• Non ci sono risultati.

Il ruolo del Farmacista Ospedaliero in un programma di Antimicrobial Stewardship: Esperienza dell'Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Il ruolo del Farmacista Ospedaliero in un programma di Antimicrobial Stewardship: Esperienza dell'Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana"

Copied!
53
0
0

Testo completo

(1)

1

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

DIPARTIMENTO DI FARMACIA

Scuola di Specializzazione in Farmacia Ospedaliera

Tesi di Specializzazione

IL RUOLO DEL FARMACISTA OSPEDALIERO IN UN

PROGRAMMA DI ANTIMICROBIAL STEWARDSHIP:

ESPERIENZA DELL’AZIENDA OSPEDALIERO –

UNIVERSITARIA PISANA

I Relatore:

Prof.ssa Maria Cristina Breschi

II Relatore:

Dott.ssa Claudia Carmignani

Correlatore:

Dott. Carlo Tascini

Candidato:

Dott. Giacomo Bertolino

(2)

2

A chi c’era, a chi c’è e ci sarà.

Un sentito ringraziamento a tutta la mia famiglia e alla mia seconda famiglia acquisita: Claudia, Carlo, Antonietta, Laura, Elisa, Renato, Ilaria e a tutti i colleghi della UO Farmaceutica dell’AOUP; al Tascio team per l’ispirazione e serendipità: Emanuela, Francesco e Andrea. Alla Dott.ssa Dal Canto e al Prof. Menichetti per il supporto e la fiducia. Ai miei amici Caterina, Emiliano, Alessandro, Michele, Antonio, Vincenzo, Anna per la vicinanza

(3)

3

SOMMARIO

1) Introduzione

1.1) Consumo antibiotici 1.2) Resistenze batteriche 1.3) Sviluppo nuovi antibiotici

1.4) Rischio infettivo e Infezioni correlate all’assistenza (ICA) 1.5) Antimicrobial Stewardship

1.6) Il Farmacista Ospedaliero nell’Antimicrobial Stewardship 2) Materiali e metodi

3) Risultati 4) Discussione 5) Bibliografia 6) Tabelle e figure

(4)

4

1) Introduzione

1.1) – Consumi di farmaci antibiotici

La storia degli antibiotici dalle origini della loro scoperta ai giorni nostri si è evoluta passando a molecole più facilmente gestibili anche in caso di politerapie, per questo motivo e una serie di cause concomitanti che hanno anche a che fare con la cosiddetta “medicina difensiva” e una certa pigrizia diagnostica che può portare a considerare sempre vero l’assioma febbre=infezione (specialmente nel setting comunitario) i consumi di queste molecole sono andati via via crescendo negli anni.

E’ stato dimostrato in laboratorio (e citato addirittura nella conferenza per il premio Nobel dallo stesso scopritore della penicillina Alexander Fleming) che un’esposizione costante a una determinata molecola selezioni dei ceppi resistenti. E’ indubbio inoltre che un aumento dei consumi e degli indici di esposizione nella “real life” crei una pressione selettiva che selezioni ceppi resistenti ad alcune molecole [1].

L’Agenzia Europea per il controllo delle malattie infettive (ECDC), l’Agenzia Europea per la sicurezza alimentare (EFSA) e l’Agenzia Europea dei Medicinali (EMA) hanno per la prima volta esplorato congiuntamente le associazioni tra il consumo di antimicrobici negli esseri umani e negli animali da allevamento e la resistenza antimicrobica associata, utilizzando i dati 2011 e 2012 disponibili dai loro database di monitoraggio. L’Italia si colloca al secondo posto in Europa per consumo di antibiotici, sia in ambito umano che veterinario e l’incidenza di resistenze sta progressivamente aumentando. Sono stati analizzati dati combinati relativi al consumo antimicrobico e alla corrispondente resistenza negli animali e negli esseri umani, utilizzando modelli di regressione logistica per combinazioni selezionate di batteri e antimicrobici. Il confronto sui dati relativi ai consumi antimicrobici negli animali e negli esseri umani nel 2012, espresso in milligrammi per chilogrammo di biomassa stimata, ha rivelato che il consumo complessivo degli antimicrobici era più elevato negli animali che negli esseri umani, anche se si osservavano situazioni contrastanti tra i vari paesi, mentre il consumo di antimicrobici critici per la medicina umana (come i fluorochinoloni e le cefalosporine di terza generazione) era più elevato negli esseri umani. In entrambi i gruppi, sono state osservate associazioni positive tra il consumo di antimicrobici e la corrispondente resistenza nei batteri per la maggior parte delle combinazioni studiate. In alcuni casi, è stata trovata anche un'associazione positiva tra il consumo antimicrobico negli animali e la resistenza nei batteri provenienti

(5)

5 dagli esseri umani. Pur evidenziando dati che possono essere fonte di preoccupazione, questi risultati dovrebbero essere interpretati con cautela a causa delle limitazioni attuali dei dati stessi e della complessità del fenomeno della resistenza antimicrobica (AMR), influenzato da diversi fattori oltre ai consumi antimicrobici.

Nonostante la pratica del sottodosaggio di antibiotici per ottenere l’aumento di peso negli animali d’allevamento sia stata vietata dal Regolamento UE 1831/2003, sono certamente di utilità le campagne di sensibilizzazione sull’uso responsabile di antimicrobici sia negli esseri umani che negli animali promosse già da diversi anni sia dall’OMS che dalle agenzie regolatorie internazionali. [2].

Fondamentale in questo senso sono anche le raccomandazioni delle agenzie regolatorie, in merito all’utilizzo di alcuni specifici medicinali con potenziali effetti negativi sulle resistenze antibiotiche: un avviso dell’EMA nel 2016 esprimeva questo concetto andando a consigliare il ritiro dal commercio nei paesi membri dei farmaci veterinari contenenti l’antibiotico colistina (molecola di ultima linea usato generalmente in associazione con i carbapenemi per alcune infezioni gravi sostenute da Gram negativi resistenti) [3]. I consumi di questo farmaco nell’area UE sono quasi raddoppiati negli anni che vanno dal 2011 al 2015 nei paesi con alti livelli di resistenza ai carbapenemi. In ambito ospedaliero in Italia siamo passati da 0.011 a 0.027 (p=0.004) per quanto riguarda la colistina e da 0.039 a 0.056 DDD/1000 abitanti die (p=0.004) per quanto riguarda i carbapenemi. [4]

Riguardo ai trend 2011 – 2015 di consumo di molecole antibiotiche si è potuto costatare che in Italia sono leggermente diminuiti i consumi a livello territoriale (da 28.2 a 27.5 DDD/1000 abitanti die, p=ns) mentre i consumi a livello ospedaliero sono cresciuti in modo statisticamente significativo (da 2.32 a 2.43, p= <0.01) [figura 1-2]. [5]

L’uso potenzialmente inappropriato di antibiotici non è solo un problema ospedaliero, ma interessa anche e soprattutto la comunità; bisogna infatti considerare che il consumo territoriale di queste molecole è circa dieci volte maggiore che nosocomiale [figura 1-2]. [5]

(6)

6 Figura 1: Andamento dei consumi in comunità, 2011-2015, espressi in DDD\1000 abitanti die

L’educazione sanitaria, interventi per contrastare l’automedicazione e una politica vaccinale adeguata sono elementi fondamentali per limitare il fenomeno. Un altro fattore da tenere in considerazione infatti è la relativa mancanza di conoscenze nella popolazione riguardo all’antibioticoterapia e in Italia, sfortunatamente, come mostrato in una recente indagine a livello europeo, la conoscenza di questi temi sarebbe agli ultimi posti rispetto agli altri paesi [6].

(7)

7 Figura 2: Andamento dei consumi ospedalieri, 2011-2015, espressi in DDD\1000 abitanti die

Tornando al rapporto esposizione/selezione, sebbene l’utilizzo degli antimicrobici in patologia umana sia quantitativamente minore rispetto a quello in ambito agricolo e zootecnico, esso avviene tuttora con modalità troppo spesso scorrette sia nella medicina di comunità che in ospedale. Una recente indagine ha stimato che circa il 12% delle visite ambulatoriali negli USA esita nella prescrizione di antibiotici e che la stessa è incongrua per indicazione, scelta, durata o posologia in più di un terzo dei casi [7], d’altro canto uno studio di farmaco-epidemiologia condotto in sei grandi ospedali USA ha rilevato come il 60% dei pazienti al quarto giorno di degenza assuma un antibiotico, il 30% dei quali in assenza di segni o sintomi di infezione e poco più del 50% con un corretto work out microbiologico pre-prescrizione. Inoltre dopo 72-96 ore di trattamento quasi il 66% dei pazienti non è andato incontro ad alcuna variazione della terapia prescritta, fatto che testimonia come il dato microbiologico e la risposta clinica vengano spesso ignorati a favore di tempi di trattamento predefiniti e normalmente prolungati [8].

(8)

8

1.2) – Resistenze batteriche

Non era ancora trascorso un lustro dalla commercializzazione della penicillina, quando si ebbe il primo report relativo all’isolamento di un ceppo batterico resistente a tale antibiotico e da allora, scorrendo la storia dell’antibioticoterapia, risulta evidente come all’introduzione nei prontuari di una nuova classe di antimicrobici, segua invariabilmente, sia pure con tempistiche differenti, la comparsa di specie resistenti [9]. Ciò accade perché la capacità di sviluppare resistenza è un fenomeno naturale insito nella biologia dei microrganismi, frutto di una spietata selezione iniziata milioni di anni fa e perdurata incessantemente nel tempo. Non sono stati gli uomini ma i microrganismi stessi ad inventare gli antibiotici, usandoli come armi nella continua eco-competizione e selezionando oltre 20 milioni di anni orsono profili di resistenza via via più complessi allo scopo di proteggere al meglio la propria nicchia ecologica nella eterna guerra di affermazione tra specie.

Vi sono molteplici evidenze a sostegno di questa affermazione; ad esempio nel 2011 furono pubblicati gli esiti di uno studio condotto all’interno di una cava nel sistema di caverne del Carlsbad in New Mexico (USA), una formazione geologica ed un ecosistema rimasti isolati dalla superficie del mondo per 4 milioni di anni. Delle molteplici specie batteriche coltivate dal suolo della cava, ogni ceppo era dotato di determinanti genetici di resistenza nei confronti di antibiotici, sia estrattivi sia sintetici, tuttora usati in patologia umana, anche di recente sviluppo. Molti ceppi risultavano altresì multi-resistenti [10].

Sempre nel 2011, campioni biologici estratti dal permafrost dello Yucon rilevarono la presenza di batteri vecchi di 30.000 anni che presentavano mutazioni idonee a renderli resistenti alla penicillina ed erano capaci di produrre molteplici tipologie di beta-lattamasi, uno dei sistemi di resistenza più raffinati nei confronti degli antibiotici moderni [11].

Si può quindi affermare che dalla notte dei tempi, batteri, miceti, protozoi ed alghe siano stati indotti a produrre meccanismi capaci di indurre tolleranza, persistenza o resistenza, 1) eludendo i sistemi di riconoscimento attraverso modifiche del target biologico dei farmaci, 2) riducendo o bloccando l’affinità di legame tra antibiotico e microrganismo, 3) attivando meccanismi di inibizione o degradazione enzimatica dei farmaci, 4) inducendo pompe di efflusso per eliminarli rapidamente dal citosol ovvero alterando la permeabilità della cellula microbica, 5) attivando pathway metabolici alternativi a quelli bloccati dagli antimicrobici.

(9)

9 Tali meccanismi possono essere intrinseci perché correlati alla natura biologica della singola specie o acquisiti. La resistenza intrinseca, meglio definita come naturale, è correlata a condizioni strutturali geneticamente determinate ed insite nella specie. La resistenza acquisita invece sposa un vero e proprio meccanismo evolutivo di tipo darwiniano, secondo il quale in un ambiente ostile vengono selezionati gli organismi che hanno caratteristiche più adatte a sopravvivere, che poi aumentano di numero, in quanto si riproducono di più, e diventano dominanti. Fondamentalmente l’acquisizione di un profilo di resistenza può essere frutto di una mutazione spontanea all’interno del corredo cromosomico della specie o del ceppo, oppure può essere conseguenza dell’acquisizione di un gene estraneo. La frequenza di mutazioni spontanee nelle specie batteriche è quantitativamente limitata in condizioni standard, ma diviene molto più frequente quando intervengano fattori di stress ambientale. Si pensi ad esempio un singolo Staphylococcus aureus si può replicare 10 volte in 12 ore, producendo una progenie di oltre un milione di copie, è evidente quanto possa essere potenzialmente devastante, dal punto di vista ecologico, l’induzione di mutazioni spontanee [12].

L’acquisizione di geni estranei, capaci di sostenere fenotipi di resistenza, è basata sui cosiddetti “jumping genes”, elementi genetici mobili, capaci di passare da un batterio all’altro, anche di specie differenti. La struttura più efficiente è rappresentata dai plasmidi, elementi genetici extra-cromosomici e mobili, sono capaci di passare da un batterio all’altro, anche di specie differenti. Essi sono anche in grado di replicarsi indipendentemente dal DNA dell’ospite, all’interno dei quali possono accumularsi più strutture genetiche associate a resistenza, generando così ceppi microbici multi resistenti.

Come precedentemente riportato, la resistenza è un evento naturale, insito nella biologia delle popolazioni microbiche; tuttavia i comportamenti umani hanno giocato e giocano un ruolo rilevante nell’indurre, dereprimere o accelerare i meccanismi biologici che ne stanno alla base. In particolare, come detto precedentemente, l’esposizione prolungata ed incongrua dei microrganismi agli antimicrobici rappresenta un formidabile fattore di selezione di resistenze. Questo riguarda prima di tutto l’utilizzo estensivo di antimicrobici in zootecnica e agricoltura che rende conto di più del 70% del consumo totale di tali composti, utilizzati soprattutto nella catena alimentare del bestiame a scopo sia anabolizzante sia preventivo del rischio infettivo [13]. Ciò è particolarmente rilevante se si considera ad esempio che, negli USA, oltre il 60% degli antibiotici utilizzati in zootecnica sono prescritti anche in patologia umana [14].

(10)

10 Non appare casuale, ad esempio che la resistenza di Aspergillus fumigatus a voriconazolo, uno dei pattern più recentemente emersi e potenzialmente più inquietanti, sia stata identificata per la prima volta in Olanda; se si considera che il terreno è un reservoir naturale di Aspergillus spp, e che gli azoli sono impiegati intensamente in floricoltura, il nesso di causa-effetto tra esposizione e selezione è immediato [15]. Il riferimento al terreno non è casuale ed il ruolo dei reservoir è sempre più evidente per molteplici specie microbiche: i batteri crescono in natura utilizzando strutture nutritive e di protezione in grado di conferire loro un significativo vantaggio evolutivo. Ad esempio, la capacità di formare biofilm, una matrice glicoproteica in grado di fungere da riserva nutrizionale ed al contempo da rifugio strutturale, è uno strumento di sopravvivenza molto efficiente, che in patologia umana può diventare altresì un meccanismo di virulenza. All’interno del biofilm le popolazioni microbiche assumono una precisa connotazione funzionale e morfologica passando dallo stato planctonico, caratterizzato da rapida velocità riproduttiva, allo stato aggregato, o sessile, in cui le cellule sono strettamente vincolate e fermamente attaccate l’una all’altra e riducono sensibilmente esigenze metaboliche e velocità di riproduzione. Tale modifica del comportamento è attivata da un meccanismo di comunicazione chimica e conferisce una grande capacità di resistenza. Così se si confrontano la concentrazione minima inibente (MIC), che descrive la quantità di antimicrobico necessaria per inibire i microrganismi in fase planctonica, e la minima concentrazione di eradicazione del biofilm (MBEC), che descrive la concentrazione minima di un agente antimicrobico capace di inibire la crescita di un biofilm, si evidenziano delle differenze molto significative, con la seconda mediamente molto più elevata rispetto alla prima. Questo spiega perché un microrganismo protetto dal biofilm sia estremamente più resistente all’azione degli antimicrobici rispetto ad un individuo della stessa specie in fase planctonica [16]. Sfortunatamente gran parte delle conoscenze acquisite nel contesto dello studio della chemiosensibilità si riferiscono a modelli sperimentali strutturati su microrganismi in fase planctonica e forse non è azzardato affermare che la necessità di studiare i batteri e i miceti in fase sessile sia sfuggita per molto tempo al mondo della ricerca scientifica. Questo è un gap culturale che dovrà essere colmato nella ricerca di nuove opportunità terapeutiche e preventive, perché una popolazione in fase sessile ha un vantaggio enorme rispetto ad una in fase planconica, essendo la prima capace di resistere a concentrazioni di antimicrobici anche 1000 volte superiori di quelle battericide per la seconda. Riguardo alla condizione di parassitismo nell’uomo, va rimarcato come una quota rilevante di infezioni in patologia umana sia sostenuta da microrganismi in fase

(11)

11 sessile: esempi eclatanti ne sono le endocarditi infettive, l’intero capitolo delle infezioni correlate a device e tutte le infezioni localizzate in siti dove le popolazioni microbiche possono avere un accesso limitato a risorse nutritizie.

Quanto descritto rappresenta il substrato evolutivo che ha determinato una progressiva riduzione della performance della terapia antimicrobica, in larga misura sovrastata da pattern fenotipici di resistenza sempre più complessi.

Ad oggi i microrganismi che in rapporto ai pattern di resistenza, alle caratteristiche di fitness epidemiologica ed alla patogenicità si propongono come una reale emergenza sono racchiusi nell’acronimo “ESKAPE”, coniato dalla Società Americana di Malattie Infettive (IDSA) già nel 2008. Tutti questi microrganismi, benchè appartenenti a specie diverse, sono accumunati dalla capacità di sfuggire (escaping) in modo molto efficiente all’azione di più antimicrobici attraverso molteplici meccanismi di resistenza, mantenendo però eccellenti fitness epidemiologiche e cliniche. L’acronimo è frutto delle iniziale di Enterococcus spp, Staphylococcus aureus, Klebsiella pneumoniae, Acinetobacter baumannii, Pseudomonas aeruginosa, Enterobacter spp [17].

Nonostante la resistenza batterica sia in parte un fenomeno naturale sicuramente l’aumento generalizzato dei consumi negli anni in alcuni paesi Europei ha avuto come conseguenza un incremento significativo di isolamenti di ceppi resistenti o multi-resistenti. Nel complesso la resistenza microbica è diventata un problema rilevante di sanità pubblica che ha avuto riflessi molto negativi sugli esiti dei pazienti coinvolti. In ambito ospedaliero, dove la pressione antibiotica raggiunge il più alto livello nei singoli pazienti, il tasso di resistenze microbiche infatti è particolarmente preoccupante e compromette in modo determinante l’efficacia di molteplici classi di antibiotici.

Il nostro paese, come conseguenza dei suoi alti consumi di antibiotici, è tra i paesi europei con i più alti tassi di resistenza microbica ed i batteri multiresistenti (MDR) si diffondono rapidamente provocando cluster epidemici anche a causa di una insufficiente pratica dell’infection control. Ad oggi uno dei profili di resistenza maggiormente preoccupanti nell’ambito dei batteri gram negativi è rappresentato dalla produzione di beta-lattamasi, struttura cardine della penicillina e di tutti i suoi derivati, comprese cefalosporine, monobattamici e carbapenemi. Se negli anni Ottanta e Novanta la complessità terapeutica relativa ai ceppi produttori di beta-lattamasi era correlata alla produzione di Beta-Lattamsi a Spettro Esteso (ESBL), pattern

(12)

12 enzimatico capace di inibire l’azione terapeutica di un vasto range di antibiotici beta-lattamici, l’inizio del nuovo millennio è dominato dal problema delle carbapenemasi, enzimi la cui produzione è codificata da geni usualmente trasmessi da plasmidi, capaci di inibire l’attività di molecole per lungo tempo considerate “last resources” quali i carbapenemi. I ceppi produttori di carbapenemasi sono variamente resistenti a tutti i beta-lattamici ed in più sono spesso portatori di altri fattori di resistenza mediati da geni trasmessi da plasmidi, limitando così le potenzialità terapeutiche a poche classi di molecole, quali polimixine, tetracicline, glicilcicline, aminoglicosidi [18]. Il mondo delle carbapenemasi è assai variegato: nell’ambito delle quattro classi di beta-lattamasi definite dalla classificazione di Ambler, oggi universalmente riconosciuta come il riferimento, le carbapenemasi sono posizionate in tre di esse: nella classe A, K. pneumoniae carbapenemasi (KPC), nella classe B le metallo beta-lattamasi che includono le New Dehli beta-lattamasi (NDM) e le Verona integron encoder metallo beta-lattamsi (VIM), in classe D le oxacillinase-48-like beta-lattamsi (OXA-48) [19].

I pattern fenotipici di resistenza variano a seconda della carbapenemasi codificata: le KPC conferiscono resistenza a tutti i beta-lattamici ed inibitori della beta-lattamasi con esclusione di avibactam, ne NDM mantengono una residua sensibilità ad aztreonam, le OXA-48 determinano idrolisi di carbapenemi ma non di cefalosporine, per cui possono sfuggire ad un antibiogramma routinario. Sfortunatamente questi enzimi si combinano spesso con altre beta-lattamsi, in primis ESBL o con altri meccanismi di resistenza variabili ma mediamente molto elevati.

Certamente le Enterobacteriaceae rappresentano la famiglia in cui tali meccanismi di resistenza sono maggiormente espressi, ma come prima detto, i plasmidi possono essere trasmessi a specie diverse appartenenti a famiglie differenti, amplificando pertanto le dimensioni epidemiologiche del fenomeno. Questo vale soprattutto per i batteri gram negativi non fermentanti: Acinetobacter baumannii ad esempio è frequentemente resistente ai carbapenemi sia in rapporto a meccanismi codificati nel proprio DNA sia per produzione di carbapenemasi mediate da plasmidi [20]. Discorso analogo vale per Pseudomonas aeruginosa, specie microbica in grado di attivare contemporaneamente molteplici meccanismi di resistenza, ma molto coinvolta nella produzione di metallo beta-lattamasi, in particolare NDM e VIM. La multi-resistenza è purtroppo un fenomeno molto diffuso all’interno della specie Pseudomonas e rende ragione di un out come particolarmente sfavorevole; in un recente studio multicentrico inerente 740 polmoniti nosocomiali da P.

(13)

13 aeruginosa, le forme sostenute da ceppi MDR si associavano a mortalità intra-ospedaliera significativamente superiore rispetto a quelle in cui erao in causa ceppi non MDR (44.7% vs 31.7% - p<0.001) [21].

L’impatto epidemiologico e clinico delle resistenze mediate da beta-lattamasi si sta facendo via via più rilevante, nonostante permangano ampie variabilità tra aree geografiche, nazioni o regioni della stessa nazione. Un recente studio relativo ai batteri gram negativi isolati in 39 paesi del mondo da pazienti con appendicite “community acquired”, ha rilevato una prevalenza globale di Enterobacteriaceae ESBL pari al 16.3%, con le percentuali maggiori in Asia (28% degli isolati, con punte ben oltre il 50% in Cina ed India) e le minori in Europa (4.4% degli isolati) [22].

In realtà valutando I dati aggregati estratti dai sistemi di sorveglianza europei, comprendenti isolati da infezioni community ed hospital acquired, le percentuali di ESBL sono assai più elevate, con nazioni, tra cui l’Italia, attestate su prevalenze di ceppi di E.coli resistenti a cefalosporine di III generazione superiori al 30% di tutti gli isolati e prevalenza di ceppi con resistenza estesa a cefalosporine, chinoloni ed amino glicosidi pari al 14%. Analogamente, all’interno della specie Klebsiella pneumoniae la percentuale media di ceppi resistenti a cefalosporine, chinoloni ed amino glicosidi è pari al 18%, con un valore vicino al 30% in Italia [23]. Con riferimento ai microrganismi produttori di carbapenemasi (CRE), la prevalenza media in Europa di K.pneumoniae CRE non supera il valore dell’8%, ma con notevoli diversità tra paesi: essi rimangono sporadici nell’Europa settentrionale, ma interessano in modo significativo più paesi dell’area del Mediterraneo, in particolare Grecia (oltre il 50%), Romania, Italia (tra il 25 e il 50%) con un preoccupante trend in aumento in Spagna e Portogallo [23].

Una recente revisione dei dati epidemiologici relativi a K.pneumoniae produttrice di carbapenemasi nei Paesi del Mediterraneo ha dimostrato come i ceppi KPC produttori abbiano raggiunto una condizione di endemia (stadio 6 CDC) in Italia [figura 3-4] e Grecia e di diffusione interregionale (stadio 5) in Israele, i ceppi produttori di metallo beta-lattamasi siano presenti in stadio epidemiologico 5 in Francia, Italia e Libano, mentre i ceppi OXA-48 siano già in condizione endemica a Malta ed in Turchia, con diffusione interregionale in Francia, Spagna, Marocco e Libia, rimanendo invece ancora relativamente sporadici (stadio 3) in Italia [24]. Tali dati confermano come vi sia una costante evoluzione epidemiologica, con estrema variabilità di penetrazione nei diversi paesi, ma con un evidente trend in incremento, particolarmente

(14)

14 preoccupante perché la carenza di risorse terapeutiche condiziona tassi di mortalità mediamente molto elevati, mai inferiori al 30% dei casi [25].

Purtroppo il fenomeno delle carbapenemasi è caratterizzato non solo da un aumento del numero di isolati e di casi clinici correlati, ma altresì da un costante “aggiornamento” dei profili di resistenza: nel volgere dei primi 5 anni di epidemia da KPC K. pneumoniae in Italia, si è evidenziata una progressiva deriva delle MIC per carbapenemi, che sono progressivamente salite da valori di “resistenza permissiva” (superabile con aumento delle dosi e modalità di somministrazione in linea con le caratteristiche farmacocinetiche della classe) a livelli tali da rendere del tutto inefficace tale categoria di farmaci in un elevato numero di casi, anche quando somministrati in alte dosi [26].

Ma il fenomeno decisamente più preoccupante è la comparsa di ceppi resistenti a colistina, capostipite della famiglia delle polimixine, uno degli ultimi baluardi terapeutici residui. La capacità di resistenza a colistina da parte di svariate popolazioni di batteri gram negativi è nota da tempo, manifestandosi in maniera sporadica specie in A. baumannii e P. aeruginosa, ed è mediata da meccanismi differenti, quali modificazioni del bersaglio, ridotto accesso al bersaglio stesso per modificazioni strutturali della capsula o produzione di colinesterasi. Del tutto recentemente essa ha iniziato a manifestarsi con frequenza crescente anche tra le Enterobacteriaceae, in particolare in K. pneumoniae KPC produttori, sostenuta da meccanismi governati da mutazioni cromosomiche [27]. Un recente studio multicentrico italiano relativo ad oltre 400 casi di batteriemia da KPC K. pneumoniae ha dimostrato come la colistino-resistenza sia una variabile fortemente associata ad un esito sfavorevole: nell’ambito di infezioni già gravate da tassi di mortalità globali di poco inferiori al 40%, la resistenza a colistina si associava infatti a mortalità superiore al 50%, veramente ai limiti della trattabilità [28].

In tale panorama nel 2015 un gruppo di ricercatori cinesi ha identificato un gene trasmesso da un plasmide, in grado di conferire resistenza a colistina. Questo gene, denominato mcr-1, è stato identificato sia in ambito animale che umano e rappresenta il primo meccanismo di resistenza alle polimixine mediato da plasmidi [29].

Considerata la nota efficienza dei plasmidi nel trasmettere geni di resistenza, sebbene il gene mcr-1 non condizioni un livello elevato di resistenza, l’allarme epidemiologico suscitato da tale scoperta è stato elevato, in rapporto al reale rischio di una rapida diffusione inter-specie. Di fatto, ad oggi il gene mcr-1 è stato

(15)

15 identificato in ceppi di Enterobacteriaceae in molte parti del mondo, sia da isolati clinici che ambientali, spesso associato ad altri meccanismi di resistenza quali quelli appena descritti, con il risultato netto della potenziale selezione di specie pan-resistenti rispetto a tutto l’armamentario farmacologico disponibile, rimarcando ancora una volta quanto il rischio di un era post-antibiotica sia reale.

Nel nostro paese,tra i microrganismi con profilo di molteplice resistenza, prevalgono gli enterobatteri produttori di β-lattamasi a spettro esteso (ESBL) e quelli produttori di carbapenemasi (33.5% di isolati da emocoltura resistenti ai carbapenemi nel 2015 in Italia) [30], ma sono anche da ricordare i non fermentanti (P. aeruginosa, A. baumannii), S. aureus resistente alla meticillina (MRSA) ed enterococchi resistenti alla vancomicina (VRE). Il tasso di infezioni da C. difficile rappresenta infine un efficace indicatore delle buone pratiche di infection control oggi adottato da molti ospedali europei.

(16)

16 Figura 4: La presenza di Enterobacteriaceae produttrici di carbapenemasi (CPE) in 38 paesi europei, anno 2015

I dati attuali non sono positivi, vedono infatti prevalentemente i paesi del mediterraneo alle prese con alti tassi di resistenze che causano alte mortalità nei pazienti e prolungamento delle ospedalizzazioni. Si stima che le infezioni causate da microrganismi resistenti agli antibiotici, se non dovesse cambiare la tendenza in atto, potranno provocare sino a 10 milioni di decessi annui a livello globale entro il 2050 [31].

1.3) Ricerca e sviluppo

A questo quadro di per sé abbastanza preoccupante si aggiunge il problema della scarsità di ricerca e sviluppo degli anni passati, ormai infatti da più di un ventennio non vengono scoperte molecole antibiotiche con nuovi meccanismi d’azione, qualcuna che va ad aggiungersi alle classi già esistenti è però apparsa, migliorandone lo spettro d’azione. Si tratta al momento di molecole anti gram positivi come dalbavancina, ceftarolina e ceftobiprolo e altre anti gram negativi come ceftolozano/tazobactam e ceftazidime/avibactam. Nel nostro paese al momento sono probabilmente i gram negativi MDR a rappresentare la sfida terapeutica più seria.

Ceftolozano/tazobactam è una cefalosporina di V generazione strutturalmente simile a ceftazidime, ma con maggiore attività anti Pseudomonas aeruginosa grazie al fatto che una modificazione ad una catena laterale conferisce maggiore resistenza alle pompe di efflusso ed ai meccanismi di idrolisi enzimatica. Tazobactam

(17)

17 permette un recupero di attività di ceftolozano in presenza di un gran numero di beta lattamasi di classe A e di alcune di classe C, proponendolo come un composto di maggiore potenza rispetto alle combinazioni tra altri beta lattamici ed inibitori delle beta-lattamasi già disponibili da tempo. In una valutazione in vitro su oltre 2000 isolati di P. aeruginosa raccolti in 31 paesi europei, con elevate percentuali di ceppi MDR o estesamente resistenti (XDR) ceftolozano/tazobactam si è dimostrato il composto di maggiore potenza, inibendo l’85% degli isolati ad una MIC <4 mg/L. Nello stesso studio, rispetto ad oltre 8000 Enterobacteriaceae, risultava uno dei composti più attivi verso i ceppi produttori di ESBL insieme a meropenem e tigeciclina. Su ceppi di P. aeruginosa isolati da pazienti con infezioni intra-addominali ceftolozano/tazobactam è risultato il beta-lattamico più attivo, con batteriocidia 4 volte superiore a ceftazidime, 16 volte superiore a piperacillina/tazobactam e 2 volte superiore a meropenem [32].

Sulla base di tali presupposti sono stati portati a termine i trial registrativi su infezioni complicate delle vie urinarie (IVU), dove il farmaco si è confrontato con levofloxacina e sulle infezioni intra-addominali complicate (IAI) dove si è confrontato in associazione a metronidazolo con meropenem. Negli studi sulle IVU è risultato superiore a levofloxacina, in quelli sulle IAI non inferiore a meropenem, mentre sulla base della spiccata attività anti- Pseudomonas è stato portato a termine uno studio randomizzato verso carbapenemi anche nelle polmoniti nosocomiali, i cui risultati non sono ancora noti [33, 34].

Altri farmaci diretti contro i Gram negativi MDR come Klebsiella pneumoniae KPC sono molto attesi come ceftazidime/avibactam. Questo farmaco è già stato autorizzato dall’EMA ed è di prossima commercializzazione in Italia. Esso è frutto di una combinazione tra ceftazidime, cefalosporina di III generazione molto soggetta ad idrolisi da parte delle beta-lattamasi, con avibactam, un nuovo inibitore non beta lattamico delle beta-lattamasi. Avibactam non ha alcuna attività antibatterica ma è in grado di inibire un ampio spettro di beta-lattamasi di classe A e C ed alcune di classe D, permettendo un significativo recupero di performance da parte di ceftazidime.

Ceftazidime/avibactam si è dimostrato attivo verso Enterobacteriaceae ESBL produttrici, con performance in vitro similie a quella del meropenem in una valutazione di oltre 15.000 ceppi [35].

La peculiarità di questa combinazione è rappresentata dalla capacità di avibactam di inibire le serine carbapenemasi: su un campione di 177 batteri produttori di carbapenemasi ha dimostrato attività in vitro

(18)

18 superiori a tigeciclina, fosfomicina e colistina: il 93% di sensibilità verso rispettivamente 79%, 88% e 78% [36]. Il farmaco non è invece attivo nei confronti delle metallo beta-lattamasi.

Riguardo a P.aeruginosa, in uno studio ha dimostrato efficacia contro circa l’80% dei ceppi MDR e il 70% degli XDR. In un secondo studio su isolati da IAI ottenuti da 52 centri statunitensi è risultato il beta lattamico più attivo in vitro, con 86% di attività nei confronti di ceppi meropenem resistenti [37].

Ceftazidime/avibactam è stato sviluppato, analogamente a ceftolozane/tazobactam, nel setting delle IVU complicate, dove è stato confrontato a doripenem e delle IAI complicate, dove, in associazione a metronidazolo, è stato comparato a meropenem, con dimostrazione di non inferiorità in entrambi i casi [38, 39].

E’ stato inoltre oggetto di un trial prospettico coinvolgente 333 pazienti con IVU o IAI sostenute da ceppi di Enterobacteriaceae o Pseudomonas aeruginosa resistenti a ceftazidime, randomizzati a ricevere ceftazidime/avibactam o la migliore alternativa possibile, con percentuali di successo sovrapponibili nei due bracci [40]. Esso è sicuramente uno studio di interesse, ma non cambia la necessità di valutarne prospetticamente l’attività nei confronti dei ceppi produttori di KPC carbapenemasi. Comunque è stato autorizzato anche per le infezioni causate da microrganimsi resistenti ai carbapenemici nonostante non sia stato effettuato lo studio specifico.

Numerose altre molecole sono in fase di sviluppo, al fine di (ri)costruire un’offerta terapeutica su più livelli in grado di consentire un approccio terapeutico efficace ai gram negativi MDR.

Sono al momento in sviluppo tre combinazioni di betalattamici/inibitore di beta-lattamasi, ossia aztreonam-avibactam (che dovrebbe rappresentare il farmaco ideale per i ceppi produttori di metallo beta-lattamasi), imipenem-relebactam, inibitore simile ad avibactam e meropenem-vaborbactam, derivato dell’acido boronico, potente inibitore delle serine beta-lattamasi di classe A e C.

Altri farmaci in fase avanzata di studio sono plazomicina, aminoglicoside derivato della sisomicina, che sarebbe intrinsecamente resistente all’azione delle carbapenemasi di qualsiasi classe, ed eravaciclina, fluorociclina sintetica, con struttura simile a tigeciclina ma dotata di maggiore batteriocidia [41].

Vi sono dunque alcuni progressi significativi, ma certamente ancora molte domande sono senza risposta, sia per i farmaci in sviluppo, di cui si dovranno testare il comportamento farmacocinetico/farmacodinamico e la tossicità al fine di definire i corretti dosaggi, sia per le molecole già registrate, rispetto alle quali non c’è

(19)

19 ancora piena chiarezza sulla migliore posologia giornaliera, sulla necessità o meno di usarle in regimi di combinazione e, in caso di risposta positiva, con quali farmaci. Essendo molecole molto preziose dovranno essere introdotte nell’uso corrente con grande attenzione e senso di responsabilità.

Ritornando alla situazione attuale, con un contesto particolarmente difficile sotto l’aspetto delle resistenze, l’aspetto dell’ infection control risulterebbe determinante. In Italia purtroppo l’uso di prodotti alcoolici per la disinfezione delle mani, pari a 10L/1000 giorni paziente, è tra i più bassi a livello Europeo e la percentuale di camere singole negli ospedali italiani oscilla tra il 5% e il 10%, contro il 30% in Francia, inoltre le infezioni correlate al catetere incidono per l’8%-12% sul totale delle infezioni ospedaliere, rispetto al 4% in Germania [42].

L’ECDC si è mosso in questo senso pubblicando ad Aprile 2017 il nuovo documento: “Economic evaluations of interventions to prevent healthcare-associated infections – literature review”, che mira a supportare i decisori che si occupano di controllo e prevenzione delle infezioni correlate all’assistenza (ICA), identificando e riassumendo le principali valutazioni economiche e di costo-efficacia già esistenti sul tema su strategie di prevenzione quali igiene delle mani, equipaggiamento, screening, isolamento e disinfezione. Un’altra pubblicazione dell’OMS è caduta tempestivamente a ridosso dell’appuntamento annuale dedicato all’igiene delle mani: il World Hand Hygiene Day, che si celebra in tutto il mondo il 5 maggio. Con lo slogan “Fight antibiotic resistance… it’s in your hands” (Combattere l’antibiotico resistenza… è nelle tue mani) l’Organizzazione mondiale della sanità punta a focalizzare l’attenzione degli operatori sanitari sull’importanza del lavaggio corretto delle mani per prevenire le infezioni correlate all’assistenza e, conseguentemente, per prevenire fenomeni di resistenza agli antibiotici [43].

1.4) Rischio infettivo e Infezioni correlate all’assistenza (ICA)

Grazie ai progressi delle tecniche chirurgiche, allo sviluppo della trapiantologia, all’uso esteso dei medical devices e all’introduzione di molecole innovative, la medicina moderna ha allontanato il concetto di incurabilità e si è dimostrata realmente capace di aumentare la sopravvivenza della popolazione, ma il prezzo pagato in termini di aumento del rischio infettivo da batteri multi-resistenti è elevato.

Alcune moderne tecniche chirurgiche e l’utilizzo dei medical devices possono essere frequentemente causa di infezione. Basti pensare, a titolo esemplificativo, all’uso dei PICC (cateteri centrali ad inserzione

(20)

20 periferia), che spesso viene fatto per accelerare la dimissione dei pazienti (uno dei parametri su cui si valuta la qualità di un sistema sanitario), poi tenuti a domicilio, talvolta senza l’adeguata supervisione [44].

Le stime statunitensi pubblicate nel 2013 parlano di 2,000,000 di casi e 23,000 decessi per anno, per un peso economico intorno ai 50 miliardi di dollari per costi diretti ed indiretti [45].

Allargando l’orizzonte, la stima arriva a 700,000 decessi per anno correlati a tali infezioni da superbugs nel 2050, con incidenze massimali nei paesi a ridotto livello socio-sanitario [46]. Un’analisi del CDC statunitense ha stimato per il triennio 2008-11 un numero di casi annuali sostenuti dalla “gang” degli ESKAPE pari a 130.000 con oltre 15.000 decessi correlati [47].

Purtroppo si tratta di considerazioni al ribasso, sia perché tra il 2011 e il 2017 alcune specie microbiche dotate di resistenza complessa hanno espanso il proprio impatto epidemiologico, sia perché sono comparsi e si sono affermati fenotipi di resistenza ancor più difficili da gestire, sia perché l’acronimo ESKAPE non comprende altre specie microbiche epidemiologicamente e clinicamente rilevanti, quali Clostridium difficile, Streptococcus pneumoniae, Neisseria gonorrhoeae e Candida spp.

Le infezioni correlate all‘assistenza (ICA) sono acquisite in ospedale o in altri ambiti assistenziali (strutture di lungodegenza, ambulatori, centri di dialisi, day-surgery, domicilio) e collegate all‘episodio assistenziale, ovvero non clinicamente manifeste o in incubazione al momento dell‘inizio dell‘attività assistenziale in questione. Talvolta insorgono dopo la dimissione dall‘ospedale (infezioni della ferita chirurgica, infezioni da impianto di materiale protesico). Le vie urinarie, le ferite chirurgiche, l’apparato respiratorio ed il torrente circolatorio rappresentano le sedi più frequenti delle ICA (circa l’80%). I microrganismi coinvolti variano in funzione dell’epidemiologia locale, del setting assistenziale, delle procedure e della tipologia dei pazienti e variano nel tempo. Negli ultimi anni sono emersi i batteri gram-negativi (Klebsiella pneumoniae, Pseudomonas aeruginosa, Acinetobacter baumannii), spesso con un profilo di multiresistenza agli antibiotici, ma mantengono un ruolo rilevante lo Staphylococcus aureus, gli Stafilococchi coagulasi negativi (CNS) e, in minor misura, gli Enterococchi. Di particolare rilievo, il ruolo crescente dei miceti lievitiformi tipo Candida spp.

Le infezioni ospedaliere fanno parte delle infezioni correlate all’assistenza e nel loro complesso costituiscono uno dei più rilevanti eventi avversi che si possono verificare durante l’erogazione di assistenza sanitaria in ospedale. E’ stato stimato che vi sia una continua crescita della loro numerosità in anni recenti e che la

(21)

21 mortalità correlata e i costi associati siano rilevanti. Secondo i dati pubblicati nel 2017 dall’ECDC, ogni anno, nell’Unione europea, si stima che circa 3,2 milioni di pazienti si ammalino per infezioni contratte durante la permanenza in strutture ospedaliere. Di questi, circa 37 mila muoiono a causa di conseguenze correlate a tali infezioni. [48].

Un recente studio pubblicato da Plos Medicine stima che l’impatto di sei infezioni correlate all’assistenza (polmonite, infezioni del tratto urinario, infezioni del sito chirurgico, infezioni da Clostridium difficile, sepsi neonatale e infezioni del sangue) sia superiore a quello di malattie come l'influenza, le infezioni da HIV/AIDS e la tubercolosi insieme. Nell’Unione europea, infatti, ogni anno si verificano più di 2,5 milioni di casi di infezioni nosocomiali, che si traducono in circa 2,5 milioni di anni di vita persi a causa della disabilità (DALY, Disability Adjusted Life Year). Gli autori sostengono inoltre che sia fondamentale migliorare la sicurezza negli ospedali, incrementando gli sforzi per la prevenzione e il controllo di queste infezioni [49].

La trasmissione di infezioni ospedaliere può essere influenzata da numerosi fattori, quali: fattori di rischio individuali, fattori organizzativi e fattori istituzionali [50].

In particolare, tra i fattori di rischio individuali, vanno ricordati: la presenza di dispositivi medici, l’esposizione ad antibiotici, l’intensità e la frequenza di contatto con altri pazienti e con l’ambiente, la mancanza di un’adeguata implementazione di misure igieniche.

Le infezioni ospedaliere di più frequente riscontro sono: batteriemie (associate o meno alla presenza di cateteri vascolari), infezioni delle vie urinarie, polmoniti e infezioni del sito chirurgico. I batteri responsabili di tali infezioni possono provenire per traslocazione da un sito all’altro di uno stesso paziente (endogene) oppure dall’ambiente circostante (esogene).

1.5) Antimicrobial Stewardship

La corretta gestione delle infezioni ospedaliere dovrebbe prevedere un approccio metodologico volto a garantirne la prevenzione ed il controllo in termini di numerosità e di appropriatezza gestionale. Essa si fonda sull’utilizzo di protocolli condivisi che prevedano l’adozione di percorsi idonei a limitarne la diffusione e a consentirne un adeguato trattamento.

(22)

22 E’ ampiamente dimostrato che un utilizzo inadeguato degli antibiotici, in rapporto a vari aspetti, quali spettro d’azione, modalità di somministrazione e tempi di trattamento, si associ frequentemente alla comparsa di resistenze batteriche.

Da questo punto di vista, l’inappropriatezza della prescrizione antibiotica può essere ascritta ad una serie di fattori, fra i quali possono essere rilevanti, a titolo esemplificativo: la scarsa capacità di scegliere correttamente l’antibiotico più adeguato in rapporto alla specifica epidemiologia locale dei patogeni prevalenti e dei loro pattern di resistenza; l’insorgenza di reazioni avverse in rapporto all’elevato numero di comorbosità e alla loro complessità; l’insorgenza di reazioni avverse in rapporto alla politerapia e alle interazioni tra farmaci; l’inadeguatezza dello schema posologico in rapporto alle caratteristiche fisiopatologiche dei pazienti, che possono alterare in modo significativo la farmacocinetica degli antibiotici. Il quadro attuale impone, per i motivi che vedremo successivamente, la necessità d’implementare quanto prima progetti per ottimizzare la corretta gestione dell’antibioticoterapia.

L’Antimicrobial Stewardship (AS) è una pratica che è stata recentemente definita in una dichiarazione di consenso tra l’Infectious Diseases Society of America (IDSA), la Society for Healthcare Epidemiology of America (SHEA) e la Pediatric Infectious Diseases Society (PIDS) come un approccio multiforme che, mediante una serie di interventi multidisciplinari, si propone di garantire i principi per il buon uso degli antibiotici (in termini di scelta ottimale, corretto schema posologico e via di somministrazione, durata della terapia).

Secondo le linee guida dell’IDSA, i vantaggi della AS includono: il miglioramento dell’outcome del paziente, la riduzione di eventi avversi quali l'infezione da Clostridium difficile (CDI), il contenimento della resistenza antimicrobica, l’ottimizzazione dell'utilizzo delle risorse. IDSA e SHEA sono convinti che i programmi di AS siano meglio condotti da medici specializzati in malattie infettive che hanno una formazione aggiuntiva ottimale. Il NICE (National Institute for Health and Care Excellence) ha pubblicato di recente una guida sulla gestione degli antimicrobici al fine di modificare le pratiche prescrittive e di limitare la resistenza antimicrobica, contribuendo così a preservare l’efficacia di tali terapie.

In questo preoccupante contesto caratterizzato dall’uso elevato e spesso inappropriato di antibiotici e da inadeguate pratiche di infection control, si inserisce la scarsa disponibilità di nuovi farmaci antinfettivi. Lo sviluppo di questi farmaci, per l’industria farmaceutica, è lungo e ad alto costo, considerate anche le

(23)

23 complessità regolatorie per la registrazione, mentre la resa economica è inferiore ad altre classi di farmaci più redditizie, come ad esempio gli anticorpi monoclonali.

Ecco quindi che l’adozione di Programmi di Stewardship Antimicrobica (ASP), che mirano ad un uso appropriato degli antibiotici, appare oggi uno strumento indispensabilo per ridurre la pressione selettiva che genera la diffusione delle resistenze.

Gli obiettivi primari degli ASP sono: migliorare l’outcome clinico del paziente infetto attraverso l’uso appropriato degli antibiotici, ridurre gli eventi avversi correlati all’uso improprio degli antibiotici, limitare la pressione selettiva che determina la comparsa di resistenza, e di conseguenza, auspicabilmente, di contenere i costi.

Questi programmi sono strumenti essenziali per la salute pubblica fortemente raccomandati dalle autorità Europee [51].

Diverse società scientifiche e l’OMS hanno già elaborato linee-guida che promuovono interventi di ASP, attraverso una strategia multimodale che prevede la restrizione d’uso di alcuni antibiotici e, contestualmente, la promozione di interventi formativi sugli operatori sanitari, audit e feed-back sulle prescrizioni, adozione di raccomandazioni locali per l’antibiotico-profilassi e l’antibiotico-terapia [52].

Le tipologie di approccio metodologico degli ASP possono essere genericamente distinte in due gruppi: l’approccio “front-end” o restrittivo, con una serie di vincoli posti a limitare la prescrizione di alcuni antimicrobici prima della dispensazione da parte della farmacia al reparto ospedaliero e l’approccio “back-end” o persuasivo, dove il blocco è posto più a valle, ovvero al momento della valutazione da parte del consulente infettivologo entro le 48 ore dopo che la terapia è stata impostata dal reparto che ospita il paziente.

I due approcci metodologici, restrittivo e persuasivo, non sono né antinomici né mutualmente esclusivi, ma debbono invece essere integrati quale frutto di un processo di condivisione e confronto equo tra specialisti della terapia antimicrobica e medici prescrittori.

I requisiti minimi di un Programma di ASP aggiornato con le ultime raccomandazioni del NICE prevedono: 1) Team multidisciplinare costituito da uno specialista infettivologo, un farmacista, un microbiologo e possibilmente anche un epidemiologo ed un esperto di informatica.

(24)

24 2) Prontuario ragionato degli antibiotici o, meglio, un manuale di raccomandazioni locali per la terapia antibiotica empirica oltre che linee-guida locali di antibiotico-profilassi in chirurgia, entrambe frutto del confronto equo tra gli specialisti di terapia antimicrobica ed i prescrittori, sulla base dei dati di epidemiologia locale.

3) Disponibilità di una diagnostica microbiologica rapida H/24, che utilizzi preferibilmente metodologie di identificazione rapida dei microrganismi e del genotipo di resistenza, anche con l’ausilio dei cosiddetti “point-of-care” (definiti come metodi diagnostici rapidi che possono essere usati direttamente nel reparto di degenza del paziente senza coinvolgere altri laboratori).

4) Sistema di Alert che segnali automaticamente gli isolamenti da materiale nobile (ad es.: emocolture) e di microrganismi “sentinella”.

5) Report periodici di sorveglianza locale delle resistenze microbiche. 6) Monitoraggio periodico dei consumi degli antibiotici nei vari reparti.

Il NICE ha anche pubblicato di recente una linea guida sull’AS [53] allo scopo di modificare le pratiche prescrittive per contenere la comparsa di resistenza batteriche e continuare a garantire l’efficacia della terapia antibiotica. La guida del NICE raccomanda, oltre alla classica formazione di un team multidisciplinare, la creazione di vari gruppi di lavoro che operino in tutti gli ambiti di cura. Questi team dovrebbero essere in grado di rivedere spesso i dati di prescrizione e resistenza e restituire queste informazioni ai prescrittori. Dovrebbero inoltre poter lavorare con i medici per capire le ragioni di volumi di prescrizione antimicrobica che potrebbero essere inappropriati, nonché fornire feedback e assistenza a coloro che prescrivono antibiotici al di fuori delle linee guida locali, laddove ciò non è giustificato.

Il gruppo interagisce con i vari prescrittori (internisti, intensivisti, chirurghi, trapiantologi, oncoematologi) per definire, sulla base della peculiare epidemiologia delle infezioni e del profilo di rischio specifico dei pazienti, le raccomandazioni per un uso appropriato della terapia antimicrobica. Ogni programma di AS, per essere efficace nel perseguire i suoi obiettivi (migliorare l’outcome del paziente, ridurre l’emergenza delle resistenze, gli eventi avversi ed i costi della inappropriatezza), si deve dotare di precisi indicatori di processo e di risultato, disponendo altresì degli strumenti informatici idonei al trattamento dei dati.

Nel modello NICE i medici prescrittori debbono tener conto della linea-guida traslando le sue raccomandazioni al trattamento dello specifico paziente. L‘aderenza alle raccomandazioni della linea guida

(25)

25 non è obbligatoria e non sottrae il clinico alla responsabilità assistenziale di prendere decisioni adeguate alle esigenze del singolo paziente.

Il medico deve quindi combattere la spirale dell’empirismo contrastando la pigrizia diagnostica che consiste nell’assioma febbre = infezione = antibiotici. Dunque, è necessario dedicare attenzione sufficiente alla storia del paziente e al suo esame clinico e formulare una ipotesi diagnostica. Disposti gli accertamenti necessari, sarà quindi utile informarlo del percorso terapeutico, dei suoi benefici potenziali e dei rischi eventuali. Nel valutare la prescrizione dell’antimicrobico occorre tenere conto di: possibili interazioni con altri farmaci o alimenti e bevande; eventuali comorbidità (ad esempio insufficienza renale che richieda aggiustamento della dose); eventuali allergie ai farmaci; differente capacità del farmaco di produrre la pressione selettiva e, in particolare, di selezionare C. difficile.

Nell'esercitare il loro giudizio, i professionisti sono tenuti a prendere in considerazione le linee guida sia nazionali che internazionali, da utilizzare come riferimento per contestualizzare la scelta più appropriata nel singolo paziente. Le linee guida rappresentano un documento d’ausilio che funge da indirizzo nella scelta della terapia ottimale. La qualità dell’utilizzo degli antibiotici può migliorare con lo sviluppo di linee-guida multidisciplinari basate sull’evidenza scientifica, che tengano conto dell’epidemiologia locale. L’applicazione delle linee-guida può essere agevolata dall’informazione agli operatori, dalla conoscenza della prassi terapeutica in atto e dai risultati clinici.

Quindi, per minimizzare il rischio di inappropriatezza, è fondamentale il buon uso dell’antibiotico, che si fonda su appropriate conoscenze, quali:

 Sensibilità del patogeno isolato nei confronti dell’antibiotico prescritto, in base ai risultati dell’antibiogramma

 Modalità di somministrazione ottimale dell’antibiotico in rapporto all’attività tempo- o concentrazione- dipendente ed alla sua diffusibilità nello specifico sito di infezione

 Valutazione del rischio di reazioni avverse all’antibiotico, in generale ed in rapporto alla specifica situazione fisiopatologica del paziente ed alla sua politerapia

 Valutazione dell’impatto ecologico dell’impiego dell’antibiotico in termini di pressione selettiva nei confronti di patogeni problematici, quale Clostridium difficile.

(26)

26 Il NICE propone anche la creazione di una steering committee all’interno dell’Azienda Sanitaria.

Alla steering committee viene assegnato il compito delle pianificazioni e decisioni strategiche riguardanti l’uso degli antimicrobici nell’intero ambito dell’istituzione sanitaria coinvolta, attraverso una condivisione delle decisioni medesime e delle responsabilità. L’esistenza stessa di questo comitato e la sua attività all’interno dell’istituzione sanitaria sono in funzione delle scelte direzionali e dell’autonomia concessa al comitato ristretto. Dovrebbe essere composta da: Specialista in Malattie Infettive, Farmacista Microbiologo, clinico Rappresentante dell’Unità di prevenzione e controllo delle infezioni, Informatico clinico, Chirurgo, Internista, Intensivista, Pediatra, Ostetrico/ginecologo, Rappresentante del dipartimento di emergenza, Rappresentante del dipartimento infermieristico, amministratore.

È evidente come un ASP rappresenti un progetto trasversale a livello istituzionale che prevede la collaborazione tra figure professionali diverse, i cui rapporti devono essere basati sulla condivisione dei medesimi obiettivi e sul reciproco sostegno affinché tali obiettivi possano essere raggiunti. I diversi specialisti sono chiamati a far confluire ciascuno le proprie competenze in un intervento unitario ma operativo a vari livelli, in cui sia previsto supporto e riconoscimento anche da parte dell’amministrazione delle strutture ospedaliere, delle direzioni e dei fornitori locali. Per minimizzare il rischio di inappropriatezza, si possono individuare dei criteri progressivi che possono guidare nella scelta e nella prescrizione razionale degli antimicrobici e da prendere in considerazione: Microbiologia: il patogeno responsabile dell’infezione deve essere sensibile all’antibiotico prescritto (conferma con diffusione su disco, MIC o test automatici); Farmacocinetica: l’antibiotico deve raggiungere il sito d’infezione con un’adeguata concentrazione intratissutale; Tolleranza e predisposizione: qualunque allergia o particolare suscettibilità alla potenziale tossicità del farmaco deve essere tenuta in considerazione; le dosi devono poter essere adattate in funzione del singolo paziente; Ecologia: il clinico dovrebbe prescrivere il farmaco con il minimo impatto sulla flora microbica del paziente e sulla flora microbica ambientale; Costo: l’ultimo fattore da considerare, dopo tutti i precedenti. Se è ancora possibile scegliere, è necessario optare per il farmaco meno costoso. L’informazione e la formazione sono, chiaramente, una componente importante nel contesto di un ASP, ma da sole, in assenza di un intervento attivo, esercitano una rilevanza marginale sull’obiettivo sostanziale di limitare l’insorgenza di resistenze batteriche. La componente centrale di un programma di questo tipo è la predisposizione di una strategia proattiva, che preveda un intervento diretto, una costante rivalutazione della

(27)

27 prassi e una revisione preliminare delle prescrizioni antibiotiche. Questa strategia di base viene affiancata dall’informazione, dalla formazione, dalle linee-guida, dai protocolli, dalle richieste motivate, dalla terapia mirata, dall’adattamento posologico, dalla conversione dalla via endovenosa a quella orale, a seconda delle modalità d’uso locali degli antibiotici, dei problemi di resistenza batterica e delle risorse disponibili. Un ASP, basato sulle prove di efficacia, destinato a ridurre le resistenze batteriche, è costituito da interventi da scegliersi in base alle risorse disponibili e alle dimensioni di ospedali e reparti.

Tra le strategie di un ASP attivo possono essere messe in pratica quelle di seguito descritte, sempre in riferimento alla situazione locale e alle risorse disponibili nei diversi contesti:

1) INFORMAZIONE: base culturale per lo sviluppo e la condivisione degli interventi;

2) LINEE GUIDA E PERCORSI CLINICI: basate su prove di efficacia, che tengano conto della mappa microbiologica e dei dati di resistenza locali;

3) ROTAZIONE DEGLI ANTIBIOTICI: può abbassare in via transitoria la pressione selettiva e ridurre le resistenze verso l’antibiotico sostituito;

4) RICHIESTE SPECIFICHE: schede di prescrizione specifiche per gli antibiotici, per agevolare l’applicazione di linee guida comportamentali;

5) TERAPIE DI ASSOCIAZIONE: hanno significato se applicate in specifici contesti clinici (come la terapia empirica nella terapia intensiva) ad alto rischio di patogeni multiresistenti, affinchè sia possibile aumentare lo spettro di copertura nella fase iniziale della terapia.

6) TERAPIA SCALARE: la de-escalation della terapia antibiotica empirica, sulla base delle risultanze dell’antibiogramma, consiste nel sospendere la terapia di associazione al fine di colpire più efficacemente il germe patogeno. In tal caso, una minore esposizione va di pari passo con una riduzione dei costi;

6) ADATTAMENTO POSOLOGICO: consiste nell’aggiustamento della dose di antibiotico in base alle caratteristiche del paziente, al sito di infezione, alla farmacodinamica e alla farmacocinetica del farmaco; 7) CONVERSIONE DELLA VIA DI SOMMINISTRAZIONE DA PARENTERALE A ORALE: un piano sistematico di conversione da endovenosa a orale per farmaci con biodisponibilità sovrapponibile, quando le condizioni cliniche lo consentano, può diminuire la durata della degenza e i costi. L’adozione di criteri clinici e linee-guida di conversione alla terapia orale facilita lo sviluppo di un ASP in ospedale. L’applicazione nel nostro paese di una corretta stewardship antimicrobica, che voglia perseguire un progetto

(28)

28 centrato sulla multidisciplinarietà, sull’informazione, sull’organizzazione, sul monitoraggio e sugli outcome, deve contemplare anche, come importante occasione di collaborazione nei reparti, tra infettivologo e farmacista, la Profilassi Antibiotica Perioperatoria.

L’adozione di programmi informatici, quali ad esempio gli archivi elettronici, la prescrizione informatizzata e il supporto decisionale, può migliorare la capacità decisionale del prescrittore, poiché si dispone di dati colturali e di sensibilità individuali, funzionalità epatica e renale, interazioni, allergie, costi. Il monitoraggio informatizzato facilita il programma, consentendo interventi mirati, fornendo mappe di resistenza e segnalazione di infezioni ospedaliere ed effetti avversi dei farmaci. È importante e decisivo il ruolo del laboratorio di microbiologia, in quanto consente l’individualizzazione della terapia sulla base dei dati colturali e di sensibilità e contribuisce alla sorveglianza delle infezioni da germi resistenti attraverso tecniche di ricerca epidemiologica molecolare.

Impostare e sviluppare un ASP richiede un intervento multimodale. È necessario innanzitutto disporre delle informazioni sull’utilizzo degli antibiotici, con la relativa spesa, e dei dati microbiologici locali di sensibilità batterica, ricavati dagli antibiogrammi.

Risulta strategico l’invio regolare di report informativi ai medici sulla correttezza prescrittiva. Quindi la prima strategia del programma di stewardship antimicrobica agisce sul prontuario terapeutico, sia con l’eliminazione di alcune molecole che con l’autorizzazione all’uso di alcuni antibiotici solo per specifiche indicazioni. Chiaramente questa iniziativa prevede la disponibilità di personale medico e farmacista dedicato al monitoraggio e all’informazione.

È stata ampiamente documentata la ricaduta positiva in termini di costi e di diminuzione della resistenza di patogeni importanti, tra cui P. aeruginosa MDR e S. aureus MRSA, ottenuta con la cancellazione dal prontuario terapeutico di ceftazidime e cefotaxime, dalla limitazione d’uso per ceftriaxone e carbapenemici, dalla sostituzione della ciprofloxacina con la levofloxacina e lo stop automatico dopo 72 ore delle terapie con vancomicina. La seconda strategia prevede una revisione giornaliera delle modalità di utilizzo degli antibiotici sotto controllo e i relativi interventi correttivi. Questa tipologia di intervento, basata sulla disponibilità di linee-guida elaborate dalla commissione terapeutica, non comporta la sensazione di perdita di autonomia da parte del medico e consente una forma di formazione/informazione attiva.

(29)

29 Un piano sistematico di conversione della somministrazione degli antinfettivi, dalla via endovenosa a quella orale, per farmaci con biodisponibilità sovrapponibile, quando le condizioni cliniche lo consentono, può diminuire la durata della degenza e i costi. L’adozione di criteri clinici e linee-guida di conversione alla terapia orale facilita lo sviluppo di un ASP in ospedale.

In questo ambito il ruolo proattivo e attivo del farmacista nel contesto di un programma strutturato risulta preminente e altamente qualificante. Altro aspetto molto interessante è l’individuazione del corretto dosaggio degli antinfettivi, in base alle caratteristiche del paziente, in particolare in base alla sua funzionalità renale. Nel paziente critico l’alterazione dell’equilibrio idro-elettrolitico, l’accumulo di liquidi in caso di edema o versamenti intracavitari, la diminuzione dell’albumina serica, portano a un aumento del volume di distribuzione degli antibiotici, rendendo necessario un aumento del dosaggio per i farmaci idrofili come le beta-lattamine, gli aminoglicosidi e i glicopeptidi. In altri casi si presenta un incremento della funzione renale, con conseguente aumento dell’eliminazione dell’antibiotico e rischio di sottodosaggio: in questo caso è necessario aumentare il dosaggio dei farmaci escreti per via renale.

Trattare le infezioni gravi significa mantenere l’equilibrio tra una terapia empirica tempestiva, ad ampio spettro, per il singolo paziente, e la riduzione dell’uso di antibiotici superflui che inducono lo sviluppo di resistenze batteriche e favoriscono l’aumento dei costi. La somministrazione precoce e appropriata di farmaci antinfettivi attivi sui germi che causano l’infezione si è dimostrata efficace nel migliorare l’esito clinico, soprattutto in termini di riduzione della mortalità: di qui la strategia di impiegare antibiotici a largo spettro per periodi prolungati. Questo approccio, utile al singolo paziente, porta però, se di uso generalizzato, all’insorgenza e alla diffusione di resistenze batteriche.

Tra le strategie più rilevanti di un ASP rientrano la gestione e il monitoraggio dell’uso empirico degli antibiotici ad ampio spettro, seguito da una revisione post-prescrizione e da una de-escalation o sospensione dopo due o tre giorni in funzione dei riscontri microbiologici colturali e della risposta clinica del paziente. Ovunque sia stato attuato un programma organizzato, strutturato, generalizzato e condiviso di antimicrobial stewardship, si sono verificati: riduzione delle resistenze batteriche e degli effetti avversi farmaco-correlati, un miglioramento degli esiti clinici, nonché una drastica riduzione dei costi.

(30)

30 Nonostante gli evidenti vantaggi, gli ostacoli a una diffusione di queste strategie, sono numerosi e diversificati. In particolare, per poter disporre di un’organizzazione specifica e di personale dedicato è indispensabile che le amministrazioni regionali e ospedaliere investano risorse in questo tipo di programmi. I principi della stewardship, centrati non sul rapporto mandante/mandatario, ma sul rapporto di collaborazione per obiettivi comuni, una volta compresi e condivisi, non possono non essere accettati come garanti del benessere per il singolo e per la collettività.

Impostare e sviluppare un ASP adeguato alle esigenze dei diversi ospedali significa disporre del monitoraggio completo di una categoria di farmaci di estrema importanza terapeutica, a forte rischio di errore e di danno ecologico, di uso trasversale a tutti i reparti ospedalieri, affinché siano garantiti un uso appropriato anche dei rari e preziosi farmaci innovativi in ambito infettivologico e la sostenibilità economica dell’evoluzione delle conoscenze.

Come anticipato precedentemente fondamentali sono dunque dei protocolli di antibioticoterapia e profilassi che si basino sull’epidemiologia locale e che siano revisionati frequentemente.

Protocolli di terapia antibiotica empirica:

I Protocolli di terapia antibiotica empirica hanno lo scopo di uniformare i comportamenti prescrittivi dei medici per gruppi di pazienti con caratteristiche simili, al fine di contenere l’uso improprio degli antibiotici che determina sia l’insorgenza di resistenze, sia la comparsa di effetti collaterali.

Per contenere il fenomeno della resistenza ai carbapenemi nei gram-negativi si tende a privilegiare regimi alternativi “carbapenem sparing” (ad es.: fosfomicina, aminoglicosidi, tigeciclina, colistina, ma anche ceftazidime/avibactam e ceftolozane/tazobactam) variamente associati tra loro.

L’obiettivo primario dei protocolli di terapia empirica è quindi offrire al prescrittore, per le più comuni patologie infettive incontrate nella pratica clinica ospedaliera, un’opzione terapeutica congrua per scelta della molecola, dosaggio e durata della terapia. Ad esempio nei pazienti con riferita allergia alla penicillina IgE-mediata (anafilassi), non è opportuno utilizzare l’intera classe degli antibiotici ß-lattamici. Per quelli invece con allergia minore, si può tentare l’utilizzo di cefalosporine o carbapenemici (possibilmente effettuando prima le opportune prove allergiche).

Nelle infezioni da MSSA (non fattori di rischi per MRSA) gli antibiotici ß-lattamici (cefazolina, oxacillina) sono solitamente ritenuti da preferire ai glicopeptidi (vancomicina, teicoplanina), ai lipoglicopeptidi

Riferimenti

Documenti correlati

211 del 30.04.2020, con il quale si è provveduto, a seguito delle azioni di sistematizzazione dell’organizzazione aziendale, alla declaratoria delle attività attribuite e/o

di richiedere alla Orienta Spa la proroga del contratto di somministrazione di lavoro temporaneo per profilo cosi’ come specificato nell’Allegato 1 al presente provvedimento di cui

- Dr.ssa Paola Tonietti, Collaboratore Professionale Sanitario Area Infermieristica, attualmente Responsabile della ex Posizione Organizzativa Organizzazione delle

36379 acceso presso la Banca d’Italia (codice tesoreria 311) intestato a Università degli Studi di Firenze indicando la causale “In favore del Dip.to Medicina Sperimentale

“Regolamento per l’affidamento di incarichi a legali esterni per la rappresentanza in giudizio dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Meyer, per l’assistenza in

- con successiva deliberazione del Direttore Generale n. 173 del 05.04.2018 si è altresì provveduto ad ulteriori azioni di sistematizzazione dell’organizzazione aziendale ed

- le Leggi n. 2/2003 riguardante il tema delle assunzioni obbligatorie presso amministrazioni pubbliche per le vittime del terrorismo e della criminalità organizzata e

In particolare, questo software consente la visualizzazione, la ricostruzione 2D o 3D delle immagini cardiache, per una corretta valutazione qualitativa