartita:

1. Giorgio Bassani

2. Una notte del ‟43 (il racconto) 3. La lunga notte del ‟43 (il film) 4. La critica

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PRIMA PARTE

Cinema e letteratura

E‟ un dato di fatto che quando si parla del cinema italiano delle origini, tutti, anche registi del calibro di Francis Ford Coppola e Martin Scorsese, citano “Ladri di biciclette” e subito dopo “Roma città aperta”, ma la storia del cinema italiano inizia un po‟ prima.

Scrive Robert Paris: “ (…) in Italia il cinema si definirà quasi subito come arte e, ciò che più conta, esplorerà e definirà le proprie dimensioni essenziali” 1

Il film “La presa di Roma” (1905) di Alberini è considerato ancora oggi uno dei primi film importanti della storia del cinema ed il “Quo vadis?” di Enrico Guazzini verrà proiettato in tutto il mondo e avrà un grande successo specialmente in America.

Siamo ancora ad una cinematografia che viene genericamente definita “in peplo” (film in costume) le cui ambientazioni comprendono sia il film d‟azione che quello fantastico e in contesti quasi sempre biblici.

E‟ tuttavia con “Cabiria” (1914), creazione di G. D‟Annunzio, prodotta da Pastrone che per la prima volta cinema e grande spettacolo si fondono. Tra l‟altro in “Cabiria” compare per la prima volta il gigante Maciste, successore dell‟Ursus di “Quo vadis?”.

Scrive sempre Paris:

“ Sembra davvero che il cinema italiano di quegli anni stia esplorando tutto il registro delle

possibilità della nuova arte. Con “Storia di un Pierrot” (1913) che consacra la fama di Francesca Bertini, “Teresa Raquin” e “Sperduti nel buio” (1914) di Nino Martoglio, oppure con la fantasticheria sentimentale di “Tigre reale” con Pina Menichelli (…) si viene disegnando una nuova corrente che fra l‟altro avrà come esito ultimo il “neorealismo” 2

C‟è da dire, inoltre, che al cinema muto delle origini comincia ad affiancarsi un esteso fenomeno di editoria specializzata che documenta gli sviluppi e gli

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ROBERT PARIS in Echi e influssi culturali in “Storia d‟Italia” , vol 4 (*) pg. 659

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aggiustamenti successivi della produzione, anche se bisognerà aspettare fino alla metà degli anni ‟20 per assistere alla nascita di una critica cinematografica.

Interessante, a questo proposito, questa osservazione di G. Fabre:

“ La tendenza che in questo periodo punta ad imporre nel cinema il sistema della narratività, porta in sostanza ad introiettare nel cinema un uso specializzato delle tecniche intellettuali. Il riferimento alla letteratura è il riferimento non solo e non tanto al bisogno del racconto da parte del pubblico, ma l‟indicazione di un preciso modello storico realizzato di applicazione professionale alla cultura. L‟uso della letteratura, più che l‟uso di modelli di racconto, sottende l‟impiego di modelli professionali realizzati: è il riferimento allo scrittore, agli “scrittori di valore”, che possono portare al cinema ciò che gli manca ancora, cioè la coscienza della tecnica e del mezzo.” 3

Su questo ultimo punto non c‟è stata, anche tra gli intellettuali italiani, una grande uniformità di vedute.

Il caso più eclatante è indubbiamente costituito da Luigi Pirandello che con “I Quaderni di Serafino Gubbio operatore” del 1925 dà vita ad un personaggio, Serafino, tipico eroe “filosofo” estraniato dalla vita, che contempla l‟assurdo affannarsi degli uomini per inseguire illusioni che essi credono realtà oggettive. La sua professione, il suo stare sempre dietro alla macchina da presa che registra la vita, diviene la metafora di questo distacco contemplativo.

Pirandello, in questo romanzo, mette a punto la conoscenza della nuova industria cinematografica appena affermatasi e ha modo di affrontare uno dei nodi più urgenti della realtà contemporanea: il trionfo della macchina.

E‟ una realtà di fronte a cui gli intellettuali del tempo avevano avuto atteggiamenti quanto mai problematici.

Pascoli la viveva con orrore pensando che distruggesse quel mondo rurale e arcaico che lui vagheggiava, D‟Annunzio aveva scelto di offrirsi come celebratore della nuova realtà, innalzando inni alla macchina in “Maia” (1903) e in “Forse che sì forse che no” (1910) per poi, come abbiamo visto, approdare a “Cabiria”; i futuristi celebravano entusiasticamente la macchina, portatrice di un‟immagine nuova e sconvolgente, frutto del dinamismo e della velocità.

Pirandello è ostile dinanzi alla realtà industriale: nella sua insofferenza per l‟organizzazione sociale in assoluto, che soffoca la spontaneità della vita, non può

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non provare repulsione per la macchina, che contribuisce ulteriormente a rendere meccanico il vivere degli uomini; la macchina da presa, che fissa per sempre in un fotogramma della pellicola il fluire mobile della vita, diventa emblema di questa angosciosa condizione moderna.

Alla critica della meccanizzazione si unisce quella della mercificazione: la realtà industriale trasforma tutto in merce, negando la spontaneità dei sentimenti.

Questo è particolarmente visibile in un‟industria culturale come il cinema, che, a fini di profitto, fissa la vita in moduli convenzionali e stereotipati, quali sono gli intrecci dei film.

Ed anche Verga, nonostante tra il 1909 e il 1921 adattasse in forma di sceneggiatura alcune sue opere (“Caccia al lupo”, “Caccia alla volpe”, “Storia di una capinera”, “Tigre reale”, “Cavalleria rusticana”, “Il marito di Elena”) dimostrò sempre un certo disprezzo per la settima arte senza mai riuscire ad accettarla completamente anche se, in realtà, fu grande l‟eredità che lasciò al cinema.

Nel 1941 alcuni giovani cineasti, Visconti, Lizzani, Antonioni, cercando un nuovo linguaggio cinematografico, si ispirarono proprio a Verga, aprendo quindi la strada al neorealismo.

Basti pensare a film come “La lupa” (1953), girato da Alberto Lattuada e soprattutto a “La terra trema” (1948) di Luchino Visconti, tratto, com‟è noto, da “I Malavoglia”

Anche Guido Gozzano realizza con Nino Oxilia, regista, il documentario “La vita delle farfalle” (1911) e nel saggio “Il nastro di celluloide e i serpi di Laocoonte” (1916) e nei due racconti del 1915 “Il riflesso delle cesoie” e “Pamela film”, dimostra di considerare il cinema un‟invenzione importante sotto il profilo divulgativo, ma ne condanna l‟ambiente, la banalità, la volgarità e, d‟accordo in questo con Pirandello, la mercificazione, anche se poi è proprio la “mercificazione” che , rendendolo un prodotto di massa, ne amplifica la conoscenza ad un pubblico sempre più variegato.

A questo proposito, come osserva Abruzzese:

“ (…) è proprio il salto produttivo che il cinema italiano compie intorno al 1910 a mettere in

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di collaborazione fra letterati e produzione cinematografica (significativa l‟esperienza di Guido Gozzano) che restano comunque isolati e parziali, e non sarebbero neanche pertinenti se non li si considerasse in una linea progressiva che giunge alla sua formalizzazione definitiva nel rapporto tra D‟Annunzio e il cinema” 4

E‟ solo con D‟Annunzio, secondo Abruzzese, che l‟autore può vendere all‟apparato di massa la propria professionalità come valore di scambio del prodotto industrializzato e in questo senso “Cabiria” costituisce il primo modello produttivo cinema – letteratura, fondato sulla “figura d‟autore”.

Strettamente correlata a questa riflessione ne appare un‟altra ben più corposa; se sia , cioè, legittimo reclamare per il cinema una sua estetica, insomma se il cinema possa essere considerato un‟arte.

Si innesta a questo proposito, tra gli intellettuali, un ampio dibattito che investe i rapporti tra cinema e teatro, e in che cosa il cinema si differenzi e si renda autonomo dal teatro soprattutto per ciò che riguarda il movimento, il ritmo, il rapporto tra i quadri, cioè il montaggio, l‟equilibrio luce – ombra interno all‟inquadratura.

Questo dibattito si svolge all‟interno di un contesto in cui l‟area e la continuità di consumo cinematografico crescono rispetto ad una produzione che non è in grado di sopperire all‟aumentata domanda.

Tra l‟altro nel 1926 il regime fascista si assicura il controllo dell‟informazione cinematografica con la creazione dell‟Istituto Luce e successivamente, negli anni ‟30 vengono inaugurate la mostra internazionale di Venezia, il Centro Sperimentale di cinematografia e Cinecittà.

Questo, come nota Abruzzese:

“ (…) ha un grosso peso anche per ciò che riguarda i rapporti tra la produzione cinematografica e gli intellettuali italiani: da una parte, perché d‟ora in avanti i modelli si elaboreranno e si proveranno dentro queste sedi, dall‟altra perché proprio in quanto istituzioni di formazione, gestione e programmazione essi daranno vita a particolari e specifiche professionalità intellettuali.” 5

4

A. ABRUZZESE, A. PISANTI, Cinema e letteratura” in Letteratura italiana, vol II, Einaudi, 1983, pp. 815 - 816

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Quando poi, tra gli anni ‟20 e ‟30 nasce il cinema sonoro, il rapporto tra cinema e letteratura assume un ruolo centrale perché di fondamentale importanza diventa il dialogo che deve essere complementare e coincidere col piano delle immagini. In Italia, il primo film sonoro e parlato fu “La canzone dell‟amore”, realizzato nel 1930 da Gennaro Righelli e tratto, per ironia della sorte, dalla novella di Pirandello intitolata “In silenzio”

Con la comparsa del sonoro nascono in Italia la critica cinematografica e le prime riviste specializzate, tra cui “Cinematografo” e alcune riviste letterarie come “La Fiera letteraria” e “Solaria” offrono ampi spazi al discorso cinematografico.

Allo stesso tempo però la critica cinematografica avvia uno spazio di riflessione teorica che vede ben presto delinearsi due schieramenti:

“ Chi aveva addebitato al film muto una rigida estetica formale si trova ora a rifiutare il sonoro come ritorno indietro verso il teatro, perdita cioè dello specifico artistico e dell‟ intrinsecità poetica del cinema; chi invece aveva considerato le possibilità espressive e comunicative del cinema in continua evoluzione (…) individua nel cinema sonoro quel necessario salto tecnologico che, pur conservando al mezzo la sua specificità e la piena autonomia, rende concrete capacità inesplorate e considera il sonoro come “complemento” dell‟arte cinematografica.” 6

Ma è con l‟avvento della sceneggiatura che si crea definitivamente una corrispondenza strutturale tra piano della produzione letteraria e piano della produzione di immagini:

“ la nascita della sceneggiatura significa per il rapporto cinema – letteratura una prima codificazione strutturale dei meccanismi di commistione che fondano la produzione dell‟industria culturale.” 7

I repertori testuali della sceneggiatura degli anni ‟30 superano definitivamente gli stereotipi del cinema muto, legato alla romanità e attingono al filone “verista” (Verga, Capuana), al romanzo d‟appendice e a quello d‟avventura (Salgari), ma trovano anche altri percorsi come quello comico – umoristico che, oltre a trovare riferimento nelle riviste umoristiche del periodo (“Marc‟Aurelio”, “Bertoldo”) attingono anche all‟avanspettacolo. Si afferma così la centralità del prodotto letterario che diventa “funzionale” nei processi dell‟industria cinematografica e

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A. ABRUZZESE – A. PISANTI , op. cit, pp. 820 - 821

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infatti scrittori come Corrado Alvaro, Mario Soldati e Vitaliano Brancati diventano collaboratori quasi abituali dei registi del tempo.

C‟è, a questo proposito, una frase di Mario Alicata che vorrei citare perché mi pare che sintetizzi quanto detto finora e anticipi in qualche modo quello che sto per dire:

“Quando ebbe risolti alcuni dei suoi problemi tecnici, il cinema, da documentario divenuto racconto, comprese che alla letteratura era legato il suo destino. Nonostante le sciocche pretese dei cineasti puri, da quel giorno strettissimi rapporti continuarono a correre tra cinema e letteratura; fino a collocare spontaneamente la storia del cinema come un insostituibile capitolo nella storia dl gusto letterario e artistico del Novecento.” 8

E‟ una citazione questa che, dopo questo breve excursus sui rapporti tra cinema delle origini e letteratura, mi porta direttamente al tema che mi sono proposta di analizzare e cioè il rapporto fra due significativi romanzi del neorealismo e il cinema.

E‟ infatti indubbio che, come nota Abruzzese, il movimento neorealista rivendica originariamente e assume come propria la tradizione letteraria realista in quanto riferimento privilegiato per la rinnovata prassi cinematografica che trovava i suoi materiali in un contesto sociale fortemente caratterizzato.

Scrivono Paul Rotha e Richard Griffith:

“ Mai come nel caso dell‟Italia si è chiaramente dimostrata una vecchia verità, che il cinema è strettamente legato al sistema sociale predominante, ne è un‟eco sensibilissima.”9

E infatti, durante il fascismo si cercò di importare registi e attori dall‟estero e si cercò di imitare gli stili americani, tedeschi e francesi, ma il risultato fu disastroso. I colossi monumentali come “Scipione l‟Africano” e le varianti musicali della Bohème erano lo specchio di un immobilismo sociale e di una società paralizzata che non riusciva a creare niente di nuovo.

Questa situazione di stasi venne di fatto spezzata dalla lotta di liberazione, e non è infatti un caso che si è soliti considerare “Roma città aperta” (Rossellini, 1945) come il momento d‟avvio del cinema neorealista, di quella tendenza presto definita come “scuola italiana” che suscitò grande eco in tutto il mondo e contribuì non poco a orientare nuovi sviluppi dell‟estetica del film che portò poi al fenomeno del nuovo cinema degli anni ‟60.

8

M. ALICATA – G.DE SANTIS, Verità e poesia: “Verga e il cinema italiano” in “Cinema” VI, (1941), pg. 21

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Insieme a “Roma città aperta”, film come “Paisà” (1946) sempre di Rossellini, “Sciuscià” (1946) e “Ladri di biciclette” (1948) di De Sica e Zavattini, “La terra trema” (1948) di Visconti e altri diretti da De Santis, Zampa, Lattuada, contribuirono, sebbene in forme assai diverse tra loro, a definire un nuovo modo di fare cinema lontano dagli studi e dalle modalità di rappresentazione dominanti, girato per le strade e in ambienti reali, senza l‟uso di attori professionisti con l‟idea di riuscire a rappresentare la realtà senza manipolarla.

Sebbene il neorealismo abbia rappresentato una radicale novità nel panorama del cinema italiano, la storiografia più aggiornata non dimentica come già negli anni del fascismo, il cinema non vivesse solo di “telefoni bianchi”, così come erano chiamate le commedie dell‟epoca e che certi richiami al quotidiano, al regionale, al paesano, alla difesa di un cinema nazionale, popolare e realista fossero già presenti nel dibattito culturale interno al fascismo, in particolare nei suoi primi anni.

Così non solo film come “La nave bianca” (1941), “L‟uomo della croce” (1943) di Rossellini e “Ossessione” (1943) di Visconti possono essere considerati a tutti gli effetti anticipatori dello stile e della poetica del neorealismo, ma anche certe opere di Blasetti e Camerini, indiscussi registi di primo piano del fascismo, presentano scorci di una realtà “umile” e “dimessa” per certi versi anticipatrice di ciò che verrà nel cinema del dopoguerra.

In quello che oggi chiamiamo neorealismo convivono in realtà diverse tendenze, legate a poetiche d‟autore e di generi differenziati; sebbene l‟elemento di partenza sia sempre strettamente connesso a dati cronachistici e documentari, esso può essere elaborato in modo diverso a seconda dei casi.

Ecco, è proprio da questa ultima considerazione che vorrei partire, allontanandomi, per ora, dal discorso cinematografico, che comunque riprenderò diffusamente in seguito, per soffermarmi sul termine “neorealismo”, cercando di definirlo e circoscriverlo.

Mi servirò, a questo proposito, di un‟affermazione di Romano Luperini che parla in questi termini del neorealismo:

“ Questa poetica (neorealismo n.d.r.) mentre ebbe risultati di scarso rilievo nella letteratura, ne raggiunse di validissimi nel cinema, rilanciando l‟arte italiana in tutto il mondo. Il termine stesso

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di “neorealismo” deriva dalla critica cinematografica e venne adoperato per la prima volta per il film “Ossessione” di Luchino Visconti del 1942.” 10

Il Neorealismo

(definizione e contesti)

Abbiamo prima accennato che il termine “neorealismo” nasce con Visconti, ma la questione, in realtà è assai più complessa.

Leggiamo cosa dice a questo proposito Maria Corti:

“ Ecco che il vocabolo “neorealismo”, chiuso per un po‟ d‟anni nei cassetti della storia, è tirato fuori e riutilizzato per qualcosa di veramente nuovo da un montatore cinematografico, Mario Serandrei, a proposito del film “Ossessione”. La notizia ci è data dallo stesso regista Luchino Visconti in un‟intervista apparsa su “Rinascita” del 24 aprile 1965, n. 17: il termine “neorealismo” nacque con “Ossessione”. Fu quando da Ferrara mandai a Roma i primi pezzi del film al mio montatore, che è Mario Serandrei. Dopo alcuni giorni egli mi scrisse esprimendo la sua approvazione per quelle scene. E aggiungeva: “ Non so come potrei definire questo tipo di cinema se non con l‟appellativo di “neorealistico”. Siamo dunque nel 1942. Il 31 luglio del 1943 Barbaro sulla rivista “Film” parlerà quasi con emozione della nascita col film di Visconti di un nuovo “realismo così improvviso ed urlante” 11

Quindi, secondo Maria Corti, l‟etichetta neorealistica è, almeno in Italia, di origine cinematografica.

E qui il discorso si complica, se non altro per un problema di cronologia.

C‟è infatti chi fa iniziare il neorealismo con “Gli Indifferenti” di Moravia che è del 1929, chi invece ne colloca l‟inizio dopo la seconda guerra mondiale.

Ora è vero che il fenomeno neorealista è sfuggente e complesso ed è quindi difficile darne una definizione univoca, fissarne i limiti cronologici ed enuclearne la poetica anche per una questione legata ai problemi contenutistici: antifascismo, meridionalismo, Resistenza, Liberazione, ricostruzione del dopoguerra formano un “continuum” tematico, vario, complesso, articolato per cui non è sempre sufficiente, come ha appunto notato Maria Corti, la presenza in un‟opera di alcuni di tali temi, per definire con sicurezza questa opera come neorealista.

10

R. LUPERINI - P. CATALDI La scrittura e l’interpretazione , Tomo III, Palumbo, 1999, pg. 696

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C‟è da dire, a questo punto, che il neorealismo non ebbe, come accade invece in genere nelle manifestazioni dell‟ avanguardia artistica e letteraria, una struttura di gruppo organizzato, con statuti teorici definiti, né espresse programmi o manifesti, come nel caso del Futurismo o del Surrealismo.

Fu piuttosto un vasto movimento ideale e culturale in cui confluirono esperienze, atteggiamenti, personalità diverse, accomunate però da analoghe esigenze morali e politico culturali.

E‟ un movimento che coinvolge, nell‟immediato secondo dopoguerra, tutta la cultura italiana, dalla letteratura, al cinema, alle arti figurative, a partire dall‟assunzione della necessità di un nuovo rapporto cultura – masse popolari, di una nuova funzione “impegnata” sul terreno socio – politico dell‟intellettuale artista.

Le esperienze recenti (il fallimento della vecchia classe dirigente, la guerra, la partecipazione popolare alla Resistenza con la conseguente nuova importanza assunta dalle masse sul terreno politico) sembrano aprire nuovi spazi e nuove dimensioni all‟azione culturale, promuovendo a pubblico, almeno potenziale, le masse popolari tradizionalmente escluse da essa.

Il generale clima di entusiasmo e di partecipazione allo sforzo di rinnovamento collettivo, sociale e morale, agisce sulla coscienza di artisti e letterati, spingendoli verso il recupero di una dimensione più ampia della loro funzione, tesa, ora, ad ottenere una convalida sociale, e si traduce in una manifesta volontà di adesione alla realtà della società italiana con i suoi problemi di miseria e di arretratezza – l‟Italia del proletariato urbano e contadino, della guerra e del dopoguerra, i problemi del sud, l‟oppressione sociale – e nella ricerca di una ridefinizione del linguaggio letterario e artistico adeguata alla rappresentazione di questa realtà.

Il tentativo neorealistico di elaborare una “nuova” letteratura impegnata sul terreno “sociale”, in polemica con tanta produzione letteraria dell‟anteguerra, ha la sua più evidente conseguenza in una scelta linguistica di tipo dialettale.

Si è così convinti che una letteratura “popolare” dovrà far parlare direttamente le cose e gli uomini, per raggiungere un‟ “autenticità” e una “verità” che si ritengono

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negate dalla lingua nazionale, e che sembrano invece garantite dall‟adozione di una lingua parlata e dialettale.

I neorealisti (ma forse sarebbe meglio chiamarli realisti) degli anni ‟30, particolarmente Pavese, avevano già fatto ricorso a termini e modi gergali e dialettali in polemica contro il livellamento linguistico portato avanti dal fascismo e contro la retorica della lingua usata in letteratura, ma è anche vero che l‟atteggiamento di Pavese nei confronti del mondo contadino è prevalentemente soggettivo, lirico, non muove cioè dall‟esigenza di “scoprire” o “conoscere” quel mondo, quanto dal desiderio di ritrovare e riconoscere in esso le proprie origini. Per Pavese, come per Vittorini (“Conversazione in Sicilia”) e , per una parte almeno della loro produzione, per Pratolini e Bilenchi, l‟itinerario che porta alla terra, al popolo, alla provincia, alla realtà, passa attraverso il recupero memoriale, il “vissuto personale”, autobiografico.

Ed ecco allora che sembra avere ragione Maria Corti quando scrive:

“ Per esempio, se si fa la parafrasi di “Conversazione in Sicilia”, di Elio Vittorini, cioè se ci si limita ad esporne la tematica, si ha l‟impressione di essere di fronte a un libro neorealistico (…) laddove il livello formale dell‟opera guida a una lettura mitico – lirica che col neorealismo non ha nulla a che fare.” 12

Sempre rimanendo nell‟ambito degli anni ‟30 è interessante verificare la posizione di Romano Luperini che sostiene che la nascita del romanzo avviene proprio in quegli anni.

“ Negli anni trenta si afferma una società di massa, con lo sviluppo di una borghesia che vuole leggere, sufficientemente colta; così il romanzo viene ad assumere la forma che esso ha oggi. In questo recupero del romanzo ci sono forti tentazioni restaurative, ma esse non sono ancora maggioritarie come lo saranno più tardi; il tipo di romanzo che si diffonde negli anni Trenta è un tipo di romanzo che potrebbe essere definito sperimentale.”13

Poi, proseguendo nel suo discorso, Luperini si allinea sulle posizioni di M. Corti, sostenendo che romanzi come “Tre operai” di Bernari, “Fontamara” di Silone che potrebbero sembrare romanzi neorealisti non lo sono affatto, il primo perché scritto con un continuo cambiamento dei punti di vista a seconda dei personaggi che intervengono sulle pagine, il secondo perché riprende “I Malavoglia” proprio nel loro carattere sperimentale e, continuando, anche Vittorini e Pavese inseriscono

12

M. CORTI, op.cit, pp. 25 - 26

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nel romanzo le strutture mitiche e simboliche del racconto attraverso la conoscenza dei simboli e degli archetipi.

E, sempre secondo Luperini, anche il Moravia degli anni ‟30 è un Moravia abbastanza aperto, in modo sperimentale, alla psicanalisi o meglio ad alcune sue acquisizioni.

Luperini, insomma, sostiene che in questo periodo c‟è un bilanciamento tra le esigenze di un romanzo vendibile e quelle di una struttura di tipo sperimentale, capace di fare i conti con la grande narrativa europea, in particolare con Proust e Joyce e afferma che un vero e proprio ritorno alla tradizione si ha nel periodo che va dal 1945 al 1955:

“ In questo decennio – quello del neorealismo – di nuovo si recupera Verga, ma in direzione esattamente opposta rispetto al modo in cui l‟avevano recuperato Pirandello e Tozzi, cioè si recupera Verga come romanziere costruito, ottocentesco, giudicante, organizzante la materia dall‟alto. Non è un caso forse che i libri migliori della stagione del neo – realismo si sottraggano a questo schema che è uno schema sostanzialmente restaurativo, lo schema, per esempio, dei romanzi di Pratolini.”14

Abbiamo detto prima che l‟affermazione del romanzo si ha in Italia verso gli anni ‟30, ma è opportuno a questo punto essere più precisi ed individuare , così come propone Luperini le varianti di romanzo che sono riscontrabili tra i primi tentativi degli anni ‟20 e la piena affermazione del decennio successivo.

E‟ una periodizzazione, oltre che un‟individuazione di “tipologie” che sarà fondamentale per gli argomenti che andranno sviluppati in seguito.

Luperini riconduce le varietà di romanzo alle seguenti modalità: il romanzo tra classicismo e tradizione moderna che appare appunto negli anni ‟20 (R. Bacchelli, “Il diavolo al Pontelungo”), una seconda tipologia – il romanzo di fantasia e di invenzione surreale – già negli anni ‟20 con Savinio e il realismo magico di Bontempelli, una terza tipologia che riguarda il romanzo solariano (Gianna Manzini, Alessandro Bonsanti, il primo Vittorini) che è sostanzialmente un romanzo di analisi, molto influenzato dalla lezione di Proust e Svevo, e infine la quarta tipologia – il neorealismo – che è la più complessa.

Così la sintetizza Luperini:

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“ Vi rientrano: a) un filone di narrativa meridionalistica, che riprende il modello verghiano, filtrandolo però attraverso suggestioni novecentesche, da Pirandello e D‟Annunzio al surrealismo (Brancati, Bernari, Alvaro); b) un filone di realismo borghese, fra esistenzialismo e denuncia sociale (il Moravia di “Gli Indifferenti” e di “Agostino”); c) la tendenza al realismo mitico – simbolico (Pavese, il Vittorini dei romanzi); d) il neorealismo postbellico (Pratolini, Jovine (…) Fenoglio)15

Ho voluto utilizzare questa suddivisione di Luperini, che tra l‟altro condivido, per sottolineare che il Neorealismo nasce appunto dal “nuovo realismo” degli anni ‟30, pur differenziandosene perché è caratterizzato da un maggior impegno ideologico e morale e da una maggiore fedeltà alla tradizione nell‟impianto narrativo.

Scrive sempre a questo proposito Luperini:

“(…) il romanzo deve avere protagonisti popolari, “positivi”, fare intravedere la prospettiva socialista, e descrivere i rapporti fra le classi. Tuttavia non sempre il romanzo neorealista, anche negli anni tra il 1949 e il 1956, si attiene a queste norme. In genere si limita al recupero di alcuni aspetti strutturali del romanzo tradizionale ottocentesco, realista o verista, come la trama, l‟oggettività dei personaggi, l‟autorità del narratore.”16

Ora c‟è da dire che, nell‟immediato dopoguerra, il letterato “impegnato”, convinto cioè che all‟arte spetti un compito di intervento politico diretto, non fa che assumere nella propria opera gli stessi obbiettivi di rivendicazione sociale, in favore dei ceti subalterni, che agiscono sul piano della prassi e della lotta politica immediata in quegli anni.

Questi stessi obbiettivi, che hanno una loro concreta necessità sul piano dell‟azione portata avanti dal movimento operaio, trasposti sul piano “letterario” nella forma della tradizionale “separatezza” degli uomini di cultura, finiscono per rivestire un significato oggettivamente ritardato, ancorando la letteratura neorealistica e impegnata alla denuncia delle più gravi manchevolezze della situazione italiana; denuncia che essa porta avanti con la protesta verbale e con l‟indignazione morale. Pratolini con “Cronache di poveri amanti”, Carlo Levi con “Cristo si è fermato a Eboli”, Jovine con “Le terre del Sacramento” e tanti altri riprendono la vecchia battaglia democratica ottocentesca contro la miseria, l‟oppressione sociale, l‟ingiustizia, la fame.

E, come scrive G. Barberi Squarotti:

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R. LUPERINI,, PIETRO CASTALDI , La scrittura e l’interpretazione, Tomo II, Palumbo, 1999, pp. 889 - 890

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“ Con uguale convinzione nell‟efficacia, come risoluzione dei problemi, della letteratura che rivela gli inganni, si fa voce di chi soffre ed è calpestato.”17

In sostanza, quel che di nuovo si era espresso nelle ricerche neorealistiche d‟anteguerra, col farsi strada di un‟iniziale consapevolezza della vera realtà del fascismo, non ebbe seguito.

La Resistenza armata e la liberazione non si tradussero, per i neorealisti, in una crescita di coscienza storica e politica, a partire dalla necessaria analisi – verifica delle contraddizioni del recente passato e del presente; prevalse invece il recupero di un‟ideologia e di un costume, sostanzialmente prefascisti, in cui lo sforzo di elaborare un modello di rapporto organico tra cultura e politica, tra intellettuali e classe operaia (come tentano Pavese e Vittorini) non riusciva di fatto a rompere con un‟idea della cultura, ancora sostanzialmente crociana, come somma di valori perenni e immutabili, con un‟interpretazione del proprio ruolo storico e sociale, da parte degli intellettuali, come funzionale ai valori umani e civili della società.

L‟atteggiamento prevalente era quello di un “populismo” sentimentale in cui l‟incapacità e l‟impossibilità di prendere coscienza delle contraddizioni emergenti nel sistema capitalistico e nel ruolo che in esso svolge la classe operaia, oltre che della crisi che investiva il mondo contadino e la cultura ad esso connessa, concorrevano nella mitizzazione di un mondo pre – industriale, rurale, artigianale su cui l‟intellettuale neorealista proiettava le proprie nostalgie, travestendo di progressismo la propria inadeguatezza sociale, la propria frustrazione.

Carlo Levi in “Cristo si è fermato a Eboli” sostiene la validità dell‟arcaica civiltà contadina e anzi la esalta, Pavese scriverà:

“ (…) tutto il mondo moderno è un contrasto di città e di campagna, di schiettezza e di vuota finzione, di natura e di piccoli uomini.”18

Ma il mondo della città, dell‟industria, che egli riconosce nella sua necessità storica e nei suoi caratteri “progressivi” entra in profondo conflitto con quello della verità più intima dell‟uomo, della sua felicità naturale legata ai miti dell‟infanzia e della campagna. Non ricerca insomma l‟origine del contrasto esistente nella società

17

G. BARBERI SQUAROTTI , La narrativa italiana del dopoguerra, Bologna, Cappelli, 1968, pg. 113

18

(16)

moderna tra città e campagna, ma risolve tutto nello scontro metafisico tra due civiltà i cui valori sono opposti e inconciliabili.

La direzione moralistica e intellettualistica in cui si muove l‟ideologia antifascista dei neorealisti fa sì che la coscienza del proprio isolamento, quella “speciale e rara malattia” di cui parla Pavese e l‟angoscia che ne deriva divenga per molti di loro l‟essenza della condizione umana, lo schermo che impedisce loro ogni analisi corretta e ogni comprensione delle condizioni reali e completamente diverse da cui scaturisce l‟azione rivoluzionaria e antifascista del proletariato.

In questa “poetica dell‟uomo solo”, come la definì N. Gallo 19 anche la lotta

antifascista che è il centro di “Uomini e no” di Vittorini rischia di vanificarsi in lotta metafisica in cui il fascismo diventa una categoria morale, il Male, eterno come l‟uomo:

“ Ma che cosa significa che sia il fascismo? Vorrei vederlo fuori dell‟uomo, il fascismo. Che cosa sarebbe? Che cosa farebbe? Potrebbe fare quello che fa se non fosse nell‟uomo di poterlo fare?”20

Concludendo, si può affermare che dietro l‟antifascismo dei neorealisti che ho voluto tratteggiare , visto che le vicende dei due romanzi che andrò ad analizzare si muovono in quella cornice , e l‟enfatizzazione di mondi e di culture subalterne, si nasconde una più profonda insofferenza e un rifiuto della nuova realtà del mondo industriale, perché questo mondo mette in crisi il ruolo dell‟intellettuale tradizionale organizzato secondo valori paleo – capitalistici, evidenziando il distacco tra strumenti della cultura e strumenti del potere economico nella società di massa e annullando l‟antica sua funzione nella direzione dell‟orientamento ideologico dello sviluppo storico complessivo.

Carlo Salinari sostiene che il neorealismo è nato come espressione di una profonda crisi che fra il ‟40 e il ‟45, con la guerra e la lotta antifascista investì e cambiò il volto all‟intera società italiana.

Ecco cosa scrive Salinari:

19

N. GALLO, La narrativa italiana del dopoguerra. Giudizio sul neorealismo in “ Scritti letterari” , Milano, Il Polifilo, 1975, pg. 35

20

(17)

“ ll neorealismo si nutrì, quindi, innanzitutto di un nuovo modo di guardare il mondo , di una morale e di un‟ideologia nuova che erano proprie della rivoluzione antifascista (…) Si presentò così come “arte impegnata” contro l‟arte che tendeva ad eludere i problemi reali del nostro paese: contrappose polemicamente nuovi contenuti (partigiani, operai, scioperi, bombardamenti, fucilazioni, occupazioni di terre, baraccati, sciuscià, segnorine) all‟arte della pura forma (…) Si pose il problema di una tradizione di arte autenticamente realistica e rivoluzionaria a cui riferirsi, scavalcando le esperienze decadenti dell‟arte moderna.”21

Per Salinari il neorealismo si pone come un‟autentica avanguardia proprio perché rifletteva i punti di vista, le esigenze, le denunce e la morale di un movimento rivoluzionario reale e non solo culturale.

Si potrebbe aggiungere, a questo punto, che in Italia, sul terreno dei contenuti e del linguaggio c‟erano stati altri precedenti tentativi, più o meno consapevoli, di dare vita a delle “avanguardie”, tutti miseramente falliti.

Penso, ad esempio, alla “Scapigliatura”, che, se non altro nei contenuti, tentò una micro - rivoluzione non riuscendo però a supportarla con un linguaggio innovativo, al “Crepuscolarismo” che tentò, con una poetica minimalista, di creare una nuova visione del mondo, lontana dal dannunzianesimo imperante, e infine al “Futurismo”, anch‟esso miseramente naufragato nelle iperboli neologistiche dei Manifesti e in poche produzioni degne di nota.

Resta valido ancora oggi il giudizio che del Futurismo dette Antonio Gramsci:

“ I futuristi hanno svolto questo compito nel campo della cultura borghese: hanno distrutto, distrutto, distrutto, senza preoccuparsi se le nuove creazioni, prodotte dalla loro attività fossero nel complesso un‟opera superiore a quella distrutta (…)22

Giudizio vero solo in parte perché in pittura il Futurismo ha espresso pittori come Boccioni, Carrà e Balla.

Insomma nel Futurismo prevalse la pittura, così come nel neorealismo finirà per avere il sopravvento il cinema che, essendo un‟arte giovane, non doveva far troppi conti con tradizioni culturali precedenti.

Abbiamo visto in queste prime pagine come le problematiche legate al neorealismo siano variegate e contraddittorie; già sull‟uso del termine si fa una grande confusione; ecco ad esempio quello che scrive Salinari:

21

C.SALINARI , La Questione del realismo, Parenti, Firenze, 1960, pp. 41 - 42

22

(18)

“ Useremo indifferentemente il termine neorealismo o realismo per non discostarsi dall‟uso, pur avendo coscienza che neorealismo è un termine inesatto, e che, comunque, è strettamente legato all‟esperienza cinematografica. Ad ogni modo l‟importante è che ci si intenda: con entrambi i termini noi vogliamo indicare il movimento realistico sorto in Italia negli ultimi anni del fascismo e affermatosi nei primi anni del dopoguerra.”23

Ma, al di là di questa definizione non condivisa da molti, c‟è un altro aspetto che mi pare interessante sottolineare e che per la prima volta aveva colto Vittorini che, infatti, sosteneva la necessità di distinguere “tanti neorealismi quanti sono i principali narratori” e di distinguere tra “realismo” e “neorealismo” come tra due modi diversi di tornare alla realtà:

“ Uno che vi scopre, tornandoci, un aspetto nuovo e ne dà una rappresentazione che non può non risultare anche formalmente nuova. E uno che ne riprende e sviluppa o semplicemente rielabora un aspetto già noto, e insomma già acquisito alla letteratura” 24 , questo secondo è il

“neorealismo.

E‟ Vittorini uno degli autori più significativi del dibattito che nasce in Italia in questi anni sulla funzione dell‟intellettuale e sulla condizione della cultura e della letteratura del ventennio.

Vittorini si inserisce in un quadro critico stimolante che riguarda il ruolo degli intellettuali, le difficoltà di una nuova organizzazione culturale, il complesso e difficile rapporto tra intellettuali e partito, tra arte e politica (esemplare in questo senso la sua polemica con Togliatti su cui torneremo in seguito).

Franco Fortini, redattore del “Politecnico”, la rivista diretta da Vittorini dal 1945 al 1947, ci offre in “Dieci inverni” un quadro assai esauriente del clima politico e culturale di quel periodo.

Ecco come rievoca il clima culturale del dopoguerra:

“ La passione del rinnovamento, bloccata dalla realtà politica, diventava passione di conoscenza. E di confessione; quella medesima che si esprimeva allora nel cinema o nei romanzi neorealisti.”25

Fortini nega che nel neorealismo la letteratura sia stata subordinata alla politica, ma muove una critica decisa alla politica culturale dei partiti di sinistra perché non hanno promosso una consapevolezza critica dei rapporti che intercorrono tra la

23

C.SALINARI, op. cit, nota, pg 40

24

E. VITTORINI, Nuova ricerca nella realtà… in “Diario in pubblico”, Bompiani, Milano, 1976, pg.359

25

(19)

produzione di cultura e le strutture economico – politiche di una società criticandone la concezione “socialdemocratica” della funzione della letteratura e del romanzo, funzione edificante, entusiastica o confermatoria che è l‟opposto della funzione educativo – critica della letteratura rivoluzionaria.

Mentre il “Diario in pubblico” di Vittorini e “Dieci inverni” di Fortini offrono precise indicazioni sul retroterra storico e culturale del neorealismo, Italo Calvino nella “Prefazione” (del 1964) al “Sentiero dei nidi di ragno” compie la ricognizione del clima generale, ideale, morale e letterario del secondo dopoguerra.

Secondo Calvino i neorealisti non cercavano tanto di esprimere una nuova realtà, scavando in essa, quanto tentavano la ricerca di un nuovo modo espressivo, assumendo nelle loro opere il “parlato” quotidiano, i dialetti, l‟elemento documentaristico e folkloristico, ma con una costante ricerca di trasfigurazione, tendente al lirismo e alla deformazione espressionistica:

“ Eppure, eppure, il segreto di come si scriveva allora non era soltanto in questa elementare universalità di contenuti, non era lì la molla(…); al contrario, mai fu tanto chiaro che le storie che si raccontavano erano materiale grezzo; la carica esplosiva di libertà che animava il giovane scrittore non era tanto nella sua volontà di documentare o informare, quanto in quella di esprimere”26

Vorrei adesso tornare al tema accennato prima sul rapporto tra cultura e politica; è un tema fondamentale che investe gli scrittori neorealisti legati quasi tutti al PCI. C‟è da dire che dal 1945 al 1960 il PCI divenne un punto di riferimento obbligato e privilegiato delle positive tensioni che animarono gli intellettuali italiani all‟indomani della caduta del fascismo.

Il “Politecnico” nacque proprio nel 1945, come settimanale di cultura, edito da Einaudi. Alla rivista diretta da Vittorini collaborarono marxisti come Fortini, cattolici come Felice Balbo, pittori come Guttuso; la rivista si proponeva lo scopo di unificare gli intellettuali italiani nella ricerca di una nuova cultura che andasse a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù.

Il “Politecnico” sviluppò inchieste giornalistiche tese ad una migliore conoscenza della realtà italiana: la grande industria, il Meridione, la questione femminile, la scuola, inoltre aprì ai giovani scrittori (Calvino esordì sul “Politecnico”) e alle

26

(20)

avanguardie artistiche europee e americane, all‟esistenzialismo, alla psicoanalisi, alla sociologia, a Sartre, al surrealismo…

Queste aperture non piacquero molto al PCI, né sul piano politico né su quello culturale; sul piano politico perché, criticando spesso il Vaticano, attaccava più o meno direttamente la DC che era al governo col PCI, sul piano culturale perché l‟apertura alle avanguardie non era vista di buon occhio dal PCI “ che invece proponeva una linea tradizionalmente storicistica, capace di conquistare un ceto medio generalmente ostile agli atteggiamenti avanguardistici. Il PCI temeva inoltre che, attraverso i rapporti con Sartre e con i surrealisti francesi influenzati dal Trosckismo (…) si consolidasse in Italia un‟opposizione di sinistra alla linea elaborata da Togliatti.”27

All‟inizio, dalle pagine di “Società” e “Rinascita”, organi culturali del partito, polemizzarono Cesare Luporini e Mario Alicata che accusarono il “Politecnico” di essere incapace di proporre una letteratura nazionale e popolare coerente con i modelli democratico – borghesi – risorgimentali e preferendo la nuova letteratura americana che la politica culturale del partito intendeva combattere, influenzata in questo dallo Zdanovismo sovietico.

Poi il dissenso si accentuò soprattutto in relazione alla funzione ideologica rivendicata dagli intellettuali.

La domanda implicita era se la loro funzione doveva essere esercitata “in nome della cultura” oppure “in nome della politica”. Dovevano cioè prevalere gli indirizzi e i valori della cultura oppure quelli della politica.

Nel dibattito intervenne Palmiro Togliatti, sostenendo che tra politica e cultura esistevano legami molto stretti e quindi i politici avevano il diritto di intervenire nelle questioni culturali e che nelle posizioni assunte dalla rivista erano individuabili “sbagli fondamentali di indirizzo ideologico” e quindi una diversa linea politica nei confronti dei ceti medi e delle alleanze sociali e politiche allora promosse dal PCI. Ecco uno stralcio dell‟intervento di Togliatti, apparso sul “Politecnico” nel n. 33- 34 del 1946:

"Quando il 'Politecnico' è sorto, l'abbiamo tutti salutato con gioia. Il suo programma ci sembrava adeguato a quella necessità di rinnovamento della cultura italiana che sentiamo in modo così vivo.

27

(21)

[...] Ma a un certo punto ci è parso che le promesse non venissero mantenute. L'indirizzo

annunciato non veniva seguito con coerenza, veniva anzi sostituito, a poco a poco, da qualcosa di diverso, da una strana tendenza a una specie di 'cultura' enciclopedica, dove una ricerca astratta del nuovo, del diverso, del sorprendente, prendeva il posto della scelta e dell'indagine coerenti con un obiettivo, e la notizia, l'informazione (volevo dire, con brutto termine giornalistico, la 'varietà') sopraffaceva il pensiero. [...] Seguendo la strada per la quale il 'Politecnico' tendeva a mettersi, ci sembrava infatti si potesse arrivare, non solo alla superficialità, ma anche a compiere o avallare sbagli fondamentali di indirizzo ideologico".

Da parte sua Vittorini rivendicava la superiorità della cultura sulla politica perché la prima avrebbe a che fare con la storia, mentre lo spazio della seconda sarebbe quello, più limitato, della cronaca.

In sintesi, secondo Vittorini, la cultura produrrebbe cambiamenti qualitativi, la politica mutamenti solo quantitativi.

Alla dura reprimenda di Togliatti, Vittorini non tarda a rispondere, nel numero successivo della rivista (n. 37/1947), rivendicando l'autonomia dell'intellettuale, dello scrittore, dell'uomo di cultura, da quelli che sono gli orientamenti della politica:

"Che cosa significa per uno scrittore, essere 'rivoluzionario'? Nella mia dimestichezza con taluni compagni politici ho potuto notare ch'essi inclinano a riconoscerci la qualità di

'rivoluzionari' nella misura in cui noi 'suoniamo il piffero' intorno ai problemi rivoluzionari posti dalla politica; cioè nella misura in cui prendiamo problemi dalla politica e li traduciamo in 'bel canto': con parole, con immagini, con figure. Ma questo, a mio giudizio, è tutt'altro che rivoluzionario, anzi è un modo arcadico d'essere scrittore".

Il dibattito, che si concluse con l‟uscita di Vittorini dal PCI, salutato da un ironico corsivo di Togliatti su “Rinascita”. “Vittorini se n‟è ghiuto e soli ci ha lasciato”, produceva comunque forti spaccature tra il PCI e gli intellettuali che si rifiutarono di dipendere in modo acritico dalle tattiche del partito e quelli invece che mantennero posizioni tradizionali di difesa della cultura.

Al di là delle polemiche che opposero due diverse concezioni della cultura e dei suoi rapporti con la politica e con la 'conformità ideologica', l‟esperienza del “Politecnico” è stata comunque positiva.

Ha scritto Anna Nozzoli:

"Pur nelle difficoltà e negli equivoci in cui venne spesso a trovarsi, la rivista condusse un'importante battaglia culturale, impegnandosi su tutti i fronti della realtà contemporanea, pubblicando importanti documenti letterari e politici (traduzioni da Wright, Michaux, Pasternak, Brecht, ecc.) insieme a voci sino allora inedite in Italia (le prime lettere dal carcere di Gramsci, le prime traduzioni di Lukács, i contributi di Sartre e di S. De Beauvoir)"

(22)

(in Dizionario critico della letteratura italiana del Novecento, a cura di Enrico Ghidetti, Giorgio Luti, Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 648).

In altre parole, "Il Politecnico" segnò un'importante tappa nella direzione dell'aggiornamento della cultura e della produzione letteraria nel nostro Paese, affinché fossero finalmente superate le censure e gli ostracismi che l'ufficialità marxista prevedeva per gran parte delle espressioni letterarie non aderenti al cosiddetto realismo socialista.

In realtà, poi il problema era assai più complesso. Nelle grandi battaglie post – resistenziali, di cui la polemica Vittorini – Togliatti è forse l‟esempio più significativo, si cerca di prendere posizione contro il corporativismo ed il settorialismo di chi poneva l‟intellettuale come il soggetto della rivoluzione.

Scrive Togliatti:

“ Il Partito, per quanto pretenda, non potrà mai far venir fuori geni artistici e letterari che creino a suo comando. Compito specifico del Partito è di stimolare e indirizzare la produzione artistica operando per trasformare e riuscendo a trasformare, con la sua complessa azione economica, politica e ideale, la realtà della vita sociale e quindi l‟esistenza e la coscienza degli uomini:”28

Confrontiamo questa affermazione del segretario del PCI con la seguente, contenuta in uno degli articoli più importanti di quelli che costituiscono la sua polemica con Vittorini:

“ Vi sono intellettuali che, quando aderiscono al Partito, pensano di doverne esser per natura i dirigenti, chiamati ad elaborare la parti più elevate della dottrina. Si sbagliano, senza dubbio, perché la nostra dottrina sgorga da un‟esperienza, che ha, per più di un secolo, accompagnato, sorretto, corretto il corso e progresso delle idee.”29

Non vi è dubbio alcuno sui termini di questo attacco. Si cerca di dimostrare come non sia vero l‟assunto azionista secondo il quale la cultura è storia e la politica è cronaca.

Pochi anni prima sempre Togliatti, in linea con la riflessione di Gramsci, aveva affermato che la politica può essere come la cultura, sia storia, sia cronaca.

E‟ in questo contesto ideologico che nascono due riviste importanti; la prima “Realismo” che esce nel giugno 1952 e muore nel 1956 e cerca di proporre nuovi contenuti e impegno di ricerca nel solco della tradizione italiana. La seconda “Il

28

P. TOGLIATTI , Irodalmi Ujsag in “Rinascita”, anno XIV, 1957, n. 3

29

(23)

Contemporaneo” esce nello stesso periodo ed è diretta da Carlo Salinari: con queste due riviste si cerca di operare nel senso di un‟applicazione non apologetica dei principi gramsciani sulla cultura, per la creazione di una cultura nazional – popolare.

E sarà proprio Carlo Salinari a riaffermare la validità rivoluzionaria del romanzo visto, con Lukacs, specchio articolato e complesso della realtà e a convalidare le affermazioni del filosofo marxista sul dramma visto come l‟espressione di una realtà di transizione tra vecchio e nuovo. In un contesto in cui le forze di sinistra avvertono il riflusso, dopo la parentesi epica della Resistenza, si aprono alla moda “d‟oltralpe”, dove la poesia si afferma come “istantanea dell‟anima”, come fotografia del sentimento, il romanzo per le sue caratteristiche narrative si pone come aggregazione degli istinti, cinema della forza rivoluzionaria. Insomma, queste erano le convinzioni e di queste risentono più o meno in forma diversa gli scrittori di questo periodo.

(24)

Cronache di poveri amanti

Il romanzo

A proposito di questo romanzo ha acutamente scritto Maria Corti che può essere considerato il più emblematico del neorealismo.

Scrive M. Corti:

“ (…) Pratolini opera la scelta per “Cronache di poveri amanti” di un punto di vista della narrazione nuovo rispetto alle opere precedenti, sottilmente diaristiche; (…) egli passa dall‟autocontemplazione allo sguardo sociale, dal proprio passato ai popolani di via del Corno; il punto di vista narrativo può così farsi omologo, almeno in partenza, a quello di un autore di cronaca, anche se il romanzo naturalmente vera cronaca non è, e l‟autore può uscire abbastanza spesso in frasi del genere: “ Noi pure incontreremo Gesuina; sarà quando la sua vita si mischierà a quella dei cornacchiai. La nostra cronaca è la loro storia”. L‟indizio offerto da questo metalinguaggio dell‟autore è abbastanza chiaro: cronaca qui significherà narrazione di più storie, cioè presenza di racconti multipli a segmentazione lineare, secondo una struttura da tradizione narrativa orale o popolare, dove cioè si presuppone una sorta di contatto, di intesa fra l‟emittente (cantastorie, narratore orale per una collettività o narratore di racconti scritti di tradizione popolare) e i destinatari.”30

La Corti ha perfettamente intuito qual è la novità a livello narratologico di Pratolini. Il gioco continuo delle prolessi con cui anticipa le azioni dei personaggi, gli interrogativi che sottopone al lettore, amplificando la funzione fatica e , rendendolo spesso, attraverso un sistema di indizi, personaggio tra i personaggi, l‟idea di aver creato un nuovo senso della collettività che si traduce in un grande romanzo polifonico, rappresentano di fatto la ricerca di una comunicazione corale.

Come ha giustamente osservato Ruggero Jacobbi:

“ Pratolini (…) scrive un libro tutto memoria, tutto affidato al musicale Io, che è “Cronaca familiare” e uno tutto “terza persona” che è “Cronache di poveri amanti”. Nell‟uno avvicina Firenze a sé con un moto struggente, e nell‟altro la stacca da sé, con un‟operazione “epica”, usando il termine appunto nel senso drammaturgico che gli ha dato Brecht.”31

Torneremo in seguito sugli aspetti teatrali e cinematografici di questo romanzo; soffermiamoci adesso sulla genesi e i contenuti.

Tra il “Quartiere” (1944) e “Cronache di poveri amanti” (Firenze, Vallecchi, 1947, ma scritto nel 1946) c‟è di mezzo un anno, ma è un anno importante: il 1945.

Come nota Francesco Paolo Memmo:

30

M. CORTI, Il viaggio testuale, Einaudi, Torino 1978, pp. 58 - 59

31

(25)

“ Fu l‟anno, eccitato ed eccitante, delle speranze e delle illusioni (l‟illusione che qualcosa fosse realmente mutato nel tessuto politico – culturale della nazione). Non passò invano. “E‟ difficile dire “ – scrive Luzi “ se fosse più stimolante l‟aprirsi ai giovani di una realtà più multiforme e drammatica di quella chiusa e convenzionale fin allora percepita o il prendere coscienza che il popolo italiano andava facendo dei suoi vecchi endemici problemi. Quel che importa è che un vento si mise a circolare in Italia, nel quale si potevano sentire mescolati una premonizione di morte e un‟insorgenza di vita, il lutto e la speranza che contrassegnano i periodi originali della storia come i disastrosi assestamenti della natura”32

Sul terreno della letteratura, il neorealismo post bellico, come abbiamo già precedentemente notato, si differenzia dal realismo degli anni ‟30 non tanto per una questione di linguaggi diversi, quanto per una mutata consapevolezza di fronte ad una realtà che non è più quella che, ad esempio, raccontava Bernari nei “Tre operai” (1934), ma è diversa, continuamente mutevole, non più statica e opprimente come prima.

Per Pratolini il 1945 ha significato il momento in cui dall‟autobiografia si passa ad un abbozzo di storiografia.

L‟anello di congiunzione è dato dalla scoperta della “tipicità”.

In questo senso Pratolini non è scrittore neorealista ma realista tout – court:

“ realismo significa riconoscimento del fatto che la creazione non si fonda su un‟astratta “media” come crede il naturalismo, né su un principio individuale che dissolve se stesso e svanisce nel nulla, su un‟espressione esasperata di ciò che è unico e irripetibile. La categoria centrale, il criterio fondamentale della concezione letteraria realistica è il tipo, ossia quella particolare sintesi che, tanto nel campo dei caratteri che in quello delle situazioni, unisce organicamente il generico e l‟individuale. Il tipo diventa tipo non per il suo carattere medio e nemmeno soltanto per il suo carattere individuale, per quanto anche approfondito, bensì per il fatto che in esso confluiscono e si fondono tutti i momenti determinanti, umanamente e socialmente essenziali, di un periodo storico.”33

Vorrei soffermarmi un attimo su questa categoria del “tipico” che è uno dei tratti determinanti della elaborazione di Lukacs, volta appunto alla ricerca del “tipico” nell‟arte, visto che l‟influenza di Lukacs fu determinante per buona parte della critica letteraria italiana di questo periodo (marxista e non); cerchiamo allora di chiarire meglio cosa si voglia intendere con questo concetto.

32

FRANCESCO PAOLO MEMMO, Pratolini, Il Castoro, 1977, pp. 59 - 60

33

(26)

Sul piano della valutazione estetica dobbiamo tenere ancora una volta presente il principio del materialismo dialettico, che vede in ogni presa di coscienza del mondo esterno il rispecchiamento dialettico della realtà e una forma di conoscenza.

L‟arte in questa concezione viene dunque ad essere la rappresentazione fedele della realtà e viene inoltre esclusa ogni altra teoria, sostenente l‟indipendenza delle forme artistiche della realtà dove con realtà si deve intendere una connessione dialettica di essenza e fenomeno, entrambi prodotti dalla realtà oggettiva.

Data questa concezione dialettica che raccoglie in sé il “particolare” ed il “singolare” risulta evidente che tale aspetto lo si trova anche nelle forme dell‟arte. Il “tipo” è, appunto, una delle più importanti categorie di questa sintesi recuperata nella sua dialettica di universale e particolare, che già in Hegel aveva trovato applicazione come sintesi tra reale e ideale riproposta poi anche da Engels e concettualizzata appunto da Lukacs che ne ha fatto uno degli aspetti fondamentali del suo pensiero.

Secondo Lukacs, l‟arte vera si pone come ultimo obbiettivo la definizione della realtà nella sua totalità, cioè la vera arte deve essere in grado di andare oltre quelle

che sono le manifestazioni esteriori, scoprendo “ i momenti essenziali che sono dietro la

superficie”34 e deve saperli rappresentare attraverso un processo dialettico per cui

l‟essenza scopre il fenomeno e si rivela nel fenomeno.

Anche Engels affermava che realismo significa oltre che la fedeltà dei particolari, anche la riproduzione fedele di caratteri tipici in circostanze tipiche, però andando oltre tale definizione affermava anche che la tipicità non deve essere ritrovata in una astratta generalizzazione per cui ad es. il tipo non potrà mai essere identificato nel tipo astratto della tragedia greca, ma deve invece evidenziarsi nel fatto che in esso si riuniscono come in un “costui” vivente, caratteri particolari di quella unità dinamica in cui la vera letteratura rispecchia la vita e quindi tutte le contraddizioni di un‟epoca.

In questa rappresentazione del tipo trovano dunque espressione l‟individualità e la universalità sociale; la stessa evoluzione sociale riceve una sua espressione artistica e lo scrittore deve prestare attenzione anche che la sua rappresentazione di un‟epoca

34

(27)

di una certa situazione storica, attraverso l‟arte tipica non identifichi l‟essenza da lui trovata in maniera astratta, ma come essenza che trova la vera matrice generatrice nella vita dei fenomeni.

Il tipico è l‟essenziale, il nucleo più profondo di un‟epoca e quanto lo caratterizza nelle sue tendenze di sviluppo più profondo; in esso convergono dialetticamente tutti i tratti caratteristici di quell‟unità dinamica in cui la vera letteratura rispecchia le contraddizioni più importanti di un‟epoca.

Lukacs, ad esempio, propone quale modello di una rappresentazione tipica l‟arte di Balzac, quando “individua la totalità storica della sua epoca e ne rappresenta l‟essenza egli riesce a creare dei tipi, figure in cui si realizza l‟unità tra individualità e universalità sociale.”35

Questi personaggi sono per Lukacs “tipici” in quanto in questi “confluiscono e si manifestano tutti i momenti determinanti economicamente e socialmente di un‟epoca.”36

Soltanto in tale modo è possibile dare vita a situazioni tipiche caratterizzate dal fatto che in queste si riuniscono e si evidenziano tutte le contraddizioni sociali, morali, psicologiche di un‟epoca.

Una rappresentazione dell‟uomo totale è possibile soltanto qualora lo scrittore si orienti verso la ricerca dei tipi, perché nel momento stesso in cui si dà vita alla rappresentazione tipica i due momenti, quello individuale e quello universale, vengono a trovarsi in una sola identità.

Però perché lo scrittore riesca nella elaborazione del tipico occorre anche una sua presa di posizione e una visione del mondo tramite la quale possa prendere coscienza degli aspetti più contraddittori di una certa epoca.

“Le tendenze fondamentali sulle quali lo scrittore deve prendere posizione (…) sono le gravi questioni del progresso umano (…) senza una presa di posizione nei loro confronti non è possibile creare tipi autentici.”37

Dunque nel pensiero lukacciano, il tipo e il tipico sono le categorie centrali del realismo, e si identificano con l‟essenziale, il nucleo più profondo di un‟epoca storica, tutto quanto possa connotarla nei suoi momenti di sviluppo più

35

G. LUKACS, Il marxismo e la critica letteraria, Torino, Einaudi 1953, p. 51

36

G. LIKACS, Saggi sul realismo, Torino, Einaudi, 1970, p. 15

37

(28)

significativi. “ Solo se lo scrittore sa e intuisce esattamente e sicuramente cosa è essenziale e che cosa è secondario, egli sarà in grado anche sul piano letterario di dare espressione all‟essenziale e di configurare , a partire da un destino individuale, il destino tipico di una classe, di una generazione, di un‟epoca. Se lo scrittore abbandona questo criterio di misura va perduto con esso il mutuo rapporto vivente tra privato e sociale, tra individuale e tipico.” 38

Si badi bene però a non confondere il “tipo” con la “media” che ne rappresenta esattamente l‟opposto in quanto le contraddizioni di un‟epoca appaiono indebolite, quasi private delle loro caratteristiche peculiari, rappresentando la mediocrità e una astratta espressione e generalizzazione di ciò che avviene tutti i giorni. E‟ un fermarsi alla superficie delle cose più comuni e quotidiane.

Concludendo si può quindi affermare che per Lukacs il criterio fondamentale della concezione letteraria realistica è il tipo, ossia quella particolare sintesi che sia nel campo dei caratteri sia in quello delle situazioni, unisce organicamente il generico e l‟individuale: “ il tipo diventa tipo (…) per il fatto che in esso confluiscono e si fondono tutti i momenti (…) determinanti di un periodo storico.”

Ho volutamente inserito questa lunga digressione sul “tipico” perché sono fermamente convinta che la narrativa di Pratolini rispecchi fedelmente questa categoria; che cioè molti dei personaggi pratoliniani incarnino il “tipico” nell‟accezione che ne ha dato Lukacs.

Corrado, il maniscalco (Maciste) non è che l‟anticipazione, seppure con diverse varianti, di Metello, che pure è un romanzo scritto nel 1955, quindi a distanza di otto anni e ambientato in un contesto storico completamente diverso, la Firenze di fine „800. Ma Maciste anticipa, proprio per una sorta di paradosso retrospettivo gli elementi del tipico che si ritroveranno in Metello.

Metello rappresenta infatti la coscienza della crisi ed è l‟eroe atipico di una generazione che si stava lentamente connotando come “alternativa” alla classe egemone, ma era già portatore di elementi tipici di un‟epoca, come il lento e graduale passaggio da un vago sentimento di classe alla definitiva coscienza di classe.

38

(29)

Metello e Maciste rispecchiano oggettivamente una realtà inquieta e contraddittoria che andava evidenziandosi con definizioni sempre più nette nella loro Firenze, quasi “microcosmo – rispecchiamento” di una realtà sociale molto più vasta calata naturalmente in un processo storico e di sviluppo di una società storicamente determinata.

La scelta della tematica e l‟individuazione dell‟ambiente (la Firenze popolana della fine dell‟ „800 e dell‟inizio del „900 in Metello e la via del Corno negli anni del fascismo) tradisce fin dall‟inizio l‟intenzione di Pratolini. Metello è il “tipico” di

una classe in divenire, lo specchio di mille analoghe situazioni “ (…) verificabili in un

movimento operaio che essendo appunto alle origini risentiva della sua origine contadina e partigianesca e che portava con sé un bagaglio inesauribile di (…) improvvisazione, senso di solidarietà, capacità di comprensione umana.”39

Maciste, dal canto suo, è il tipico della coscienza di classe di un microcosmo di cui egli è l‟effettivo rispecchiamento, l‟eroe tragico in cui confluiscono i destini multipli degli altri personaggi.

Ecco quindi che questi due personaggi, seppur collocati diacronicamente in epoche diverse vengono a realizzare quello stilema caro a Lukacs in cui il “tipico” viene rappresentato come il nucleo più profondo di un‟epoca storica e di quanto lo caratterizza nelle sue tendenze di sviluppo più profonde in cui convergono dialetticamente tutti i tratti caratteristici di quella unità dinamica in cui la vera letteratura rispecchia le contraddizioni più tipiche di un‟epoca.

Ma entriamo adesso in medias res per analizzare più da vicino i nuclei tematici di “Cronache di poveri amanti”.

Le vicende di cui viene fatta la cronaca negli anni tra il 1925 e il 1926 riguardano gli abitanti di via del Corno, una popolosa via di Firenze dove vivono operai ed artigiani nel periodo in cui il fascismo inizia la sua ascesa. Sullo sfondo di questa via l‟autore ci racconta le vite di vari personaggi, la loro povertà, i loro amori e le loro paure che si intrecciano con la storia del fascismo e dell‟antifascismo vissuto dal basso, nell‟ottica del sottoproletariato.

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Giulio, un ammonito uscito da poco dal carcere, accetta di nascondere nel suo appartamento un sacco contenente una refurtiva, e , per il timore di essere scoperto, lo affida al carbonaio Nesi, ma, nonostante questo, viene di nuovo arrestato. Liliana, la moglie di Giulio, viene accolta nella casa della Signora, figura emblematica del romanzo, ex maitresse molto ricca che gode di particolari protezioni da parte della Federazione del Fascio. Il carbonaio Nesi, uomo squallido e violento, in sospetto di usuraio, mantiene in un suo appartamento Aurora, una ragazza di via del Corno, che ha sedotto e da cui ha avuto un figlio. Egli viene tradito da una soffiata, viene scoperta la refurtiva che teneva in bottega e, mentre viene portato in carcere, è colpito da un infarto e muore. Aurora, così, rimasta sola scappa con Otello, il figlio di Nesi, di cui era già diventata amante e fa credere a tutti che il figlio che attende è il loro.

Nel frattempo si sviluppano le storie d‟amore di Milena e Alfredo, Bianca e Mario, Bruno e Clara. Le loro storie d‟amore si intrecciano con la storia politica che in via del Corno vede come protagonista assoluto dell‟antifascismo, il maniscalco Corrado, soprannominato Maciste per la sua poderosa stazza; di idee simili a Maciste, ma meno convinti di lui, sono anche Alfredo e Ugo. Il fascismo è invece rappresentato dal ragioniere Carlino Bencini, una sorta di ras del quartiere e da Osvaldo che però appare più moderato. La prima parte del romanzo si conclude con il ritorno di Aurora ed Otello che, in breve, celebreranno il loro matrimonio. Liliana, rimasta sola, si è stabilita definitivamente nella casa della Signora che riversa su di lei le morbose attenzioni che precedentemente riservava a Gesuina (un‟orfana che alcuni anni prima aveva adottata). Gesuina, poi, conoscerà Ugo in circostanze drammatiche e ne diventerà l‟amante, affrancandosi così definitivamente dalla Signora.

Mario, fidanzato di Bianca, va ad abitare in via del Corno e qui conosce Milena, la moglie di Alfredo che ha subito un‟aggressione da parte dei fascisti ed è ricoverato al sanatorio, in fin di vita. Tra i due nasce un‟amicizia che col tempo si trasformerà in amore. Osvaldo, contrario ai metodi violenti della Federazione locale, scrive una lettera di denuncia alla sede centrale, ma, scoperto, subirà una dura punizione da parte di Carlino e dei suoi amici fascisti. Ugo, che da un po‟ di tempo ha

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