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Il ricongiungimento familiare. Alla radice di un diritto, tra le pieghe di un istituto

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UNIVERSITA’ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di laurea in Giurisprudenza

Tesi di Laurea Magistrale

Il ricongiungimento familiare. Alla radice

di un diritto, tra le pieghe di un istituto

Il Candidato Il Relatore

Valentina Pia Russo

Gianluca Famiglietti

(2)

2

S

OMMARIO

INTRODUZIONE ... 5

1. IL DIRITTO ALL’UNITA E AL RICONGIUNGIMENTO FAMILIARE NELLA NORMATIVA INTERNAZIONALE ... 13

Il ricongiungimento familiare: diritto strumentale all’unità della famiglia ... 13

1.2. Il diritto al ricongiungimento familiare nella normativa universale sui diritti umani ... 15

1.2.1. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani ... 15

1.2.2. Il Patto internazionale sui diritti civili e politici e il Patto sui diritti economici, sociali e culturali ... 18

1.2.3. Le Convenzioni OIL ... 20

1.2.4. La Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie del 1990 ... 25

1.2.5. La Convenzione di New York sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza ... 29

1.2.6. La Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 1951 ... 36

1.3. Il diritto all’unità familiare negli strumenti regionali sui diritti umani ... 38

1.3.1. L’Atto Finale di Helsinki ... 38

1.3.2. La Carta sociale europea ... 42

1.3.3. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e la giurisprudenza della Corte EDU ... 45

2. IL DIRITTO ALL’UNITÀ E AL RICONGIUNGIMENTO FAMILIARE NELLA NORMATIVA EUROPEA ... 62

La normativa europea: caratteri generali ... 62

2.2. Il ricongiungimento familiare nelle norme di diritto derivato ... 66

(3)

3 2.4. Limiti all’ingresso e soggiorno per ragioni di ordine pubblico e

sicurezza, nonché per motivi di sanità ... 118

2.5. La tutela del diritto al ricongiungimento familiare di cittadini di Stati terzi legalmente residenti in uno Stato Membro e dei rifugiati nell’ordinamento comunitario ... 125

2.5.1. La direttiva 2003/86/CE del Consiglio: considerazioni introduttive ... 130

2.5.2. I titolari del diritto al ricongiungimento familiare ... 132

2.5.3. Le categorie di beneficiari ammessi al ricongiungimento ... 135

2.5.4. Le condizioni richieste per l’esercizio del diritto ... 144

2.5.5. Le criticità ... 145

3. IL DIRITTO ALL’UNITÀ E AL RICONGIUNGIMENTO FAMILIARE NELLA LEGISLAZIONE ITALIANA ... 148

Considerazioni introduttive ... 148

3.2. Il diritto all’unità familiare nella giurisprudenza della Corte costituzionale ... 151

3.3. La disciplina del ricongiungimento familiare dei cittadini comunitari ... 156

3.3.1. Formalità richieste ai cittadini comunitari ai fini dell’ingresso e soggiorno nel territorio italiano ... 162

3.3.2. Iscrizione all’anagrafe ... 167

3.3.3. Il contenzioso ... 174

3.3.4. Allontanamento dal territorio nazionale ... 176

3.3.5. Provvedimento di allontanamento: tutela giurisdizionale e garanzie procedurali ... 180

3.4. La disciplina del ricongiungimento familiare dei cittadini provenienti dai Paesi terzi ... 183

3.4.1. I titolari del diritto al ricongiungimento familiare ... 185

3.4.2. I familiari ricongiungibili ... 188

3.4.3. Esercizio del diritto: requisiti soggettivi ... 201

3.4.4. …Segue… Requisiti oggettivi ... 202

(4)

4 3.4.6. La tipologia dei permessi di soggiorno familiari e i diritti a cui

danno accesso ... 212

3.4.7. Il diniego ... 215

3.4.8. Il ricongiungimento con il figlio minore già presente in Italia ... 218

3.5. Il ricongiungimento familiare dei rifugiati ... 218

CONCLUSIONI ... 221

FONTI DI INTERNET: INDIRIZZI ... 225

(5)

5

I

NTRODUZIONE

La normativa sull’immigrazione, sullo status di straniero e sul riconoscimento allo stesso di una serie di diritti tra cui quello alla famiglia, è complessa e intricata oltre che in continua evoluzione. Tale normativa non può essere racchiusa all’interno di un unico ramo del diritto, in quanto essa abbraccia molte aree tematiche e si sviluppa a vari livelli1. Sebbene sia una delle aree in cui gli Stati maggiormente

esercitano la loro sovranità, tale normativa non si sviluppa solo a livello nazionale, infatti la condizione dello straniero e il suo status sono temi che assumono rilievo anche e prima nell’ambito del diritto internazionale, ove l’accento si è posto principalmente sul profilo umanitario, al fine di plasmare un nucleo inviolabile di diritti che appartengono all’uomo in quanto tale e che non possono essere legati al possesso o meno di una cittadinanza. Con la formazione e lo sviluppo dell’Unione europea questi diritti sono stati recepiti e codificati anche nella normativa comunitaria.

Nell’affrontare la questione relativa al diritto alla famiglia e alla sua unità non si può prescindere da:

- alcune considerazioni generali relative allo status, alla definizione di straniero e al motivo per cui diviene necessario distinguerlo dal cittadino;

- un excursus storico e sociale sull’iter che ha portato alla formazione di un nucleo inviolabile di diritti, riconosciuti a tutti gli uomini senza distinzione, in quanto imprescindibili rispetto alla persona.

1 I differenti livelli di cui sopra sono ad esempio: in diritto civile, per quel che attiene ai casi di riconoscimento della reciprocità per godere di alcuni diritti o limitazioni nel contrarre matrimonio. Nel diritto penale relativamente ai reati legati all’immigrazione e in relazione al diritto del lavoro nell’ottica delle assunzioni di cittadini immigrati.

(6)

6 Per quanto riguarda le considerazioni generali, con il termine straniero vengono indicate differenti situazioni: da colui che non ha alcuna cittadinanza a colui che è cittadino di un Paese europeo o di nuova adesione europea; da chi si trova in uno Stato per turismo a chi ha fatto richiesta di asilo politico. La definizione stessa di straniero è soggetta a mutamenti storici ed economici che di volta in volta ampliano o restringono i gruppi di persone che vengono definiti tali.

Nella Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen del 19852

all’art.1 troviamo una prima definizione di “straniero”, con tale termine si intende indicare colui che non è cittadino di uno Stato membro delle Comunità Europee. Partendo da tale definizione e nell’ottica delle realtà statali, influenti studiosi della materia sono giunti a definire lo straniero semplicemente come “colui che non ha la cittadinanza del Paese in cui vive”, esplicazione per certi versi intuitiva ma che ha avuto una lunga gestazione storica. La Costituzione Italiana all’art.10 utilizza il termine straniero nel senso più generico possibile, senza fornire ulteriori elementi al fine di dare una interpretazione precisa a tale locuzione. Per questo motivo al generico utilizzo da parte del legislatore della nozione di straniero, la dottrina ha accostato l’altrettanto generica definizione di “non-cittadino” ritenendo che la nozione di straniero debba essere desunta in negativo, ossia dalla mancanza in capo al soggetto della cittadinanza italiana3.

L’esigenza d’identificare lo straniero nasce nel periodo di formazione degli Stati sociali, Stati a cui il cittadino chiede il riconoscimento di una

2 Relativo alla eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni. 3 Non sono cittadini italiani:

- i cittadini europei;

- i cittadini di paesi terzi, i cosiddetti extracomunitari (regolari e non); - gli apolidi;

- i richiedenti asilo politico;

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7 serie di diritti e l’erogazione di servizi ad essi connessi, servizi che gravano sulla spesa pubblica in modo direttamente proporzionale al numero di persone a cui questi sono riconosciuti, motivo per cui la distinzione tra straniero e cittadino diviene criterio discriminante per l’attribuzione degli stessi.

Oltre alla questione strettamente socio-economica, si deve tener conto del lungo iter di formazione delle norme in materia di trattamento o condizione degli stranieri, a riprova di quanto tale questione abbia da sempre suscitato interesse, comportando un continuo avvicendamento di teorie normative e dibattiti - ancora aperti - su un fenomeno che in particolare negli ultimi anni ha messo a dura prova sia la sovranità statale che le autorità internazionali.

Si è passato dal negare qualsiasi diritto allo straniero, rivendicando lo Stato la più ampia libertà, ad una maggiore attenzione a tale problematica nel momento in cui si sono intensificati i rapporti commerciali e d’interazione tra gli Stati. Nel XIX secolo il corpo normativo si delineava attorno al tema della responsabilità degli Stati per danni causati agli stranieri, ai loro beni o diritti patrimoniali, e gli obblighi dello Stato nei confronti dei cittadini all’estero. Le norme in materia di trattamento o condizione degli stranieri si fondavano sulla protezione diplomatica da parte dello Stato4 e sulla previsione di

standard di trattamento. Due posizioni contrastanti si svilupparono

relativamente a tali standard: si discuteva se applicare un orientamento di tipo nazionale, ossia assicurare allo straniero un trattamento uguale a quello dei cittadini, oppure uno internazionale ovvero prevedere un complesso di garanzie e tutele valevoli erga

omnes.

4 Lo Stato faceva valere i propri diritti di soggetto internazionale a tutela dei suoi cittadini nei confronti degli altri Stati che attuavano comportamenti lesivi di tali diritti.

(8)

8 La situazione cambiava notevolmente dopo la fine della seconda guerra mondiale e con la nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite nel 1945. Il diritto degli stranieri passava da una impostazione tradizionale di tipo teorico ad una più pragmatica, in un contesto in cui stavano nascendo nuovi rapporti internazionali tra gli Stati ed erano in atto notevoli cambiamenti socioeconomici nella comunità internazionale. In questo quadro di eventi la previsione di una mera protezione diplomatica e l’individuazione di standard di trattamento risultavano strumenti insufficienti a gestire un fenomeno migratorio che per portata e rilevanza diveniva notevole.

Si avvertiva la necessità di passare da una protezione diplomatica ad una protezione universale, attraverso un processo di riconoscimento a livello mondiale sia di diritti fondamentali, in quanto diritti minimi inerenti alla definizione stessa di persona umana, che universali in quanto devono essere rispettati e tutelati indipendentemente dalla situazione in cui si trova la persona o dallo Stato di cui ha la cittadinanza.

Non solo l’apporto delle Nazioni Unite è fondamentale, ma in tale processo di creazione di un “nucleo duro” di diritti umani determinanti appaiono:

- il movimento convenzionale e le iniziative in atto a livello regionale quali il Consiglio d’Europa, Unione europea, Organizzazione degli Stati americani, Unione africana;

- l’orientamento manifestato dalla Corte Internazionale di Giustizia, quanto all’affermazione di obblighi di carattere fondamentale erga omnes, che tutelano la persona umana indipendentemente dal vincolo di cittadinanza;

- l’attenzione che gli ordinamenti statali rivolgono al problema, specialmente in connessione con il tema della condizione giuridica dello straniero.

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9 Dal momento in cui si inizia a riconoscere i diritti umani la tutela si estende anche agli stranieri in quanto persone, questi non potranno subire discriminazioni rispetto al cittadino, perché tali diritti sono di ogni uomo indistintamente e indipendentemente dal vincolo che possa esistere o meno con lo Stato in cui tale soggetto si trova.

Forte è il richiamo ad un altro principio cardine del sistema internazionale di tutela dei diritti umani, il principio di non discriminazione anche questo essenziale nell’elaborazione della normativa inerente la condizione dello straniero. Enunciato nell’art. 25

della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e nell’art. 16 della

Carta delle Nazioni Unite, il divieto di discriminazione è stato riconosciuto successivamente in tutti gli strumenti di diritto internazionale.

Il ricorso a questo principio sollecita l’eliminazione di tutte quelle situazioni che rendono lo straniero “diverso” rispetto al cittadino,

5 Articolo 2: ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del Paese o del territorio cui una persona appartiene, sia che tale Paese o territorio sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi altra limitazione di sovranità.

6 Articolo 1: gli obbiettivi che le Nazioni Unite si prefiggono di raggiungere sono: 1. Mantenere la pace e la sicurezza internazionale, ed a questo fine: prendere efficaci misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti di aggressione o le altre violazioni della pace, e conseguire con mezzi pacifici, ed in conformità ai princìpi della giustizia e del diritto internazionale, la composizione o la soluzione delle controversie o delle situazioni internazionali che potrebbero portare ad una violazione della pace.

2. Sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-decisione dei popoli, e prendere altre misure atte a rafforzare la pace universale;

3. Conseguire la cooperazione internazionale nella soluzione dei problemi internazionali di carattere economico, sociale culturale od umanitario, e nel promuovere ed incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzioni di razza, di sesso, di lingua o di religione; 4. Costituire un centro per il coordinamento dell’attività delle nazioni volta al conseguimento di questi fini comuni.

(10)

10 perseguendo l’obbiettivo di arrivare ad una sempre maggiore parificazione nel godimento di diritti e libertà.

In questo complesso di diritti assoluti e inalienabili si rende necessaria una ulteriore precisazione, in quanto si deve distinguere i diritti civili e sociali essenziali, che corrispondono a valori universalmente riconosciuti a fronte dei quali è irrilevante lo status o la qualifica dell’individuo e quelli di natura economica e sociale non essenziali7.

Tale differenziazione diviene rilevante in quanto rispetto al riconoscimento agli stranieri dei diritti di carattere assoluto, non è ammissibile alcuna deroga o eccezione, al contrario del riconoscimento di altri diritti per i quali invece si impone un’esigenza di bilanciamento tra la tutela dell’uomo e quella della comunità in cui esso si trova, in questo caso le restrizioni sono ammissibili se pur rispettando alcune imprescindibili cautele.

Tale orientamento è stato appoggiato sia dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale ha ammesso la possibilità di eventuali restrizioni purché esse rispettino determinati parametri di legittimità indicati dalla Convenzione medesima, sia dal relatore Weissbrodt8, il quale affermò che il sistema dei diritti umani si basa

sulla premessa che tutte le persone debbano godere di tutti i diritti umani, sono ammesse eccezioni solo nelle ipotesi in cui la distinzione tra cittadini e non cittadini sia funzionale ad uno scopo legittimo9.

Ulteriore conferma circa la portata del principio di non discriminazione relativamente al trattamento dello straniero arriva dalla

7 Da tali diritti restano comunque esclusi i diritti politici tipica espressione del rapporto tra lo Stato e il proprio cittadino.

8 Weissbrodt relatore speciale nominato dalla Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite con il compito di effettuare uno studio sui diritti dei non cittadini, studio che ha concluso con la presentazione di un rapporto nel 2003.

9 Vanno considerate le distinzioni tra cittadini e non che il Patto sui diritti civili e politici consente agli Stati di operare. Eccezioni sono consentite rispetto a due categorie di diritti: quelli politici esplicitamente garantiti ai cittadini e la libertà di circolazione.

(11)

11 Raccomandazione generale XXX sulla discriminazione nei confronti dei non cittadini, adottata il 1° ottobre 2004 dal Comitato per l’eliminazione delle discriminazioni razziali, che ha riaffermato l’esistenza di un obbligo, stabilito dall’art. 5 della Convenzione del 1965, in capo agli Stati parti di proibire ed eliminare le discriminazioni fondate sulla razza nel godimento di diritti civili, politici, sociali, economici e culturali. Seppure alcuni di questi diritti, come quello di partecipare alla vita politica dello Stato, nello specifico votare e candidarsi alle elezioni possano essere limitati ai soli cittadini, i diritti umani spettano in linea di principio a tutte le persone. Ai sensi della Convenzione, la differenza di trattamento sulla base della cittadinanza o status di immigrazione, costituisce una discriminazione se i criteri per tale differenziazione, giudicati alla luce degli obbiettivi e delle finalità della Convenzione stessa, non vengono applicati per uno scopo legittimo e non sono proporzionati al raggiungimento di questo obbiettivo.

Un ultimo aspetto molto controverso a cui è doveroso un richiamo riguarda lo status del migrante irregolare. Relativamente a questa particolare categoria di stranieri gli Stati hanno cercato di affermare in modo forte la loro sovranità soprattutto nell’ottica di una politica di contrasto all’immigrazione, ma anche in questo caso se pur sia indiscutibile il potere sovrano dello Stato nel controllo delle frontiere e degli ingressi nel territorio nazionale, viene sempre più affermandosi il riconoscimento anche a queste persone di un nucleo indefettibile di diritti che non possono essere compressi in ragione della loro irregolarità.

In conclusione, il riconoscimento dei diritti agli stranieri trova il suo fondamento nel diritto umanitario internazionale che incide profondamente nel contesto statale, in cui non era previsto alcun obbligo verso i non cittadini.

(12)

12 Solo in epoca recente e anche alla luce del principio di non discriminazione, che fa da substrato a tutto il diritto umanitario, si è delineato un obbligo degli Stati di rispettare, proteggere e dare attuazione ai diritti fondamentali di tutti gli individui presenti nel loro territorio a prescindere dalla cittadinanza.

La condizione di straniero non può e non deve essere una giustificazione per consentire trattamenti diversificati e peggiorativi rispetto al cittadino.

(13)

13

1.

I

L DIRITTO ALL

UNITA E AL RICONGIUNGIMENTO

FAMILIARE NELLA NORMATIVA INTERNAZIONALE

Il ricongiungimento familiare: diritto

strumentale all’unità della famiglia

L’unità familiare rappresenta uno dei diritti primari e fondamentali della persona e il ricongiungimento familiare rientra nell’insieme di garanzie poste a tutela di tale diritto, essendo il mezzo mediante il quale tale unità si realizza.

Il ricongiungimento familiare è l’istituto attraverso il quale si consente a chi risiede o soggiorna regolarmente in uno Stato, diverso da quello di appartenenza, di essere raggiunto, nel momento in cui sono soddisfatte determinate condizioni, dai membri della propria famiglia provenienti da altri Paesi. Tale istituto è di particolare rilievo in relazione al diritto alla famiglia, intesa come nucleo fondamentale e fondante la società, ed è in stretta connessione con tutta una serie di altri diritti riconosciuti e garantiti agli individui, quale quello dei minori a crescere e svilupparsi nell’ambito di un contesto familiare sicuro, il diritto al rispetto della vita privata e familiare, correlato al divieto di interferenze in essa, nonché quello riguardante la conservazione della propria cultura e delle proprie tradizioni.

Il diritto al ricongiungimento familiare si declina secondo differenti modalità e abbraccia la tutela di varie situazioni, legate a un concetto ampio di famiglia e unità familiare.

Prima di affrontare nello specifico il diritto all’unità e al ricongiungimento conviene riassumerne alcuni tratti generali, allo scopo di individuarne più chiaramente i confini.

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14 È necessario evidenziare che il riconoscimento di tale diritto scalfisce il principio tradizionale per il quale rientra tra le prerogative sovrane degli Stati la regolazione dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri nel proprio territorio. Ciò non significa indiscriminata apertura delle frontiere ma semplicemente che il potere statale di ammissione e allontanamento subisce una limitazione, in quanto il suo esercizio deve e può essere giustificato solo con l’esigenza di salvaguardare interessi primari come l’ordine, la sicurezza dello Stato e la salute pubblica. In tale ottica appare chiaro come non sia possibile un riconoscimento pieno ed incondizionato del diritto all’unità familiare, dovendosi bilanciare di volta in volta la pretesa del singolo a ricongiungere la propria famiglia, con l’interesse dello Stato ospitante al controllo dei flussi e delle problematiche economiche che questi comportano, basti pensare che il diritto al ricongiungimento familiare determina un impatto economico assai rilevante per lo Stato. Tale diritto non consiste solo nell’eliminazione degli ostacoli che si frappongono all’ingresso e al soggiorno dei familiari stranieri, ma include un ampio riconoscimento di diritti sociali tra cui istruzione, sanità ed abitazione, tutti da riconoscersi in condizioni più o meno paritarie con i cittadini. Il timore che un enorme flusso di familiari economicamente inattivi arrivi nello Stato e comporti oneri eccessivi per il sistema di sicurezza sociale ha fatto in modo che le legislazioni statali subordinassero l’ingresso di tali soggetti alla sussistenza di determinati requisiti economico-alloggiativi.

Il diritto all’unità familiare, se pur garantito da differenti fonti normative a vari livelli, in realtà vive la propria dimensione sostanziale all’interno delle legislazioni nazionali. Sono queste a dare concreta attuazione alle politiche migratorie, creando quel complesso di procedure che consentono di riconoscere e garantire realmente tale diritto.

(15)

15

1.2. Il diritto al ricongiungimento familiare nella

normativa universale sui diritti umani

Il diritto all’unità familiare e, quindi, come suo logico corollario al ricongiungimento familiare, viene sancito in vari strumenti internazionali, a livello sia universale che regionale, oltre ad essere più volte richiamato nell’ambito della politica di tutela dei lavoratori migranti, di tutela dei minori e della famiglia. Tali strumenti più o meno vincolanti per gli Stati10, lo annoverano tra i diritti fondamentali

dell’individuo, e formano il quadro normativo di riferimento - se pur generale - da cui partire.

1.2.1. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani

Il primo testo da prendere in esame non può che essere la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, testo ispiratore per eccellenza di altri documenti e trattati, sia internazionali che comunitari.

La Dichiarazione fu adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. I trenta articoli di cui si compone sanciscono i diritti individuali, civili, politici, economici, sociali e culturali di ogni persona.

Agli artt. 1 e 2 vengono riconosciuti due principi fondamentali e indefettibili della persona umana ovvero quelli di libertà e uguaglianza; il testo recita: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità

e diritti” e ancora “Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le

10 Molto spesso si tratta di generici inviti rivolti agli Stati a favorire per quanto possibile e non ostacolare la riunificazione familiare, a titolo di esempio Convenzione OIL n. 143 del 1975, Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989 e la Carta sociale europea 1961.

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16

libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del Paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità”. Per la

Dichiarazione, poi, il possesso o meno di una cittadinanza, l’essere quindi straniero o cittadino non rileva per il riconoscimento – o il mancato riconoscimento – dei diritti richiamati.

Per ciascun individuo viene proclamato il diritto alla vita, alla libertà alla sicurezza individuale, ad un trattamento di uguaglianza dinanzi alla legge - senza discriminazioni di alcun tipo - ad un processo imparziale e pubblico, all’ essere ritenuti innocenti fino a prova contraria, alla libertà di movimento, di pensiero, di coscienza e fede, alla libertà di opinione, di espressione e di associazione. Nessuno può essere ridotto in schiavitù sottoposto a torture, trattamenti o punizioni crudeli, disumane o degradanti e che nessuno dovrà essere arbitrariamente arrestato, incarcerato o esiliato. Vi si sancisce inoltre che tutti hanno diritto ad avere una nazionalità, a contrarre matrimonio, a possedere dei beni, a lavorare, a ricevere un giusto compenso per il lavoro prestato, a godere del riposo, a fruire di tempo libero e di adeguate condizioni di vita e a ricevere un'istruzione.

Tale Dichiarazione non costituisce fonte autonoma di norme internazionali generali non essendo un Trattato di diritto internazionale, per tale ragione, non ha carattere giuridico vincolante, infatti, non sussiste alcun obbligo di ratifica per gli Stati membri delle Nazioni Unite.

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17 La sua riconducibilità nella sfera del c.d. international soft law “ossia la sua natura di norma di indirizzo” è stata fortemente messa in dubbio, dato il rilevante consolidamento su scala mondiale delle garanzie e dei diritti in essa contenuti. Indipendentemente dalla sua natura consuetudinaria o meno, autorevole parte della dottrina la ritiene giuridicamente vincolante, senza considerare l’enorme potere-guida che ad essa le Nazioni hanno riconosciuto. L'appartenenza alle Nazioni Unite viene considerata un'accettazione implicita dei principi della Dichiarazione: molti Paesi hanno infatti riprodotto i diritti sanciti dalla Dichiarazione all’interno delle loro Costituzioni nazionali.

La Dichiarazione prende in considerazione prevalentemente la tutela dell’individuo come singolo garantendo esplicitamente come formazione sociale solo la famiglia e riservando ad essa una serie specifica di tutele. L’art. 12, posto a tutela della vita privata e familiare, sancisce che “Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze

arbitrarie nella sua vita privata e nella sua famiglia. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni”.

Una maggiore conferma dell’attenzione riservata alla tutela del nucleo familiare arriva dall’art. 16, in cui non solo vengono fatti specifici riferimenti ai diritti dei coniugi nell’ambito del matrimonio, ma cosa più importante nell’ultimo comma al numero 3 viene definita la famiglia come nucleo naturale e fondamentale della società, meritevole perciò di particolare tutela dallo Stato11.

Considerando l’unità familiare diritto fondamentale e indefettibile della persona, naturale corollario è l’istituto del ricongiungimento,

11 Articolo 16

1.Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all'atto del suo scioglimento. 2.Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi. 3.La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato.

(18)

18 quale strumento necessario per ottenere e preservare l’unità e permettere l’effettivo godimento della vita familiare.

1.2.2. Il Patto internazionale sui diritti civili e politici e il

Patto sui diritti economici, sociali e culturali

Dopo la proclamazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, l'Organizzazione delle Nazioni Unite si cimentava in un compito ancora più arduo: tradurre i principi in essa sanciti in disposizioni pattizie destinate ad imporre obblighi giuridici vincolanti agli Stati che avessero ratificato tali patti.

Con l’obbiettivo di rendere vincolanti le disposizioni contenute nella Dichiarazione, l’ONU ed in particolare la Terza Commissione dell’Assemblea Generale il 16 dicembre 1966 adottavano:

- il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, - il Patto internazionale sui diritti civili e politici,

- il Protocollo facoltativo relativo a quest’ultimo Patto12.

L’art. 10 del Patto sui diritti economici, sociali e culturali, come l’art. 16 della Dichiarazione Universale, riconosce alla famiglia un’importanza basilare, considerandola ancora una volta nucleo essenziale e fondamentale della società e riconoscendole una particolare tutela,

12Doveva passare un altro decennio prima che i Patti venissero ratificati da un numero sufficiente di Stati per la loro entrata in vigore. In effetti occorrevano per ciascuno di essi, 35 ratifiche (o adesioni). Essendo stato raggiunto tale numero, il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali entrava in vigore il 3 gennaio 1976. Il Patto internazionale sui diritti civili e politici, nonché il Protocollo facoltativo ad esso connesso (già ratificato da 10 Paesi, ossia il numero minimo di ratifiche richieste per la sua entrata in vigore) entravano in vigore il 23 marzo 1976. Autorizzazione alla ratifica e ordine di esecuzione in Italia dati con legge n. 881 del 25 ottobre 1977 (Gazzetta Ufficiale n. 333 S.O. del 7 dicembre 1977). Data della ratifica: 15 settembre 1978 (Gazzetta Ufficiale n 328 del 23 novembre 1978). Entrata in vigore per l'Italia: 15 dicembre 1978.

(19)

19 non solo al momento e per la sua costituzione ma anche nelle fasi successive.

L’art. 10 comma 1 del Patto sancisce: “Gli Stati parti del presente Patto

riconoscono che: la protezione e l'assistenza più ampia possibile devono essere accordate alla famiglia, nucleo naturale e fondamentale della società, in particolare per la sua costituzione e fin quando essa abbia la responsabilità del mantenimento e dell'educazione di figli a suo carico.”

Viene molto enfatizzato il concetto di famiglia come nucleo naturale e fondamentale della società, tale definizione la ritroviamo anche all’art. 23 comma 1 del Patto sui diritti civili e politici.

All’art. 17 del medesimo Patto si afferma altresì il diritto dell’individuo a non subire interferenze arbitrarie o illegittime nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa o nella sua corrispondenza, e prevede che ogni individuo debba essere tutelato dalla legge contro tali interferenze.

In entrambi i Patti13 è inoltre previsto il principio di non discriminazione

- fondamentale nel diritto umanitario - secondo il quale le disposizioni contenute specificatamente nei Patti internazionali proteggono tutti gli individui, non solo i cittadini ma anche gli stranieri, includendo anche gli immigrati che sono presenti sul territorio o sono sottoposti alla giurisdizione dello Stato. Ciascuno Stato si impegna a rispettare e garantire tali diritti, senza differenziazione alcuna di razza, lingua, origine nazionale o sociale, economica, di nascita o qualsiasi altra condizione.

Come possiamo agevolmente notare dalla disamina di queste fonti il concetto di famiglia adottato dal Diritto internazionale umanitario è un concetto forte: la famiglia in quanto tale è soggetto di diritto

13Patto sui diritti economici, sociali e culturali art. 2, Patto sui diritti civili e politici art. 26.

(20)

20 distintamente dalla soggettività dei coniugi e degli altri componenti, pertanto essa ha diritti e doveri14.

1.2.3. Le Convenzioni OIL

15

La principale ragione per cui gli individui decidono di spostarsi dal proprio Stato di origine e di lasciare la famiglia è il lavoro. Il lavoratore che si sia stabilizzato economicamente e lavorativamente proverà poi a stabilirsi in maniera definitiva nello Stato che lo ha accolto, ed è qui che cercherà di ricongiungere la sua famiglia ricreando quella unità che aveva dovuto rompere. In quest’ottica il tema dell’unità familiare è stato oggetto di attenzione anche nella politica di protezione dei lavoratori migranti.

14La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966, il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 e la Convenzione sui diritti del bambino del 1989 insieme ad un'altra serie di Convenzioni costituiscono quello che viene definito come il Codice internazionale dei diritti umani. Tale codice è composto sia dalle fonti normative richiamate sia da una serie di strumenti internazionali, quali ad esempio i comitati di esperti istituiti con i trattati allo scopo di monitorare l’implementazione del codice. L’Italia ha ratificato la quasi totalità delle fonti normative costituenti il Codice Internazionale dei diritti umani, nonché la maggior parte dei protocolli che hanno istituito i comitati richiamati. In Italia, quindi, il Codice e i diritti ivi riconosciuti hanno piena forza di legge.

15 Organizzazione internazionale del lavoro.

Fondata al termine della prima guerra mondiale dal Trattato di Versailles (11 aprile 1919), l’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) è stata la prima organizzazione internazionale ad assumere la qualità di istituto specializzato delle Nazioni Unite. Comprende attualmente 183 Stati membri e ha sede a Ginevra. I suoi principali obbiettivi sono: promuovere i diritti dei lavoratori, incoraggiare l’occupazione in condizioni dignitose, migliorare la protezione sociale e rafforzare il dialogo sulle problematiche del lavoro. Organo supremo di produzione normativa, al quale compete di elaborare le norme della disciplina internazionale del lavoro, che si distinguono in raccomandazioni e convenzioni. Le prime consistono in semplici proposte di legislazione, a cui gli Stati non sono giuridicamente obbligati a conformarsi, mentre le seconde consistono in progetti di Trattati internazionali predisposti dall’OIL, provvisti di efficacia giuridica obbligatoria per gli Stati che li ratificano. Insieme formano il Codice internazionale del lavoro.

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21 Due convenzioni OIL riguardano in maniera specifica la protezione dei diritti dei lavoratori migranti e il rapporto con le loro famiglie:

- Convenzione OIL n. 97 del 194916;

- Convenzione OIL n. 143 del 197517.

Le Convenzioni sono state accompagnate da due raccomandazioni, rispettivamente R86 e R151. Entrambe includono una definizione di “lavoratore migrante” (“migrantworker” o “migrant for employment”) al fine di individuare chi possa essere considerato tale e, quindi, i soggetti a cui tali convenzioni possano essere applicate. Nella Convenzione n. 97 all’art.11: “il termine - lavoratore emigrante -

designa una persona che emigra da un Paese verso un altro Paese allo scopo di occupare un impiego che non dovrà esercitare per proprio conto e comprende qualsiasi persona ammessa regolarmente in qualità di lavoratore emigrante”; ritroviamo una norma di contenuto del tutto

identico all’art.11 della Convenzione n. 143.

La Convenzione n. 97 può essere considerata come la prima che riconosce il ricongiungimento familiare, anche se in nessun articolo è sancito esplicitamente tale diritto. Appare chiara l’ottica di favore che la Convenzione riserva a tale istituto, infatti numerosi sono i richiami alla famiglia che accompagna o si ricongiunge al lavoratore migrante e alla tutela che ad essa debba riconoscersi.

La Convenzione n.143, che reca norme in materia di migrazioni compiute in condizioni abusive, promuovendo la parità di opportunità e di trattamento dei lavoratori migranti, compie un ulteriore passo avanti nello stabilire all’art. 13 che:

16 La Convenzione è entrata in vigore il 22.01.1952, è stata ratificata dall’Italia e resa esecutiva con l. 12 agosto1952, n 1304.

17 Entrata in vigore il 09.12.1978, ratificata dall’Italia e resa esecutiva con l. 10 aprile 1981, n.158.

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22 “1. Ogni Stato membro può adottare tutte le disposizioni opportune di

sua competenza e collaborare con altri Membri, per favorire il raggruppamento familiare di tutti i lavoratori migranti che risiedono legalmente sul suo territorio.

2.Il presente articolo concerne il coniuge del lavoratore migrante, nonché, ove siano a suo carico, i figli e i genitori.” Si prevede, quindi, in

modo esplicito che gli Stati facilitino il ricongiungimento di tutti i lavoratori migranti con i loro familiari.

Ulteriore considerazione deve farsi riguardo a tale Convenzione ovvero che in essa sono esplicitamente previste una serie di garanzie per i familiari del lavoratore. A titolo esemplificativo si può citare l’art. 10 in cui si prevede che, ogni Membro per il quale la Convenzione sia in vigore s’impegna a formulare e ad attuare una politica nazionale diretta a promuovere e garantire la parità di opportunità e di trattamento in materia di occupazione e di professione, di sicurezza sociale, di diritti sindacali e culturali, nonché di libertà individuali e collettive per le persone che, in quanto lavoratori migranti o familiari degli stessi, si trovino legalmente sul suo territorio.

Gli Stati inoltre si impegnano a compiere ogni sforzo affinché i lavoratori migranti e i loro familiari possano essere messi in condizione di usufruire degli stessi vantaggi concessi ai lavoratori nazionali, secondo il principio della parità di trattamento, oltre a fare tutto il possibile per aiutare e incoraggiare i lavoratori migranti e i loro familiari a preservare la propria identità nazionale ed etnica, nonché i legami culturali che li uniscono al Paese di origine. La Convenzione, con l’obbiettivo di una tutela che possa essere il più ampia possibile, e che quindi abbracci non solo il lavoratore migrante in quanto tale ma che tuteli anche l’uomo e il suo diritto alla famiglia, chiede agli Stati di favorire il ricongiungimento, prevede esplicitamente garanzie per la famiglia del lavoratore e si spinge fino ad identificare chi sono i familiari

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23 che possono godere del diritto al ricongiungimento, includendo non solo la famiglia nucleare, coniuge e figli, bensì anche i genitori.

Ulteriori importanti indicazioni le troviamo nelle due Raccomandazioni: la R n. 86 che accompagna la Convenzione n. 97; la R n. 151 che accompagna la Convenzione n. 143.

La R n. 86, oltre a ribadire che hanno diritto a ricongiungersi al lavoratore i membri della famiglia nucleare (coniuge e figli), invita gli Stati ad esaminare con benevolenza le richieste di ricongiungimento fatte dagli altri familiari che sono economicamente dipendenti dal lavoratore18.

Evidenti sono le intenzioni garantistiche dell’OIL a favore della famiglia, non solo nel territorio dello Stato che ospita il lavoratore migrante ma anche nel caso in cui tale lavoratore sia costretto a rientrare con il nucleo familiare nel proprio Paese di origine. Riguardo alle situazioni che si verificano nel territorio dello Stato, al capo V si prevede la possibilità d’impiego anche per i familiari del lavoratore, alle stesse condizioni dei cittadini. Viene dato così forte impulso e sostegno all’integrazione dell’intero nucleo nello Stato ospitante, nell’ottica di una migrazione che non abbia più il carattere di temporaneità ma inquadrata come scelta del lavoratore di risiedere stabilmente in detto Stato. L’art. 18 si pone nella stessa ottica, nella prima parte prevede che lo Stato membro dovrebbe astenersi per quanto possibile dall’allontanare dal suo territorio il lavoratore e i membri della sua famiglia regolarmente ammessi, per motivi derivanti dall’insufficienza delle risorse del lavoratore o dalla situazione del mercato dell’impiego. Dal combinato disposto degli artt. 18, 19 e 20 si evince, inoltre, che nel caso in cui il lavoratore dovesse tornare nello Stato natio, la tutela si sostanzi nel prevedere misure appropriate relativamente allo

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24 spostamento del lavoratore e della famiglia verso lo Stato di origine, e qui che riceva misure assistenziali oltre a quelle necessarie per facilitare un reinserimento lavorativo del soggetto.

La R n. 151 che accompagna la Convenzione n. 143 dedica un’intera sezione alla riunificazione familiare, in cui si richiede agli Stati di facilitare il ricongiungimento “as rapidly as possible” e di fornire mezzi di sussistenza adeguati a far fronte alle necessità delle famiglie ricongiunte.

Con riguardo ai membri della famiglia che godono del diritto a raggiungere il lavoratore migrante, l’art. 13 della Raccomandazione n. 151 prevede che la famiglia debba includere il coniuge, i figli a carico, il padre e la madre, a cui estende specificamente il diritto al ricongiungimento familiare.

Le Convenzioni OIL tutelano la persona in quanto “lavoratore migrante” e tendono a riconoscere il ricongiungimento solo in funzione dell’esigenza del lavoratore in quanto tale e della sua famiglia. Mentre la Convenzione n. 97 pone l’attenzione in particolar modo sull’occupazione e le condizioni di lavoro, la Convenzione n. 143 si concentra molto di più sull’integrazione e sulle possibilità che gli Stati possono offrire anche ai membri della famiglia del lavoratore.

Le suddette Convenzioni sono state le prime a riconoscere il ricongiungimento familiare come un diritto, anche se riservato ai soli lavoratori. Nonostante questo, la materia relativa alle condizioni di ingresso e soggiorno degli stranieri è sempre stata e continua ad essere prerogativa della sovranità statale.

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25

1.2.4. La Convenzione internazionale sulla protezione dei

diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle

loro famiglie del 1990

Il processo di formazione della Convenzione sui diritti umani dei lavoratori migranti e delle loro famiglie è stato molto lungo: iniziato nel 1972, in occasione della tragedia del Monte Bianco19, si è concluso con

19 Nel 1972, nella tragedia del tunnel del Monte Bianco, 28 lavoratori di origine malese muoiono soffocati in un camion sigillato destinato a trasportarli clandestinamente attraverso il confine italo-francese, la questione degli stranieri in condizioni irregolari si manifesta violentemente all’opinione pubblica internazionale. Sulla scia di questi avvenimenti è adottata, nel 1975, la Convenzione OIL, n. 143, relativa alle migrazioni in condizioni abusive e la promozione dell’uguaglianza di opportunità e di trattamento dei lavoratori migranti. In quegli stessi anni l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite si esprime a sostegno di una protezione adeguata dei lavoratori migranti. La Risoluzione 32/120, del 1978, chiede agli Stati di proteggerne i diritti fondamentali, nonché di incrementare la ricerca e lo scambio di informazioni, invitandoli a considerare la ratifica della Convenzione OIL, n. 143; essa chiede inoltre alla Commissione per i Diritti Umani e al Consiglio Economico e Sociale di prendere maggiormente in considerazione la questione dei lavoratori migranti. In tale contesto il rapporto del Segretario Generale pone in evidenza le difficoltà che i migranti si trovano ad affrontare nel Paese di accoglienza. Nel dicembre del 1979, l’Assemblea Generale istituisce, attraverso la Risoluzione 34/172, un Gruppo di Lavoro incaricato di redigere una proposta di Convenzione per la protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, aperto alla partecipazione di tutti i membri ONU. Sin dall’inizio i lavori del Gruppo di redazione sono caratterizzati dalla diversità diposizione tra i delegati dei Paesi in via di sviluppo e quelli degli Stati occidentali. Il Marocco ed il Messico giocano un ruolo guida sia nell’avviare il processo di redazione che durante la prima fase dei negoziati, nell’intento di garantire maggiore protezione ai loro cittadini emigrati (rispettivamente, in Francia e negli USA). La prima bozza, firmata da Algeria, Messico, Turchia, Pakistan, Jugoslavia e, subito dopo, da Barbados ed Egitto, è completata nel 1981.Con il dichiarato intento di scoraggiare il reclutamento, da parte dei datori di lavoro, di immigrati privi dei documenti necessari, si costituisce nel frattempo il gruppo MESCA, composto dai delegati di sei nazioni mediterranee e scandinave: Finlandia, Grecia, Italia, Portogallo, Spagna e Svezia, cui si aggiunge la Norvegia. Le proposte del gruppo MESCA costituiscono la colonna portante della nuova Convenzione. Una volta trovato un accordo sulla struttura da dare al nuovo testo, il gruppo MESCA chiede all’OIL di prendere parte alla definizione dei vari articoli, riconoscendole un ruolo consultivo nella stesura della Convenzione. Si giunge alla prima lettura nel 1984, quando, da un lato, gli Stati tradizionalmente di immigrazione affrontano l’aumento delle presenze irregolari, mentre, dall’altro, alcuni Paesi fino ad allora generatori di flussi migratori iniziano a sperimentare il ruolo di nazioni di destinazione. La lettura della prima bozza lascia sperare in una rapida conclusione dei lavori preparatori. Tuttavia, i cambiamenti del testo sono stati numerosi: alcuni resi necessari per una maggiore chiarezza e precisione giuridica, altri risultanti da innovazioni nel frattempo occorse, altri ancora necessari a raggiungere l’accordo. La Convenzione è adottata l’8

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26 l’effettiva entrata in vigore della stessa nel 2003. Questa Convenzione resta il più ambizioso tentativo di garantire su base universale e nel modo più completo possibile i diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie. Come si evince dal Preambolo la Convenzione completando e affiancando la normativa internazionale preesistente, a cui fa esplicitamente richiamo, persegue l’obbiettivo di sancire norme uniformi per gli Stati, col fine di creare una protezione internazionale specifica ed esauriente riguardo al trattamento dei lavoratori migranti e delle loro famiglie, in considerazione del fatto che i diritti di tali soggetti come la Convenzione stessa afferma non sono stati sufficientemente riconosciuti; questi dovrebbero invece beneficiare di una protezione internazionale appropriata. Essa riconosce: i progressi conseguiti da alcuni Stati su base regionale, e gli accordi bilaterali o multilaterali che regolano i rapporti tra Paesi in questo ambito.

La Convenzione fa esplicito richiamo ai lavoratori migranti irregolari o privi di documenti, mettendo in luce come in questi casi i problemi umani siano ancora più gravi, per questo motivo incoraggia l’attuazione di misure appropriate per prevenire ed eliminare i movimenti clandestini e il traffico dei lavoratori, assicurando allo stesso tempo il rispetto dei loro diritti fondamentali.

Siamo di fronte all’unico atto normativo a vocazione universale che contiene una definizione, sia pur parziale, di famiglia. L’art. 4 afferma: “Ai fini della presente, l’espressione “membri della famiglia” designa le

persone sposate ai lavoratori migranti o aventi con questi delle relazioni che, in virtù della legge applicabile, producono degli effetti equivalenti al matrimonio, nonché i loro fanciulli a carico ed altre persone a carico che sono riconosciute come membri della famiglia in virtù della

dicembre 1990, con un testo che si discosta peraltro sensibilmente dalla prima stesura.

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27

legislazione applicabile o di accordi bilaterali o multilaterali applicabili tra gli Stati interessati.”

Punto focale di questa definizione è l’introduzione di un concetto nuovo di famiglia, non più solo quella nucleare (già prevista a livello internazionale nei precedenti testi), ma viene espressamente riconosciuta e garantita anche quella che nasce da relazioni che abbiano effetti analoghi al vincolo formale del matrimonio. Così facendo la Convenzione amplia ulteriormente la platea di soggetti a cui i diritti, legati alla protezione della famiglia, devono essere riconosciuti, includendo situazioni che fino a questo momento non vi sarebbero rientrate.

Di particolare rilievo è la formulazione dell’art. 44 in quanto, oltre a ribadire l’idea di famiglia quale elemento naturale e fondamentale della società e a sancirne il diritto all’unità, impone agli Stati di prendere misure appropriate per facilitarne la riunione e assicurarne poi la protezione. Nella disposizione in esame con l’espressione “prendono” si vuole sottolineare come sia imposto un vero e proprio obbligo agli Stati al contrario degli altri atti internazionali in cui la parola “possono” indicava per l’appunto una mera facoltà.

Il concetto di famiglia già individuato nell’art. 4 viene ribadito nuovamente al punto 2 dell’art. 44 ovvero: “gli Stati prendono le misure

che ritengono appropriate.... per facilitare la riunione del lavoratore migrante con il congiunto o con le persone aventi con loro relazioni che, in virtù della legge applicabile, producono effetti equivalenti al matrimonio oltre che con i loro bambini a carico minori e non coniugati”. Questo ulteriore specifico riferimento alle unioni con effetti

analoghi al matrimonio, a conferma dell’ampliamento della categoria dei beneficiari, un ampliamento che riguarda anche i figli, categoria che comprende non più solo quelli minori a carico, ma anche i maggiorenni

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28 a carico non coniugati che non possono provvedere da soli al proprio mantenimento.

Al punto 3 dell’art. 44 viene menzionata l’ultima categoria di familiari che comprende gli altri membri della famiglia sia in linea retta, ascendenti o discendenti quali genitori e nonni, sia in linea collaterale quali fratelli, sorelle, zii o nipoti. L’ammissione di tali soggetti, nel territorio ove si trova il lavoratore migrante è subordinata all’esistenza di ragioni umanitarie ed è lasciata alla discrezionalità degli Stati firmatari, saranno questi a valutare le circostanze e le modalità per accordare il diritto al ricongiungimento a queste altre categorie di soggetti.

Questa Convenzione su cui l’ONU riponeva enormi aspettative ha avuto scarsissima adesione in quanto i Paesi membri dell’Unione Europea, pur sollecitati più volte, sia dal Parlamento che dalla Commissione a ratificarla, non lo hanno fatto per timore di assumere impegni estesi in materia. Gli Stati infatti, con la ratifica della Convenzione si impegnerebbero a garantire una serie di diritti di carattere essenziale nei confronti dei lavoratori e delle loro famiglie, siano essi legalmente residenti, irregolari o addirittura clandestini. A questo si aggiunge il timore che l’entrata in vigore di un testo di tale portata provochi un maggiore afflusso di lavoratori migranti dai Paesi in via di sviluppo verso quelli più ricchi.

La resistenza alla ratifica da parte degli Stati ricchi ha indotto alcune organizzazioni, attive nella promozione dei diritti dei lavoratori migranti, a creare nel 1998 a Ginevra un Comitato Direttivo per la campagna globale (Steering Commitee) del quale fanno parte agenzie delle Nazioni Unite e intergovernative, ONG, fondazioni, organizzazioni dei lavoratori e altri organismi.

Il Comitato coordina le attività della Campagna Globale per la ratifica della Convenzione sui diritti dei migranti, il cui obiettivo è far conoscere

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29 questo strumento normativo all’opinione pubblica internazionale e promuovere la ratifica o l’adesione alla Convenzione da parte del maggior numero possibile di Stati.

Nel 2000, grazie all’opera di queste organizzazioni, le Nazioni Unite hanno proclamato il 18 Dicembre la Giornata internazionale del migrante , nella stessa data dell’adozione della Convenzione. Anche in Italia, nel 2002, su iniziativa dell’OIM e dell’ILO, viene costituito il Comitato Italiano per i diritti dei migranti, la cui composizione rispecchia fedelmente quella dello Steering Committee. Al Comitato italiano aderiscono altri enti dell’area ecclesiale, laica e i tre maggiori sindacati (CGIL, CISL, UIL). Promuovendo diverse attività tra cui una Campagna di informazione e sensibilizzazione sui diritti dei lavoratori migranti, il cui obiettivo è la firma e ratifica da parte dell’Italia della Convenzione, ratifica ad oggi non ancora avvenuta.

1.2.5. La Convenzione di New York sui diritti dell’infanzia

e dell’adolescenza

Adottata con Risoluzione n. 44/25 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre del 1989 a New York, la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza20 racchiude in un unico Trattato

tutti i diritti dei fanciulli, considerando tali, secondo un approccio innovativo, tutti coloro che non hanno compiuto il diciottesimo anno di età, a meno che non siano considerati maggiorenni secondo la legislazione applicabile21.

20 L’Italia ha firmato la Convenzione il 26 gennaio 1990 e l’ha ratificata il 5 settembre 1991. Pubblicata in G.U. dell’11 giugno 1991, n. 135.

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30 La Convenzione rappresenta la prosecuzione e il perfezionamento di precedenti testi, quale la Carta dei Diritti del Bambino, scritta nel 1923 da Eglantyne Jebb22, Carta su cui nel 1924 venne redatta la

Dichiarazione di Ginevra, che rappresentò la base per la Dichiarazione dei diritti del fanciullo, adottata dall’Onu il 20 novembre 1959, quest’ultima ispirò l’attuale definitiva Convenzione di New York. La Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza è il Trattato più ratificato della storia. Due Paesi non l’hanno firmata: Sud Sudan e Palestina, mentre alla ratifica23 mancano la Somalia e

sorprendentemente gli Stati Uniti.

Il testo si compone di 54 articoli e tre Protocolli opzionali, riguardanti: il coinvolgimento nei conflitti armati (OPAC) e lo sfruttamento sessuale dei bambini (OPSC) approvati nel maggio del 2000 ed entrati in vigore due anni dopo, mentre il terzo riguarda le procedure per i reclami. All’interno della Convenzione troviamo quattro principi generali che oltre a essere pilastri nel fornire garanzie minime a tutela dell’infanzia, fungono da linee guida dei governi per l’attuazione della Convenzione stessa.

22 Durante il servizio in Croce Rossa prestato nella prima Guerra Mondiale, Eglantyne Jebb era stata molto colpita dalle sofferenze inflitte dalla guerra ai bambini ed essendo persuasa che «le guerre sono sempre guerre innanzitutto contro i bambini», aveva pensato che fosse necessario affermare alcuni diritti fondamentali propri dei fanciulli. Nel maggio del 1919 a Londra fonda l’organizzazione Save the Children e nel 1923 stila la prima Carta internazionale dei diritti del bambino: «che ogni bambino affamato sia nutrito, ogni bambino malato sia curato, ad ogni orfano, bambino di strada o ai margini della società sia data protezione e supporto». La Carta scritta in stile semplice in cinque punti afferma che i bambini hanno dei diritti e la Comunità ha il dovere di proteggerli. La invia quindi alla Società delle Nazioni scrivendo: «Sono assolutamente convinta sia giunto il momento di riconoscere i diritti propri dei bambini», il testo viene adottato dalla Società delle Nazioni l’anno successivo il 26 settembre del 1924, con il nome di Dichiarazione di Ginevra. Eglantyne è stata in grado di anticipare un concetto assolutamente rivoluzionario per l’epoca, cioè che anche i bambini fossero titolari di diritti peculiari, distinti da quelli degli adulti. 23 La firma è un semplice impegno politico. La ratifica implica la messa in opera di questa Convenzione adottando le misure idonee e facendo applicare le disposizioni della Convenzione di fronte ai giudici.

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31 All’art. 2 è sancito il principio di non discriminazione: gli Stati si impegnano a rispettare i diritti enunciati nella Convenzione e a garantirli ad ogni fanciullo che si trovi nella loro giurisdizione senza fare alcuna distinzione, si impegnano inoltre a prendere provvedimenti appropriati affinché essi siano effettivamente tutelati contro ogni possibile forma di discriminazione.

L’art. 3 sancisce un altro importantissimo principio che permea l’intero testo: in ogni decisione riguardante i bambini si deve tenere in preminente considerazione il superiore interesse del fanciullo.

Da ultimi ma non meno importanti gli artt. 6 e 12: nel primo viene sancito il diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo del fanciullo; nel secondo il diritto dei bambini ad essere ascoltati in ogni processo decisionale che li riguarda e il corrispondente dovere degli adulti di prendere in adeguata considerazione tali opinioni. I fanciulli non vengono più considerati semplici oggetti di tutela nei rapporti giuridici, bensì soggetti di diritto, titolari di posizioni giuridiche autonome nei confronti della società, dello Stato e dei genitori stessi.

I diritti contenuti in questa Convenzione dal punto di vista sostanziale, ripetono quelli tradizionali già enunciati nei precedenti strumenti internazionali generali, ma accanto a questi, vi sono poi una serie di previsioni di cui non vi è traccia nei testi precedenti. Di particolare rilievo le disposizioni che riconoscono un ruolo di partecipazione attiva dei minori all’interno della vita delle comunità.

Nella Convenzione è stato esplicitamente codificato il diritto al ricongiungimento familiare dei minori con i propri genitori, l’art. 9 prevede che gli Stati vigilino affinché il fanciullo non sia separato da questi contro la loro volontà, a meno che le autorità competenti non decidano che la separazione sia necessaria nel preminente interesse del minore. Lo stesso articolo pone alcuni esempi dei casi in cui tale separazione sia ammissibile: il comma 3 sancisce: nel caso in cui il

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32 fanciullo sia separato da entrambi i genitori o da uno di essi, deve essere rispettato il suo diritto ad intrattenere rapporti personali e contatti diretti con entrambi, a meno che questo non sia contrario ai suoi interessi.

Il diritto del fanciullo a non essere separato si sostanzia in due tipi di obblighi da parte degli Stati: il primo negativo, consiste nel divieto di interferenza nella vita familiare, il secondo positivo, consiste nel dover prendere tutte le misure per assicurare e garantire l’effettivo diritto all’unità familiare del bambino.

Gli Stati sono, quindi, chiamati ad assicurare che il fanciullo non sia separato dai genitori o che vi sia ricongiunto. In questa ottica assume rilevanza l’ipotesi particolare del ricongiungimento familiare “a rovescio”: istituto che rafforza ulteriormente la tutela del minore. Questo tipo di ricongiungimento familiare si ha nei casi in cui il soggetto attivo, genitore, si trova nel Paese di origine, mentre il fanciullo nello Stato ospite. Il legislatore consente l’ingresso per ricongiungimento con il figlio minore, del genitore che dimostra entro un certo periodo di tempo dalla data di arrivo, il possesso dei requisiti di disponibilità di alloggio e di reddito, richiesti dalla normativa nazionale. Questa tutela viene riservata ai minori che versano in condizioni psico-fisiche particolari nel Paese ospite e, quindi, hanno bisogno di avere presso di sé il genitore24.

24 Attenzione particolare a questi casi specifici di ricongiungimento viene posta anche dalla legislazione nazionale, infatti il T.U. agli artt. 29,30,31 prevede almeno tre casi di ricongiungimento o di coesione del familiare straniero, generalmente individuato nel genitore, al minore. Nel caso di ricongiungimento le persone da ricongiungere sono ancora all’estero, mentre nel caso della coesione queste sono già in Italia; nella coesione la persona che si vuole ricongiungere chiede alla Questura un permesso di soggiorno per famiglia collegato a quello del familiare di riferimento, che già risiede stabilmente in Italia; nel ricongiungimento è invece quest’ultimo a chiedere un nulla osta in Prefettura attraverso il quale il familiare da ricongiungere otterrà un visto per venire in Italia. A differenza del ricongiungimento inoltre, non è previsto il rilascio del “nulla osta” per effettuare la “coesione”. La coesione può essere richiesta tramite il kit postale, ove dovranno essere allegati i documenti medesimi previsti per il

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33 Siamo di fronte ad un istituto che mira ad estendere al massimo la protezione dei bambini, da sempre categoria debole per cui si rende necessaria una tutela più ampia e pregnante, tant’è vero che si impone agli Stati l’obbligo di garantire il ricongiungimento e l’unità familiare al minore che si trovi nel loro territorio, bypassando in alcune ipotesi la normativa nazionale in materia di condizioni generali di ingresso e soggiorno per gli stranieri.

Due esempi meritano di essere citati a riprova di tale situazione, il primo riguardante una sentenza della Corte di Appello di Torino del 18 aprile del 2001, sull’ipotesi specifica di ricongiungimento familiare “a rovescio”, il secondo è la sentenza della Cassazione penale Sez. I, (ud. 23.10.2008) 26.11.2008, n. 44048 sul ricorso proposto dal pubblico ministero presso il Tribunale di Trieste avverso sentenza del 10.12.2007 Tribunale di Trieste altro caso in cui viene tutelato il preminente interesse del minore a fronte di una possibile ipotesi di reato.

Nel primo caso la Corte di Appello di Torino25, al fine di tutelare il

superiore interesse del bambino, ha concesso alla madre dello stesso,

ricongiungimento. Il permesso di soggiorno per coesione è di durata pari a quello del familiare. Questi casi saranno trattati più ampliamente in seguito.

25 Il caso riguardava un cittadino marocchino residente in Italia con due mogli, e i rispettivi due figli. L’istanza presentata dall’uomo di autorizzare la seconda moglie a rimanere in Italia veniva respinta dal Tribunale per i minorenni di Torino poiché ammettere il diritto al ricongiungimento in base all’art. 29 del Testo unico nr. 286/98, comporterebbe, infatti, in questo caso, il riconoscimento di una situazione di poligamia, contraria ai principi dell’ordinamento italiano. Avverso tale decreto, marito e moglie propongono ricorso che viene accolto dalla Corte di Appello di Torino in base alla previsione dell’art. 31 comma 3 del testo unico per cui “per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto dell’età e delle condizioni di salute del minore che si trova nel territorio italiano (si) può autorizzare … la permanenza del familiare, per un periodo di tempo determinato, anche in deroga alle altre disposizioni del …testo unico”. Tale autorizzazione convaliderebbe una situazione poligamica se concessa ai sensi dell’art. 29 “per consentire ad un coniuge di ricongiungersi all’altro coniuge in una situazione di famiglia poligamica; ma nel caso di specie l’autorizzazione viene concessa nell’interesse del figlio minore, per garantire la vicinanza del genitore, indipendente dal fatto che questo sia o meno sposato con l’altro genitore del figlio, e che sia sposato in regime monogamico o poligamico. L‘autorizzazione è, quindi finalizzata a tutelare non una relazione coniugale, in ipotesi,

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34 unita al padre in matrimonio poligamico -vietato in Italia perché in contrasto con le norme imperative di ordine pubblico- l’autorizzazione a restare in Italia per un periodo determinato.

Sulla base, della sentenza della Corte d'appello di Torino del 18 aprile 2001, in considerazione dell'art. 28 comma 3, art. 31 comma 3 del Testo Unico e dell'art. 3 della Convenzione sui diritti del fanciullo, è possibile che "per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto

dell'età e delle condizioni di salute del minore" si possa autorizzare la

permanenza del familiare (madre, anche se seconda moglie del padre del bambino) anche in deroga alle disposizioni del Testo Unico. Non viene ad essere tutelata una condizione coniugale, in quanto non sono ammesse circostanze poligamiche in Italia, ma una situazione familiare critica nell’interesse preminente del bambino.

Il secondo caso riguarda il reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina del minore nello Stato: la Corte di Cassazione ha riconosciuto l’esistenza della causa di giustificazione dello stato di necessità art. 54 c.p.26 a favore di un cittadino macedone che era stato

accusato dal Pubblico ministero presso il Tribunale di Trieste del reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina (art. 12, comma 1, del DLGS n. 286/1998) perché, avendo ottenuto dalle autorità italiane il permesso di condurre con sé in Italia solo la moglie e il figlio, aveva violato le norme sul ricongiungimento portando con sé anche la figlia minorenne per la quale non aveva ottenuto il permesso per l’ingresso nel territorio dello Stato. La Suprema Corte – a cui il Pubblico ministero ha fatto appello contro la sentenza di primo grado che già aveva

contraria ai principi del nostro ordinamento ma a realizzare il diritto di un minore a…non essere…separato” dal genitore.

26 Art. 54 codice penale, comma 1 «Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato all’offesa.».

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35 riconosciuto all’imputato la scriminante prevista dall’art. 54 c.p. – ha affermato che per escludere lo stato di necessità ex art. 54 c.p. non sono sufficienti «considerazioni meramente congetturali afferenti

improbabili o evanescenti scelte alternative» come quelle indicate dal

Pubblico ministero (per esempio lasciare l’Italia per cogliere le opportunità offerte dall’espansione dell’economia macedone o cercare un nuovo alloggio nel nostro Paese al fine di ottenere un esito positivo a una nuova domanda di ricongiungimento per la figlia).

Specificatamente i Giudici della Corte di Cassazione evidenziano che di fronte al grave danno che si sarebbe certamente verificato alla psiche della minore, se la stessa fosse stata vittima di una traumatica separazione dai genitori, risulta pienamente giustificata la condotta del padre che aveva portato con sé anche la figlia dodicenne facendole eludere i controlli alla frontiera, non avendo ottenuto per lei l’autorizzazione all’ingresso nel territorio italiano. Tale condotta, infatti, appare non soltanto volta a salvare la minore da un grave e attuale danno alla persona, ma anche dettata dall’impossibilità di evitarlo in altro modo. Nuovamente si è tenuto conto del preminente interesse del minore a fronte di una possibile ipotesi di reato penale. Un’ultima analisi, prima di chiudere l’esame della Convenzione di New

York, merita l’art. 10 in cui si raccomanda agli Stati di considerare con

spirito positivo, umanità e diligenza ogni domanda presentata da un fanciullo o dai suoi genitori, per entrare o uscire da uno Stato parte ai fini di un ricongiungimento familiare. Gli Stati hanno inoltre l’obbligo di vigilare affinché la presentazione di una tale domanda non comporti conseguenze pregiudizievoli. Come specificato al comma 2 nel caso in cui i genitori risiedano in Paesi diversi il bambino ha diritto di mantenere rapporti con entrambi. Gli Stati devono inoltre rispettare il diritto del fanciullo e dei suoi genitori di abbandonare ogni Paese per far ritorno nel proprio.

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