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Mammalian Target of Rapamycin (mTOR) e glioblastoma multiforme

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Scuola di Dottorato in

Neuroscienze e Scienze endocrino-metaboliche

Programma Dottorale

Morfologia e funzione normale e patologica di cellule e tessuti

“Mammalian target of rapamycin (mTOR)

e glioblastoma multiforme”

Candidata

Relatore

Dott.ssa Mariangela Guagnozzi

Chiar.mo Prof Francesco Fornai

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INDICE

CAPITOLO 1 - GLIOBLASTOMA MULTIFORME

1.1 Introduzione………4

1.2 Cenni storici………5

1.3 Caratteristiche morfologiche del glioblastoma multiforme………..7

1.4 Alterazioni genetiche nel glioblastoma multiforme………..9

1.5 Marker molecolari specifici del glioblastoma multiforme………..13

1.6 Sviluppo del glioblastoma multiforme……….13

1.7 L’ipotesi delle “cellule cancerogene staminali” (cancer stem cells, CSC)...19

CAPITOLO 2 – MAMMALIAN TARGET OF RAPAMYCIN(mTOR)

2.1 Cenni storici………..24

2.2 Struttura e funzione di mTOR………..24

2.3 mTORC1 e mTORC2………26

2.4 Signalling di mTOR: PI3K/Akt………29

2.5 Ruolo di mTOR nella regolazione delle CSC (cancer stem cells)………...33

CAPITOLO 3 – L’ AUTOFAGIA

3.1 Introduzione……….….37

3.2 La rapamicina: modulazione farmacologica dell’autofagia…….……...41

3.2.1 Cenni storici……….41

3.2.2 Struttura e meccanismo d’azione della rapamicina………...42

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CAPITOLO 4 – SCOPO DELLO STUDIO

………52

CAPITOLO 5 –MATERIALI E METODI

5.1 Colture cellulari di glioblastoma umano (U87MG)………53

5.2 Trattamento con Rapamicina………...53

5.3 Valutazione della vitalità cellulare mediante Trypan blu……...…………54

5.4 Microscopia Ottica………....54

5.4.1 Analisi della vitalità cellulare dopo fissazione………...55

5.4.2 Colorazioni istologiche con Ematossilina/Eosina………..55

5.4.3 Analisi morfometrica ………...56

5.4.4 Immunoistochimica ………....57

5.4.5 Quantificazione dell’immunopositività in microscopia ottica……..58

5.5 Analisi in microscopia elettronica a trasmissione (TEM)………..58

5.5.1 Immunocitochimica………59

CAPITOLO 6 – RISULTATI

6.1 Il trattamento con rapamicina determina una riduzione della sopravvivenza cellulare………...62

6.2 Il trattamento con rapamicina determina cambiamenti morfologici nelle U87MG...62

6.3 Il trattamento con rapamicina induce il differenziamento cellulare in senso neuronale………63

6.4 Il trattamento con rapamicina determina induzione della via autofagica 64 6.5 La rapamicina determina induzione della via autofagica………...64

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CAPITOLO 7 – FIGURE RISULTATI………..…67

CAPITOLO 8- DISCUSSIONE……….………..82

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CAPITOLO 1

GLIOBLASTOMA MULTIFORME

1.1. Introduzione

Attualmente con il termine “glioma” si considerano i più comuni tumori cerebrali che hanno origine dalle cellule gliali (astrociti o oligodendrociti). Sulla base della classificazione proposta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) si possono distinguere quattro gradi di tumore: i criteri utilizzati per questa classificazione tengono conto del grado di cellularità, del grado di pleomorfismo cellulare (citoplasmatico e nucleare), dell’attività mitotica, del grado di proliferazione microvascolare endoteliale e pericitica, e della presenza di necrosi (Vandenberg and Lopes, 1999). Il grado I è l’unico che comprende gliomi benigni, il grado II, anche detto astrocitoma diffuso di basso grado e il grado III, detto anche astrocitoma anaplastico e oligodendroglioma anaplastico) è invasivo. Il grado IV, chiamato anche glioblastoma multiforme (GBM), può essere distinto in primario e secondario (Ohgaki, 2009). In particolare, il GBM secondario può derivare da un astrocitoma diffuso o anaplastico e insorge in pazienti giovani, mentre il primario insorge de novo, senza alcuna evidenza di un tumore precedente, in pazienti più anziani ed è meno resistente alla terapia con radiazioni (Kleihues and Cavenee, 2000). Il termine “multiforme” si riferisce alla eterogeneità di questo tipo di tumore, in riferimento alle manifestazioni cliniche, la patologia, le alterazioni genetiche e le riposte al trattamento (Iacob and Dinca, 2009). Sfortunatamente, la sopravvivenza è molto ridotta. Uno dei fattori correlato a questo parametro è l’età: nei pazienti più giovani c’è una maggiore possibilità di sopravvivenza rispetto a quelli più anziani. Per avere un’idea si può considerare lo studio di Ohgaki del

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2004 nel quale pazienti giovani (sotto i 50 anni) avevano una media di sopravvivenza di 8,8 mesi rispetto ai meno giovani (4,1 mesi). Infine, il glioblastoma primario ha una più alta frequenza negli uomini mentre il secondario risulta più diffuso nelle donne.

Ancora oggi, le casue responsabili di questo tumore non sono note sebbene casi di glioma familiare siano poco comuni. Attualmente il GBM rappresenta il tumori più comune e più maligno a livello cerebrale (Kleihues and Cavenee, 2000), la terapia normalmente impiegata consiste nella chirurgia associata a radioterapia e chemioterapia. Sfortunatamente il tempo medio di sopravvivenza dei pazienti è di circa un anno. Per questo motivo, la ricerca ha mostrato grande interesse per la comprensione dei meccanismi che sono alla base dell’insorgenza del tumore allo scopo di elaborare terapie farmacologiche efficaci ed identificare agenti chemioterapici che possano agire favorendo la morte delle cellule di glioblastoma.

1.2 Cenni storici

Il glioblastoma (noto anche come glioblastoma multiforme ed indicato con la sigla GBM) è il tumore più comune e più maligno tra le neoplasie della glia (Kleihues and Cavenee, 2000). Prima dell’avvento della biologia molecolare e degli studi di genomica su larga scala, grazie ai quali è stato possibile, in tempi più recenti, una sotto-classificazione dettagliata dei tumori cerebrali primari, la ricerca su questo tipo di tumori era distinta in due ere, il periodo classico o periodo macroscopico (1860-1920) e il periodo istologico (1920-1940) (Scherer, 1940). Durante il “periodo macroscopico”, i gliomi erano conosciuti nella comunità medica inglese come “sarcoma medullare” e come “fungo medullare” nella comunità medica tedesca (Scherer, 1940). Fu solo nel

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1863 che il Dott. Rudolf Virchow identificò per la prima volta il glioblastoma descrivendolo come un tumore che origina dalle cellule gliali (Globus and Strauss, 1925; Virchow, 1863). Oltre ad aver coniato il termine “glioma”, a Virchow si deve l’inizio del “periodo classico” di ricerca sui gliomi, che combinava osservazioni macroscopiche e microscopiche. Il passo successivo fu compiuto nel 1920 dal neurochirurgo, dott. Walter Dandy, che rimosse l’intero emisfero colpito da GBM in due pazienti in coma. Nonostante questo intervento radicale, i due pazienti finirono per soccombere alla malattia, dimostrando per la prima volta una delle più importanti caratteristiche del GBM, ovvero la sua invasività (Dandy, 1928).

Nel 1926, il neurochirurgo e neuropatologo dr. Percival Bailey e il neurochirurgo dr. Harvey Cushing diedero inizio all’era istologica di studio dei gliomi (Bailey and Cushing, 1926). Bailey e Cushing notarono infatti che molti pazienti, dopo aver subito una rimozione parziale del glioma cerebrale, sopravvivevano più del previsto rispetto ad altri (Bailey and Cushing, 1926). Questo dato, unito all’osservazione dell’eterogeneità microscopica dei gliomi, li spinse ad effettuare uno studio approfondito della struttura e della storia clinica di oltre 400 gliomi. Nel loro lavoro essi classificarono oltre 13 tipi di gliomi e riportarono vari gradi di prognosi, ognuna associata a una specifica tipologia di glioma (Bailey and Cushing, 1926). I due chirurghi riproposero tra l’altro il termine di “GBM”, introdotto da F.B. Mallory nel 1914 (Mallory, 1914) per designare il più aggressivo dei gliomi da loro identificati. L’attenta e scrupolosa caratterizzazione effettuata da Bailey e Cushing pose così le basi per lo sviluppo e la crescita sia in campo neurochirurgico che neuroncologico. Grazie a questi studi e agli enormi progressi nella ricerca clinica, patologica, molecolare e genetica, oggi siamo in possesso di una dettagliata e minuziosa caratterizzazione dei gliomi e, in particolare, del GBM.

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1.3. Caratteristiche morfologiche del glioblastoma multiforme

La classificazione dei gliomi può essere basata sulle caratteristiche morfologiche delle cellule tumorali, ovvero elevata attività mitotica, necrosi, proliferazione microvascolare, angiogenesi e trombosi (Kleihues and Cavenee, 2000).

Per quanto riguarda la necrosi, il GBM è caratterizzato da un’area necrotica che può presentare foci di micronecrosi circondate da zone ipercellulari vicino a tessuti normali o infiltrati derivati dal tessuto parenchimale (Raza et al, 2002). Queste cellule circondano le regioni necrotiche e sono organizzate a formare pseudo-palizzate con una configurazione che è tipicamente esclusiva dei tumori gliali. Si tratta di cellule ipossiche che esprimono alti livelli del fattore che induce ipossia (HIF-1) e sono caratterizzate dalla secrezione di fattori pro-angiogenici tra cui il fattore di crescita endoteliale (VEGF) e l’interleuchina 8 (IL-8). La secrezione del fattore IHF1 è importante poiché rappresenta una risposta adattativa all’ipossia attraverso l’attivazione del metabolismo glicolitico, la secrezione di fattori proangiogenici e l’aumento della migrazione cellulare (Zagzag, 2000).

Il fenomeno di necrosi può essere dovuto all’occlusione dei vasi o a pathway intrinseci o estrinseci coinvolti nella coagulazione del sangue che porta ad un processo microtrombotico (Rong et al, 2006). Poichè esso costituisce un marker di malignità del glioma è importante capire quali siano i meccanismi che portano alla formazione di queste regioni dense. Sebbene siano noti gli eventi angiogenici che seguono la formazione delle pseudopalizzate, la patogenesi delle cellule che le costituiscono e che sono in grado di iniziare questa sequenza di eventi non è ben definita. Vi sono tre ipotesi relative alla loro origine: (a) una popolazione resistente all’apoptosi, che si accumula a causa della loro maggiore sopravvivenza cellulare; (b) una popolazione

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mista di cellule tumorali o infiammatorie adiacenti alla regione necrotica; (c) una popolazione di cellule che migrano da o verso un punto centrale.

Le prime due ipotesi furono rapidamente scartate in seguito all’analisi dei livelli di caspasi 3 e di marker specifici per le cellule infiammatorie, che non risultavano differenti rispetto alle cellule adiacenti le palizzate. Basandosi su queste osservazioni, Brat e collaboratori (2004) suggerirono che fossero cellule neoplastiche che migravano da una regione centrale. Per dimostrare ciò era necessario determinare il meccanismo che porta alla migrazione. Il primo step fu considerare il fenomeno della migrazione in vitro: le cellule sono state poste in condizioni ipossiche per valutare la capacità di migrazione. Il risultato osservato è che l’ipossia portava ad un aumento della capacità di migrazione nelle linee cellulari analizzate. Sebbene diversi studi avessero già dimostrato come, da un punto di vista molecolare, l’ipossia fosse in grado di indurre la trascrizione del fattore mediato da HIF1, compresa MMP-2, una metalloproteinasi, l’effettivo meccanismo che regola la migrazione cellulare rimane ancora sconosciuto.

Un’altra caratteristica istopatologica del glioblastoma è l’angiogenesi o la proliferazione microvascolare con un aumento del diametro dei vasi sanguigni, alta permeabilità, assottigliamento della membrana basale cellulare e alta capacità proliferativa delle cellule endoteliali (Lopes, 2003). Questa proliferazione è parallela a quella delle cellule gliali ed è usata per valutare la gravità della patologia: infatti un aumento della vascolarizzazione è indice di una prognosi sfavorevole (Lebelt, 2008). L’idea di base è che in seguito ad un insulto vascolare, si venga a creare una condizione ipossica in una regione centrale dalla quale le cellule tumorali migrano attivamente verso l’esterno. Tale relazione tra necrosi e vascolarizzazione è stata studiata in un lavoro del 2004, ed è basata sulla capacità delle cellule che formano le pseudo-palizzate di esprimere alti livelli del fattore VEGF che porta ad un aumento dell’attività trascrizionale del fattore

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IHF1. Non solo, infatti la secrezione di VEGF, a sua volta, causa la proliferazione endoteliale e l’angiogenesi, che prende la foma di iperplasia microvascolare e corpi glomeruloidi nel GBM e in altri tumori (Brat et al, 2004).

1.4 Alterazione genetiche nel glioblastoma multiforme

Il glioblastoma primario e secondario mostrano specifiche differenze a livello genetico. Il GBM primario è caratterizzato dalla amplificazione del gene EGFR (epidermal

growth factor receptor), la perdita di eterozigosi del cromosoma 10q (LOH10q), che

contiene PTEN (phosphatase and tensin homolog), l’overespressione di MDM2 (mouse

double minute 2) e la delezione di p16.

Nel GBM secondario, invece, sono presenti mutazioni di TP53 e retinoblastoma (RB); overespressione di PDGFA/PDGFRa (derived growth factor A, e

platelet-derived growth factor receptor alpha) e perdita di eterozigosi nel cromosoma 19q

(Furnari et al, 2007; Wen and Kesari, 2008).

La perdita di eterozigosi sul cromosoma 10 (LOH10) è la più frequente alterazione genetica nel glioblastoma primario (più dell’80% dei casi), mentre è meno comune nell’astrocitoma anaplastico e assente negli astrocitomi di basso grado (Rasheed et al, 1995). In particolare, si possono distinguere due differenti situazioni: la perdita dell’intera copia del cromosoma o la delezione di due loci nei quali sono localizzati i geni soppressori tumorali (10p e 10q) (Ichimura et al, 1998). Uno di questi è PTEN (Phosphatase and Tensin homolog deleted on chromosome Ten) (Li et al, 1995), anche chiamato MMAC1 (Mutated in Multiple Advanced Cancers) (Steck et al, 1997), localizzato nel cromosoma 10q23, e l’altro è DMBT1 (Deleted in Malignant Brain

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lipidica che catalizza la conversione del fosfatidilinositolo (3,4,5)-trifosfatyo (PIP3) in fosfatidilinositolo (4,5)-bifosfato ed in questo modo riduce i livelli di PIP3 (Maehama and Dixon, 1998). La sua mutazione si ritrova in circa il 20% dei glioblastomi, ed è comune nel glioblastoma primairio (32%) ma rara (4%) nel secondario (Fujisawa et al, 1999). Il pathway in cui agisce PTEN prevede, nello specifico, l’azione dei fattori di crescita, che si legano ai recettori di membrana e attivano PI3K. PI3K attivato è in grado di fosforilare PIP2 producendo PIP3, il quale recluta PDK1

(3-fosfoinositide-proteina chinasi 1 dipendente) sulla membrana plasmatica. PDK1, a sua volta, fosforila

e attiva AKT, che regola diversi processi cellulari, tra cui apoptosi e sopravvivenza cellulare. L’attività della fosfatasi lipidica PTEN defosforila PIP3, riduce in questo modo i suoi livelli e aumenta quelli di PIP2, portando come risultato ad una ridotta attività di AKT (Planchon, 2007). Di conseguenza, i tumori che presentano una delezione di PTEN, come il glioblastoma, hanno livelli più alti di PIP3 e perciò PTEN risulta in grado di promuovere la sopravvivenza in queste cellule (Wechsler-Reya and Scott, 2001).

DMBT1 è un gene soppressore tumorale coinvolto nel GBM. Esso codifica per una proteina secreta o legata alla membrana che appartiene alla famiglia SRCR (Scavenger

Receptor Cysteine Rich Domain). Sono state osservate delezioni in omozigosi nel

medulloblastoma, cancro al polmone e al tratto gastrointestinale, mentre vi sono solo pochi casi (21%) nel glioblastoma (Sasaki et al, 2002).

In cellule normali, i pathway di segnalazione mitogenici sono importanti e necessari per guidare le cellule attraverso le differenti fasi del ciclo cellulare. I fattori di crescita, attraverso il legame ai loro specifici recettori e l’attivazione di vie intracellulari di trasduzione del segnale, agiscono come fattori di regolazione della progressione del ciclo cellulare e quindi della proliferazione. Nel caso delle cellule tumorali, esse non

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necessitano della loro azione per controllare sopravvivenza e divisione cellulare poiché presentano un’alterazione genetica che conferisce loro la capacità di attivare tali meccanismi in maniera costitutiva (Furnari et al, 2007). Tra i fattori di crescita che agiscono nello sviluppo del glioblastoma, il più comune è l’EFG (Epidermal Growth

Factor), appartenente alla famiglia dei recettori con attività di tirosina chinasi, in grado

di promuovere la proliferazione, il differenziamento e la sopravvivenza cellulari. Circa il 40-50% dei GBM mostra un’amplificazione per il recettore transmembrana di EGF (Libermann et al, 1985), considerato per questo motivo un marker del glioblastoma. La proteina P53, chiamata anche “guardiano del genoma”, è una proteina soppressore tumorale con funzione di arresto del ciclo cellulare al punto di regolazione G1/S dopo identificazione di danno al DNA (Louis, 1994). Questa alterazione porta alla proliferazione incontrollata e alla crescita tumorale specialmente in presenza di una segnalazione mitogenica attiva, come con PI3K (phosphoinositide 3-kinase) e MAPK (mitogen-activated protein kinase) (Furnari et al, 2007). Il ruolo di p53 nel glioblastoma è relegato solo al glioblastoma secondario, poiché il primario, che normalmente si sviluppa in pazienti meno giovani, non mostra nessuna perdita della funzione di p53. Il secondario, al contrario, si sviluppa in pazient più giovani a partire da cellule astrocitiche con mutazioni nel gene che codifica per p53 (Nozaki et al, 1999).

Per quanto riguarda lo sviluppo del glioblastoma secondario, un importante fattore di crescita coinvolto in questo processo è il PDGF (platelet-derived growth factor) e i suoi recettori (PDGFRα and β) (Di Rocco et al, 1998). Lo studio condotto da Majumdar e collaboratori (2009) ha dimostrato che l’espressione di questo fattore di crescita era significativamente differente e mostrava livelli più alti nell’astrocitoma e nel glioblastoma se paragonati ad altri tumori di grado minore. Al contrario, le due forme del recettore non mostravano differenze di espressione significative.

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Un importante ruolo è svolto anche dal pathway del retinoblastoma (RB), che controlla la transizione dalla fase G1 alla fase S durante il ciclo cellulare. Il meccanismo di azione è molto semplice: il complesso CDK4/ciclina D, una volta attivato, fosforila la proteina RB, che rilascia il fattore di trascrizione E2F. Questo, a sua volta, attiva i geni che sono responsabili della transizione da G1 a S (Sherr and Roberts, 1999). Tra gli inibitori che bloccano tale processo vi è p16INK4a che lega e così inibisce la funzione della proteina chinasi CDK4 e successivamente la transizione di fase. La più frequente alterazione del pathway di Rb è la sovraespressione del gene p16INK4a, l’amplificazione di CDK4 e la perdita di funzione del gene RB nel 50% dei glioblastomi primari e nel 40% di quelli secondari (Biernat et al, 1997).

Nel DNA delle cellule tumorali di pazienti affetti da GBM sono frequentemente presenti alterazioni che dipendono dai geni IDH. IDH è un enzima che catalizza la decarbossilazione dell’isocitrato per produrre chetoglutarato e CO2, e converte la nicotinamide adenina dinucleotide fosfato (NADP+) in NADH. È stato trovato che il gene che codifica per IDH1 e IDH2 è mutato in più del 70% del glioblastomi secondari. In particolare, queste mutazioni si ritrovano in approssimativamente l’80% dei gradi 2 e 3 di glioma e nel glioblastoma secondario, e solo meno del 10% nel glioblastoma primario (Yan et al, 2009). Diversi studi condotti per comprendere il meccanismo d’azione hanno mostrato che la mutazione di IDH1 porta all’inibizione della sua attività catalitica e all’induzione del fattore HIF-1. Esso è capace di percepire la concentrazione di ossigeno all’interno della cellula e, quando è molto bassa, favorire lo sviluppo del tumore (Zhai et al, 2009).

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1.5 Marker molecolari specifici del glioblastoma multiforme

Ci sono alcuni marker molecolari che vengono utilizzati per investigare la severità del tumore, tra questi il più importante è il gene MGMT (O6-methylguanine

methyltransferase). Il gene MGMT, localizzato sul cromosoma 10q26, codifica per una

metiltransferasi, ovvero una proteina di riparazione del DNA che rimuove i gruppi alchilici dalla posizione O6 della guanina, sito in cui si verifica meggiormente il fenomeno di alchilazione del DNA (Heigi et al, 2005). Questo enzima agisce promuovendo la riparazione del DNA causata dall’azione degli agenti alchilanti, tra cui il temozolomide utilizzato nella terapia del GBM. Nello specifico, si pensa che gli agenti alchilanti siano in grado di indurre la morte cellulare attraverso il cross-link che si forma tra i due gruppi di O6-guanina alchilati in filamenti adiacenti del DNA. Il silenziamento epigenetico del gene MGMT attraverso la metilazione del suo promotore è associato ad una perdita dell’espressione della proteina che risulta in una diminuita attività di riparazione del DNA. In questo modo il danno indotto dagli agenti alchilanti non è riparato, portando alla morte della cellula tumorale (Heigi et al, 2005). Il silenziamento epigenetico del gene MGMT attraverso la metilazione del suo promotore è correlato con una migliore risposta alla terapia ed una sopravvivenza media più elevata nei pazienti che ricevono radioterapia con temozolomide per il trattamento del glioblastoma (Palanichamy et al, 2006).

1.6. Sviluppo del glioblastoma multiforme

Sebbene non sia ancora del tutto chiaro il meccanismo d’azione che porta allo sviluppo del GBM, è senza dubbio noto che le cellule tumorali sono soggette ad una combinazione di molteplici eventi che portano a fenomeni di disfunzione cellulare,

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causando e sostenendo l’insorgenza e la progressione del tumore. Essi, inoltre, sono in grado di rendere queste cellule particolarmente resistenti alle terapie attualmente in uso. Nel tentativo di riepilogare le principali alterazioni molecolari alla base dell’insorgenza del GBM, uno studio recente ha ricondotto lo sviluppo del fenotipo tumorale tipico del GB al verificarsi in maniera combinata di almeno sei eventi, che risultano da altrettante alterazioni dei sistemi di segnalazione intracellulari (Nakada et al, 2011) (Figura 1).

Figura 1. Alterazioni molecolari alla base dell’insorgenza del GBM (Nakada et al, 2011)

1) Perdita del controllo del ciclo cellulare

In condizioni fisiologiche, il ciclo cellulare è controllato in maniera molto rigida. In particolare la transizione da una fase all’altra, tant’è che vi sono meccanismi deputati a ritardare l’esecuzione di eventi successivi del ciclo cellulare finché gli eventi precedenti non siano stati completati correttamente (checkpoint G1/S, checkpoint G2/M). Tuttavia, le cellule del GBM sono capaci di sviluppare strategie per eludere tale controllo, ottenendo così un vantaggio nella crescita tumorale. Il checkpoint di maggior interesse è quello che controlla la transizione dalla fase G1 alla fase S, in cui risultano implicati

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p16INK4a, CDK-4, la ciclina D1 e RB1 (Serrano et al, 1993). Il meccanismo d’azione è il seguente: il complesso CDK/ciclina D1 fosforila RB1 induce così il rilascio del fattore di trascrizione E2F che attiva i geni coinvolti nella transizione di fase G1/S (Sherr and Roberts, 1999). Alterazioni di almeno una delle componenti di questo pathway sono state identificate in molti astrocitomi anaplastici e nella maggior parte dei glioblastomi (Ueki et al, 1996; Biernat et al, 1997).

2) Overespressione dei fattori di crescita e dei loro recettori

Un’ampia gamma di fattori di crescita presentano livelli di espressione aumentati nel glioblastoma, e questo fornisce loro un vantaggio per la crescita tumorale. In particolare, tra essi, l’EGFR e il PDGF risultano coinvolti nello sviluppo e nella progressione tumorale del glioblastoma (Westermarck et al, 1995; Wong et al, 1987). L’amplificazione genetica e/o l’aumento dell’espressione proteica di questi recettori tirosin-chinasici (es. EGFR, PDGFRα, PDGFRβ) e talvolta dei loro ligandi (es. PDGF) creano un loop autocrino o paracrino costitutivamente attivato che promuove la proliferazione delle cellule tumorali (Nakada et al, 2011). L’amplificazione dei geni che codificano per fattori di crescita e/o per i rispettivi recettori si riscontra in una elevata percentuale di casi di GBM (Libermann et al, 1985; Di Rocco et al, 1998). Questa alterazione consente di promuovere in modo costitutivo la crescita cellulare, anche in assenza di segnali mitogenici endogeni o esogeni. Le vie di trasduzione del segnale che mediano l’attivita dei fattori di crescita risultano infatti costitutivamente attivate, offrendo alle cellule di glioblastoma un vantaggio proliferativo sulle altre popolazioni cellulari.

3) Induzione di angiogenesi

Tra tutti gli astrocitomi, il glioblastoma rappresenta la forma più altamente vascolarizzata, con una densità di vasi sanguigni nettamente superiore rispetto a quella

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di tumori di grado minore, tant’è che la proliferazione microvascolare si correla strettamente alla malignità di questa neoplasia (Brem et al, 1972). Una sequenza specifica di alterazioni angiogeniche insorgono nella progressione del GBM (Louis, 2006). In particolare un ruolo importante è svolto da VEGF, la cui espressione è localizzata molto spesso nelle zone adiacenti alle aree necrotiche. Il fatto che questo fattore si ritrovi solo negli astrocitomi di grado più alto, suggerisce che la progressione maligna da un astrocitoma di grado più basso al glioblastoma comporta uno “switch angiogenico”. La carenza di ossigeno (Brat and Mapstone, 2003) ma anche la perdita di funzione di geni soppressori tumorali e l’attivazione di oncogeni che promuovono la proliferazione cellulare (Louis, 2006) sono in grado di indurre l’espressione di VEGF al fine di favorire la crescita di nuovi vasi all’interno della massa tumorale. Nel GBM, una drammatica sequenza di cambiamenti vascolari, basati sul rimodellamento di vasi pre-esistenti, porta alla formazione di nuovi vasi. Tale processo richiede tre fasi distinte: 1) disaggregazione del vaso sanguigno attraverso l’interruzione dei contatti tra cellule endoteliali e membrana basale;

2) degradazione/digestione enzimatica (mediata da MMP, collagenasi, gelatinasi) della membrana basale e dell’ECM che circonda il vaso;

3) proliferazione e migrazione delle cellule endoteliali e formazione del nuovo vaso. Questo tipo di angiogenesi si contraddistingue per la rapida divisione delle cellule endoteliali e dei periciti, che formano microaggregati lungo i bordi dei vasi sanguigni principali. Molti vasi mostrano marcate alterazioni strutturali, che consistono in lume dilatato, ispessimento delle pareti e aumento della permeabilità. Non di rado, foci di iperplasia vascolare assomigliano a glomeruli renali e sono per questo chiamati “corpi glomeruloidi”. L’aggregazione di cellule neoplastiche attorno ai vasi sanguigni di piccole e medie dimensioni (Brat and Van Meir, 2001; Wesseling et al, 1995) e la

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formazione di edema peritumorale (Del Maestro et al, 1990) rappresentano altre alterazioni patologiche frequentemente riscontrate nel GBM.

4) Infiltrazione nel tessuto nervoso circostante

Una delle caratteristiche principali del GBM, oltre all’invasività e alla migrazione, è la sua capacità di infiltrazione nel tessuto nervoso circostante. L’espressione di alcune proteine della matrice extracellulare e recettori di superficie possono modulare la traduzione del segnale ed influenzare questo fenomeno. È possibile distinguere quattro fasi principali:

1) distacco delle cellule tumorali dalla massa del tumore primario; 2) adesione all’ECM;

3) degradazione enzimatica dell’ECM;

4) migrazione delle cellule tumorali nei tessuti circostanti.

Tra i fattori molecolari coinvolti possiamo annoverare: proteine del citoscheletro e molecole segnale che mediano l’interazione tra citoscheletro e ambiente extracellulare; molecole dell’ECM e molecole-recettori di adesione all’ECM; proteasi (Onishi et al, 2011).

Nella prima fase c’è il distacco delle cellule invasive dal tumore iniziale. In questa fase diverse importanti proteine legano la matrice extracellulare, come CD44, NCAM e CADERINA. È stato dimostrato che anticorpi contro CD44 possono diminuire il livello di invasività delle cellule tumorali (Merzak et al, 1994). NCAM, al contrario, agisce come un inibitore paracrino sulla motilità e la proliferazione delle cellule di glioblastoma (Prag et al, 2002). Per quanto riguarda le caderine, esse presentano differenti azioni dipendenti dal tipo specifico preso in considerazione: la N-caderina promuove la motilità e l’invasività del fenotipo tumorale (Asano et al, 2004), mentre la perdita di espressione della E-caderina rende il tumore invasivo. La seconda fase è

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relativa all’adesione alla matrice extracellulare (ECM): le proteine coinvolte sono la tenascina C (Deryugina and Bourdon, 1996) e le integrine. Queste proteine della matrice vengono riconosciute da uno specifico recettore presente sulla membrana delle cellule di glioblastoma. Ad esempio la fibronectina presente nell’ECM è riconosciuta e legata dalle integrine, glicoproteine eterodimeriche integrali di membrana; questi recettori in particolare sono fondamentali per la creazione di un collegamento “link” tra l’ECM ed i filamenti di actina del citoscheletro, permettendo il mantenimento della forma e dell’architettura cellulare ed anche la regolazione della migrazione cellulare (Nakada et al, 2011). La terza fase consiste nel rimodellamente della matrice extracellulare operato da proteasi prodotte dalle cellule tumorali, come MMP (metalloproteinasi della matrice) (Nakada et al, 2003), serine proteinasi UPA (urokinase-type plasminogen activator) (Yamamoto et al, 1994) e la catepsina D (Sivaparvathi et al, 1996). La fase finale è la migrazione cellulare delle cellule di glioma: questo processo è regolato dal fattore di rilascio della motilità in maniera autocrina o paracrina, come l’SH/HGF (Scatter factor/hepatocyte growth factor) (Lamszus et al, 1998) e l’EGFR (Epidermal growth factor receptor) (Lund-Johansen et al, 1990).

5) Alterazione delle via apoptotica

Con il termine apoptosi si indica la morte cellulare che avviene in maniera programmata. Le cellule di glioblastoma sono capaci di sviluppare strategie non solo per aumentare il grado di proliferazione, ma anche per evitare l’apoptosi (Chao et al, 2000; Sarkar et al, 2005). Nel processo di gliomagenesi si possono identificare diversi geni coinvolti in questo processo, primo fra tutti p53: è noto, infatti, che le mutazioni a carico di questo gene alterano le risposte gliali apoptotiche che si avrebbero in condizioni normali in gliomi di basso grado, favorendone, in tal modo, la progressione

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(Gomez-Manzano et al, 1997) . Le mutazioni di p53 sono state riscontrate nel 25-30% dei GBM primari e nel 60-70% dei GBM secondari (England, Huang and Karsy, 2013).

6) Instabilità genetica

Una caratteristica essenziale dei gliomi di basso grado è la loro progressione verso forme tumorali di grado più elevato, sostenuta dalla comparsa di cloni più maligni ad elevata instabilità genetica (Leung et al, 2000). In particolare, le mutazioni o alterazioni più frequenti che si possono ritrovare nel glioblastoma sono a carico di geni oncosoppressori, come p53, PTEN,Rb o di pathway oncogenici come EGFR, PDGFR, CDK-4 (Furnari et al, 2007; Parsons et al, 2008).

1.7 L’ipotesi delle “cellule cancerogene staminali” (cancer stem

cells, CSC)

Negli ultimi dieci anni numerosi studi hanno dimostrato che le cellule staminali non hanno solo un ruolo critico nel generare e mantenere gli organismi multicellulari, ma sono anche coinvolte nello sviluppo e nella crescita tumorale. Si tratta infatti di cellule staminali cancerogene (CSCs) o cellule con capacità di dare origine al tumore, ovvero un gruppo di cellule che possiedono le proprietà caratteristiche delle cellule staminali, capaci di auto-rigenerarsi e differenziare in più linee cellulari, et al con un ruolo critico nella genesi del tumore, nelle recidive e nelle metastasi (Jhanwar-Uniyal, et al 2013). Sebbene le caratteristiche specifiche delle cellule staminali normali possono essere preservate in grado minore o maggiore nelle CSCs, esse sono essenziali per la crescita tumorale, e possono fornire le basi per la comprensione del potenziale metastatico, così come la chemio-resistenza che si ritrova in numerosi tumori (Stupp and Hegi, 2007). L’esistenza delle CSCs fu dimostrata per la prima volta da Lapido e collaboratori in un

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trapianto sperimentale di vari tipi di cellule di leucemia mieloide acuta (AML) in topi immunodeficienti. Solo una popolazione ben distinta di cellule AML dimostrò di avere un potenziale tumorigenico (Lapido et al, 1994). In seguito alla scoperta delle cellule in grado di originare la AML, questo concetto fu ipotizzato essere valido per diversi tipi di tumori, inclusi quelli al colon, cancro, prostata e al cervello, così come il GBM (Stupp and Hegi, 2007). In particolare, l’ipotesi che anche all’interno della massa tumorale del GBM sia presente un sottoinsieme di cellule con caratteristiche di staminalità prende il nome di “Ipotesi delle cellule cancerogene staminali” (“The cancer stem cells

hypothesis”) (Rosen and Jordan, 2009; Zhao et al, 2010). Tale teoria è stata proposta

per la prima volta nel 2001 dal gruppo di Reya e collaboratori (Reya et al, 2001). Poco dopo, nel 2003, Singh e collaboratori riuscirono ad isolare cellule staminali tumorali cerebrali, che condividevano molte caratteristiche con le cellule staminali neuronali (NSCs) e furono considerate le cellule responsabili dello sviluppo dei tumori cerebrali umani (Singh et al, 2003). Tale compartimento staminale è stato successivamente definito Cancer Stem Cells (CSCs), Tumor Initiating Cell (TIC) o Tumor-propagating

cell (Hadjipanayis and Van Meir, 2009).

Da un punto di vista funzionale, le CSCs sono estremamente efficienti nel generare tumori impiantati in vivo. La teoria delle CSCs ipotizza che queste cellule siano all’apice della gerarchia delle cellule tumorali e successivamente perdano il loro potenziale tumorigenico e di autorinnovamento quando differenziano in una progenie molecolarmente diversa della massa tumorale. Quindi, la rimozione delle CSC è necessaria e sufficiente per fermare l’espansione del tumore o prevenire la ricomparsa dopo la terapia (Ebben et al, 2010) (Figura 2).

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Figura 2. Ruolo delle CSCs nella genesi tumorale (Das et al, 2008)

In particolare, la presunta cellula di origine del GBM può seguire tre possibili strade. Nella prima, la glia dedifferenzia a seguito di mutazioni o lesioni epigenetiche per acquisire caratteristiche di staminalità. Nella seconda, un esiguo numero di cellule progenitrici neurali, che hanno un limitato potenziale di autorinnovamento, hanno bisogno di acquisire mutazioni specifiche per guadagnare proprietà simili alle cellule staminali. Nella terza, cellule staminali adulte che normalmente hanno un elevato potenziale proliferativo e differenziativo, acquisiscono mutazioni specifiche che le rendono cancerogene (Dirks, 2001; Dirks, 2008). Indipendentemente dalla loro origine, queste cellule sono state chiamate cellule staminali di glioblastoma (GSCs) (Stiles and Rowitch, 2008).

La presenza delle CSC nel GBM è stata analizzata tramite l’uso di una serie di marker antigenici espressi su colture in vivo, tra cui possiamo ricordare i più comuni, CD133 e Nestina (Singh et al, 2004; Kuprova et al, 2010). In condizioni normali, le NSCs crescono su superfici non aderenti dando origine ad aggregati cellulari che vengono definiti neurosfere, ed hanno capacità di auto-rinnovamento e di differenziamento nei vari tipi cellulari del cervello (neuroni, astrociti e oligodendrociti). Queste neurosfere,

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inoltre, possono essere suddivise in singole cellule, ciascuna in grado di generare nuove neurosfere.

CD133 è una glicoproteina di membrana con 5 domini transmembrana, costituita da 865 amminoacidi con un peso molecolare di 120KDa. La purificazione di cellule CD133+ da campioni di GBM ha consentito la crescita e la separazione di popolazioni di cellule tumorali staminali (Ignatova et al, 2002). Queste cellule mostrano le caratteristiche delle NSCs, ovvero la capacità di formare neurosfere, l’auto-rinnovamento, il potere proliferativo e la multipotenza (Singh et al, 2004). Inoltre, queste cellule CD133+ sono in grado di generare il tumore quando sono trapiantate nel cervello di topi NOD-SCID (non-obese diabetic, severe combined immunodeficient). Da notare che tale tumore mostra le stesse identiche caratteristiche istopatologiche del tumore originale da cui sono state prelevate (Singh et al, 2004). Esperimenti in vivo che dimostravano che solo le cellule CD133+ possiedono le proprietà di cellule staminali e sono tumorigeniche sono stati contestati poiché sia le cellule tumorali cerebrali CD133+ che quelle CD133 -risultavano tumorigeniche in modelli sperimentali (Beier et al, 2007). Inoltre, entrambe le linee cellulari possiedono la capacità di formare neurosfere multipotenti di cellule dotate di auto-rinnovamento (Kelly et al, 2009) e le CD133- possiedono anche la capacità di dare origine al tumore proprio come visto nelle CD133+ (Prestegarden et al, 2010). Si deve notare, infine, che alcune linee cellulari di GBM che mantengono le proprietà simili alle cellule staminali non esprimono CD133+ (Prestegarden et al, 2010). Un altro marker per le cellule staminali del glioma è rappresentato dalla Nestina, una proteina dei filmaneti intermedi (IF) di tipo IV che viene espressa durante la divisione cellulare nelle fasi precoci dello sviluppo sia a livello di sistema nervoso centrale (SNC) che periferico (SNP) e in altri tessuti. Una volta avvenuto il differenziamento, la Nestina viene sostituita da altre proteine dei filamenti intermedi, come per esempio la proteina

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fibrillare acida della glia (GFAP) (Michalczyk and Ziman, 2005). Alla Nestina è stato conferito un ruolo come marker di prognosi per il GBM, poiché la sua espressione è molto più elevata in questo tipo di tumore se comparato con quello di grado minore (Dahlstrand et al, 1992). È noto che l’espressione della Nestina è elevato durante le fasi dello sviluppo embrionale, ma si riduce nella fase adulta (Krupkova et al, 2010), a significare che la positività delle cellule di glioblastoma per questo antigene di staminalità è indice di uno stato indifferenziato in cui le cellule stesse di GBM si trovano.

Un’alterazione del meccanismo di regolazione che controlla l’autorinnovamento cellulare è probabilmente coinvolto nella genesi del tumore che inizia dalle cellule con caratteristiche staminali (Vescovi et al, 2006). Questo è probabilmente quanto accade anche nel cervello dell’uomo dove la neo-genesi di cellule differenziate è presente durante tutto il corso della vita a partire da specifiche regioni cerebrale, in particolare nel giro dentato dell’ippocampo e nella zona sub-ventricolare (SVZ) del ventricolo laterale del proencefalo. La conseguenza principale della neurogenesi in età adulta è la presenza di cellule staminali progenitrici indifferenziate e mitoticamente attive; queste possono diventare una sorgente di cellule che, in seguito a trasformazione, danno origine alle CSCs.

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CAPITOLO 2

Mammalian Target Of Rapamycin (mTOR)

2.1 Cenni storici

La scoperta di mTOR (mammalian Target Of Rapamycin) è strettamente correlata a quella della rapamicina, che risale al 1964 dopo analisi su campioni di terreno prelevati presso l’Isola di Pasqua ed inviati al laboratorio del Dr. Suren N. Seghal a Montreal. Nel 1991, Michael N. Hall e N. Rao Movva identificarono diverse forme mutanti del lievito Saccharomyces cerevisiae resistenti alla rapamicina; la maggior parte delle mutazioni erano situate nel gene FPR1, ed in particolare due di queste mutazioni determinavano dei nuovi geni, che sono stati denominati TOR1 e TOR2, come target della rapamicina (Heitman et al, 1991).

È stato successivamente trovato che TOR è altamente conservato nella sua funzione di controllare la crescita cellulare e che la sua forma nei mammiferi è implicata in differenti patologie umane (Menon and Manning, 2008; Laplante and Sabatini, 2009; Dazert and Hall, 2011).

2.2 Struttura e funzione di mTOR

mTOR (mammalian Target Of Rapamycin) è una proteina serina-treonina chinasi di 289 kDa implicata nella proliferazione e crescita cellulare. È altamente conservata dai lieviti ai mammiferi (la proteina TOR nell’uomo, topo e ratto è identica per il 95% degli amminoacidi che la costituiscono). Il suo ruolo principale è di integrare i segnali

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extracellulari con le informazioni relative alle risorse metaboliche cellulari e controllare, di conseguenza, i processi anabolici e catabolici (Swiech et al, 2007). La porzione N-terminale di mTOR contiene numerosi ripetizioni HEAT (huntingtin

elongation factor 3 protein phosphatase 2A TOR1) che si pensa siano in grado di

mediare la maggior parte delle interazioni con le altre proteine. La porzione C-terminale contiene un dominio chinasico che fa sì che mTOR sia considerato appartenente alla famiglia delle PI3K (Laplante and Sabatini, 2009). Da un punto di vista molecolare, mTOR agisce principalmente attraverso la fosforilazione di due importanti regolatori della traduzione proteica: eIF-4E (4E-BP) e p70S6K (p70 ribosomal S6 protein kinase) (Burnett et al, 1998). Nonstante i neuroni siano cellule post-mitotiche, ovvero non proliferative, è stato dimostrato che mTOR è in grado di controllare la dimensione del soma della cellula neuronale (Kwon et al, 2003). Infatti, una delle caratteristiche principali delle patologie che mostrano una maggiore attività di mTOR è l’ipertrofia dei tessuti, che colpisce anche il sistema nervoso, in cui le cellule neuronali sono ingrandite e la loro morfologia risulta alterata. Tuttavia, studi recenti hanno rivelato un coinvolgimento molto più ampio di mTOR nello sviluppo neuronale, dimostrando che esso agisce durante le fasi che regolano l’orientamento degli assoni, lo sviluppo dei dendriti e la morfogenesi delle spine dendritiche (Jaworski et al, 2005; Kumar et al, 2005; Tavazoie et al, 2005).

Il ruolo di mTOR nella fisiologia neuronale si estende, in realtà, oltre il periodo iniziale di sviluppo, infatti la sua attività risulta essenziale per diverse forme di plasticità sinpatica che sono alla base dei processi di apprendimento e di memoria (Cammalleri et al, 2003; Tang et al, 2002; Tischmeyer et al, 2003). Di recente, inoltre, è stato dimostrato che mTOR è in grado di regolare altre funzioni cerebrali, tra cui l’assorbimento del cibo (Cota et al, 2006). A causa del ruolo fondamentale che mTOR

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gioca nella fisiologia neuronale, non sorprende che il suo pathway risulti alterato in numerose condizioni neuropatologiche. Alterazioni del pathway di mTOR sono ben documentate in tumori cerebrali, sclerosi tuberosa, e patologie neurodegenerative come Alzheimer, Parkinson e Huntington (An et al, 2003; Chan et al, 2004; Inoki et al, 2005; Malagelada et al, 2006; Ravikumar et al, 2004), così come nel GBM.

L’attività chinasica di mTOR è modulata in risposta a vari stimoli come fattori trofici, mitogeni, ormoni, amminoacidi, stato energetico della cellula, stress cellulare, danno al DNA e fattori virali (Avruch et al, 2005; Reiling and Sabatini, 2006; O'Shea et al, 2005). Dalla risultante tra i segnali positivi e negativi che convergono su mTOR si ottiene l’equilibrio tra i processi anabolici e catabolici all’interno della cellula. La sua attività chinasica regola numerosi processi cellulari sia in positivo (come ad esempio la traduzione proteica) che in negativo (ad esempio l’autofagia). La maggior part dei dati riguardanti l’attività cellulare di mTOR sono stati ottenuti mediante l’utilizzo di un inibitore specifico di mTOR, la rapamicina. Essa è in grado i legarsi al suo dominio N-terminale con la proteina di legame FK 506 (FKBP12) ed inibire, in questo modo, la sua attività enzimatica (Hara et al, 2002; Kim et al, 2002) .

2.3 mTORC1 e mTORC 2

mTOR è parte di due complessi proteici eteromerici, funzionalmente distinti, chiamati mTORC1 e mTORC2, rispettivamente (Bhaskar and Hay, 2007; Wullschleger et al., 2006; Laplante and Sabatini, 2009; Loewith and Hall, 2011) (Figura 3).

Il complesso mTORC1, sensibile alla rapamicina, è composto da mTOR, Raptor (regulatory associated protein of mTOR), PRAS40 (proline-rich Akt substrate 40KDa) e mLST8 e regola la crescita cellulare attraverso la coordinazione dell’anabolismo

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proteico (Averous and Proud, 2006; Ma and Blenis, 2009), la biosintesi di nucleotidi (Ben-Sahra et al, 2013; Robitaille et al, 2013), la lipogenesi, la glicolisi (Laplante and Sabatini, 2009; Peterson et al, 2011) e l’autofagia (Ganley et al, 2009; Hosokawa et al, 2009). È anche coinvolto nel controllo di un ampio numero di processi cellulari, come la trascrizione, la traduzione, il ciclo cellulare e la dinamica dei microtubuli (Harris and Lawrence, 2003).

mTORC2, insensibile alla rapamicina, è costituito da mTOR, Rictor

(rapamycin-insensitive companion of mTOR) SIN (SAPK-interacting protein), SIN1, e mLST8;

controlla la crescita attraverso la regolazione della lipogenesi e del metabolismo del glucosio (García-Martínez and Alessi, 2008; Hagiwara et al, 2012; Yuan et al, 2012), regola le dinamiche del citoscheletro di actina (Cybulski and Hall, 2009; Oh and Jacinto, 2011), l’apoptosi (Datta et al, 1997) e controlla l’attività di due proteine chinasi, Akt e PKC(Sarbassov et al, 2006).

Solo la proteina GβL (mLST8/GβL) è comune ad entrambi i complessi (Kim et al, 2003), infatti Raptor e PRAS40 sono presenti solo in mTORC1 (Vander Haar et al, 2007), mentre Rictor, SIN1 e Protor sono stati identificati solo in mTORC2 (Pearce et al, 2007). Una esposizione prolungata alla rapamicina causa il sequestro di mTOR da parte del complesso inattivo FKBP12-rapamicina-TORC1 e indirettamente porta alla inibizione di mTORC2 (Sarbassov et al, 2006). Il ruolo delle singole proteine che costituiscono i complessi mTORC non sono ancora stati ben definiti. È stato dimostrato che mTOR possiede attività catalitica e può fosforilare specifici target proteici, incluse la proteina chinasi ribosomiale p70S6K, la proteina di legame eIF-4E (4E-BP1) e Akt (Sarbassov, 2005). Tuttavia, per svolgere la sua attività catalitica è necessario che siano presenti le altre proteine del complesso TORC, per esempio è stato dimostrato che SIN ha un ruolo cruciale per la fosforilazione di Akt sulla serina 473 (Jacinto et al, 2006) .

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La proteina mLST8/GL molto probabilmente ha sia funzione strutturale che quella di facilitare l’interazione di mTORC1 con le sue proteine target, p70S6K e 4E-BP1 (Kim et al, 2003). In realtà sembra che, con una buona probabilità, mLST8 non sia critica per l’attività di mTORC1, poichè i topi knockout (KO) per mLST8 muoiono più tardi rispetto ai Raptor KO (Guertin et al, 2009). Inoltre, i KO per Rictor e mLST8 mostrano simili deficit di sviluppo e muoiono a metà del periodo di gestazione (Shiota et al, 2006). Da qui si dimostra che mLST8 è indispensabile per la funzione di mTORC2. La funzione di Raptor e Rictor è quella di aumentare la specificità di mTOR per i suoi substrati (Kim et al, 2002; Sarbassov et al, 2006). Recentemente è emerso anche il ruolo della proteina PRAS40 che si lega ad mTORC1 e inibisce la sua attività (Vander Haar et al, 2007). La dissociazione di PRAS40 dal complesso, che avviene dopo fosforilazione da parte di Akt, risulta dunque critica per l’attivazione di mTORC1 (Vander Haar et al, 2007). Al contrario, la proteina Protor, parte del complesso mTORC2, è stata descritta recentemente, sebbene la sua funzione non sia ancora stata identificata (Pearce et al, 2007).

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2.4 Singalling di mTOR: PI3K/Akt

Negli ultimi tempi è emerso che mTOR potrebbe costituire un bersaglio molecolare estremamente valido per la terapia nei pazienti con GBM. mTOR è una delle molecole chiave del signalling che coinvolge la classe IA della famiglia PI3K (phosphatidyl-inositol-3-kinase), chinasi lipidiche intracellulari altamente conservate, che regolano la proliferazione, il differenziamento cellulare, il metabolismo e la sopravvivenza (Engelman et al, 2006). In particolare, PI3K-IA è attivata da recettori tirosina chinasici (RTKs) che legano fattori di crescita, sia in maniera indiretta che attraverso l’interazione con molecole adattatrici correlate con i recettori insulinici (Engelman et al, 2006). Il signalling di PI3K deve essere strettamente regolato affinché ci sia un corretto sviluppo, al contrario la sua attivazione in maniera costitutiva è associata con lo sviluppo di tumore (Vivanco and Sawyers, 2002). Mutazioni che comportano l’attivazione costitutiva di PI3K sono infatti state trovate in quasi tutti i pazienti affetti da GBM (The Cancer Genome Atlas Research Network, 2008; Parsons et al, 2008). L’amplificazione o le mutazioni che comportano l’attivazione delle subunità catalitiche e regolatorie di PI3K contribuiscono all’attivazione del pathway di PI3K in più del 10% dei glioblastomi multiforme (The Cancer Genome Atlas Research Network, 2008). La delezione sul cromosoma 10 della proteina soppressore tumorale PTEN, il più importante modulatore negativo del pathway di PI3K, è riscontrata in più del 50% dei casi di glioblastoma muliforme e rappresenta il terzo meccanismo di attivazione costitutiva della via di PI3K (Choe et al, 2003; Ermoian et al, 2002). Inoltre, mutazioni genetiche multiple attivanti la via di PI3K sono riscontrate in quasi tutti i pazienti affetti da GBM, evidenziando l’importanza biologica di questa via.

L’attivazione del pathway di mTOR inizia, dunque, con l’attivazione del recettore tirosina-chinasi attraverso l’azione di fattori mitogeni, trofici (ad esempio il BDNF) o

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ormoni (insulina) (Figura 4). Questi, a loro volta, portano all’attivazione del PI3K mediante reclutamento del dominio SH2 contenente proteine adattatrici, e Ras e ad una aumentata produzione di PIP3, regolatore fondamentale della chinasi serina/treonina Akt, che media il signalling attivato da fattori di crescita con stimoli proliferativi, metabolici e di sopravvivenza (Engelman et al, 2006; Chalhoub et al, 2009). Conseguenza immediata dell’aumento dei livelli di PIP3 è il reclutamento di PDK1 e Akt sulla membrana cellulare e successivamente la fosforilazione di Akt da parte di PDK1 e mTORC2 (Sarbassov et al, 2006). mTOR, infatti, agisce attraverso il pathway di PI3K mediante due distinti complessi. Nel complesso con PRAS40, Raptor e mLST8/GbL, mTOR (mTORC1) agisce come un effettore a valle del signalling PI3K/Akt, correlando gli stimoli rappresentati dai fattori di crescita con la sintesi proteica, crescita cellulare, proliferazione, sopravvivenza. Al contrario, quando è associato a Rictor, mSIN1, protor e mLST8, mTOR (mTORC2) agisce come un attivatore a monte di Akt (Guertin and Sabatini, 2009). L’Akt viene fosforilata in corrispondenza della treonina 308 (Thr 308), attraverso l’azione costitutiva della PDK1. Per la massima attivazione, Akt è anche fosforilato da mTORC2, a livello della serina 473 (Ser473) del suo C-terminale idrofobico. Una volta fosforilata, ed attivata, Akt può a sua volta fosforilare la tuberina (TSC2) (Inoki et al, 2002) che, insieme alla amartina (TSC1), si ritrova a formare il complesso TSC1/2 nella sclerosi tuberosa (Manning et al, 2002). Si tratta di una GTPasi (GAP) che a sua volta attiva Rheb (Ras homolog

enriched in brain protein). L’inattivazione di TSC2, causata dalla fosforilazione

mediata da Akt, porta ad un aumento dei livelli di Rheb-GTP nella cellula che hanno un effetto di stimolazione sull’attività di mTOR (Inoki et al, 2003). Di recente, diversi studi hanno mostrato che il complesso Rheb-GTP agisce attivando mTORC1, ma non mTORC2, in risposta all’insulina sia nella Drosofila S2 che nelle cellule renali

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embrionali di mammifero (Yang et al, 2006): infatti Rheb-GTP sembra, piuttosto, inibire l’attività di mTORC2. (Yang et al, 2006). Tuttavia, l’attivazione del pathway di mTOR è ben più complessa di quella appena descritta: Akt non è infatti l’unico inibitore di TSC2, si deve considerare l’attivazione della chinasi extracellulare ERK (extracellular-signal-regulated), così come della RSK (ribosomal S6 kinase), che sono anch’esse in grado di portare alla fosforilazione e conseguente inibizione della tuberina (Ma et al, 2005; Roux et al, 2004). Inoltre, Akt può indurre l’attivazione di mTORC1 bypassando TSC1/2, ovvero direttamente fosforilando PRAS40 (Vander Haar et al, 2007). In aggiunta, la proteina TCTP (translationally controlled tumor protein) attiva mTOR senza l’impiego di TSC1/2 (Hsu et al, 2007). Mentre la fosforilazone della tuberina ad opera di Akt e ERK porta all’inibizione di TSC1/2, e all’attivazione di mTOR, la fosforilazione della tuberina dipendente dalla proteina chinasi AMP (AMPK) ha un effetto opposto. AMPK è attivato da alti livelli cellulari di adenosina monofosfato, che indicano deficit energetici, e la downregolazione di mTOR guidata da AMPK funge da interruttore del programma cellulare anabolico. Un altro pathway di mTOR, evolutivamente conservato è in relazione al livello di amminoacidi disponibili per la cellula. Contrariamente agli ormoni, ai fattori di crescita e a quelli mitogeni, gli amminoacidi coinvolgono la classe III PI3K-Vps34 per questo scopo (Byfield et al, 2005; Nobukuni et al, 2005). È interessante notare che questa via conduce, allo stesso tempo, ad un aumento dipendente da mTORC1 dell’espressione proteica e una riduzione dell’autofagia (Meijer and Codogno, 2006). È ben documentato che fattori, trofici, ormoni e amminoacidi regolano l’attività di mTOR nei neuroni. Inoltre, sostanze specifiche come neurotrasmettitori possono indurre l'attività di mTOR. mTORC1 ha due substrati specifici, p70S6k (chiamato anche S6K) e 4E-BP1, entrambi in grado di agire sulla sintesi proteica (Calleja et al, 2007). Quindi, mTORC1 è un importante effettore a

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valle della via di segnalazione di PI3K, che correla gli stimoli dei fattori di crescita con la proliferazione cellulare e sintesi proteica (Easton and Houghton, 2006). Sorprendentemente, è stato identificato un meccanismo Akt-indipendente in diversi casi di GBM (Fan et al, 2009). Una volta attivato, mTORC1 fosforila i suoi effettori a valle, che sono chiamati S6K1 e 4EBP1.

S6K1 è una serina-treonina chinasi appartenente alla famiglia AGC (PKA/PKG/PKC) e coinvolta nella regolazione positiva della crescita cellulare e della proliferazione. L’attivazione completa di S6K1 richiede la fosforilazione in corrispondenza di due siti distinti: Thr 389, il target specifico di mTORC1, e Thr 229, il target di PDK1 (Wullschleger et al, 2006; Petroulakis et al, 2006; Pullen et al, 1998). Una volta attivata, S6K1 aumenta la traduzione di mRNA (Wang et al, 2001) codificanti per proteine ribosomiali, fattori di elongazione e IGF (insulin-like growth factor), che corrispondono circa al 15-20% dell’mRNA cellulare totale (Petroulakis et al, 2006; Wang et al, 2001). 4EBP1 è un altro target di mTORC1 ben caratterizzato. 4EBP1 inibisce l’inizio del processo di traduzione legando e, in questo modo inattivando, eIF4E (eukaryotic translation initiation factor 4E) (Sonenberg et al, 1998). mTORC1 fosforila 4EBP1 a livello degli amminoacidi Thr 35, Thr 45, Ser 64 e Thr 69 per promuovere la dissociazione di eIF4E da 4EBP1, riducendo così l’efetto inibitorio di 4EBP1 sull’inizio del processo di traduzione dipendente dal fattore eIF4E (Pause et al, 1994). Quest’ultimo, in forma libera dopo la sua dissociazione, può formare il complesso multisubunità eIF4F che si lega a eIF4G (una importante proteina scaffold), a eIF4A (una RNA elicasi ATP-dipendente) e a eIF4B, consentendo la traduzione proteica cap-dipendente ed inducendo una aumento della traduzione di mRNA dei suoi geni target a valle (ad esempio, myc, ornitina, ciclina D), che sono richiesti per la transizione di fase da G1 a S (Faivre et al, 2006). Al contrario, nelle cellule quiescenti o con bassi livelli di

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fattori di crescita, il fattore 4EBP1 non fosforilato si lega a eIF4E, inibendo il processo di traduzione proteica. L’inibizione di mTOR operata dalla rapamicina causa anche la defosforilazione di 4EBP1, che previene la traduzione proteica (Jastrzebski et al, 2007). Akt e mTOR sono legate l’una all’altro attraverso circuiti regolatori positivi e negativi, che ostacolano la loro simultanea iperattivazione. Questo sistema potrebbe essersi evoluto come un meccanismo di salvaguardia per regolare la sopravvivenza e la proliferazione cellulare (Dobashi et al, 2011).

Figura 4. PI3k/AKT/mTOR Signalling Pathway (Huang et al, 2013)

2.5 Ruolo di mTOR nella regolazione delle CSCs

Se le cellule staminali neurali rappresentano l’origine dei tumori cerebrali, la loro trasformazione in CSCs può avvenire in seguito ad una alterazione di alcuni pathway, uno dei quali è rappresentato dalla via di segnalazione PI3-K/Akt/mTOR (Jhanwar-Uniyal et al, 2013). Il ruolo del signaling di mTOR nel mantenere le CSCs è stato

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analizzato in diversi studi (Jhanwar-Uniyal et al, 2001). Nelle cellule staminali embrionali ed adulte, l’iperattivazione di mTOR portava al differenziamento e all’esaurimento delle cellule staminali. L’importante significato della regolazione mediata dalla rapamicina sul mantenimento delle CSCs è stata dimostrata in studi in vivo sulla down-regolazione dell’espressione di mTOR mediata dagli RNA interference. Questi studi indicano come la segnalazione di mTOR sia coinvolta nella regolazione dell’equilibrio tra proliferazione e differenziamento delle CSCs nella tumorigenesi, e che la transiente inibizione di mTOR promuove la ricomparsa del tumore con un aumento della sottopopolazione cellulare CD133+ (Tee et al, 2005; Easley et al, 2010). Nelle cellule di glioma umano, l’attivazione del fattore HIF-1favorisce l’espansione delle cellule CSCs CD133+ aumentando la capacità di autorinnovamente e inibendo la differenziazione cellulare (Soeda et al, 2009). Tuttavia, la relazione tra HIF-1 e l’espressione di CD133 rimane ancora da stabilire. L’inibizione di mTOR ad opera della Rapamicina modifica l’espressione di CD133 e di alcuni geni di staminalità (Jhanwar-Uniyal et al, 2013). Pertanto, le strategie terapeutiche dovrebbero considerare la possibilità che il complesso di eventi che regola il comportamente delle CSCs potrebbe essere innescato dall’inibizione di mTOR. Un altro aspetto riguardante la regolazione della pluripotenza e il differenziamento da parte di mTOR potrebbe essere attraverso p70S6K che è il più importante regolatore della traduzione proteica ed è attivato attraverso una serie di eventi di fosforilazione operati dal pathway di mTORC1. Una volta attivato, p70S6K fosforila la proteina S6 della subunità ribosomiale 40S e il fattore eIF4B (Gingras et al, 2001). Recenti studi hanno dimostrato che i componenti di mTOR, p70S6K o Rictor giocano un ruolo chiave nel differenziamento o nel mantenimento della pluripotenza nelle cellule staminali embrionali (hESC) in virtù del loro controllo sulla traduzione proteica (Zhou

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et al, 2009). Il trattamento con siRNA per p70S6K o Rapamicina non alterava la formazione dell’espressione di colonie embrionali o l’espressione di marker per cellule staminali embrionali, OCT4 o Nanog; tuttavia, i siRNA per Rictor, insieme a quelli per TSC2, inibivano significativamente la morfologia cellulare e causavano una riduzione nell’espressione del marker staminale embrionale OCT4, suggerendo che, mentre TORC1 è coinvolto nel differenziamento, mTORC2 potrebbe avere un ruolo nel mantenimento della pluripotenza (Easley et al, 2010). Perciò, un trattamento prolungato con Rapamicina induce differenziamento attraverso la perdita dei marker per la pluripotenza e altera la morfologia cellulare (Zhou et al, 2009). L’attivazione di p70S6K, che comporta un aumento nella sintesi proteica, può essere proposta come un regolatore fisiologico nella cascata che guida le cellule staminali pluripotenti verso il differenziamento. È possibile che sia l’attività mTORC1 che di mTORC2 possa regolare questo processo. Uno studio di Harrison et al (2009) indica che il trattamento con Rapamicina allunga la durata della vita nei piccoli roditori, mentre è stato suggerito un ruolo critico per il signaling di mTORC1 nell’inizio del processo di invecchiamento. Perciò, il mantenimento della pluripotenza per le cellule staminali embrionali richiede necessariamente una rigorosa regolazione di mTORC1. mTORC2 potrebbe agire come complesso primario nel mantenimento delle cellule staminali nel loro stato di pluripotenza.

Studi relativi al pathway Ras/MAPK con mTORC1 mostravano che un trattamento prolungato con Rapamicina era in grado di attivare questo pathway (Albert et al, 2009). Sia il pathway di mTOR/S6K che Ras/ERK1/2 giocano un ruolo importante nella crescita e nel differenziamento cellulare. L’esatta interazione di questi due pathway nella regolazione del differenziamento rimane da definire. Nel lavoro del 2011, Jhanwar-Uniyal et collaboratori dimostratono che l’inibizione di mTOR e ERK nelle

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cellule di GBM induceva l’espressione del marker staminale cellulare Nestina, suggerendo che il mantenimento della pluripotenza potrebbe essere regolato da un’interazione dei pathway di mTOR/S6K e ERK1/2.

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CAPITOLO 3

L’AUTOFAGIA

3.1 Introduzione

L’autofagia consiste nella degradazione per via lisosomiale di componenti citoplasmatici alterati e a seconda dei meccanismi attivati viene distinta in tre forme diverse: la macroautofagia, la microautofagia e l’autofagia mediata dalla chaperonine (Eskelinen, 2005).

La macroautofagia, spesso chiamata anche semplicemente autofagia, consiste nel sequestro di regioni citoplasmatiche e loro degradazione all’interno di una struttura nota come autofagosoma, che è un vacuolo limitato da una membrana. Esso andrà, in seguito, a fondersi con il lisosoma dando origine all’autofagolisosoma, al cui interno sono presenti gli enzimi litici lisosomiali, indispensabili per la degradazione del suo contenuto (Figura 5). La macroautofagia non è costitutivamente attiva, ma viene attivata principalmente in risposta allo stress cellulare che si verifica in seguito alla carenza di risorse energetiche (glucosio ed aminoacidi) (Mizushima, 2005), di fattori di crescita e di ormoni, oppure quando è necessario rimuovere componenti intracellulari alterate (Levine and Klionsky, 2004; Komatsu et al, 2006). Tuttavia, essa è attiva anche in condizioni basali, assicurando il mantenimento dell’omeostasi neuronale (Mizushima, 2005).

Nella microautofagia, invece, il lisosoma forma un sistema di invaginazioni ed evaginazioni tubuliformi della propria membrana, attraverso le quali riesce ad inglobare direttamente le regioni citoplasmatiche da degradare. Questo processo, che ricorda quello della fagocitosi, è coinvolto nel turnover continuo dei costituenti cellulari

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(Ahlberg and Glaumann, 1985) ed è implicato nella rimozione selettiva degli organelli in eccesso (Farre and Subramani, 2004).

Nell’autofagia mediata da chaperonine, proteine-bersaglio citosoliche recanti una specifica sequenza pentapeptidica (Dice, 1990) vengono riconosciute e legate da una“chaperonina” citosolica (Dice, 1990). Questa le trasporta sulla membrana dei lisosomi dove esse sono riconosciute e interagiscono con recettori specifici per essere poi internalizzate nel compartimento lisosomiale (Massey, 2006). Tale processo prevede la traslocazione attraverso la membrana e la successiva degradazione nel lume del lisosoma (Kiffin, 2004). Questa forma di autofagia considerata la più selettiva, poiché ogni fase di questo processo è caratterizzata da interazioni molecolari altrettanto specifiche, ed è attivata massimamente in condizioni di stress. Ad esempio, in caso di carenza nutrizionale, fornisce i substrati per la sintesi di nuove proteine, oppure rimuove le proteine danneggiate in seguito a stress ossidativo e insulti tossici di varia natura (Kiffin, 2004).

Nella macroautofagia (Fig. 5) vi è un segnale attivatore a seguito del quale intere porzioni citoplasmatiche e organelli vengono sequestrati all’interno di strutture a doppia membrana dette fagoforo che successivamente forma un vacuolo detto autofagosoma. Nei lieviti le membrane che formano il fagoforo derivano da un pool detto Pre-Autophagosomal Structure (PAS), mentre nei mammiferi i pool di membrane non sono stati ancora ben identificati, ma si presuppone che essi derivino dal reticolo endoplasmatico e/o dal trans-Golgi. Il fagoforo contiene una varietà di proteine tra cui l’ATG 9 che lega i lipidi necessari per l’accrescimento delle membrane e il PI3-K III (fosfatilinositolo 3 fosfato chinasi), omologo del VPS34 del lievito, che catalizza la formazione del fosfatidil inositolo 3 fosfato, una molecola essenziale per il reclutamento di proteine necessarie per la formazione dell’autofagosoma (Marino and Lopez-Otin,

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