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Una grande riforma in un cantiere aperto. Nuova articolazione delle Province dopo la Legge Delrio

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale a ciclo unico in Giurisprudenza

Tesi di Laurea Magistrale

UNA GRANDE RIFORMA IN UN CANTIERE

APERTO.

NUOVA ARTICOLAZIONE DELLE PROVINCE

DOPO LA LEGGE DELRIO

Relatore:

Prof. Alfredo Fioritto

Candidato:

Giuseppe Bongiovanni

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A mio nonno Lorenzo, ti dedicherò tutte le vittorie della mia vita

A mia Madre e a mio Padre, per la loro dedizione nel rendermi felice e per avermi insegnato a non arrendermi mai

A mio Fratello, il dono più grande

(3)

Indice

Introduzione………..…1

Capo I

1. Ruolo storico delle provincie………..……..4

1.1 Dall'unità d'Italia alla legge Delrio………..…….…….4 1.2 La riforma costituzionale come atto finale……..…….…...20

2. La legge Delrio tra novità e criticità……….…….…27

2.1 Legge Delrio tra CEAL e Costituzione……….………..….27 2.2 Trattazione Analitica…………..……….………44 2.3 Profili problematici………..…………...74

Capo II

3. Le funzioni di area vasta: funzioni fondamentali statali e funzioni conferite dalle Regioni…...……….………...……….77

3.1 Funzioni fondamentali delle Province………..…..77 3.2 Funzioni fondamentali delle Città Metropolitane….…..….90 3.3 Una lettura in chiave evolutiva: funzioni finali e strumentali all’interno delle funzioni fondamentali……….…93

(4)

3.4 Le funzioni non fondamentali tra sussidiarietà e cooperazione……….…96

4. Il riordino delle funzioni delle province e i nuovi assetti infra-regionali dopo la Legge Delrio……….……101

4.1 Riordino territoriale e istituzionale: assunti teorici……….……….101 4.2 Le scelte del legislatore regionale……….... 103 4.3 Le strategie e i disegni di multilevel governance emergente

in ogni

Regione………...108 4.4 Case Studies: Toscana, Campania e Friuli-Venezia Giulia………..116 4.5 Questioni aperte e prospettive di riordino……….……....125

5. Il ruolo delle città metropolitane dopo l’abolizione delle province………...……129

5.1 Le provincie e le città Metropolitane a supporto dei processi

di unione e fusione

………..…………...……….…..………129 5.2 Città metropolitane e smart governance. Verso le smart

cities……….………..………….135

5.3 Conclusioni……….………..151

6. Quale futuro per le provincie………..155

6.1 Ri-allocazione del personale delle

(5)

6.2 Riordino finanziario delle

Province………..…………168

6.3 Cosa ne pensano gli amministratori di ieri e oggi………..…...182

Appendice………..188

Bibliografia ……….………..214

(6)

1

Introduzione

Nonostante il titolo piuttosto sobrio “Disposizioni sulle Città

Metropolitane, sulle Province e sull’Unione e Fusione dei Comuni” non

vi è dubbio che la legge n.56 del 2014, nota come Legge Delrio (dal nome del ministro proponente), sia considerata una delle più grandi riforme di sistema degli ultimi anni visto e considerato l’impatto istituzionale avuto in termini riordino delle funzioni, di riallocazione del personale e di taglio delle risorse, nonché il suo stretto legame con il Referendum del 4 Dicembre 2016 che avrebbe dovuto, nell’intenzione del Legislatore, completare questo percorso cancellando definitivamente la parola “Provincia” dalla Costituzione.

Il principale obiettivo è quello di una razionalizzazione della spesa pubblica e di un conseguente incremento dell’efficienza del governo locale, incidendo proprio sulle Province, considerate da molti come “l’anello” più debole del sistema istituzionale: da decenni, infatti, si denunciava l’incoerenza territoriale e funzionale delle Province istituite, al tempo, sulla base di elementi puramente storico-culturali e politici. Tale obiettivo viene perseguito attraverso la soppressione dell’ente provinciale mediante la trasformazione, nella gran parte dei casi, in ente territoriale di area vasta indefinito mentre negli altri casi è stato sostituito con la Città Metropolitana che acquisisce dal primo territorio e funzioni.

L’ente Provinciale, così declassato ad ente di area vasta, vede una diretta riduzione della democraticità degli Organi di Governo: Il Consiglio Provinciale e Metropolitano non vengono più eletti direttamente dai cittadini ma sono composti da membri non eletti direttamente, come Sindaci e consiglieri che fanno parte del territorio provinciale/metropolitano.

Nell’ottica del Legislatore, dall’applicazione della Legge doveva risultare un sistema in cui le Province sono enti di area vasta di secondo

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2 livello, strettamente legati ai Comuni del territorio, che esercitano direttamente alcune specifiche funzioni proprie di programmazione e coordinamento di area vasta; ma allo stesso tempo, d’intesa con i comuni del territorio, possono assumere un ruolo essenziale per la gestione unitaria di importanti servizi che oggi sono svolti a livello comunale o esercitate da agenzie in ambito provinciale o sub-provinciale.

Le altre funzioni, non fondamentali, vengono trasferite mediante un complesso sistema di riordino regionale o verso la Regione, come è avvenuto nella gran parte dei casi, o verso i Comuni o verso unioni e fusioni dei Comuni, che costituiscono il terzo pilastro della riforma. Infine, le Città Metropolitane, che nella ratio originaria, dovevano costituire l’equivalente delle Città Metropolitane Europee.

Grazie ai poteri e alle funzioni di programmazione e coordinamento del territorio metropolitano e allo stretto legame con il tessuto culturale ed economico del territorio, molte di queste hanno intrapreso la strada della “smarting city” che potrebbe portarli nel giro dei prossimi anni a competere con le grandi città Europee.

La portata rivoluzionaria della riforma viene messa in crisi e poi del tutto sopraffatta dai vincoli economico-finanziari di spesa pubblica; lo Stato con la Legge 190/2014 blocca la capacità assunzionale delle province e taglia i fondi per il triennio successivo di circa 6 miliardi portando la gran parte delle Province in una situazione di predissesto e dissesto finanziario che non ha permesso loro di chiudere il bilancio in pareggio e di esercitare quelle stesse funzioni assegnate dalla Legge.

Oggi le Province possono tornare nuovamente a sperare grazie al lavoro formidabile dell’Unione delle Province Italiane e dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani, il cui lavoro sinergico ha permesso di recuperare importanti spazi di capacità assunzionale e di recuperare fondi nella legge di bilancio per il 2018.

La seconda parte della tesi ha un taglio più applicativo ed è il risultato di ricerca, in parte sperimentale, sul campo: dai case studies sui modelli

(8)

3 regionali per il riordino delle funzioni, alle proposte di riordino organizzativo e finanziario dell’ente, al processo di “smarting city” delle Città Metropolitane, fino ad arrivare alle interviste agli amministratori di Liguria e Toscana il cui bagaglio di idee ed esperienza mi ha permesso di tracciare le conclusioni di questo cantiere aperto che è oggi la Legge Delrio.

(9)

4

Capo I Capitolo I

Ruolo storico delle Province

1.1 Dall’Unità d’Italia alla Legge Delrio

La questione delle Provincie è risalente nel tempo.

Già gli stati preunitari conoscevano l'istituto provinciale ma è solo con il regno Sabaudo che le province trovano un fondamento legislativo. In particolar modo, i Savoia vedono nelle Province l’ente necessario per unire il territorio e procedere all’Unificazione.

L’unificazione amministrativa del Paese tra il 1851 e il 1870 è avvenuto mediante il decentramento nelle province dell’assetto dei poteri pubblici dello Stato (Prefettura, camere di commercio, opere pie ecc), ereditando le circoscrizioni territoriali presenti nello Stato preunitario.

La Monarchia Sabauda cerca di costruire le circoscrizioni provinciali ricalcando, nella gran parte, le mappe territoriali che si erano venute a costruire nl tempo.1

Il 17 Marzo 1861 Vittorio Emanuele II proclama la nascita del Regno d’Italia, il cui territorio risulta essere suddiviso in 58 circoscrizioni provinciali2

Quindi nel contesto della prima fase dello Stato unitario italiano, La Provincia viene a caratterizzarsi come ente intermedio tra Comune e lo Stato ma in principal modo come sede di decentramento dell’apparato pubblico dello Stato.

1 Claudio Cerreti, La rappresentazione del territorio, in l’Unificazione Italiana, Treccani, 2011

2 Per l’evoluzione delle circoscrizioni provinciali confrontare il sistema informatico

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5 In questo modo lo Stato si avvicina ai territori attraverso la creazione di un ente legato ai Comuni e ai cittadini e che permette loro di svolgere tutte le questioni burocratiche amministrative senza passare per la Capitale.

Dalla legge comunale e provinciale L.3702/1859 risulta come le Province siano il modello preferito dallo Stato centrale in quanto più vicino al territorio e più rappresentativo degli interessi della comunità. La Provincia diventa così un ente locale dotata di propria rappresentanza elettiva e autonomia amministrativa: Il Consiglio provinciale di durata quinquennale e un organo esecutivo-amministrativo di durata annuale, La Deputazione provinciale, eletta dal Consiglio ma presieduta e convocata dal Governatore, poi coincidente con il prefetto di nomina regia. I consiglieri si rinnovavano per un quinto ogni anno per sorteggio. Le prime elezioni provinciali furono celebrate il 15 gennaio 1860. Nel 1866 a seguito della terza guerra di indipendenza, vengono aggiunte 8 nuove province asburgiche che sono Belluno, Padova, Rovigo, Treviso, Venezia, Verona, Vicenza e Udine; nel 1868 si aggiunge Mantova e infine nel 1870 si aggiunge Roma.

Un importante passo avanti viene fatto nel 1889 con il Primo testo degli

enti locali il quale introduce il principio elettivo nella nomina del

Presidente della Deputazione, separandone la figura da quella del Prefetto.

Viene allargato il suffragio amministrativo per censo.

Nel 1884 nell'intento di dare maggiore stabilità, la durata del Consiglio veniva portata a sei anni, con rinnovo triennale di metà dei consiglieri scelti per sorteggio. La Deputazione si rinnovava invece per intero ogni tre anni, e a tale termine venne coordinata la carica del presidente. Un'ulteriore espansione delle cariche esecutive fu deliberata nel 1904, facendo diventare quadriennale il mandato della Deputazione, mentre per il Consiglio si scelse il rinnovo biennale per terzi.3

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6 Il governo Giolitti segue su questa direzione e con la legge sul suffragio

Universale estende quest'ultimo anche alle elezioni amministrative: Il

Testo unico del 1915 si conferma come il prodotto di una evoluzione trentennale del sistema provinciale e per la prima volta ne regola i suoi organi, compiti, proventi e spese.

È evidente che la legislazione degli ultimi decenni dell’Ottocento trasforma le province da semplici enti finalizzati al decentramento territoriale a enti intorno ai quali si sviluppa la vita politica, sociale, culturale ed economica del paese4.

Il ventennio fascista si muove in controtendenza rispetto agli anni precedenti e in ragione di una logica accentratrice abolisce il suffragio universale per le elezioni provinciali.

Con l'introduzione delle leggi fascistissime i Prefetti insediarono stabilmente alla guida delle province le Commissioni Reali

Straordinarie che il precedente ordinamento giuridico considerava

come del tutto transitorie.

Nel 1923 sono istituite le tre province della Spezia, Ionio e di Trieste; nel 1924 le Province salgono a 76 con l’istituzione delle Province di Fiume, Pola e Zara, perse poi per i noti fatti storici.

Nel 1929 poi, la svolta autoritaria nella gestione delle province fu esplicitata anche per legge, e il Consiglio venne sostituito da un Rettorato di nomina prefettizia composto da un numero variabile di membri, mentre un Preside5 di nomina regia accentrò le competenze della Deputazione e del suo presidente.6

Gli anni del fascismo sono caratterizzati da un’opera continua di ridisegnamento dei confini territoriali: crea nuove province, ridisegna alcuni confini, sopprime alcuni comuni, dispone per la fusione diei

4 http://www.provincia.torino.gov.it/speciali/2012/convegno_pubblico/palombelli.pdf 5 Gazzetta Ufficiale 7 gennaio 1929

6 Paolo Caretti e Ugo De Siervo, Istituzioni di diritto pubblico, Torino, Giappichelli Editore, 1996

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7 Comuni tanto da arrivare nel 1941 ad avere 95 Province, escluse le zone di occupazione e le colonie.

Questa politica è chiara espressione della volontà del Regime di accentrare tutti i poteri sullo Stato e di evitare spinte liberali dal basso mediante uno stretto controllo degli enti e del territorio.7

A livello legislativo, l’ordinamento delle Province trova il suo consolidamento legislativo nel T.U del 3 Marzo 1934, n.383 con cui le Province vengono definite come “ente autarchico territoriale” a cui sono riconosciuti personalità giuridica e limitata libertà amministrativa. Vengono riconosciute delle competenze proprie anche se si limitano alla viabilità e al settore sociale e sanitario.

Le scelte operate dal T.U del 1934 rimarranno in vigore anche dopo la Costituzione.

Infatti, con la caduta del Regime fascista la priorità era quelle di restituire le libertà tolte dal regime e quindi viene ristabilito solo e in un primo momento il principio di elettività degli organi della Provincia. I lavori dell'assemblea costituente rappresentano un passaggio fondamentale non solo per avere una piena consapevolezza dei limiti storici che hanno segnato la realizzazione del principio autonomista, ma anche per affrontare le problematiche legate al riordino delle funzioni amministrative.

In particolare, l’intera vicenda dell’assetto territoriale della Repubblica ha ruotato intorno al rapporto tra Provincia e Regione, in quanto il dibattito alla Costituente presentava un punto critico: la natura dell’ente Regione, che lontano dall’essere percepito come una forma istituzionale concorrente dello Stato, con il quale avrebbe condiviso l’esercizio della funzione legislativa, veniva di fatto considerato nel novero degli enti locali, con i quali e, in particolare, con la Provincia, sarebbe dovuto entrare in competizione.

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8 Come è noto, nonostante gli studi preparatori avessero dato un giudizio negativo sull’introduzione di un ente, diverso dallo Stato, dotato di potestà legislativa, l’Assemblea Costituente, per opera di un gruppo ristretto di deputati, andò avanti in questa direzione, ma senza valutare l’effetto che questa decisione avrebbe prodotto proprio rispetto allo Stato.

La criticità della relazione tra Provincia e Regione era stata risolta in modo sfavorevole alla prima dal progetto di costituzione portato in Aula dalla Commissione dei 75, presieduta dall’On.le Ruini.

Infatti, la Commissione, aveva elaborato una disposizione di quello che sarebbe stato il futuro art. 114, in cui si legge che “La Repubblica si

riparte in Regioni e Comuni” e che “Le Province sono circoscrizioni amministrative di decentramento statale e regionale”

Proprio di fronte a questo disegno si accese il dibattito in Aula e l’impostazione di partenza venne rovesciata.

Le accuse mosse alla Provincia, di ente non radicato nel sentimento dei cittadini e dai compiti limitati, furono ribaltate contro la Regione, avvertita chiaramente dalla maggioranza dell’Assemblea come il vero ente artificiale creato dalla mente di alcuni membri dell’Assemblea Costituente, ma privo di qualunque riscontro storico.

Mangiameli afferma: “la Provincia risultava essere l'ente successore del comune medievale (secondo la nota impostazione di Vittorio Emanuele Orlando) e lì dove (nel mezzogiorno) le libertà comunali non avevano avuto modo di manifestarsi, il ruolo della Provincia si era affermato con l’organizzazione stessa dello Stato unitario8”.

Il dibattito costituzionale quindi si risolse a favore delle provincie: il risultato fu l’affermazione di una Provincia come ente autonomo, non solo storicamente radicato nella coscienza dei cittadini, vicino ai

8Stelio MANGIAMELI, La Provincia nell’assemblea costituente (febbraio 2008), I.S.SI.R.F.A, http://www.issirfa.cnr.it/stelio-mangiameli-la-provincia-dall-assemblea-costituente-alla-riforma-del-titolo-v-1a7.html

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9 cittadini più dello Stato e della Regione, ma anche tecnicamente e funzionalmente meglio attrezzato degli altri enti territoriali e dello Stato medesimo; questo consentiva di assurgere come sostegno ai comuni per la gran parte piccoli e limitati in alcune delle loro funzioni. Operazione, quest’ultima, che sarebbe stata possibile grazie al ripensamento delle competenze, ampiamente auspicato dall’Assemblea, propensa ad un riconoscimento espresso, con la nuova costituzione, delle funzioni proprie degli enti locali, quanto meno attraverso definizioni di principio che sarebbero state precisate successivamente nella legislazione. Di qui la formulazione data, alla fine, all’art. 114 Costituzione per il quale “La Repubblica si (ripartiva) in Regioni, Provincie e Comuni” Questa impostazione, susseguente al riconoscimento pressoché unanime del ruolo amministrativo della Provincia, peraltro, finì per agevolare anche la Regione, che per forza di cose viene ad assumere una collocazione differente.

Le funzioni regionali messe in evidenza furono, perciò, quelle legislative, poste in concorrenza con lo Stato; mentre la pacifica convivenza della Regione con la Provincia sarebbe dipesa dal modo di esercizio delle funzioni amministrative da parte della Regione.

Infatti, il cambiamento di orientamento dava i suoi frutti nell’elaborazione di alcune specifiche disposizioni che raccordavano la funzione della Regione con quella degli enti territoriali minori: in particolare, l’art. 118, comma 1, Costituzione prevedeva, accanto al c.d. principio del parallelismo, che nell’ambito delle materie di competenza legislativa regionale le funzioni amministrative “di interesse esclusivamente locale” potevano “essere attribuite dalla leggi della Repubblica alle Provincie, ai Comuni o ad altri enti locali”; e il comma 3 del medesimo articolo, in modo espresso, prevedeva che la Regione avrebbe esercitato “normalmente le sue funzioni amministrative delegandole alle Provincie, ai Comuni o ad altri enti locali, o valendosi dei loro uffici”.

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10 Il disegno costituzionale, operato in questo modo, trovava il suo completamento nell’art. 129, comma 1, Costituzione, ormai abrogato, il quale come chiara conseguenza della nuova dinamica uscita dal dibattito dell’Assemblea costituente, prevedeva che “Le Provincie e i Comuni

sono anche circoscrizioni di decentramento statale e regionale”.

Di conseguenza, la complessiva disciplina costituzionale stava ad indicare che l’autonomia di cui godevano le Province e le forme di collegamento che le stesse potevano avere, con lo Stato o le Regioni, in nulla differivano rispetto a quella dei Comuni.

Nello stesso senso, peraltro, faceva propendere anche l’art. 130 Costituzione., anch’esso oramai abrogato, in tema di controlli sugli atti. Risultato ampio quello ottenuto per le provincie alla fine del dibattito costituzionale ma minato dalla velocità di chiusura dei lavori che lasciarono ai posteri due problemi fondamentali nel Titolo V:

1) la determinazione delle competenze legislative regionali, che, furono semplificate e ridotte nel novero delle materie enumerate con il risultato di una interpretazione problematiche delle materie concorrenziali.

2) Il secondo aspetto, che in ragione della chiusura dei lavori della

Costituente venne semplificato con una considerevole riduzione di significato, concerneva la definizione dei ruoli degli enti territoriali minori e l’assetto delle loro funzioni. I tentativi, effettuati da diversi componenti dell’Assemblea, di precisare il ruolo e le funzioni degli enti territoriali minori, e in particolare della Provincia, furono tutti rinviati alla discussione dell’art. 121. La discussione si concluse con il ritiro di quasi tutti gli emendamenti e con l’approvazione del testo di quello che sarebbe diventato l’art. 128 Costituzione, per il quale “Le

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11

dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne (determinavano) le funzioni”.

Il quadro costituzionale delle autonomie locali uscito dall'assemblea costituente ci consegna una situazione problematica e non sempre lineare a cui avrebbe dovuto far fronte la successiva legislazione statale alla quale veniva demandata l'intera attuazione dell'art 5 della Costituzione, in ossequio ai principi di decentramento statale e di autonomia.

In realtà, gli anni ’50 e 60’ si caratterizzano per una prepotente affermazione dello Stato assistenziale e interventista, la cui filosofia di fondo era opposta ai principi dell’autonomia e del decentramento. Infatti, in quegli anni era preponderante l’idea di pianificazione e quella di programmazione economica, secondo i parametri dell’art. 41, comma 3, Cost., che richiedevano una forte centralizzazione degli apparati pubblici e un ruolo dominante della legge statale.

Quindi se da una parte lo sviluppo economico cresceva tumultuosamente dall’altra parte sono mancati del tutto gli interventi che dovevano incrementare il ruolo delle autonomie territoriali e gli organi dell’amministrazione periferica dello Stato.

Fa eccezione il ruolo del prefetto che, in quanto rappresentante del governo centrale, vede aumentare i suoi poteri.

Persino la Regione, l’ente territoriale di maggiori dimensioni, dotato di potestà legislativa, veniva messa da parte dopo una timida legislazione di attuazione nel 19539, per riapparire nel 1970.

Le stesse Regioni speciali pativano una condizione di limitazione della loro autonomia, nonostante gli Statuti costituzionali, della quale si sarebbero resi conto solo successivamente alla realizzazione delle Regioni ordinarie.

In particolare, per ciò che concerne Comuni e Province, questi enti furono regolati in modo alquanto singolare: il sistema di organizzazione

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12 veniva disciplinato dalle disposizioni del TULCP10 del 1915, richiamate in vita all’indomani della caduta del fascismo; mentre il sistema delle funzioni restava ordinato dal perdurante TULCP11 del 1934. Ma anche dopo l’effettiva istituzione delle Regioni ordinarie i Regi decreti del 1915 e del 1934, con cui furono approvati i testi unici della legge comunale e provinciale, continuarono a svolgere il loro compito di “legge generale della Repubblica”, che determinano le funzioni di comuni e province.

Bisognerà attendere il 1990, con la legge n. 142, per assistere al primo vero intervento legislativo, di carattere istituzionale, della Repubblica su comuni e province.

In tale contesto la Provincia viene definita “l’ente locale intermedio tra comune e Regione” che “cura gli interessi e promuove lo sviluppo della comunità provinciale”: alla Provincia viene riconosciuto il ruolo di anello di collegamento tra Regione e Comune.

Viene inoltre definito un elenco di materie nell’ambito del quale le Regioni possono definire in modo organico e puntuale le materie da attribuire alle Province: tra le funzioni più importanti abbiamo la funzione di programmazione e coordinamento territoriale, funzioni in materia di viabilità provinciale, sanità, scuola, trasporti, ambiente e sviluppo locale; nonché un importante ruolo di assistenza e la possibilità di svolgere, mediante convenzioni, attività.

L’ente provinciale trova sviluppo ulteriore con la legge del 25 Marzo 1993, n.81 che prevede l’elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti di Provincia, valorizzando in questo modo il rapporto ente-cittadino e ponendo così gli organi elettivi in rapporto di responsabilità nei confronti delle proprie azioni amministrative12.

10 Testo unico della legge comunale provinciale del 1915 11 Testo unico della legge comunale provinciale del 1934

12 Pietro Barrera, La nuova legge elettorale per i comuni e le Province. La Sfida della

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13 La legge 81 rappresenta il punto di partenza di un periodo di riforme importanti orientate verso il decentramento amministrativo.

Fondamentale è la legge 15 Marzo 1997, n.59 che istituisce il principio di sussidiarietà come principio guida dell’organizzazione dei poteri pubblici e dell’allocazione delle competenze e funzioni.

Grazie alla legge n.59 e al D.lgs. 112/98 le Province diventano destinatarie di molte funzioni statali ma esercitate a livello decentrato come i servizi per l’impiego, l’edilizia scolastica, trasporto, strade provinciali ecc…13.

Il principio di sussidiarietà ridisegna il rapporto tra Regioni e Province, attribuendo alle prime la possibilità di un ruolo di coordinamento delle autonomie locali.

Diretta conseguenza sono l’istituzione delle Città Metropolitane, 9 in tutto comprendenti i comuni di Torino, Genova, Venezia, Milano, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli e la possibilità di creare nuove province in base agli articoli da 16 a 21 della legge 142/90 che completa la disposizione dell’articolo 133 della Costituzione.

Il territorio delle aree metropolitane coincide con quelle delle Province in virtù del fatto che la Provincia viene meno e le sue funzioni sono assorbite dalla Città metropolitana, anche se viene lasciato spazio ai Comuni di scegliere se entrare a far parte del nuovo ente o chiedere di entrare in una Provincia limitrofe.

Sul piano delle funzioni alle Città Metropolitane sono attribuite tutte le funzioni della Provincia mentre le funzioni legate fisiologicamente ai Comuni e al rapporto con il territorio, vengono lasciate agli enti locali, in virtù del principio di sussidiarietà14.

Nel caso in cui il territorio della Città Metropolitana non dovesse coincidere con il territorio della Provincia, si procede alla ridefinizione

13 AA.VV De Martin, Pizzetti, Merloni, Vandelli, il decentramento amministrativo, la complessa attuazione del D.lgs.112/98, il Mulino, Bologna, 2000.

14 Francesco Merloni, Il rebus metropolitano, le soluzioni istituzionali per il governo

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14 del territorio vicino considerando la Città Metropolitana come nuova Provincia.

L’istituzione delle Città Metropolitane si è reso necessario per l’evoluzione demografica di certe Province e la necessità di dare una

governance che potesse rispondere a tutte le esigenze che si venivano a

creare nella nuova area.

È con le leggi n. 5915 e 12716 del 1997, gergalmente chiamate Bassanini e Bassanini bis, che si afferma l’idea della grande riforma della Repubblica verso il federalismo.

La strada seguita è quella della legislazione ordinaria mediante strumenti ordinari di decentramento amministrativo senza però ricorrere alla Legge Costituzionale.

Sempre di questo segno è il Decreto Legislativo n. 267/200017.

Il sistema che ne esce però collide con il sistema Costituzionale del tempo e in particolar modo contrasta con principi come il ribaltamento del principio delle competenze enumerate e l’allocazione delle funzioni amministrative locali sempre per opera della legge dello Stato.

Il recupero di costituzionalità dell’intero sistema territoriale della Repubblica avviene essenzialmente con l’approvazione della legge costituzionale n. 3 del 2001.

Le innovazioni apportate dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 sono importanti sia dal punto di vista delle fonti sia dal punto di vista delle funzioni e vengono a delineare complessivamente un nuovo sistema delle autonomie locali. A questo fine appare necessario valutare, in un primo momento, la posizione di Comuni e Province insieme, in quanto entrambi questi enti appaiono delineare l’ambito locale come distinto, sia da quello regionale e sia da quello statale; successivamente sarà opportuno considerare, invece, la più netta demarcazione che dal

15 Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti

alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa, la c.d Legge Bassanini.

16 C.d Bassanini bis

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15 disegno costituzionale traspare del ruolo della provincia, rispetto a quello del comune.

Con riferimento al primo profilo la nuova disciplina del Titolo V della Costituzione offre un quadro delle fonti nonché delle funzioni e dei poteri dei Comuni e delle Province non esclusivamente rimessa alla statuizione della legge statale ma principalmente rimessa a disposizioni di rango costituzionale [… contribuisce ad individuare, non solo un fondamento, ma anche una disciplina delle autonomie locali di rango costituzionale – come tale – sovraordinata alla legge statale e a quella regionale; l’innovazione riguarda, peraltro, non solo le funzioni e l’organizzazione, ma anche, e forse particolarmente, le “fonti” del diritto locale, per la prima volta non semplicemente presupposte dal principio di autonomia degli enti medesimi, ma espressamente indicate nella Costituzione…]18: lo Statuto all’art. 114, comma 2,

“I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti

autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”)

e i regolamenti (all’art. 117, comma 6,

“I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello

svolgimento delle funzioni loro attribuite”).

Inoltre, la costituzionalizzazione delle fonti locali non si limita ad una mera previsione di esistenza di determinati atti normativi, ma sembra ricondurre determinati contenuti ad una previsione di riserva

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16 costituzionale la quale limiterebbe le altre fonti dell’ordinamento: la legge statale e quella regionale.

Infine, sembra possibile, alla luce del nuovo sistema delle funzioni delineato dal Titolo V, considerare le relazioni tra i diversi livelli di fonti: in tal senso vengono in aiuto i principi di separazione e di esclusività19 i quali creano un sistema di alternatività nell’applicazione del diritto locale, di quello regionale e di quello statale.

Sulla stessa linea d’onda si colloca l’ambito delle funzioni amministrative.

Le previsioni costituzionali dispongono, infatti, che i Comuni e le Province (insieme alle Città metropolitane e alle Regioni) sono “enti autonomi con propri … poteri e funzioni, secondo i principi fissati dalla Costituzione” (art. 114, comma 2, Cost.) e affermano “I Comuni, le

Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze” (art. 118, comma 2,

Cost.).20

Se ad un primo acchito potrebbe essere considerata una trasposizione letterale di quanto disposto dal TUEL, ad una osservazione più attenta risulta che la disposizione sopracitata gioca un ruolo diverso nel testo legislativo e nella Costituzione.

Questa disposizione, infatti, nell’ambito del Testo Unico tende a sancire una sorta di separazione tra il profilo funzionale e quello organizzativo degli enti locali, in quanto nel TU sarebbero da ricercare esclusivamente le disposizioni riguardanti l’organizzazione, ma non quelle concernenti le funzioni, le quali deriverebbero essenzialmente dalla legge dello Stato o da quella delle Regioni.

Nel nuovo testo costituzionale, invece, il significato delle disposizioni indicate si proietta essenzialmente sul contenuto delle funzioni (proprie)

19 Art 118 della Costituzione 20 V. art 3 comma 5 D.Lgs 267/2000

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17 costituzionalmente assicurate agli enti locali, rispetto alle quali anche le possibilità di conferimento di funzioni da parte della legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze, diventano o una attività dovuta, oppure una attività discrezionale, ma di sicuro non più liberamente rimessa alla valutazione legislativa.

La previsione costituzionale delle “funzioni proprie”, pertanto, viene a costituire un limite alla legislazione statale e regionale che potrebbe portare ad una invalidità dei loro atti in caso di contrarietà a quanto stabilito dal dettato costituzionale.

Infatti, la circostanza che la Costituzione ha contemplato direttamente la titolarità di dette funzioni da parte dei Comuni e delle Province, ha come conseguenza che l’individuazione delle “funzioni proprie” non rappresenta più un problema di definizione, rimesso al legislatore, ma una questione di interpretazione costituzionale.

È stato in altra sede a lungo dibattuto il tema del metodo di determinazione delle funzioni proprie e non del tutto univoci sono stati gli orientamenti espressi in dottrina21.

Tuttavia, la dottrina è concorde nell’affermare che le funzioni proprie non possono essere definite dal legislatore statale e regionale e che una legislazione in tal senso avrebbe un carattere ricognitivo e non costitutivo.

Il campo delle “funzioni proprie” discende direttamente dalla previsione costituzionale e si presenta materialmente garantito rispetto a quello che può darsi per le funzioni cui fa riferimento la seconda frase del comma 2 dell’art. 118 Cost. (quelle cioè “conferite”), dal momento che le eventuali prescrizioni di legge (statale e/o regionale) in questo ambito non potrebbero sottrarre alla disciplina locale gli oggetti cui le “funzioni proprie” fanno riferimento.

21 V. sul punto gli atti del convegno del centro Vittorio Bachelet, Giorgio Berti , Gian Candido De Martin, Il sistema amministrativo dopo la riforma del titolo V della Costituzione, Luiss, 2002

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18 Le disposizioni costituzionali sulle funzioni amministrative non riguardano solo la problematica della tipologia e del riparto delle funzioni, ma anche quella concernente il loro aspetto dinamico e in questo ambito si delinea il ruolo dalla Provincia, come distinto rispetto a quello del Comune.

Da questo punto di vista viene in rilievo soprattutto l’articolazione che le funzioni possono prendere alla luce dell’art. 118, comma 1, in base al quale “le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che,

per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”. Infatti, con questa disposizione il

legislatore di revisione tende ad inserire nel modello amministrativo elementi di flessibilità.

La disposizione citata fa venire meno il principio di uniformità, che sin dall’origine ha caratterizzato la disciplina degli enti locali nel nostro ordinamento e in base al quale tutti gli enti di un medesimo tipo avevano integralmente le medesime attribuzioni22; prescindendo dal fatto che la diversa vocazione istituzionale determini anche una differenziazione delle funzioni adesso può anche darsi l’evenienza che la medesima funzione la cui attribuzione e/o conferimento spetti alla legge regionale, possa essere allocata a livello comunale, provinciale o regionale; e lo stesso dicasi per quelle funzioni di spettanza della legge statale, il cui esercizio unitario può giungere sino al mantenimento delle competenze amministrative in capo allo Stato.

Si tratta, in sostanza di un modello di riparto delle funzioni amministrative che rimane aperto e dinamico, delimitato solo dalla presenza dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Il principio di sussidiarietà dovrebbe essere collegato al rispetto delle dimensioni territoriali, associative ed organizzative, attribuendo le

22 V. Stelio Mangiameli, la polizia locale urbana e rurale: materia autonoma o potere accessorio e strumentale, giurisprudenza costituzionale 1996

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19 responsabilità pubbliche ai centri decisionali più vicini ai cittadini interessati; il principio di differenziazione nell’allocazione delle funzioni dovrebbe richiedere che si considerino le diverse caratteristiche, demografiche territoriali strutturali degli enti riceventi; il principio di adeguatezza dovrebbe imporre una valutazione in relazione all’idoneità organizzativa dell’amministrazione ricevente a garantire l’esercizio delle funzioni.

In ogni caso, le possibilità di una allocazione funzionale delle potestà amministrative tra Comuni e Province (ma anche Regioni e Stato), rimessa alla legge statale e a quella regionale, deve essere considerata complementare all’attribuzione di funzioni amministrative effettuata dalle norme costituzionali e direttamente a queste riconducibile senza l’intermediazione della legge.

Solo movendo da queste premesse, peraltro, appare possibile comprendere e spiegare la collocazione delle Province rispetto ai Comuni.

Appare chiaro che il ruolo delle provincie rimane collegato alla pianificazione e alla programmazione di area vasta e alla gestione dei servizi di rete, così come alla tutela dell’ambiente, nell’accezione più ampia del termine (rifiuti, acqua, caccia, ecc.), e alla protezione civile. Ma uscendo dall’intero complesso di funzioni provinciali è possibile intravedere un ruolo sussidiario delle provincie rispetto ai comuni che supera la “mera assistenza tecnica ai comuni”.

Ne deriva che qualora le funzioni comunali presentino inadeguatezza o non siano sufficienti ad assicurare lo sviluppo e la promozione del territorio intervengono le provincie che, in virtù del principio di differenziazione, svolgono tali funzioni identificandosi quindi come ente prossimo ai cittadini23.

23 Stelio Mangiameli, La Provincia nella riforma del Titolo V, febbraio 2008, http://www.issirfa.cnr.it/stelio-mangiameli-l-attuazione-della-riforma-del-titolo-v-cost-l-amministrazione-tra-stato-regioni-ed-enti-locali-dicembre-2004.html

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20 Le spinte localistiche per la nascita di nuove Province portano il Parlamento nel 2004 ad istituire le 3 Province di Monza e della Brianza, Fermo, Barletta-Andria-Trani che faranno salire a 110 il numero delle circoscrizioni territoriali, comprese le due autonome di Trento e Bolzano.

Il secondo decennio del XXI si apre con un'importante discussione sul ruolo delle provincie dovuto alla crisi economico e finanziaria del paese, tema ricorrente quando si parla di enti locali.

Così sotto la spinta delle pressioni comunitarie in tema di tagli al bilancio Il governo Monti vara il Decreto-legge 6 dicembre 2011 n. 201 che prevedeva nelle regioni a statuto ordinario la spoliazione dei poteri della provincia e la nomina dei loro organi da parte degli amministratori locali con l'abolizione della giunta provinciale.

Non passa molto tempo che la Riforma Monti finisce di fronte alla Corte Costituzionale che con la sentenza del 3 luglio 2013 cassa la riforma affermando l'inutilizzabilità del Decreto-legge per tematiche di portata Costituzionale.

Il tema fu ripreso poi dal Governo Renzi che nell'Aprile del 2014 porta ad approvazione il disegno di legge proposto dal Ministro Delrio, poi approvato il 3 Aprile del 2014 e meglio conosciuta come legge Delrio, L. 56/2014, recante la dizione “Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”.

1.2 La riforma Costituzionale come atto finale.

“La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato.”

(Il primo comma dell'articolo 114 della Costituzione proposto dalla riforma)

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21 Il tema centrale ma anche il più dibattuto della Riforma Costituzionale è stato il superamento del bicameralismo perfetto con l’estromissione del Senato dalla fiducia parlamentare, mentre è passata in secondo piano la seconda grande direttrice della Legge Renzi-Boschi, ovvero quella legata al titolo V.

Ma anche in questo caso poco si è parlato della riforma delle Province e della loro abolizione dal testo Costituzionale come se essa rappresentava quasi naturalmente la tappa finale di un processo, partito con il dibattito in assemblea costituente e accentuato con la riforma costituzionale del 200124.

La soppressione delle province rientra nella necessità di ridurre il complessivo numero di amministratori da remunerare e nell’esigenza di semplificazione istituzionale, vista e considerata la stratificazione di livelli territoriali.

Quindi la Legge Delrio è legata da una sorta di filo rosso che lega inevitabilmente le sorti delle Province così come delineati dalla Legge Delrio alle corrispettive previsioni costituzionali della riforma.

Paradossalmente sarà l’esito del referendum confermativo a sancire definitivamente le sorti della riforma Delrio: quest'ultima infatti necessitava dell'intervento della riforma Costituzionale, la quale avrebbe espunto dal nostro ordinamento la parola “provincia”, per poter realizzare appieno il progetto della Delrio.

Si “costituzionalizza” così una decisione già assunta con legge ordinaria: la cosiddetta “soppressione” delle Province, operata dalla Legge 56/2014 (Legge Delrio), che, non a caso, nelle norme di disciplina delle Città metropolitane e delle Province, premette e premette ancora “in attesa della riforma del titolo V della parte seconda della

24 Come già detto ampiamente nel paragrafo precedente, la ristrutturazione territoriale e istituzionale delle province è stato al centro di numerosi progetti di riforma

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22 Costituzione e delle relative norme di attuazione…”, ribaltando l’ordine logico e di gerarchia delle fonti del nostro ordinamento.

La conseguenza è chiara: declassare a livello legislativo e non più costituzionale l’ente provinciale.

Non più enti costitutivi della repubblica con la loro autonomia organizzativa, finanziaria, normativa e politica ma eventuali circoscrizioni o ente di area vasta dai contorni non definiti a cui attribuire funzioni e contenuti, a totale discrezione del potere legislativo. L’art 40, comma 4 del progetto di revisione Costituzionale prevedeva infatti: “Per gli enti di area vasta, tenuto conto anche delle aree

montane, fatti salvi i profili ordinamentali generali relativi agli enti di area vasta definiti con legge dello Stato, le ulteriori disposizioni in materia sono adottate con legge regionale. Il mutamento delle circoscrizioni delle Città metropolitane è stabilito con legge della Repubblica, su iniziativa dei Comuni, sentita la Regione”, in questo

modo le circoscrizioni provinciali venivano legate agli articoli 97 e 118 della Costituzione e non più all’articolo 1 e 5 Costituzione25.

Da queste previsioni generali sarebbe poi dovuto derivare a cascata quanto previsto dalla Legge per cui la possibilità di costruire modelli di area vasta differenziati nelle varie Regioni, la riduzione del numero delle funzioni e il trasferimento di queste o verso la regione o verso i Comuni. Quando oggi si parla della Legge Delrio bisogna partire da un dato di fatto e cioè che Referendum costituzionale, perno fondamentale della Riforma, è stato bocciato dagli Italiani la notte del 4 Dicembre del 2016. Ciò ha fatto si che la Legge Delrio, da legge ponte o transitoria, è diventata permanente, dovendosi necessariamente confrontare con un sistema Costituzionale che è rimasto invariato.

25 Mario Gorlani, Quale futuro per le Province dopo l’esito del Referendum del 2016, 2017

https://www.federalismi.it/ApplOpenFilePDF.cfm?artid=33663&dpath=document&d file=08032017120900.pdf&content=Quale%2Bfuturo%2Bper%2Ble%2BProvince% 2Bdopo%2Bl%27esito%2Bdel%2Breferendum%2B8

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23 La stessa Corte Costituzionale ha “salvato” la Legge Delrio sulla base di un Referendum imminente, che stante l’opinione pubblica sarebbe passato.

È necessario valutare allora quali profili sono in bilico.

Sicuramente la natura indiretta dell’elezione degli organi di governo dell’ente che contrasta sia con la Carta Costituzionale all’art 115 sia con la Carta Europea della Autonomie Locali, lo svuotamento delle funzioni rispetto a quanto previsto dall’articolo 114 e 118 della Costituzione. Il primo argomento è legato all’elezione indiretta degli organi di governo dell’ente perché tali organi non sono più eletti direttamente dai cittadini ma da un gruppo ristretto di Sindaci e Consiglieri comunali che fanno parte della circoscrizione.

Tale modalità è messa in discussione perché contrasta con l’art 114 e l’articolo 5 della Costituzione i quali dispongono per l’ente Provincia la natura di ente rappresentativo da valorizzare mediante investitura diretta delle cariche di governo.

Infatti, se la Repubblica Italiana è democratica e secondo l’articolo 114 essa è formata dai “Comuni, Province, Città Metropolitana, Regioni e Stato” allora anche questi enti dovranno rispettare il principio di democraticità al loro interno e il principio di sovranità popolare ne è corollario indispensabile26.

A questi profili si aggiunge anche la dubbia conformità con la CEAL (§2) e in particolar modo in cui si afferma che “per autonomia locale,

s’intende il diritto e la capacità effettiva, per le collettività locali, di regolamentare ed amministrare nell’ambito della legge, sotto la loro responsabilità, e a favore delle popolazioni, una parte importante degli affari pubblici” e che “tale diritto è esercitato da Consigli e Assemblee costituiti da membri eletti a suffragio libero, segreto, paritario, diretto ed universale, in grado di disporre di organi esecutivi responsabili nei

26 Cfr., sul punto, le perplessità di L. VANDELLI, La Provincia italiana nel

cambiamento: sulla legittimità di forme ad elezione indiretta, in astrid-online.it, 8

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loro confronti. Detta disposizione non pregiudica il ricorso alle Assemblee di cittadini, al referendum, o ad ogni altra forma di partecipazione diretta dei cittadini qualora questa sia consentita dalla legge”.

Secondo giuristi di rilievo come Vandelli e De Martin27, non pare sia stata costituzionale la scelta di modificare a Costituzione invariata l’ente Provinciale, da ente rappresentativo, dotato di autonomia politica e finanziaria, a ente strumentale al servizio dei Comuni: questo perché il combinato disposto tra l’articolo 5 e l’articolo 114 della Costituzione porta a dire che l’ente in questione deve essere il luogo di autonoma elaborazione politica e di indirizzo del territorio di riferimento, senza che questo venga declassato a area vasta.

La tesi è stata poi rigettata nel 2015 dalla famosa sentenza della Corte Costituzionale n.50 (§2) confinando nella buona riuscita del Referendum.

Con la bocciatura del Referendum, sembra impossibile oggi percorrere la strada intrapresa dalla Legge Delrio in merito all’elezione indiretta degli organi di governo: a tal proposito è utile menzionare la proposta di legge depositata ad aprile dal partito “Lega Nord” che prevede una modifica della Legge Delrio nella direzione di ristabilire l’elezione diretta degli organi dell’ente Provincia e Città Metropolitana.28

Il secondo argomento riguarda invece la riduzione complessiva delle funzioni provinciali a seguito prima della Legge Delrio e poi delle leggi regionali di riordino.

L’argomento riguarda due direttive: la competenza dello Stato o Regione a definire le funzioni provinciali e la necessità di un numero di competenze minime fisiologiche che permetta alle Province, quale ente rappresentativo, di mantenere il proprio rapporto con i cittadini.

27 www.astrid-online.it

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25 In merito alla prima direttrice, gli articolo 89, 90, 91, 92 e 95 dell’articolo 1 della Legge Delrio attribuiscono al legislatore Nazionale di determinare le funzioni provinciali, anche al di fuori di quelle già stabilite con la Legge stessa, invadendo così il capo della potestà regionale indicata dall’articolo 117 della Costituzione,

La Corte nel 2015 salvò anche questo aspetto in virtù dell’Accordo raggiunto in conferenza unificata l’11 settembre del 2015 e trasfuso poi in un d.p.c.m.

Oggi risulta molto in dubbio se in virtù degli articoli l’art. 117, co. 6, attribuisce alle Province una potestà regolamentare per la disciplina di funzioni proprie; l’art. 118 riconosce ad esse la titolarità di funzioni proprie o conferite dalla legge statale o regionale, sia possibile consentire al Legislatore Nazionale di intervenire togliendo spazi di autonomia all’ente Provincia, perlomeno considerando il netto contrasto con il principio di Sussidiarietà.

Attualmente, quindi, qualsiasi scelta di riduzione di funzioni all’ente Provinciale da parte dello Stato deve passare sotto la scelta giustificata dei principi di “ragionevolezza” e di “adeguatezza”, in modo tale che le Autonomie possano continuare a rappresentare un limite alla discrezionalità del legislatore nazionale e non l’oggetto della Legislazione29.

C’è forse un caso, condiviso da quasi tutta la dottrina, in cui l’approvazione della Riforma Renzi-Boschi avrebbe portato ad un percorso di rinnovamento vero e proprio del livello periferico: il processo di modifica della circoscrizione provinciale.

Il progetto di riforma Costituzionale Renzi-Boschi infatti prevedeva una procedimento di modifica delle circoscrizioni provinciali più semplificato rispetto all’attuale 133, comma 1 della Costituzione secondo cui le modifiche “sono stabiliti con leggi della Repubblica, su iniziativa dei Comuni, sentita la stessa Regione” ; l’art 40, comma 4 del

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26 progetto di riforma, stabiliva che la modifica spettava alla potestà Regionale in piena discrezionalità ma sempre nel rispetto dei principi ordinamentali imposti dalla Legge Delrio sugli enti di area vasta. Sulla base di questa disposizione molte Regioni hanno avviato, nell’ambito di riordino delle funzioni, un percorso di studio che ha portato alla luce diversi modelli di modifica delle circoscrizioni: che vanno dalla eliminazione tout cour dell’ente fino alla creazione di enti sub provinciali da 100.000 abitanti o ancora la modifica della circoscrizione sulla base dei distretti sociosanitari come in Toscana. L’articolo 133 della Costituzione non è stato abrogato per cui molti modelli innovativi come quelli della Regione Piemonte e Lombardia che prevedevano una diminuzione del numero delle Province, si scontra con l’attuale disposizione che ne blocca l’attuazione30.

Questo può rappresentare una vera e propria causa ostativa ad un processo vero di riforma dell’assetto istituzionale, in quanto, è vero che molti modelli di assetto regionale sono stati dettati dalla necessità di adempiere agli obblighi della Legge Delrio, ma è anche vero che molti di questi corrispondono a vere esigenze di riordino, basati non tanto su elementi politici ma su criteri di natura geografica, economico-sociale e territoriale31.

La questione assume rilevanza nazionale se si pensa che un riordino serio e pensato delle circoscrizioni porterebbe anche ad un ripensamento di tutte le strutture statali sul territorio come Prefettura, Camere di Commercio, ordini professionali e agenzie della entrata.

30 Mario Gorlani, Quale futuro per le Province dopo l’esito del Referendum del 2016, 2017

https://www.federalismi.it/ApplOpenFilePDF.cfm?artid=33663&dpath=document&d file=08032017120900.pdf&content=Quale%2Bfuturo%2Bper%2Ble%2BProvince% 2Bdopo%2Bl%27esito%2Bdel%2Breferendum%2B8

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Capitolo II La legge Delrio

2.1 Legge Delrio tra CEAL e Costituzione

La legge Delrio può essere inquadrata sotto due aspetti: un primo di tipo economico finanziario e un secondo di tipo sistematico istituzionale. La crisi economica del 2008 impone al legislatore di mettere mano alle autonomie locali, non si riforma però per adeguare il governo locale al mutamento economico, sociale, tecnologico e quindi renderlo maggiormente efficiente ma per ridurre la spesa pubblica in ossequio alle regole ferree delle istituzioni europee senza contare la pressione dei mercati finanziari che richiedevano forti garanzie.

D’altro lato poi in tempi più recenti si è venuto delineando in modo via via più netto un orientamento di sfavore nei confronti del ruolo istituzionale delle Provincie1 accusate da una parte di costituire un livello di governo artificiosamente costruito senza tenere conto di effettive esigenze funzionali e dall’altra parte di duplicare funzioni amministrative che potevano essere esercitate in modo più efficiente dalla Regione e dal comune intesi come ente istituzionale.

Questo orientamento a sfavore si è tradotto poi in tutta una serie di provvedimenti diversi tra di loro ma accumunate dalla volontà di limitare il ruolo delle Provincie con l’istituzione delle Città Metropolitane che dovevano sostituire alcune delle provincie più

1 Bin, G., Il nodo delle Province, in Le Regioni, 2012; Boccalatte S., La proposta di

superare le Province con gli Enti locali flessibili; Tubertini, C., La razionalizzazione del sistema locale in Italia: verso quale modello? in Istituzioni del federalismo, 2012.

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28 importanti e a sopprimere tout court il relativo livello di governo2.(§ Capitolo I)

Prima di entrare nel merito della Riforma è bene considerare la costituzionalità e la coerenza della legge con la CEAL, la carta Europea delle autonomie locali.

Sul primo tema, il punto di riferimento più importante è costituito dalla sentenza della Corte Costituzionale, depositata, il 24 Marzo 2015, n.50 con la quale la Corte si è pronunciata in merito al ricorso presentato da Veneto, Campania, Puglia e Lombardia avverso 58 commi della Legge Delrio.

Ai fini della tenuta costituzionale, sono quattro gli argomenti analizzati dalla Corte: La disciplina delle Città Metropolitane, la ridefinizione dei confini e delle funzioni provinciali, il procedimento di riallocazione delle funzioni non fondamentali e infine la disciplina della fusione e unione dei comuni3.

Sulle Città Metropolitane abbiamo due ordini di questioni, una prima legata all’istituzione della Città e la seconda legata alla disciplina complessiva dell’ente.

Con riguardo al primo insieme di questioni (l’istituzione di un nuovo ente) la Corte ha sciolto alcuni nodi interpretativi radicando nella eccezionalità dell’istituzione di un nuovo ente la capacità della legge statale di sfuggire alla procedura aggravata ex art. 133, comma primo, Costituzione.

Il punto avanzato dalle Regioni è la compatibilità dell’istituzione delle nuove Città con la procedura del 133, comma 1 Costituzione; la Corte Costituzionale avvalla la scelta del legislatore nazionale di non passare mediante la procedura aggravata ma di far coincidere queste con il territorio di riferimento delle province che venivano istituite.

2 d.d.l. AC 1373, AC 2227, AC 8 (d’iniziativa popolare), AS 1390 e AS 1448. 3AA.VV. A. Sterpa, F. Grandi, F. Fabrizzi e M. De Donno, 2015 http://www.consigliautonomielocali.it/wp-content/uploads/2015/04/Sterpa.pdf

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29 D’altronde la Corte riconosce, anche se non previsto, la possibilità per i Comuni di decidere se entrare o meno nella nuova Città; anche se sottolinea la necessità di una disciplina nazionale organica che regoli la materia, visto che essa non rientra tra le competenze regionali in base all’articolo 117, comma 2 lettera p.

Venendo al secondo insieme di questioni ossia quelle relative al funzionamento del nuovo ente e, in particolare, riferite al “modello di governo” di secondo grado.

Con riguardo all’elezione indiretta degli organi delle Città metropolitane (lo stesso vale per le Province) la Corte costituzionale ammette il rispetto del principio democratico anche in caso di elezioni di secondo livello (d’altronde nello stesso senso il Giudice delle leggi si era già espresso in precedenza nella sentenza n. 96 del 1968).

Sul punto la Corte arriva a sostenere che per tutti gli enti autonomi previsti dall’articolo 114 della Costituzione (quindi per Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni) si potrebbe optare per l’elezione indiretta.

La giustificazione data dalla Corte appare “forzata4” soprattutto quando la Corte richiama alla CEAL, affermando che essa possiede la “natura di documento di mero indirizzo” pur essendo ratificata (con annesso ordine di esecuzione) dalla legge statale (la n. 439 del 1989).

Sul punto la Corte richiama la sua precedente pronuncia n. 325 del 2010. Va detto che, nonostante l’affermazione sul valore della Carta, la Corte costituzionale entra nel merito delle sue previsioni evidenziando come il riferimento ivi contenuto e relativo al “libero eletto” degli organi degli enti autonomi non implicherebbe l’elezione a suffragio universale e diretto come pretendevano i ricorrenti.

A dire il vero il testo della Carta non fa solo riferimento al “libero eletto” che secondo il Giudice delle leggi sarebbe da intendersi come “liberamente eletti” ossia eletti ma “nel senso sostanziale della esigenza

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30 di una effettiva rappresentatività dell’organo rispetto alle comunità interessate”; la Carta, oltre questo principio, prevede espressamente al comma 1 dell’art. 3 che “per autonomia locale si intende il diritto e la capacità effettiva delle collettività locali di regolamentare e amministrare nell’ambito della legge, sotto la loro responsabilità e a favore delle popolazioni, una parte importante di affari pubblici” e al comma successivo precisa che “tale diritto è esercitato da Consigli e Assemblee costituiti da membri eletti a suffragio libero, segreto, paritario, diretto e universale”, ma di questo la Corte non parla.

Per la Corte costituzionale, inoltre, non è irragionevole che “in fase di prima attuazione del nuovo ente territoriale” il Sindaco metropolitano sia coincidente con quello del Comune capoluogo.

Scelta che la stessa Corte definisce non irreversibile in ragione della competenza statuaria a modificarla; ad oggi solo le Città Metropolitane di Roma, Milano hanno scelto il metodo dell’elezione diretta.

La Corte è dello stesso parere nel far salve le competenze previste dalla Legge per il Consiglio Metropolitano visto che non avrebbero il carattere “riduttivo” lamentato dai ricorrenti ma avrebbero potuto essere ampliate nel rispetto dei compiti del Sindaco Metropolitano; secondo la Corte spetta poi allo statuto definire porre “le norme organizzative dell’ente” incluse le attribuzioni degli organi e le articolazioni delle varie competenze previste dall’articolo 117, comma 2, lettera p). Il giurista Sterpa nel commento alla sentenza parla di “centralità dello statuto” confermato dall’esistenza di poteri sostitutivi statali che entrano in gioco in caso di inerzia del nuovo ente (entro Giugno 2015).

Non presenta profili di legittimità costituzionale, secondo la Corte, neppure la previsione nazionale riferita al mantenimento, per il personale provinciale trasferito al nuovo ente (in realtà il nuovo ente subentra alla Provincia) che manterrebbe lo stesso trattamento: ovviamente si tratta di una previsione transitoria e riconducibile alla

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31 materia statale dell’ordinamento civile ex art. 117, comma secondo, Costituzione.

In merito al secondo punto, la Corte costituzionale ha rigettato ogni censura rivolta alla disciplina di riordino delle Province dettata dalla legge n. 56 del 2014.

In particolare, ha ritenuto:

1) non fondata la questione di legittimità costituzionale promossa avverso il mutamento delle circoscrizioni provinciali (conseguente alla individuazione del perimetro delle istituende Città Metropolitane) in ragione della pretesa violazione della disciplina dettata dall’art. 133, co. 1, Cost. per le variazioni territoriali;

2) non fondate le questioni di legittimità costituzionale in riferimento alla lamentata violazione del principio di sovranità popolare, autonomia dell’ente provinciale, sussidiarietà verticale, adeguatezza e differenziazione, nonché degli obblighi derivanti dalla Carta europea dell’autonomia locale, ad opera delle disposizioni relative alla forma di governo provinciale con elezione di secondo grado. 7

3) non fondata la questione di legittimità costituzionale relativa alla durata delle gestioni commissariali degli enti provinciali.

Le Regioni ricorrenti (Campania, Lombardia, Puglia e Veneto) hanno dedotto l’illegittimità della disposizione di cui al co. 6 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, -che individua il territorio della Città metropolitana (in coincidenza “con quello della provincia omonima”) e quindi determinava una variazione della circoscrizione territoriale senza

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32 passare dalla procedura rafforzata dell’art 133, comma 1 della Costituzione.

La legge n.56, in sintesi, sarebbe illegittima, per questo profilo, a causa di un vizio in procedendo, consistente nell’omissione dell’iter “rinforzato”, che almeno fino ad oggi sembrava richiesto in ogni ipotesi di variazione territoriale provinciale, in ragione di uno strettissimo legame tra territorio e popolazione ivi residente.

La Corte rigetta, tuttavia, la questione, sostenendo che la procedura rinforzata prevista dall’art. 133, co. 1, Cost. è stata pensata per le modificazioni territoriali che interessano singole circoscrizioni e, dunque, non trova applicazione nel caso di interventi generalizzati su tutto il territorio nazionale.

Orbene, la Corte costituzionale, così facendo, si cimenta nella definizione del contenuto precipuo della sopradetta disposizione, distinguendo tra variazioni territoriali, per così dire, una tantum e variazioni territoriali che esprimono interventi di sistema5.

Nel fare ciò, tuttavia, il Giudice delle leggi si guarda bene dal negare in assoluto la sussistenza di un legame specifico tra territorio e popolazioni interessate: al contrario, distingue le modalità di espressione del consenso da parte delle collettività coinvolte a seconda che si versi nella prima o nella seconda ipotesi.

Ancora diversamente, per la Corte, il coinvolgimento delle popolazioni interessate dalla variazione territoriale è necessario anche laddove il legislatore abbia inteso realizzare “una significativa riforma di sistema della geografia istituzionale della Repubblica” che ovviamente non arrivi alla soppressione degli enti locali previsti in Costituzione in sintonia con la sentenza n. 220 del 2013.

Per sintetizzare, nel caso di interventi complessivi sull’ordinamento dell’ente locale provinciale la necessità di garantire l’omogeneità su

5 Federica Grandi, 2015 2015, http://www.consigliautonomielocali.it/wp-content/uploads/2015/04/Sterpa.pdf

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33 tutto il territorio nazionale della loro attuazione, almeno nella fase iniziale, rende legittima anche una eventuale azione “solitaria” del legislatore statale.

Se però la Corte giustifica il sacrificio della volontà delle popolazioni interessate dal mutamento circoscrizionale nel principiare degli interventi di riordino territoriale, non altrettanto ritiene si possa fare successivamente: in questo secondo momento, difatti, è assolutamente necessario il coinvolgimento delle popolazioni interessate.

Per fare salvo questo principio e allo stesso tempo non censurare il co. 6 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, il Giudice delle leggi propone una lettura costituzionalmente adeguata della norma in parola, giustificando tale scelta alla luce del “principio di conservazione”, in virtù del quale se vi è la possibilità di una interpretazione conforme a Costituzione essa “non può non prevalere su quella, contra Constitutionem”.

Ebbene, il co. 6 non è illegittimo laddove venga interpretato nel senso che l’espressa previsione che “«l’iniziativa dei comuni, ivi compresi i comuni capoluogo delle province limitrofe», ai fini dell’adesione (sia pure ex post) alla Città metropolitana”, comporti, per implicito, “la speculare facoltà di uscirne, da parte dei Comuni della Provincia omonima”.

Tale lettura costituzionalmente orientata è, d’altronde, sorretta dalla circostanza che sempre lo stesso co. 6 dispone “che sia sentita la Regione interessata e che, in caso di suo parere contrario, sia promossa una «intesa» tra la Regione stessa ed i comuni che intendono entrare nella (od uscire dalla) Città metropolitana.

E ciò testualmente, «ai sensi dell’articolo 133, primo comma, della Costituzione» e «nell’ambito della procedura di cui al predetto articolo 133»”.

Al punto 4 della parte “in diritto”, la Corte motiva il rigetto delle questioni relative al nuovo modello ordinamentale delle Province con

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34 riferimento alla competenza statale a provvedere su questa materia; nonché in punto di violazione dei principi di sovranità popolare, autonomia, sussidiarietà verticale, differenziazione e adeguatezza, e ancora delle previsioni della Carta europea dell’autonomia locale. Il Giudice delle leggi, anzitutto, ricorda che è in corso l’approvazione di un progetto di legge costituzionale per la soppressione delle Province dal novero degli enti autonomi menzionati dall’art. 114 Cost. -del quale, peraltro, espressamente riferisce il co. 51 della legge n. 56 del 2014. Di seguito, la Corte conferma quanto già sostenuto nella sentenza n. 220 del 2013, ossia che il legislatore statale con iter ordinario può legittimamente provvedere al mero riordino dell’ente provinciale, ma non alla sua soppressione.

Solo in tale ultimo caso, quindi, sarebbe violato l’art. 138 Cost.

La Corte afferma che “le censure rivolte al modello di governo di secondo grado, parimenti adottato per il riordinato ente Provincia, risultano non fondate sulla base delle medesime ragioni già esposte con riferimento alle Città metropolitane e della considerazione che inerisce, comunque, alla competenza dello Stato − nella materia «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di [...] province» (art. 117, secondo comma, lettera p, Cost.)”.

Ebbene, nel punto 3.4.3, la Corte sostiene –decidendo sulle Città Metropolitane -che il modello di secondo grado non è illegittimo in sé, e per far ciò cerca supporto nella propria giurisprudenza6.

Anzitutto viene richiamata la sentenza n. 365 del 2007 nella quale il Giudice delle leggi ha ritenuto “non condivisibile” il tentativo dell’allora difesa regionale “di ricondurre l’utilizzazione del termine sovranità al concetto di sovranità popolare di cui al secondo comma dell’art. 1 Cost., nonché di identificare la sovranità popolare con gli istituti di democrazia

6https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2015&numero= 50

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