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Il rito Camerale nella tutela dei diritti. Il caso fallimentare e delle controversie di famiglia

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IL RITO CAMERALE NELLA TUTELA DEI

DIRITTI. Il caso fallimentare e delle controversie di

famiglia.

INDICE:

-INTRODUZIONE

-CAPITOLO I°: I PROCEDIMENTI IN CAMERA DI CONSIGLIO

0 Rito camerale nell'ambito delle giurisdizioni costituzionalmente non necessarie

1 Ambito applicativo originario: la volontaria giurisdizione 1.1L’estensione del modello camerale in ambito di tutela contenziosa di diritti e status.

2 Disciplina ex art 737 e s.s c.p.c 2.1 Introduzione 2.1.2 Difesa tecnica 2.1.3 Competenza 2.2 Trattazione 2.2.2 Poteri istruttori 2.3 Decisione 2.4 Reclamo 2.5 Revocabilità e modificabilità

3 Problematiche Inerenti all'introduzione dell’art 742 bis c.p.c: orientamento della corte di cassazione e della corte costituzionale 3.1Posizioni della Dottrina

4 Il nuovo art 111 cost.

4.1 Contrasti dottrinali in merito alla portata innovativa del nuovo art 111. cost

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4.2.1 “Giusto processo” e interpretazioni dottrinali 4.2.2 “Regolato dalla legge”, dubbi interpretativi e teorie contrapposte

4.3Contenuti c2° art 111.Cost.

4.3.1“Contraddittorio tra le parti, in condizione di parità” 4.3.2 La Terzietà̀ e imparzialità̀ del giudice

4.33 La ragionevole durata

4.4 Opinioni dottrinali in merito alla conformità del rito camerale al principio del giusto processo

4.5 Profili problematici inerenti il rito camerale contenzione alla luce del “giusto processo regolato dalla legge”: critiche dottrinali e orientamento della corte costituzionale

-CAPITOLO II°: IL RITO CAMERALE NEL DIRITTO FALLIMENTARE

1 La specialità del diritto Fallimentare

2 L'applicazione del rito camerale nel sistema del 1942

3 Problemi di costituzionalità conseguenti dall'entrata in vigore della Costituzione

3.1 Orientamento del giudice di legittimità

3.2 Le problematiche di costituzionalità a seguito del nuovo art 111 cost e del “giusto Processo”

3.2.1 Le procedure concorsuali “Regolate dalla Legge” 3.1.3 Imparzialità e terzietà del giudice

3.1.4 Il contraddittorio fra le parti

4 La Riforma Fallimentare: ricadute sul processo concorsuale 4.1 Obiettivi della riforma e superamento del sistema precedente 4.1 L'adozione generalizzata delle forme camerali

4.2 Il procedimento camerale ibrido per la dichiarazione di fallimento

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le modalità di notificazione.

4.2.2 L'assoluta novità dell'istruttoria pre-fallimentare 4.2.3 Sentenza dichiarativa di fallimento e comunicazione 4.2.4 L'appello

-CAPITOLO III°:Il RITO CAMERALE NEL DIRITTO DI FAMIGLIA

1 Diritto di famiglia: evoluzioni e rationes di una tutela differenziata

2 la riforma della filiazione

2.1 Risvolti della riforma nell'ambito giudiziario 2.2 Residuale ipotesi di incostituzionalità post riforma 3 Il rito camerale di Famiglia: l'esempio dei procedimenti di affidamento e mantenimento dei figli di genitori non coniugati 3.1 composizione collegiale del tribunale, delega al giudice relatore e modalità di svolgimento.

3.2 Instaurazione del procedimento

3.2.2 IL “rito partecipativo” e l'udienza filtro

3.3 La pronuncia di provvedimenti provvisori e urgenti 3.4 Il regime dei mezzi di prova nel diritto di famiglia 3.4.1 La consulenza tecnica

3.4.2 L'ascolto del minore 3.5 La fase istruttoria

3.6 La fase decisoria e l'esecutività del provvedimento conclusivo 3.7 Il regime delle Impugnazioni

4 Prospetti di Riforma nel diritto di famiglia -CONCLUSIONI

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INTRODUZIONE

La camera di consiglio è quel luogo ove il giudice si ritira o si riunisce (nel caso di collegio) per decidere. In ambito civile, facciamo riferimento ai procedimenti in camera di consiglio per indicare quell'insieme di procedimenti che si caratterizzano per l'assenza delle formalità proprie del procedimento ordinario e per l'applicazione generalizzata delle norme previste agli art. 737 e s.s c.p.c. Tali articoli non introducono un rito speciale ma

semplicemente raccolgono le disposizioni comuni in materia di procedimenti camerali. L'obbiettivo di questo elaborato sarà analizzare tale disciplina che si estrinseca in pochissime norme, offrendo uno spaccato sull'ambito applicativo del rito camerale e affrontando le problematiche di costituzionalità che sono sorte in seguito alla sua applicazione nell'ambito della tutela dei diritti. Nella seconda parte poi, andremo ad analizzare due branche del diritto ove tale modello procedimentale ha trovato applicazione; in tale sede cercheremo di mettere in luce le motivazioni che hanno portato a tale scelta ponendo in correlazione le similitudini e differenze fra i due diversi ambiti e gli adattamenti che ha ivi subito il rito camerale. Potremo sicuramente osservare come la disciplina contenuta negli articoli del codice di procedura sin dall'inizio si caratterizzi per la sua lacunosità e per il fatto che, essendo priva di un'adeguata

regolamentazione su aspetti fondamentali del processo, ne demanda la determinazione alla discrezionalità del giudice. Originariamente l'ambito applicativo del rito camerale consisteva nelle materie di volontaria giurisdizione: categoria dottrinale di cui non troviamo una definizione normativa e che viene fatta coincidere con il concetto romanistico di iurisdictio inter volentes. Con tale termine si indicano azioni caratterizzate dall’inesistenza di una controparte rispetto al ricorrente o ai ricorrenti congiunti o dall’assenza di un conflitto tra il

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ricorrente e le altre parti. Questa materia si differenzia dalla giurisdizione contenziosa in quanto il giudice svolge attività di volontaria giurisdizione quando assiste o controlla atti posti in essere da privati, senza che venga chiamato a dirimere contrasti su interessi contrapposti (come invece avviene in ambito contenzioso).

Inizialmente dunque l'applicazione del rito ex 737 e s.s c.p.c si esauriva nella giurisdizione volontaria, mentre se oggi se è vero che la volontaria giurisdizione, nel senso proprio di iurisdictio inter volentes, si deve trattare secondo le norme comuni del rito camerale (artt. 737-742 bis, c.p.c.), non è assolutamente detto il contrario. Questo vincolo di esclusività infatti venne superato nel 1950 tramite l'introduzione di art 742 bis c.p.c, articolo che aprì le porte a

un'indiscriminata opera legislativa volta a estendere l'ambito

applicativo del procedimento camerale anche in materia contenziosa, introducendo un numero sempre maggiore di ipotesi. Le motivazioni che giustificarono questo fenomeno di “cameralizzazione dei diritti” furono molteplici, fra le quali ricordiamo:

- Il ritenere l'accertamento del giudice, libero e deformalizzato, uno strumento di accertamento della verità più efficace.

- Il ritenere, in un sistema sovraccaricato dal carico processuale e incapace di garantire una ragionevole durata dei procedimenti, tale strumento processuale come idoneo a garantire una maggior celerità dei giudizi

- Il voler riservare, in alcune materie ove sussistevano esigenze di tutela di interessi sovraordinati (si pensi all'ambito fallimentare e familiare) un processo nel quale la cognizione e la decisione sono affidate a poteri istruttori ampi e discrezionali del giudice, ritenendo in tal modo di consentire una maggiore effettività della tutela. Partendo da questo assetto storico ricostruiremo i dubbi sollevati in dottrina in merito all'adeguatezza di tale rito alla tutela dei diritti e

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alla sua conformità ai principi espressi in costituzione, analizzando nel frattempo le risposte offerte in materia della corte costituzionale e dalla corte di cassazione. In merito occorrerà osservare come le due corti abbiano strenuamente mantenuto un atteggiamento di

giustificazione del rito, sostenendone l'idoneità a offrire tutela in materia contenziosa e la conformità ai principi costituzionali. Nel sottolineare dunque questo ostico atteggiamento della giurisprudenza delle corti sarà nostra premura dare un quadra esaustivo del

panorama dottrinale successivo all'opera di novellazione di art 111 cost. concentrandoci sui dibattiti sorti in merito ai due primi commi e sulla portata innovativa di questi; analizzeremo dunque le

problematiche sollevate in merito alla conformità del rito alle espressioni ivi utilizzate, quali:

-” Giusto processo” -” Regolato dalla legge”

-” Contraddittorio tra le parti, in condizione di parità” -” Giudice terzo e imparziale”

-” Ragionevole durata”

In conseguenza di ciò dovremo valutare la possibilità o meno per il rito camerale cosi deformalizzato di sopravvivere in questo mutato quadro normativo, soprattutto in virtù della necessità di una rigida predeterminazione legislativa (“processo regolato dalla legge.”). Come preannunciato l'oggetto di questa analisi si sposterà dall'ambito generale a quello settoriale del diritto fallimentare e familiare,

indagando le peculiarità del rito camerale in tali ambiti. Partendo dall'ambito concorsuale analizzeremo la natura complessa di tale materia come crogiolo di interessi privatistici e pubblicistici ove si fondono gli interessi dei creditori alla propria soddisfazione e gli interessi pubblici a una tempestiva rimozione/risanamento

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questa doverosa contestualizzazione osserveremo l'evoluzione del sistema che, da essere caratterizzato per la coesistenza di vari modelli processuali (bifasico,camerale,misto), passerà a una generale adozione del rito camerale (pur non raggiungendo mai una assoluta uniformità processuale dato che le varie procedure concorsuali presentano ancora alcune specialità e differenze per quanto riguarda i termini), data la sua idoneità a fornire una tutela urgente e il suo demandare al giudice ampi poteri istruttori e organizzativi in piena deriva inquisitoria. In questo fenomeno di mutamento del sistema sarà utile rilevare come anche la concezione del fallimento e del fallito ne vengano interessati, passando da un'ottica accusatoria (fallimento come attentato all'integrità del tessuto economico nazionale) a una più tollerante, fino a giungere poi alla riforma fallimentare. Tornando sull'applicazione del rito camerale in questa branca del diritto sarà doveroso riprendere i dubbi già sollevati in merito al rispetto delle garanzie ex art 111 cost (in quanto applicabili a tutti i processi) valutando poi, nella specificità della materia, le peculiari ipotesi di contrasto. Analogamente bisognerà ribadire come tali problematiche siano state sottoposte alla corte costituzionale, che dovremo sicuramente criticare per il proprio atteggiamento, volto a riaffermare il proprio orientamento passato, rigettando le varie ipotesi di incostituzionalità. Ed è proprio a seguito di questa ulteriore mortificazione ingiustificata dei principi costituzionali da parte della corte, incapace di riconoscere il proprio errore e di porvi rimedio, che interverrà il legislatore con la riforma fallimentare, eliminando tutte quelle ipotesi di incompatibilità rilevate e introducendo una nuova disciplina processuale rispettosa delle garanzie del giusto processo. Si va così ad abbandonare quel rito camerale in favore di un rito che di camerale conserva solo il nome in quanto, a seguito delle

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piena pur regolato da forme speciali. Passando all'ambito familiare, con un excursus analogo a quello del capitolo precedente,

ripercorreremo la nascita della materia rilevando le sue peculiarità e l'originaria impostazione autoritaria e pubblicistica che portò, come nel diritto fallimentare, alla scelta di adottare il rito camerale (in virtù degli ampi poteri attribuiti al giudice). A questo punto, prima di passare all'aspetto meramente processuale, dovremo parlare della problematica della presenza di due giudici aventi competenza in procedimenti differenti nella materia, il tribunale ordinario e il tribunale per i minorenni. Su tale punto sarà necessario accennare alla riforma della filiazione, volta a eliminare qualsiasi

differenziazione fra figli naturali e figli legittimi, e volta a modificare art 38 disp.att.c.c e il criterio di riparto delle competenze fra i due (optando per un ampliamento di quella del tribunale ordinario a discapito del secondo). Per quanto riguarda le forme processuali da adottare in materia, la dottrina opterà per l'adozione generalizzata delle forme camerali (ex art 38 disp.att. c.c c3°) ad eccezione di alcune deroghe espressamente previste. Questo quadro quindi si caratterizza per un persistente pluralismo di riti e dunque sarà utile prendere a esempio nella nostra trattazione l'ipotesi del procedimento per l'affidamento e mantenimento del figlio di genitori non coniugati. Tale procedimento ha un duplice pregio, oltre a svolgersi secondo le forme camerali mettendone in luce le problematiche, ci consentirà di osservare come nel sistema, anche dopo la riforma della filiazione, permanga un'ombra di incostituzionalità in quanto si prevede una tutela processuale differenziata per i figli coniugali(che possono fruire delle forme del garantistico procedimento di separazione e divorzio) rispetto ai figli nati fuori dal matrimonio (la cui tutela processuale si attua attraverso le forme camerali). Proseguiremo dunque nella trattazione analizzando lo svolgimento del

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procedimento camerale, osservando le specifiche problematiche rilevate nel diritto familiare e analizzando nel contempo l'opera integrativa svolta dalla dottrina. Sarà fondamentale sottolineare infatti, che: in assenza di quell'intervento legislativo (avvenuto nel diritto fallimentare), volto a disciplinare la materia e a creare un nuovo rito adeguato sia alla costituzione sia alle specificità della materia, sarà proprio la scientia iuris a intervenire sul procedimento per renderlo conforme ai principi costituzionali tramite un'opera di integrazione con disposizioni provenienti dal codice di procedura.

CAPITOLO I°: I PROCEDIMENTI IN CAMERA DI

CONSIGLIO

0 Rito camerale nell'ambito delle giurisdizioni costituzionalmente non necessarie

Con rito camerale intendiamo delineare il rito disciplinato dalla scarna regolamentazione di artt. 737 – 742 cod. proc. Civ. denominate “disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio”. I procedimenti camerali nascono come procedimenti speciali caratterizzati per la loro natura di strumenti di accesso alla giurisdizione duttili e semplificati, con un contraddittorio

rudimentale, una cognizione sommaria e che si concludono con un provvedimento non idoneo al giudicato avente la forma del decreto. L'ambito applicativo dei procedimenti in camera di consiglio è stato origine di un acceso dibattito in dottrina e in giurisprudenza, che tutt'ora non può dirsi sopito. Storicamente in virtù dei principi espressi in costituzione, volti a garantire il diritto di un soggetto di agire in giudizio per far valere i propri interessi e diritti, potendo

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fruire di tutele giurisdizionali idonee al caso specifico, venne effettuata una distinzione tra giurisdizioni costituzionalmente necessarie, e giurisdizioni non costituzionalmente necessarie. Le prime, nell'ottica di massimizzare la tutela, comprendevano il procedimento ordinario di cognizione in quanto strumento più garantista previsto per la tutela dei diritti ( caratterizzato da: una rigida predeterminazione legale della disciplina processuale, uno svolgimento davanti a un giudice terzo e imparziale, cognizione piena, contraddittorio che abbraccia tutte le fasi del processo e da un provvedimento conclusivo idoneo al giudicato), procedimenti

sommari cautelari, ivi ricompresi in virtù della loro strumentalità rispetto il procedimento principale a cognizione piena, e il processo esecutivo quale attività giurisdizionale successiva alla pronuncia di merito. Nelle seconde invece rientravano tutti i procedimenti

sommari (non cautelari) e camerali, posti come alternativi rispetto al modello del processo ordinario di cognizione, caratterizzati per una scarna previsione legislativa e per il conseguente abbandono di gran parte della disciplina processuale alla determinazione discrezionale del giudice (termini, modalità di esercizio dei poteri propri e delle parti). Questi procedimenti erano stati previsti dal legislatore al fine di offrire una tutela più celere in tutte le materie che non

necessitavano delle forme garantiste del procedimento ordinario di cognizione, per cui inizialmente trovarono applicazione nelle materie di giurisdizione volontaria per poi successivamente estendere il proprio campo applicativo anche in riferimento a situazioni giuridiche soggettive appartenenti alla giurisdizione contenziosa (suscitando molte perplessità.)

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1 Ambito applicativo originario: la volontaria giurisdizione

Come abbiamo detto, l’ambito applicativo del rito camerale originariamente consisteva nella volontaria giurisdizione; questa correlazione era dovuta all'originaria previsione del codice di rito del 1865 ove i riti camerali (disciplinati ex art 748) richiamavano

espressamente la materia della giurisdizione volontaria.

Successivamente il legislatore del 1942 eliminò suddetto riferimento e quindi si perse ogni collegamento normativo con la volontaria giurisdizione, materia la cui definizione, così come la determinazione dei confini rispetto alla giurisdizione contenziosa, sono stati

abbandonati all'opera ermeneutica della giurisprudenza e alle opinioni dottrinali. In merito a tale argomento è utile richiamare un caposaldo della dottrina processualcivilistica secondo cui ” La

giurisdizione volontaria deriva il suo nome dalla sua stessa funzione, inserendosi, a differenza della giurisdizione contenziosa, nel

processo formativo della volontà giuridica dal soggetto. Per capire come questo avvenga bisogna ricordare che l'ordinamento giuridico riconosce l'autonomia privata, cioè il potere giuridicamente

determinante della volontà delle parti” 1 ;quindi nella giurisdizione volontaria il giudice non è chiamato, a differenza che in ambito di giurisdizione contenziosa, a dirimere un contrasto, bensì a garantire un interesse privato, a volte, solo indirettamente di rilevanza pubblica. Le attività̀ di volontaria giurisdizione in definitiva consistono

prevalentemente nella gestione di interessi, in controlli di mera legittimità̀ e provvedimenti di nomina, tutte attività̀ in cui l’intervento del giudice non si esplica nella soluzione di una

controversia, ma nell’integrazione di una determinata attività̀ umana

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ai fini di renderla giuridicamente possibile o anche solo efficace2. In questo senso, la giurisdizione volontaria è stata definita

“amministrazione pubblica del diritto privato” 3, in quanto si

presenterebbe come una tutela “sostanzialmente” amministrativa, ma “formalmente” giurisdizionale. Tale carattere ibrido ha acceso uno storico dibattito sulla natura di questo istituto: alcuni infatti

riconoscevano la sua natura giurisdizionale, non tanto in virtù dell'oggetto della trattazione o sulla sussistenza o meno di una controversia, ma semplicemente per il fatto di venir affidata dalla legge, all'intervento del giudice4; altri invece sostenevano la tesi della natura amministrativa negando quella giurisdizionale in virtù della mancanza dell'efficacia del giudicato per le pronunce emesse in tale ambito, caratteristica inequivoca dei provvedimenti giurisdizionali5.

Il quadro che si era delineato nel sistema originario del codice del 1942, ad opera della dottrina, era quindi basato su una stretta correlazione tra rito camerale e tutela degli interessi tanto che la materia della giurisdizione volontaria si identificava con il rito camerale, ammettendo solo alcune rare eccezioni.

1.1L’estensione del modello camerale in ambito di tutela contenziosa di diritti e status.

Otto anni dopo rispetto all'introduzione del codice il sistema

delineato fu sconvolto con l’introduzione dell’art. 742-bis cod. proc. civ. (art. 51 legge 14 luglio 1950, n. 581), con cui si consentì

2DE STEFANO F., Manuale di volontaria giurisdizione, Padova, CEDAM 2002 3MICHELI, “Per una revisione della nozione di giurisdizione volontaria”, in Riv.

Dir. Proc., 1947, I, 18 e ss.

4G.Chiovenda “Istituzioni di diritto processuale civile”,Napoli:p15

5ALLORIO E., Saggio polemico sulla giurisdizione volontaria, in Riv. trim. dir. e

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l'utilizzo delle forme camerali regolamentate ex 737 e s.s. c.p.c. a tutti i procedimenti la cui disciplina contenesse un richiamo esplicito o implicito alla camera di consiglio, «ancorché́ non regolati dai capi precedenti o che non riguardino materia di famiglia o di stato delle persone». La formulazione così ampia dell'articolo 742bis e la sua portata espansiva rispetto ai procedimenti volontari, fu utilizzata negli anni 90 per introdurre, con leggi speciali, un numero sempre maggiore di ipotesi di utilizzo delle forme camerali in ambito della tutela dei diritti (il cosiddetto fenomeno della cameralizzazione della tutela dei diritti 6 ), scardinando il sistema precedente basato sulla distinzione tra natura giurisdizionale contenziosa (a cui

corrispondeva un utilizzo della cognizione ordinaria con tutte le relative garanzie idonee alla tutela dei diritti soggettivi) e giurisdizione volontaria inerente alla tutela di interessi (a cui

corrispondeva l'uso del rito camerale con la sua celerità, speditezza e assenza di certezze procedimentali). Tale fenomeno coinvolse ipotesi talmente differenti, per oggetto7 e interessi coinvolti, da sfuggire ad

6 In argomento, A. CERINO CANOVA, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale, cit., 431; C. MANDRIOLI, I cdd. ‘procedimenti camerali su diritti’ e il ricorso straordinario per cassazione, in Riv. dir. proc., 1988, 921; L.

LANFRANCHI, La roccia, cit., 1999 e 2004. Si vedano altresì A. CARRATTA, La

procedura camerale come ‘contenitore neutro’ e l’accertamento dello ‘status’ di figlio naturale dei minori, in Giur. it., 1996, 1301

7Tra i piu

̀ noti e/o rilevanti si possono tuttavia ricordare i procedimenti relativi a: modifica delle condizioni di separazione (710 cod. proc. civ., come sostituito dall'art. 1, l. 29 luglio 1988, n. 331); modifica delle condizioni di divorzio (art. 9 legge 1 dicembre 1970, n. 898, come sost. dall’art. 13 l. 6 marzo 1987, n. 74); attribuzione di quota di pensione e di indennità di fine rapporto lavorativo; dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale; dichiarazione di adottabilità (artt. 8, 9, 11 e 12 L. n. 184/1983); opposizioni a dichiarazioni di adottabilità (art.17 L. n. 184/1983); ricorso al giudice del registro contro il rifiuto d’iscrizione nel registroelle imprese (art. 2189 e 11, 12° e 13° comma, D.P.R. 7 dicembre 1995 n. 581); opposizione avverso il provvedimento di rigetto espresso o tacito del garante della privacyex lege 31 dicembre 1996, n. 675; giudizio

preventivo di ammissibilità dell’azione di responsabilità civile dei magistrati ex legge 13 aprile 1988 n. 117; processo per l’equa riparazione in caso di violazione del termine di durata ragionevole (art. 2 legge 24 marzo 2001, n. 89, c.d. legge Pinto) ricorso contro il decreto di espulsione (art. 13, comma ottavo D. Lgs. 25

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un qualsiasi tipo di classificazione ontologica rivelando quale unico comune denominatore il solo richiamo alla struttura semplificata del rito camerale. Questa scelta legislativa pose fine a ogni tentativo di razionalizzazione della materia secondo uno schema rigido

sacrificando tale esigenza per riservare ad alcune materie l'utilizzo del rito camerale in virtù di obbiettivi di rapidità e effettività della tutela o per la peculiarità e rilevanza di interessi coinvolti.

2 Disciplina ex art 737 e s.s c.p.c

A seguito dell'estensione del rito camerale nell'ambito della

giurisdizione contenziosa, parte della dottrina coniò l'espressione di rito camerale uniforme8 al fine di indicare le disposizioni ex artt. 737

e ss. del c.p.c. come nucleo stabile di quella miriade di procedimenti differenti posti dal legislatore sotto la disciplina del rito camerale. Vediamo dunque in cosa consiste la disciplina enunciata da art 737 e s.s c.p.c

2.1 Introduzione

“I provvedimenti, che debbono essere pronunciati in camera di

consiglio, si chiedono con ricorso al giudice competente e hanno forma di decreto, salvo che la legge disponga altrimenti”

Partendo dall'analisi dell'art 737 c.p.c vediamo come sancisca la necessità di instaurare il procedimento attraverso il ricorso, la

disposizione appare tassativa (anche se in realtà bisogna assimilare al luglio 1998, n. 289, T.U. delle disposizioni concernenti la disciplina

dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, come modificato dall’art. 12 legge 30 luglio 2002, n. 189);

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ricorso l'istanza9) e attribuisce, sin dal primo atto, ampi poteri al giudice. Il ricorso in questione, modellato sui requisiti di forma-contenuto dell'art. 125 c.p.c., non può̀ essere inteso come una vera e propria domanda giudiziale, dato che tale forma dell'atto introduttivo demanda la vocatio in jus e il potere di fissare la comparizione delle parti (che in mancanza di un'apposita previsione in tale rito è solo eventuale) all'organo giudicante. Per quanto riguarda il ricorrente, invece, dobbiamo riscontrare come il principio della domanda ex art. 99 c.p.c. risulti “attenuato”; tale principio infatti non trova un pieno riscontro nel rito camerale, ove il giudice in alcune ipotesi può emanare provvedimenti di natura cautelare o urgente, prescindendo da una richiesta di parte. Sin dall'introduzione del procedimento emerge la naturale derivazione inquisitoria del rito che troverà massima espressione nella trattazione e nella fase istruttoria del procedimento. A tale riguardo parte della dottrina10 ha evidenziato

come questi poteri inquisitori non siano estranei a ogni forma di controllo, infatti i provvedimenti camerali volontari sono

generalmente tipicizzati, con un contenuto in gran parte determinato ex lege, ragion per cui, il giudice, è tenuto al rispetto delle

prescrizioni normative e ove violi tali limiti legali, il provvedimento potrà incorrere nel vizio di illegittimità.

9V. in tal senso CIVININI, I procedimenti in camera di consiglio

,

Torino 1994, vol.

I., cit., 159. Per la giurisprudenza v Cass. 21 febbraio 1997 n.1608 [“Il giudizio di

merito relativo alla dichiarazione di paternità o maternità naturale di minori, innanzi al tribunale, a norma dell'art. 38 disp. att. c.c. (come modificato dall'art. 221 l. 19 maggio 1975 n. 151 e dall'art. 68 l. 4 maggio 1983 n. 184), ove attivato con citazione invece che con ricorso (a mezzo del quale deve essere introdotto, a norma dell'art. 737 c.p.c., trattandosi di giudizio soggetto al rito camerale anziché al rito contenzioso or- dinario) non è viziato da nullità quando l'atto introduttivo contenga tutti gli elementi necessari a farlo considerare come ricorso e siano stati adottati dal giudice i conseguenti provvedimenti di legge ai fini della instaurazione del con- traddittorio”]

10COMOGLIO, FERRI, TARUFFO, “Lezioni sul processo civile”,Bologna,2006

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2.1.2 Difesa tecnica

In ambito di difesa tecnica ex art. 82 c.p.c., e della sua necessarietà nel giudizio camerale è opportuno operare una distinzione:

A) Nei casi in cui il procedimento camerale sia utilizzato per dar forma ad un vero e proprio giudizio contenzioso per la risoluzione di conflitti su diritti o status si ritiene di norma necessaria l’assistenza del difensore, ai sensi dell’art. 82, 2° comma, c.p.c. (secondo cui “le parti non possono stare in giudizio se non col ministero o con l’assistenza di un difensore”)11, salvo che, come previsto dal terzo

comma dell’art. 82, dalla legge non sia altrimenti disposto.

B)Per quanto riguarda invece i procedimenti strettamente volontari si ritiene non sia necessario il patrocinio di un difensore12.

L'assenza della difesa tecnica nei casi in cui è obbligatoria,

comporterà la nullità dell’atto introduttivo, non suscettibile di essere sanata dalla eventuale successiva costituzione di procuratore

legalmente esercente, in quanto tale possibilità di sanatoria tramite il rilascio della procura al difensore è riconosciuta solo ove questa avvenga ”anteriormente alla costituzione della parte rappresenta” ex 125, 2° comma, c.p.c. ( e dato che la costituzione coincide, per il ricorrente, con la presentazione dell'atto introduttivo, ciò non sarà possibile).

11 Secondo Cass. 23 novembre 1994, n. 9913, l’art. 82 c.p.c. “fissa i requisiti di idoneità delle parti a stare in giudizio e, pertanto, regola in via generale le condizioni per l’inserimento delle parti stesse in relazione a qualsiasi tipo di processo, cognitivo, esecutivo o camerale”

12Cosi

̀ la Cass. 3 luglio 1987, n. 5814, in Giur. it., 1988, I, 1, 978 con nota di MANDRIOLI C.; contra MICHELI G.A., Camera di consiglio (dir. proc. civ.), in Enc. dir., V, Milano 1959, 987

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2.1.3 Competenza

Nella disciplina comune ex artt. 737 ss. c.p.c. non è presente nessuna norma in merito alla competenza, a eccezione della previsione

secondo cui il ricorso camerale si propone al "giudice competente". É evidente, dunque che la competenza vada ricercata nelle disposizioni relative procedimenti o provvedimenti camerali specifici non

trovando applicazione in tale ambito né i consueti criteri per la determinazione della competenza per materia e per valore. Per quanto riguarda poi il riparto della competenza, a seguito della soppressione dell’ufficio del pretore ed il trasferimento delle relative competenze al tribunale ordinario, questo riguarda solo il tribunale ordinario in forma collegiale o monocratica e il tribunale per i minorenni. In ogni caso è ormai pacifico che l’individuazione del giudice camerale possa dar luogo ad una questione di competenza per materia o funzionale, rilevabile anche d’ufficio in grado d’appello.13

2.2 Trattazione

Passando alla fase di trattazione è necessario premettere come la previsione dell’art 738 c.p.c., con la sua formulazione scarna e lacunosa, abbandoni alla totale discrezionalità del giudice la

determinazione dello svolgimento di tale fase. Per quanto riguarda i tre commi della norma sopra citata, questi si limitano a prevedere che:

1°)” Il presidente nomina tra i componenti del collegio un relatore, il quale riferisce in camera di consiglio

2°) “Se deve essere sentito il pubblico ministero, gli atti devono essere a lui previamente comunicati ed egli stende le sue conclusioni in calce al provvedimento del presidente”

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3°) il giudice può̀ assumere informazioni

Sin da subito appare evidente l'eccezionalità di tali previsioni, improntate alla massima informalità e distanti rispetto ai principi generali in materia di prove nel processo civile. Partendo dal primo comma e dalla nomina del giudice relatore dobbiamo analizzare i poteri che in tal sede gli vengono attribuiti, dato che sicuramente dopo la nomina, sarà suo compito integrare il contraddittorio (garanzia inderogabile in ogni processo) a favore di eventuali altri interessati o controinteressati, ai quali disporrà che il ricorso venga notificato. Per quanto riguarda invece l'assunzione d'informazioni prevista dal c. 3, tale previsione ha creato molti dubbi in merito alla titolarità o meno dei poteri istruttorio in capo al relatore; parte autorevole della dottrina in tale espressione ha ravvisato “quella

complessa attività che il giudice, a sua discrezione e senza la partecipazione dei soggetti interessati, può compiere per acquisire gli elementi utili per l'emanazione del provvedimento, senza limitazione al suo poteri di indagine”14 sottendendo un'ampia discrezionalità del relatore nelle scelte istruttorie. La giurisprudenza non recepì tale impostazione e, nell'ambito della tutela di diritti soggettivi e status, stabilì che: “Il principio generale, secondo cui un

giudice può essere delegato dal collegio alla raccolta di elementi probatori da sottoporre, successivamente, alla piena valutazione dell’organo collegiale, in difetto di esplicite norme contrarie trova applicazione anche nelle ipotesi di procedimento camerale applicato a diritti soggettivi per quelle ragioni di celerità e sommarietà delle indagini, cui tale particolare tipo di procedimento è ispirato, tenuto anche conto del fatto che la delega comunque non concerne

l’ammissione delle prove, demandata al giudice collegiale, il quale soltanto può valutarne l’ammissibilità e la rilevanza, bensì la loro

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mera assunzione.”15 Secondo tale impostazione, quindi, il potere del

giudice delegato sarà limitato alla possibilità di assumere prove che siano state preventivamente ammesse dal collegio, demandando solo a questo le valutazioni in materia di utilità e ammissibilità delle stesse. Tale orientamento consolidato, viene però spesso disatteso in virtù di quell'esigenza di celerità imposta dal rito, facendo si che alcuni atti istruttori siano ammessi e assunti dal relatore; ciò avviene soprattutto nell'ambito di procedimenti di volontaria giurisdizione in senso stretto, ove l'assenza di parti contrapposte determina l'assenza d'istanze istruttorie e la conseguente necessità di assumere

informazioni da fonti amministrative (rendendo di fatto superflua la remissione al collegio).

2.2.2 Poteri istruttori

Tornando alla normativa del 3° comma dell’art 738, che attribuisce al giudice la facoltà di "assumere informazioni" vediamo come questa espressione denoti un'istruttoria differente rispetto a quella prevista nell'ambito del procedimento ordinario data la sua portata

sicuramente più ampia, capace di racchiudere sia i mezzi di prova tipici che quelli atipici (non previsti dalla legge). Quanto detto non significa che il giudice camerale debba ricorrere sempre ad

un'istruttoria atipica, ma che la legge gli attribuisce la discrezionalità̀ nello scegliere se sostituire a questa, in tutto o in parte, l'istruttoria ordinaria, oppure optare per le suddette "informazioni", senza che dalle parti possa essergli opposto alcunché́.

“Il giudice, se lo ritiene necessario o conveniente, può assumere

15Cass.20 ottobre 2000, n. 13892,orientamento confermato poi da Cass. 25

settembre 1999, n. 10615.”Nei procedimenti in camera di consiglio è riservata al collegio ogni valutazione sulla ammissibilità e rilevanza delle prove, la cui assunzione può essere delegata ad uno dei suoi componenti”

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informazioni, procurarsi quindi elementi senza dover seguire alcuna via prescritta dalla legge e senza la necessaria partecipazione, o possibilità di partecipazione da parte del ricorrente o di altri interessati al procedimento. Qualora, per assumere informazioni, il giudice debba interrogare lo stesso ricorrente o terzi, interessati e non, egli dovrà far verbalizzare le loro deposizioni. Non si tratta peraltro di interrogatorio formale della ‘parte o assunzione di prove testimoniali bensì di mezzi di prova non formali che la legge

definisce, come si è visto, quali ‘informazioni’, la cui fonte può essere la più varia (possono pervenire, infatti, anche dalla PA., dalla Polizia giudiziaria, da una consulenza tecnica non formale) ma che non sono correlate né ad alcun dovere pubblicistico, gravante il terzo, come è per il testimone, tal ché non sono applicabili al terzo medesimo le norma contenute nella sez. III capII titolo I° del libro II° del codice di procedura civile, né ad alcuna posizione passiva che possa far ritenere applicabili le norme sugli interrogatori della parte, formale e non” 16 Secondo tale orientamento, che sembra condiviso

dalla giurisprudenza, il principio dispositivo dunque soccombe, anche nell'ambito di procedimenti aventi ad oggetto diritti e status, in favore dei poteri inquisitori del giudice. Il giudice in tale attività istruttoria è quindi assolutamente libero di svolgere gli accertamenti che ritiene più opportuni, svincolato dalle istanze istruttorie di parte e da ogni paletto normativo. Sin da subito appare però incoerente prevedere un'istruzione così deregolamentata è in evidente contrasto con la previsione del “giusto processo" ex art 111 cost., vigente non solo nell'ambito dei procedimenti di natura contenziosa, ma anche nell'ambito dei procedimenti inerenti la volontaria giurisdizione in senso stretto" (che non incidono sulla tutela di diritti soggettivi e

16Cit.Micheli “ Camera di consiglio” in Enciclopedia del diritto,Giuffrè,Milano

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status). A questo punto appare evidente la necessità di limitare la discrezionalità del giudice:

Nell'ambito del rito camerale “puro” (inerente la materia della

volontaria giurisdizione) tale limite ineludibile consisterà nel rispetto del principio del contraddittorio, garanzia imprescindibile in ogni processo, per cui anche un’istruttoria così libera e deformalizzata dovrà svolgersi in suo ossequio.

Nell'ambito dei procedimenti in materia di diritti e status invece vedremo come, a seguito di una celebre sentenza della corte di cassazione, si demandi al giudice, con un'ampia delega legislativa, il compito di garantire alle parti il diritto alla prova e il diritto alla difesa 17, andando a modellare come meglio ritiene il rito da seguire.

2.3 Decisione

Ex art. 737 c.p.c la forma del provvedimento conclusivo dei provvedimenti camerali è il decreto motivato; questa previsione in realtà trova delle eccezioni in quanto: da un lato bisogna rilevare come vi siano casi in cui il provvedimento conclusivo abbia la forma dell'ordinanza o della sentenza18, soprattutto per i procedimenti inerenti la tutela di diritti e status, dall'altro si deve prender atto che l'obbligo di motivazione (che trova conferma in art. 111 6°comma cost. “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”) nella prassi risulta sostanzialmente eluso. Infatti sul punto si era espressa la cassazione :“La motivazione del decreto, ove necessaria,

come nel caso in cui tale provvedimento sia emesso per definire un

17Cass.Sezioni Unite sentenza 19/06/1996 n5629

18Maltese, riprendendo Andrioli, li definisce “provvedimenti centauro”, in quanto

hanno il “corpo” di provvedimento camerale volontario e il “capo” di

provvedimento giurisdizionale contenzioso; MALTESE ” I procedimenti in camera di consiglio: profili generali” in Riv. dir. civ., 1997, pp. 565

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procedimento in camera di consiglio, non dev'essere ampia come quella della sentenza, né succinta, come quella dell'ordinanza, ma può̀ ben essere sommaria, nel senso che il giudice, senza trascriverli nel decreto, può̀ limitarsi ad indicare quali elementi, tra quelli indicati nell'istanza che lo ha sollecitato, lo abbiano convinto ad assumere il provvedimento richiesto, essendo comunque tenuto, in ottemperanza all'obbligo di motivazione impostogli dall'art. 111, 6° comma, Cost., a dar prova, anche per implicito, di aver considerato tutta la materia controversa”19 . Questi decreti conclusivi hanno la

caratteristica di essere in ogni tempo revocabili e modificabili ex art. 742 c.p.c. e quindi non idonei al giudicato; per quanto riguarda invece i provvedimenti conclusivi dei procedimenti inerenti la

giurisdizione contenziosa (nell'ambito di quel procedimento camerale modificato) questi saranno decisori e definitivi e quindi idonei al giudicato. Tale argomento verrà approfondito successivamente tramite l'analisi delle sentenze della suprema corte, che consentirono avverso tali provvedimenti il ricorso in cassazione ex art 111 c7, riconoscendo la loro la loro natura decisoria (“l'anima della sentenza”), pur nei casi in cui avessero le forme di ordinanze e decreti (provvedimenti tipicamente non decisori). In seguito a tale riconoscimento quindi il giudice nei procedimenti di natura contenziosa, indipendentemente dalla forma del provvedimento conclusivo, dovrà disporre sulle spese ex art 91 e 92 c.p.c rispettando la regola della soccombenza, che non troverà invece applicazione nell'ambito della volontaria giurisdizione.

Per quanto concerne l'efficacia del provvedimento conclusivo, esso ex art 741 c.p.c l’acquisterà decorso il termine di 10 giorni per proporre reclamo, ad eccezione delle ipotesi di urgenza ove invece il

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giudice potrà disporne l'immediata efficacia. Il decorso del termine di 10 giorni, non sarà comunque idoneo, per i provvedimenti di

volontaria giurisdizione in senso stretto, al passaggio in giudicato data la modificabilità e revocabilità di questi in ogni tempo ex art 742 c.p.c.

2.4 Reclamo

La disciplina in merito ai reclami è contenuta negli artt 739 e 740 c.p.c:

art. 739:” Contro i decreti del giudice tutelare si può proporre

reclamo con ricorso al tribunale, che pronuncia in camera di consiglio. Contro i decreti pronunciati dal tribunale in camera di consiglio in primo grado si può proporre reclamo con ricorso alla Corte d’appello, che pronuncia anch’essa in camera di consiglio. Il reclamo deve essere proposto nel termine perentorio di dieci giorni dalla comunicazione del decreto se e’ dato in confronto di una sola parte, o dalla notificazione se è dato in confronto di più parti. Salvo che la legge disponga altrimenti, non è ammesso reclamo contro i decreti della Corte d’appello e contro quelli del tribunale pronunciati in sede di reclamo”

740:” Il pubblico ministero, entro dieci giorni dalla comunicazione,

può proporre reclamo contro i decreti del giudice tutelare e contro quelli del tribunale per i quali è necessario il suo parere.”

Il reclamo è dunque proponibile nel termine perentorio di 10 giorni che inizia a decorrere dalla comunicazione del decreto, se è dato solo verso una parte, o dalla notificazione del decreto ove sia reso verso più parti. In merito ai soggetti legittimati a proporre reclamo, la dottrina si è spaccata, sicuramente sarà legittimato il Pm, in tutti i casi in cui è obbligatorio il suo parere, per esplicita previsione

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dell’art 740 c.p.c ma poi in merito agli altri soggetti troviamo due correnti contrapposte:

a)Una corrente maggioritaria20 sostiene che l'impugnativa possa essere proposta da chiunque abbia un diretto interesse riconosciuto dalla legge in merito alla situazione giuridica oggetto del

provvedimento, prescindendo dal fatto che abbia o meno partecipato al procedimento a seguito del quale era stato emesso il

provvedimento.

b) La corrente minoritaria sostiene invece che solo a chi ha

partecipato al procedimento di primo grado era consentito impugnare e che coloro che, pur essendo litisconsorti, non vi hanno invece partecipato possono solo esercitare un'autonoma azione di nullità in sede contenziosa. La giurisprudenza diede appoggio a tale

ricostruzione affermando che: “Anche nel procedimento camerale

così come nel giudizio contenzioso ordinario, la qualità di parte e quindi di soggetto legittimato al reclamo ex art. 739 c.p.c., si determina, nei gradi del procedimento successivi al primo, esclusivamente per relationem, rispetto alla qualità di parte

formalmente assunta in primo grado, mentre coloro che sono rimasti indebitamente estranei al procedimento possono denunciare in sede contenziosa ordinaria, la nullità del provvedimento camerale emesso inter alios.”21

Gli organi giudiziari competenti sono: Il tribunale collegiale, avverso i provvedimenti del giudice tutelare o di un altro giudice monocratico e la corte d'appello, contro i provvedimenti emessi dal tribunale collegiale. Il reclamo si introduce con ricorso, con la possibilità di lamentare sia vizi di merito che di legittimità e si configura come un

20Tesi sostenuta da :Andrioli “commento al codice di procedura civile”III

volume ,Napoli 1947 p430;Micheli 1959 Camera di consiglio ,In enciclopedia del diritto Giuffrè;Milano pp993ss;Fazzalari “la giurisdizione volontaria”-profilo sistematico,Cedam,Padova 1953 p114

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vero e proprio mezzo d'impugnazione a effetto pienamente

devolutivo, con la conseguenza che il giudice verrà investito della conoscenza di tutto il processo di prime cure senza che si pongano limitazioni alla sua cognizione riguardo il contenuto del

provvedimento o le censure mosse dal reclamante.

Il giudizio di reclamo segue le regole del giudizio camerale con il giudice del riesame che avrà la pienezza dei poteri tipici del

procedimento camerale in prima istanza, contemperati, come sempre, dall'obbligo di garantire il rispetto del principio del contraddittorio; a seguito di ciò si configurerà quindi a suo carico, il compito di fissare l'udienza di comparizione delle parti per consentirne le difese. Per quanto riguarda i provvedimenti emessi a seguito del reclamo, l’art 739 c.p.c prevede la non ulteriore impugnabilità di questi, escludendo di fatto la ricorribilità in cassazione; come già specificato tale divieto sarà da considerare operante solo per quei provvedimenti camerali “puri” e non per quelli inerenti la materia contenziosa, in quanto avverso questi, in virtù della loro natura decisoria, il ricorso in cassazione dovrà sempre essere consentito.

2.5 Revocabilità e modificabilità

Ex art 742 c.p.c “i decreti possono essere in ogni tempo modificati e

revocati ma restano salvi i diritti dei terzi acquistati in buona fede in forza di convenzioni anteriori alla modifica o alla revoca”.

Partendo dall'espressione ”ogni tempo” è facile desumere come i provvedimenti emessi a seguito di un procedimento camerale, siano sempre modificabili, anche una volta raggiunta quell'efficacia ex art 741c.p.c. L'esercizio del potere di modifica e revoca :

-Solitamente, spetta allo stesso giudice che ha pronunciato il provvedimento.

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-Nel caso invece il provvedimento sia già stato esposto al reclamo e sia stato confermato o modificato, spetterà al giudice del reclamo; -mentre è da escludersi che possa “essere esercitato dal giudice adito,

in sede contenziosa, dalla parte che assuma di avere subito pregiudizio per effetto del negozio autorizzato con quel

provvedimento, essendo a quest’ultimo giudice consentito solo un sindacato di mera legittimità, e non anche la rivalutazione dei motivi di opportunità o di convenienza ed il riesame dei presupposti, del provvedimento medesimo”22 . La legittimazione a richiedere la modifica o revoca di un provvedimento camerale va attribuita a qualsiasi interessato e controinteressato a cui la legge riconosce la legittimazione a promuovere il procedimento in camera di consiglio in prima istanza o a cui comunque fosse estesa la legittimazione a parteciparvi (a prescindere dal fatto che vi abbia poi effettivamente partecipato). Coerentemente con il principio della domanda non sarà possibile una revoca/modifica da parte del giudice ex officio, se non nelle ipotesi eccezionali ove al giudice sia conferito il potere di promuovere di propria iniziativa, il procedimento camerale

conclusosi poi nel provvedimento. Dagli effetti della revoca e della modifica sono comunque fatti salvi i diritti acquistati dai terzi in buona fede, a tal fine è necessario:

-che tali diritti siano stati acquistati anteriormente rispetto alla revoca/modifica.

-che il terzo dimostri la sua buona fede identificabile con la non conoscenza o comunque con la non conoscibilità attraverso una normale diligenza, dei vizi inerenti il provvedimento in questione. Residua a questo punto l’esame di un'ulteriore possibilità di tutela per i controinteressati pregiudicati dagli effetti di un provvedimento camerale non più reclamabile: tale possibilità non risulta

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espressamente prevista dalla legge ma viene ammessa sia in dottrina che dalla giurisprudenza e si estrinseca in una duplice possibilità: 1)La possibilità di richiedere in via incidentale, tramite un'apposita

exceptio, durante lo svolgimento di un autonomo giudizio

contenzioso avente per oggetto la tutela del diritto leso dal provvedimento camerale, la disapplicazione di questo.

2)La possibilità, di promuovere in via principale, l’azione di nullità, mediante l’instaurazione di un ordinario giudizio di cognizione, in seno al quale va impugnato il provvedimento camerale di cui si vuole far accertare dal giudice l’illegittimità̀.

Parte della dottrina23 ha sostenuto che tali opzioni fossero da considerarsi riservate solo ai controinteressati che non abbiano partecipato al procedimento, in quanto le parti avevano la possibilità di proporre reclamo entro 10 giorni avverso il provvedimento, e ove il termine sia decorso avranno comunque la possibilità di chiederne la revoca e la modifica. Tale preclusione non venne ritenuta

plausibile dalla dottrina maggioritaria24, né dalla giurisprudenza, in quanto solo a seguito del passaggio in giudicato di una pronuncia emessa in sede contenziosa conseguirà quell'effetto preclusivo volto ad evitare il ne bis in idem; in tutti gli altri casi invece bisogna ritenere che sia sempre consentito alle parti (così come ai

controinteressati terzi) di intraprendere un processo a cognizione piena per accertare l’illegittimità̀ o meno del provvedimento impugnato.

23Maltese in “I procedimenti in camera di consiglio: profili generali, relazione in

occasione dell’Incontro di studio organizzato dal CSM in Frascati, nei giorni 13-15 marzo 1997” p572; Micheli “Efficacia, validità e revocabilità dei provvedimenti di giurisdizione volontaria”, in Riv. di dir. proc., 1947, I, pp190 e ss.

24MANDRIOLI Incompetenza territoriale, separazione personale e volontaria

giurisdizione, in Riv. Dir. Proc., 1957, II, 303 e ss ;COMOGLIO, FERRI, TARUFFO, Lezioni sul processo civile, Il Mulino 2011, p188

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3 Problematiche Inerenti all'introduzione dell’art 742 bis c.p.c: orientamento della corte di cassazione e della corte costituzionale

Nel periodo immediatamente successivo all'introduzione dell'art 742bis c.p.c non mancarono in dottrina posizioni fortemente

contrarie in merito all'espansione del rito camerale per la risoluzione dei conflitti; ciò rese necessari molteplici interventi da parte della suprema corte e del giudice di legittimità. Un primo intervento fondamentale si ebbe poco dopo rispetto all'a novella del '50 quando la corte di cassazione fu chiamata a risolvere il contrasto di

orientamenti sull'ammissibilità del ricorso in cassazione ex art 111 2° comma cost (“Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge”) avverso l'ordinanza per la liquidazione degli onorari degli avvocati25 e in tal sede esaminò la natura sostanziale del

provvedimento conclusivo del procedimento in camera di consiglio. La corte di cassazione nella sua disamina tenne in considerazione il principio per cui l'impugnazione è sempre prevista dalla legge nel caso di provvedimenti a carattere decisorio (per i quali la garanzia di un riesame da parte di un giudice superiore si impone per evitare che l'ingiustizia del provvedimento di primo grado comporti un

pregiudizio irreparabile alla parte), ma in alcune ipotesi, nell'intento di assicurare una maggiore rapidità del procedimento, il legislatore può rinunziare a offrire tale garanzia. Affermato tale principio e leggendolo congiuntamente con l’art 131 c.p.c ( ove si afferma che è la legge a prescrivere quando il giudice si deve pronunciare con sentenza, ordinanza o decreto) e con l’art 279 c.p.c ( secondo il quale è imposta la forma della sentenza per i provvedimenti a carattere

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decisorio) la corte affermò che in art 111 2°cost si era voluto ammettere il ricorso in cassazione in tutti quei casi in cui il legislatore avesse derogato alla garanzia del gravame avverso provvedimenti a carattere decisorio, ammettendo l'impugnazione anche verso provvedimenti con forma diversa dalla sentenza che abbiano un carattere decisorio (casi in cui era stata compiuta una deroga all’art 279 c.p.c nel momento in cui non è stata utilizzata la forma della sentenza) 26 .Tale pronuncia aprì la strada

all’interpretazione “sostanzialista” dell’art. 111 comma 2° Cost., consentendo il ricorso straordinario avverso provvedimenti camerali decisori ai quali, pur avendo la forma di decreti e ordinanze, venne riconosciuta la “sostanza” di sentenze. Tramite quest’interpretazione, la Cassazione dunque legittimò l’applicazione dei procedimenti camerali alle materie contenziose, risolvendo la problematica,

inerente il carattere propriamente instabile di questi ultimi, tramite il controllo di legittimità̀ per ricorso straordinario, e dato che questo era concesso dalla Costituzione solo avverso provvedimenti decisori e definitivi, attribuì di fatto ai provvedimenti camerali carattere

decisorio. A seguito di tale orientamento, il legislatore si vide dunque legittimato, sia sul piano legislativo che giurisprudenziale, ad

utilizzare l'art 742 bis c.p.c per estendere l'applicabilità dei procedimenti camerali al di fuori delle materie di giurisdizione volontaria, aprendo la strada a quel fenomeno di cameralizzazione del giudizio sui diritti. Il successo del rito camerale in tale periodo non è spiegabile soltanto sulla scia dell'interpretazione sostanzialista della cassazione; infatti molti già giustificavano la diffusione di tale rito vedendovi:

a) Un’alternativa processuale versatile e veloce, idonea a far fronte

26Questa sentenza Cass.sez.unite 30.07.1953 n 2593 risolse il contrasto tra

Cass.5.3.1953 n524;Cass 15.3.1953 n524 (che propugnavano l'inammissibilità del ricorso per cassazione) e Cass 14.12.1950 n2727 e Cass 27.1.1951 n107

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alla problematica della durata eccessiva dei procedimenti.

b) Uno strumento più libero e efficace di accertamento della verità. Questo convincimento, a chiara deriva autoritaria, basato sull’idea che un più̀ penetrante potere istruttorio del giudice consenta di avvicinarsi maggiormente alla verità̀ effettiva, in contrapposizione alla verità̀ formale cui porterebbe un processo costretto da limiti e barriere, non ha in realtà nessun fondamento e finisce per confondere come strumento più efficace “quella che invece è soltanto il frutto di

una incontrollata introduzione nel processo di informazioni, attraverso fonti e con modalità̀ la cui attendibilità̀ non è stata a priori vagliata dal legislatore, che quindi deve essere valutata di volta in volta dal giudice e deve fare i conti con la forza della prevenzione che qualunque elemento di fatto introdotto nel processo esercita sul giudicante e con la tendenza di questi ad avvalersi indistintamente del materiale probatorio senza distinguere tra le varie fonti, tutto racchiudendo e giustificando con il grande ombrello del libero convincimento”.27

c) Un mezzo in grado di offrire forme di tutela adeguate in materie ove fossero presenti interessi sovraordinati, di natura pubblicistica (diritto fallimentare e diritto di famiglia). Dobbiamo però rilevare a critica di questa impostazione, che ove, a nome di interessi

sovraordinati e di rilievo pubblicistico, si attui un processo nel quale la cognizione e la decisione siano affidate a poteri istruttori ampi e discrezionali del giudice, si attuerà un processo lontano dal modello della tutela contenziosa dei diritti (che per definizione si fonda su un giudice terzo e imparziale) per avvicinarsi ad un’attività̀ di

amministrazione e gestione di interessi.

L'orientamento espresso della cassazione trovò, anni dopo, una

27CIVININI, “Il nuovo articolo 111 della Costituzioneatti del convegno dell'elba”,

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conferma da parte della corte costituzionale nella sentenza 1.3.1973 n.22; in tale occasione alla corte fu rimessa la questione di

illegittimità costituzionale degli articoli 29 e 30 della legge n.

794(sempre in merito al procedimento per liquidazione degli onorari degli avvocati) in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione. L'organo di garanzia costituzionale in tal sede statuì, non solo in merito alla ricorribilità in cassazione del provvedimento conclusivo del procedimento di volontaria giurisdizione, ma anche sull' aderenza del procedimento stesso alle garanzie espresse in costituzione: “Né possono essere accolte le censure basate

nell'articolo 24, secondo comma, della Costituzione. L'art. 29 della legge in esame, ancorché non lo richieda obbligatoriamente, dà tuttavia potestà alle parti, a loro scelta, sia di avvalersi di un difensore (come avvenuto nei giudizi di specie) sia di stare in giudizio senza ministero di difensore, come è pur consentito dall'ordinamento in altri casi. Né le modalità del procedimento previste dallo stesso articolo importano sacrificio del principio del contraddittorio e tanto meno limitano la cognizione del giudice in ordine all'acquisizione delle prove e alla risoluzione della

controversia. Nella effettiva sua applicazione, attraverso una

provvida elaborazione, giurisprudenziale, la normativa in oggetto ha, infatti, assunto contenuto non divergente dalle linee fondamentali del processo civile, in aderenza allo spirito dell'art. 24 della

Costituzione. Il procedimento speciale, si riconosce ormai, non è sottratto alle comuni norme circa l'onere della domanda e della prova, cui rigorosamente è correlato l'esercizio della potestà giurisdizionale sotto il profilo istruttorio e quello decisorio. Nello stesso procedimento, di indubbia natura contenziosa, sono ritenute ammissibili le indagini volte all'accertamento dei fatti dedotti dalle parti e le prove, in particolare quelle orali per interrogatorio formale

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e per testimoni. Il tutto da svolgersi nelle forme compatibili con la natura camerale del procedimento, ed ovviamente in attuazione del principio generale della idoneità degli atti processuali al

raggiungimento del loro scopo. Inoltre, alle ragioni addotte dalle parti ed alle risultanze istruttorie il giudice è necessariamente astretto nel decidere la controversia, e su di esse ha l'obbligo di motivare, in modo succinto ma esauriente, nel provvedimento conclusivo. Ancorché questo, come si è ricordato, abbia, ai sensi della legge, forma di ordinanza e sia dichiarato non impugnabile, non si dubita della sua funzione non ordinatoria processuale, ma decisoria di merito, in quanto è diretto a dirimere una lite in

conformità della legge e a dare certezza ad un concreto regolamento degli interessi delle parti, con idoneità ad acquistare definitivamente autorità di cosa giudicata. Quindi la non impugnabilità di esso è stata razionalmente intesa negli stretti limiti della non appellabilità in quanto sia emanato nei limiti della materia della liquidazione. In conseguenza, pur escludendosi il doppio grado di cognizione di merito (peraltro non riconosciuto dalla Costituzione quale necessaria garanzia di difesa) si è affermata da lungo tempo l'esperibilità del ricorso per cassazione (e lo ammette lo stesso tribunale di Genova), secondo l'art. 111 Cost., ai fini del sindacato di legittimità nel quale la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire essere compreso il difetto di motivazione.”

Successivamente in altra sede la corte costituzionale ha nuovamente ribadito la legittimità costituzionale dei procedimenti camerali su diritti, rilevando che il processo ordinario di cognizione e la cognizione piena non sono da considerarsi come standard costituzionali a cui conformarsi, e in materia di procedimento camerale per la revisione delle condizioni di divorzio ha affermato che: “L'adozione di tale procedimento ... risponde a criteri di politica

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legislativa, inerenti alla valutazione che il legislatore ha compiuto in relazione alla natura degli interessi regolati ed alla opportunità di adottare determinate forme processuali. Questa scelta è

discrezionale ed è indubbiamente esente da sindacato in questa sede, poiché , mentre, come questa Corte ha espressamente affermato con la sentenza n. 122 del 1966, il procedimento in camera di consiglio non è , di per sè, contrastante con il diritto di difesa sancito dall'art. 24 Cost., il problema della scelta concreta del procedimento da adottare è problema di politica processuale, il cui esame sfugge alla competenza della Corte (sent. n. 142 del 1970) nei limiti in cui, ovviamente, non si risolva nella violazione di specifici precetti costituzionali e non sia viziata da irragionevolezza”. 28

Nonostante questi orientamenti del giudice di legittimità e della corte costituzionale, la dottrina continuava a mettere in luce tutte le

problematiche del fenomeno della cameralizzazione dei diritti, e di conseguenza la corte di cassazione fu costretta nuovamente a

prendere posizione. Nella sentenza 9 giugno 1996, n. 5629 le Sezioni Unite furono chiamate a risolvere un contrasto giurisprudenziale, riguardo la procedura da applicare alla dichiarazione giudiziale della maternità o paternità naturale in caso di minori. Il contrasto era sorto a seguito della modifica del comma 1°, art. 38 disp. att. c.c., ad opera dell’art. 68 della l. 4 maggio 1983, n. 184, il quale aveva attribuito al tribunale per i minorenni la competenza a decidere sull’accertamento dello status di figlio naturale, lasciando immutato il comma 3° del medesimo art. 38, a tenore del quale “in ogni caso il tribunale provvede in camera di consiglio sentito il pubblico ministero”. Pertanto, la normativa creava diversi dubbi su quale fosse la procedura da applicarsi all’accertamento dello status di figlio

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naturale del minore, se quella ordinaria o camerale, data la natura contenziosa della materia. La soluzione prospettata ha confermato la tendenza della corte a estendere l'applicazione del rito camerale anche in ambito contenzioso. Secondo la Cassazione, la sostenibilità della procedura camerale consiste nel considerare tale procedimento come “contenitore neutro”, che da un lato tutela la speditezza e la concentrazione del procedimento e dall’altro risulta conforme ai limiti imposti all’incidenza di tale forma procedimentale nell'ambito di diritti e status e rispettosa delle garanzie costituzionali ivi previste. Il procedimento camerale diventa, in tale ottica, un rito poliedrico applicabile sia per procedimenti di volontaria giurisdizione, tramite un semplice rinvio alla disciplina delineata da artt. 737 e ss. c.p.c., sia per procedimenti inerenti la giurisdizione contenziosa , tramite alcune “integrazioni “della disciplina, con forme del rito ordinario. Il ricorso a tale procedimento comporta che “la giurisdizione

volontaria si espanda e quindi si allontani dal precedente rito camerale per ammantarsi di forme tipiche del rito ordinario,

disegnando un nuovo tipo di processo a contenuto oggettivo che, non incidendo sul rapporto sostanziale controverso, rispetta le garanzie delle parti in ordine alla competenza per territorio, al diritto di difesa e di prova, all’applicazione dei termini ordinari previsti dagli artt. 325 e 327 c.p.c.”.

Tramite questa impostazione, appare subito evidente come il processo camerale subisca delle deviazioni dal suo modulo tipico, che lo rendono un procedimento essenzialmente diverso da quello disegnato dal codice agli artt. 737 s.s., sempre più vicino a quello ordinario: “... quando il procedimento camerale viene distolto dal

suo oggetto e trasferito alla materia contenziosa, deve subire i necessari adattamenti alle garanzie ineliminabili nella giustizia civile, che sono pure costituzionalmente presidiate. Esso viene,

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quindi, notevolmente alterato rispetto al suo ordinario schema, anche perché́ non sarebbe sufficiente il solo cappello del ricorso straordinario in cassazione ex art. 111 Cost. per legittimare, infine, ciò̀ che legittimo non è . Ma allora la c.d. «cameralizzazione» diventa inutile, perché́ di fatto con gli adattamenti in discorso ci ritroviamo di nuovo con un processo ordinario” 29. A questo punto parte della dottrina sul punto ha sostenuto la necessità di differenziare questo rito considerato “atipico”, dal rito camerale “tipico” (per il quale si applica la disciplina derivante da 737 e s.s c.p.c)30 ,

mentre per altri autori si trattava di un rito speciale, che per scelta, riservava ad alcune categorie di diritti o status questo rito misto, seguente le forme camerali pur avendo l'anima del procedimento ordinario : ”Quando ... si è in presenza di forme di tutela

giurisdizionale che sono dirette ad apprestare generali rimedi giurisdizionali per singole categorie di diritti soggettivi e che, al contempo, sono incompatibili con il regime di instabilità̀ tipico del provvedimento camerale ed idonee, anzi, ad acquisire i normali effetti di giudicato sostanziale, la sottoposizione delle stesse alle forme camerali – per ragioni il più̀ delle volte inespresse, ma consistenti, di norma, in esigenze di celerità̀ e speditezza del procedimento non è di per sé e non può̀ essere in grado di

trasformare la natura della tutela da normale a camerale, ma solo a sottoporla ad un rito speciale, quale quello camerale”31.

29 MONTELEONE, ”Diritto processuale civile”, 2^ ed., Padova 2000,cit p. 1225 30M

ALTESE D. “I procedimenti in camera di consiglio: profili generali, relazione in occasione dell’Incontro di studio organizzato dal CSM in Frascati, nei giorni 13-15 marzo 1997”

31 MONTESANO-ARIETA, Trattato di diritto processuale civile, vol. II, tomo I,

(36)

3.1Posizioni della Dottrina

Questi orientamenti della corte Costituzionale e di cassazione, uniti all'utilizzo sempre maggiore da parte del legislatore del rito camerale, avevano portato la giurisprudenza a equiparare la sua funzione con quella del processo a cognizione piena e la sommaria assunzione di informazioni, ivi prevista, alla fase di istruzione. Analogamente, si era ritenuto il rito camerale, adeguato alle principali garanzie imposte dalla costituzione in materia di tutela dei diritti (per quanto la loro attuazione era rimessa alla discrezionalità del giudice) e si era allargata sempre di più la possibilità del ricorso in cassazione al fine di evitare l'eventualità che una parte potesse subire un pregiudizio irreparabile derivante da un provvedimento incidente su diritti soggettivi emesso a seguito di un rito sommario. A seguito di tale fenomeno di “sommarizzazione della giustizia sui diritti” (o cameralizzazione della giustizia sui diritti), si collocano reazioni e atteggiamenti generalmente critici da parte della dottrina per quanto comunque esprimenti opinioni differenti:

Vittorio Denti sul punto si espresse con un atteggiamento conciliante, che condivideva con la corte costituzionale l'opinione di legittimità costituzionale della scelta legislativa del rito camerale rilevando la necessità di adeguare il processo camerale alla maggiore esigenza di tutela connatura alle posizioni giuridiche soggettive.

“Il rito camerale, che sulla base della normativa del c.p.c poteva

presentare una fisionomia sufficientemente unitaria, si è andato evolvendo, nella legislazione e nella elaborazione giurisprudenziale, verso un modello di tutela semplificata, che non solo rispetta le garanzie essenziali del contraddittorio ma tende ad assicurare un doppio grado di giudizio e consente il formarsi della cosa giudicata. La tipicità di questa forma di tutela è indubbia, ma non ne costituisce

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una caratteristica esclusiva, essendo propria di tutte le tutele sommaria anche contenziose”32.

- Cerino Canova al contrario sostenne una posizione molto più refrattaria rispetto alla legittimità costituzionale di un giudizio camerale sui diritti dato il rischio di andare a svuotare del proprio significato il diritto soggettivo33.

-Proto Pisani invece, totalmente in contraddizione con l'orientamento della corte costituzionale, sostenne l'assoluta inidoneità del giudizio camerale all'attuazione della tutela giurisdizionale dei diritti,

affermando che anche la consolidata estensione del ricorso per cassazione a tali forme non è di per sé sufficiente a riequilibrare un processo lasciato in balia dell'incertezza e della discrezionalità. “ Né i

correttivi prospettati, soprattutto in tema di esercizio normale della facoltà di prova e di ricorso per cassazione sono correttivi adeguati: non lo è il primo perché -come si è cercato di evidenziare-cognizione piena non significa solo diritto delle parti alla prova ma anche e soprattutto predeterminazione legislativa delle forme e dei termini (e dei corrispondenti poteri, doveri e facoltà processuali delle parti e del giudice) in tema di allegazioni relative a domande, eccezioni, fatti, di meccanismi di conoscenza del fatto, di termini a difesa delle parti nei vari momenti del processo: tutte cose queste che,

nonostante tutti i tentativi di restauro o di maquillage, sono destinati a continuare a mancare alla scheletrica procedura ex art 737 e s.s. c.p.c. Non lo è il ricorso per cassazione, perché come già detto e notato da più parti sul terreno delle garanzie il ricorso per cassazione non sarà mai in grado di riequilibrare ex post un processo di merito svoltosi in assenza delle garanzie proprie della

32Vedi V. DENTI, La giurisdizione volontaria rivisitata, in Riv. trim. dir. e proc. civ.,

1987, p. 334

33C. Canova, ”Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di

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