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Rivoluzione fintech: come la digitalizzazione sta cambiando il settore bancario. Il caso Banca di Pisa e Fornacette Credito Cooperativo.

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Economia e Management

Corso di Laurea Magistrale in

Strategia, Management e Controllo

Tesi di Laurea

Rivoluzione fintech: come la digitalizzazione sta

cambiando il settore bancario. Il caso Banca di Pisa e

Fornacette Credito Cooperativo.

Relatore

Prof.ssa Alessandra Rigolini

Candidato

Filippo Martinelli

(2)
(3)

1

INDICE

INTRODUZIONE ...

5

CAPITOLO I

La relazione tra il sistema bancario e le piccole e medie imprese

dal 2007 ad oggi

1.1 Il contesto di riferimento ... 9

1.2 La situazione italiana... 11

1.3 Gli sviluppi futuri ... 12

CAPITOLO II

Il fintech

2.1 Dall’internet banking alla nascita del fintech ... 15

2.2 Il fintech oggi ... 17

2.4 La diffusione del fintech nel contesto globale ... 19

CAPITOLO III

Ambiti di applicazione della tecnologia fintech

3.1 Il peer-to-peer lending ... 25

3.1

.1 Borsa del Credito

... 31

3.1.

2 Le prospettive per il futuro del peer-to-peer lending in Italia ...

35

3.2 Il crowdfunding ... 36

(4)

2

3.3

.1 Eppela ...

38

3.4 L’equity crowdfunding ... 39

3.4.

1 StarsUp ...

47

3.5 L’invoice financing ... 47

3.5

.1 Workinvoice ...

51

3.6 I pagamenti digitali ... 54

3.6

.1 Satispay ...

58

3.6.

2 Apple Pay ...

60

3.6.

3 Le prospettive per il futuro del mobile payment in Italia ...

61

3.7 Il robo-advisor ... 62

3.7

.1 Moneyfarm

... 66

3.8 La tecnologia blockchain ... 69

3.8.

1 Lo sviluppo della blockchain nel contesto globale ...

73

CAPITOLO IV

Il

mobile

banking

4.1 Il contesto di riferimento ... 77

4.1

.1 I Millennials e le nuove generazioni ...

78

4.1

.2 La situazione italiana ...

79

4.2 I servizi di internet banking e mobile banking ... 80

4.3 La banca di appartenenza e la multibancarizzazione ... 81

4.4 N26: la banca “mobile-first” ... 82

4.5 Le prospettive per il futuro ... 85

CAPITOLO V

Il case study Banca di Pisa e Fornacette Credito Cooperativo

5.1 Il metodo di studio ... 87

(5)

3

5.2.

1 I progetti di digital innovation ...

89

5.2

.2 Il rapporto con le startup fintech ...

91

5.3 I principali finding dell’analisi

empirica

... 93

CAPITOLO VI

Il futuro del

settore

finanziario

6.1 La financial inclusion ... 95

6.1.

1 M-Pesa ...

96

6.2 La Payment Service Directive II (PSD2) ... 98

6.2.

1 Le Application Programming Interface (API) ...

101

6.2.

2 Le opportunità derivanti dalla PSD2...

102

6.3 La futura strutturazione delle banche ... 103

6.4 La fintegration ... 106

6.5 La futura regolamentazione del settore bancario ... 110

CONCLUSIONI ...

111

Appendice A ... 113

(6)
(7)

5

Introduzione

La digitalizzazione ha pervaso il mondo che ci circonda in poco meno di trent’anni, dalla rapida diffusione della telefonia mobile alla nascita di internet, e, più recentemente, dei social media, dei Big Data ed i Data & Analytics. Internet, smartphone, tablet, social network, blog, community sono ormai parte integrante della vita quotidiana della maggior parte della popolazione nei paesi avanzati. La “rivoluzione digitale”, intesa come la diffusione su ampia scala delle tecnologie digitali, ha modificato radicalmente il modo di vivere e di comunicare delle persone, con impatti significativi su tutti i comparti produttivi.

Se il mondo delle imprese e della manifattura in particolare è oggi dominato dal grande tema dell’industria 4.0, delle opportunità e dei rischi connessi alla necessità di portare le imprese nell’ambito della fabbrica digitale, allo stesso modo Il mondo bancario non è esente da questa trasformazione e si trova a dover affrontare temi che sono destinati a cambiare in modo radicale il rapporto tra clienti e istituti di credito nonché la logica stessa dell’ecosistema finanziario.

Gli operatori bancari cresciuti durante l’epoca industriale, hanno sposato modelli di crescita tipici delle corporation tradizionali, basando il proprio successo sul numero di dipendenti, sugli asset gestiti e sul controllo esclusivo di tutta la catena di valore. Le uniche logiche di open market sono spesso state sollecitate dalla regolamentazione. In un contesto di rapida trasformazione, dove la digitalizzazione è l’elemento propulsore, il sistema bancario italiano non è riuscito a modificare la propria identità. Le banche italiane, forse più di molti operatori europei, si sono trovate ad affrontare problematiche di sostenibilità industriale, intensificate anche da evoluzioni normative altamente impattanti. Escludendo pochi operatori, i budget delle banche sono stati interamente assorbiti dalla gestione della compliance e dagli interventi atti a fronteggiare le conseguenze della crisi finanziaria.

Tale inerzia, a fronte della fase di fermento che interessa il settore, impone alle banche tradizionali un’accelerazione nel ripensamento del proprio modello di business non basandosi solo su una revisione dei modelli distributivi (con l’introduzione di nuovi canali

(8)

6

digitali e touch point) ma su una vera e propria trasformazione nella cultura e nei comportamenti.

La rete ha aperto nuove opportunità di business e l’open source ha ridotto significativamente il costo di nuove iniziative, di nuove startup, che dopo una prima fase di orientamento alla specializzazione ed alla verticalizzazione su singoli prodotti/servizi, si evolvono sempre più rapidamente in modelli di cooperazione.

In questa prospettiva si fanno spazio le fintech, operatori che per loro natura fanno convergere competenze finanziarie e competenze tecnologiche e che, superata la fase iniziale di sperimentazione, stanno muovendosi sempre più verso obiettivi di business tangibili, proponendo un ripensamento dell’esperienza del cliente nella fruizione dei prodotti e/o servizi finanziari. Le ragioni del successo delle startup fintech coincide con il modo di operare di queste nuove aziende, capaci di mettere al centro le persone, offrendo loro user experience elevate attraverso soluzioni comode, semplici e rapide, tutti concetti alla base della digital economy.

La diffusione delle startup fintech è stata favorita anche dal progressivo deteriorarsi del rapporto tra banca e cliente, dal venire meno della fiducia nel sistema finanziario tradizionale, soprattutto dopo la recente crisi economica. Tale fattore ha creato un terreno fertile per la nascita di queste startup innovative che mettono al centro il cliente, costruiscono valore per le persone ed attorno a questo generano poi valore per se stesse.

Con il presente lavoro, nello sviluppare la trasformazione che la digitalizzazione sta portando all’interno settore bancario, focalizzerò in particolare l’attenzione sulle potenzialità delle tecnologie fintech nel migliorare la relazione delle banche con le piccole e medie imprese.

La prima parte dell’elaborato (capitoli I e II) sarà di tipo introduttivo: partendo dall’evoluzione del rapporto banca – PMI dal momento della crisi economica del 2007 ad oggi, si arriverà poi alla nascita del fintech ed alla sua attuale diffusione sia a livello italiano che globale.

La seconda parte del lavoro (capitoli III e IV) sarà invece di tipo applicativo e riporterà un’analisi dettagliata dei numerosi servizi finanziari che attualmente le startup fintech offrono sul mercato, con un particolare focus verso il settore business. Nell’ambito di ciascuno di questi servizi, verrà poi analizzato il caso di una fintech italiana e/o operante nel mercato italiano.

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La terza parte (capitolo V) riporterà il case study relativo alla Banca di Pisa e Fornacette. Ha come obiettivo quello di meglio comprendere, tramite un’esperienza diretta, come la suddetta Banca stia affrontando il tema della digitalizzazione e come questa percepisca le startup ed in generale la tecnologia fintech.

Infine, nella quarta ed ultima parte (capitolo VI), sulla base delle considerazioni emerse nei capitoli precedenti, analizzerò come il processo della digitalizzazione potrà trasformare il settore bancario e, di conseguenza, il rapporto banca-cliente nel prossimo decennio.

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CAPITOLO I

La relazione tra il sistema bancario e le piccole e medie

imprese dal 2007 ad oggi

1.1 Il contesto di riferimento

Le piccole e medie imprese, le startup ed in generale le aziende ad alto tasso di crescita, rivestono un ruolo critico nella creazione di posti di lavoro e nella guida alla crescita dell’economia. Le aziende appartenenti al mondo dello small business (SME) producono oltre la metà del PIL e due terzi dell’occupazione nel pianeta ma, nonostante l’importanza strategica per l’economia globale, il sistema bancario sembra non riuscire a soddisfare le loro esigenze.

È stato stimato, dall’IFC (International Financial Corporation1) che solo nel mondo dei

Paesi emergenti esiste un funding gap non coperto nei confronti delle aziende small business di 2 trilioni di dollari.

Nei Paesi industrializzati le cose non vanno particolarmente meglio. Dal 2008 la quota di finanziamenti destinati allo small business negli USA è scesa di circa 11 punti percentuali sul totale dei finanziamenti: Dal 35% al 24% ed il 44% delle richieste di finanziamento viene bocciato dal sistema bancario. Nel Regno Unito, dove il 30% delle imprese non ha ottenuto i fondi di cui aveva bisogno, la carenza di finanziamenti raggiunge i 59 miliardi. Stessa situazione anche in Italia: dal 2009 al 2014 il numero di imprese che si sono rivolte alle banche e che hanno visto completamente accolta la loro richiesta di finanziamento si è ridotto della metà, dal 64,2% al 29%, fino al minimo del 23,8% raggiunto nel 20132.

Globalmente si stima che circa la metà delle aziende small business non riesce ad ottenere finanziamenti, anche piccoli, di cui ha bisogno.

In Europa le regole di Basilea III con i relativi requisiti di capitale di certo non aiuterà a migliorare il trend. Gli impieghi verso le PMI sono considerati più rischiosi di quelli ad

1 La Società finanziaria internazionale (in inglese International Finance Corporation - IFC) è un'agenzia della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (BIRS).Fondata nel 1956 allo scopo di promuovere lo sviluppo dell'industria privata nei paesi in via di sviluppo attraverso l'erogazione di appositi investimenti e la mediazione verso il mercato internazionale del credito.

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10

esempio delle famiglie per l’acquisto di immobili e vengono pertanto richiesti più alti livelli di capitale per la copertura del maggiore rischio. Il risk appetite delle banche non è e non sarà particolarmente alto nei confronti di questo segmento.

Oltre ad una riduzione nel volume di erogato, gli istituti finanziari devono combattere altre inefficienze che possono essere categorizzate in quattro cluster comunicanti tra loro3:

Velocità

Democratizzazione della clientela e dei costi

Utilizzo dati

Comunicazione semplice ed informale con il cliente

Velocità: i tempi di reazione di una banca tradizionale sono ancora troppo lenti. Il flusso

di operatività che per esempio intercorre tra l’operazione di un bonifico e la visibilità sul conto del destinatario, sull’erogazione di un prestito o di molte altre pratiche è troppo lungo e subisce troppi passaggi.

Oggi le aziende hanno la necessità di effettuare e ricevere pagamenti rapidi da o verso clienti, fornitori, dipendenti sparsi in tutto il mondo.

Democratizzazione della clientela e dei costi: le banche dovrebbero sviluppare offerte più

ampie dedicate a segmenti specifici di clientela. Un ragazzo di diciotto anni non ha bisogno di servizi di asset management ma sarà attratto per esempio da un conto a basso costo che vive su smartphone o dalla possibilità di effettuare pagamenti contactless.

Utilizzo dati: le banche dovrebbero conoscere le abitudini quotidiane dei loro correntisti

ma ancora oggi non sono in grado di tracciare i dati dei propri clienti anche perché in molti casi non è ancora presente la figura del Data Analyst. Questo vuol dire non sapere di cosa i propri clienti hanno bisogno e quindi non riuscire a costruire un’offerta in grado di soddisfare le loro esigenze.

Comunicazione semplice e informale: questa è forse l’inefficienza più grave. Il linguaggio

e la comunicazione delle banche tradizionali si è sempre basato su un approccio top down dimostrandosi spesso di difficile comprensione per i singoli correntisti ma anche per le imprese.

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1.2 La situazione italiana

Alcuni dei motivi per i quali le piccole imprese italiane non riescono a trovare credito sono tracciati da Banca d’Italia in un documento pubblicato a febbraio 2017 con il titolo

“Fragilità finanziaria delle imprese e allocazione del credito”: si tratta di uno studio su

un campione di 260.000 imprese, di cui 197.620 micro, ovvero con un fatturato sotto i due milioni.

A partire dal 2015 la ripresa dell’economia italiana ha permesso un lieve recupero del flusso di credito alle imprese. La capacità di accedere a nuovi finanziamenti, l’entità dei prestiti concessi e le condizioni applicate dagli intermediari sono risultate, tuttavia, molto differenziate in ragione delle caratteristiche delle aziende beneficiarie. Il credito, in particolare, è cresciuto per le imprese di maggiore dimensione mentre ha proseguito a ridursi per le aziende più piccole; questo divario tra classi dimensionali si osserva anche per le imprese appartenenti allo stesso settore di attività economica o per quelle che presentano condizioni di bilancio simili. Stime econometriche confermano che, a parità di numerose caratteristiche di impresa (redditività, liquidità, dinamica del fatturato, spesa per investimenti, settore di attività economica e area geografica), il credito si è ridotto soprattutto per le microimprese e per le aziende più rischiose.

La maggior fragilità finanziaria delle microimprese, dovuta in particolare al più elevato tasso di indebitamento, spiega oltre il 70% della differenza nel tasso di variazione dei prestiti con le grandi aziende e circa il 40% di quello con le imprese di piccola e media dimensione. Una parte non trascurabile di tali divari però non è spiegata dalle caratteristiche aziendali considerate nell’analisi, ciò potrebbe riflettere fattori di offerta connessi con una minore propensione di alcune banche a finanziare imprese di piccola dimensione.

Secondo il rapporto dell’Ufficio Studi della CGIA Mestre4, le piccole e medie imprese

italiane hanno dovuto rinunciare in questi ultimi tre anni a circa 60 miliardi di euro di finanziamenti. Nell’ultimo anno in particolare, i prestiti delle banche alle PMI sono calati del 2,07% ovvero di 16,3 miliardi di euro passando da 789,8 miliardi a 773,4 miliardi di euro (dati aggiornati a luglio 2017).

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Tale fenomeno ha coinvolto tutto il Paese da nord a sud perché se la regione prima nella classifica del credit crunch5 è il Molise con -13,1%, anche il nord, con il Veneto, registra

-10,7% (corrispondenti a 10,8 miliardi di euro). La media nazionale del credit crunch è del -6,8% e questo è dovuto principalmente ad una riduzione dell’erogato da parte delle banche che oltre ai numerosi crediti in sofferenza nei propri bilanci, devono rispettare requisiti sempre più stringenti in termini di capitale.

Questo modus operandi ha finito per aggravare le conseguenze della crisi, frenando gli investimenti strategici in innovazione e ricerca o privando le aziende in difficoltà della liquidità necessaria per poter far fronte ai debiti cumulati. Secondo il Rapporto Cerved PMI 2015, tra il 2009 e il 2014, il numero di piccole e medie imprese è crollato da 150.000 a 137. 000 e più di 5.000 hanno aperto una proceduta concorsuale non fallimentare.

1.3 Gli sviluppi futuri

Le istituzioni europee si stanno impegnando nel trovare delle soluzioni a questo complesso problema. A tal fine nel 2015 la Commissione Europea ha dato vita al Capital Market Union (CMU), un organismo con lo scopo di supportare lo sviluppo di forme alternative di finanza (complementari rispetto al finanziamento bancario) inclusi venture capital, crowdfunding e marketplaces. Obiettivo della CMU è favorire lo sviluppo di tali canali di finanziamento alternativi e l’ampliamento della gamma di opzioni di finanziamento per le PMI in tutti gli stati membri dell’UE.

Tra i principi della CMU troviamo:

Creazione di maggiori opportunità per gli investitori: la CMU dovrebbe contribuire a mobilitare i capitali in Europa e canalizzarli verso le aziende, incluse le PMI. Contestualmente dovrebbe fornire agli investitori istituzionali opzioni migliori per soddisfare i propri obiettivi di rendimento, anche nel lungo o lunghissimo termine.

Promuovere un sistema bancario più forte e più resiliente: aprire una più ampia gamma di fonti di finanziamento ed investimenti a più lungo termine, assicurando

5 Credit crunch: termine inglese («stretta creditizia») che indica una restrizione dell’offerta di credito da parte degli intermediari finanziari (in particolare le banche) nei confronti della clientela (soprattutto imprese), in presenza di una potenziale domanda di finanziamenti insoddisfatta.

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che i cittadini e le imprese dell’UE non siano più vulnerabili agli shock finanziari così come accaduto durante la crisi del 2008.

Integrazione finanziaria ed aumento della concorrenza: la CMU dovrebbe portare ad una maggiore condivisione transfrontaliera dei rischi ed a mercati più liquidi che rendendo più profonda l’integrazione finanziaria, riducendo i costi ed aumentando la competitività europea.

Nel novembre del 2016 inoltre la Commissione Europea ha consolidato ed esteso lo Sme

Supporting Factor, ovvero un fattore di ponderazione che permette di ridurre l’accantonamento di capitale di vigilanza effettuato dalle banche a fronte di fidi fino a 1,5 milioni di euro erogati alle piccole e medie imprese. La novità è che la riduzione di capitale viene sia confermata, che estesa oltre questa soglia, anche se in percentuale ridotta. In pratica per i fidi di importo superiore le banche godranno dello sconto del 23,81% fino a 1,5 milioni di euro e del 15% per la parte eccedente, senza limiti d’importo. Secondo Federcasse6, grazie a questa norma, la capacità di reperire finanziamenti da parte

delle PMI aumenterà da 10 a 20 volte7 ma ad una analisi più dettagliata, le piccole imprese

risultano sempre in affanno ed anche quelle che vorrebbero investire per crescere non trovano finanziamenti se si rivolgono ai canali tradizionali. La soluzione? Il fintech. Il fintech, la cui etimologia deriva dall’unione di due parole: financial e technology, è una branca dell’economia in forte espansione.

Il suo sviluppo ha subito una grande accelerazione nell’era di internet e del mobile e la crisi finanziaria del 2008 ha permesso alla tecnologia finanziaria di affermarsi sempre di più palesando agli utenti, soprattutto PMI, la lentezza del sistema bancario classico e la celerità invece del settore fintech.

Oggi le aziende fintech offrono una vasta gamma di servizi finanziari che permettono di soddisfare le esigenze sia di piccoli risparmiatori che di grandi aziende, tra questi troviamo:  Crowdfunding  Peer-to-peer lending  Invoice financing  Asset management

6 Federcasse, abbreviazione di Federazione italiana delle banche di credito cooperativo - casse rurali ed artigiane, è l'associazione nazionale delle BCC-CR

7Si veda: http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-11-24/nuove-regole-le-banche-aiuto-le-pmi-063914.shtml?uuid=ADNdQu0B

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 Gestione dei pagamenti

 Credit-scoring

 Banche mobile first

Tutti settori estremamente diversi tra di loro ma che prevedono l’utilizzo della tecnologia al fine di rendere i processi bancari e finanziari molto più efficienti rispetto ai servizi tradizionali.

L’obiettivo del fintech è un radicale rinnovamento della finanza in tre punti: abbattimento dei costi e miglioramento della qualità dei servizi finanziari; metodi più intelligenti ed avanzati per monitorare il rischio; creazione di un mercato del credito più stabile.

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CAPITOLO II

Il fintech

2.1 Dall’internet banking alla nascita del fintech

La prima fase della rivoluzione digitale nel settore bancario è rappresentata dalla rapida diffusione dell’internet banking che ha seguito di pari passo quella dell’e-commerce. Nel 2000 in USA l’80% delle banche offriva l’accesso online. Già nel 2001 Bank of America fa storia raggiungendo per prima la quota di 3 milioni di utenti collegati tramite internet banking (circa il 20% della sua customer base) e nel 2004, 33 milioni di famiglie americane avevano accesso al banking online8.

In Europa sono stati i Paesi Scandinavi, la Germania e la Gran Bretagna a guidare l’adozione nei primi anni duemila dell’internet banking che nel 2005 raggiunge già il 50% della popolazione scandinava.

In Italia, nel 2001 solo il 3% della popolazione bancarizzata utilizzava l’online banking, l’adozione ha iniziato a salire significativamente a metà anni 2000, in parallelo all’uso di internet. Nel 2005 i clienti con accesso al banking online erano già diventati oltre 8 milioni, ma sempre però con indici di operatività relativamente bassi (l’home banking veniva utilizzato una sola volta su tre per le operazioni). Bisognerà arrivare nella seconda metà del decennio per assistere ad una crescita di tale indice.

Nel decennio 2000/10 cambia dunque il modo di utilizzo dei servizi bancari. L’operatività si sposta dalle filiali all’home banking ovvero al web. Ovviamente il passaggio non è geograficamente omogeneo. Oggi nei paesi nordici la penetrazione dell’internet banking varia tra l’80% e il 90% della popolazione mentre la media europea è del 46%. L’Italia si attesta ad un livello inferiore: rapportato alla popolazione totale siamo intorno al 28%, più o meno dove erano i Paesi Scandinavi dieci anni fa. In realtà il dato è influenzato comunque dal fatto che in Italia c’è un numero ancora relativamente alto di non bancarizzati, ossia persone senza il conto corrente. Sono ben 15 milioni, circa il 29% della popolazione over 15 anni contro il 14% della media europea. Questo fenomeno non è dovuto solo ad una più bassa cultura finanziaria, ma anche alla grande diffusione delle

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carte prepagate ed alla offerta di conti postali tramite Banco Posta. l’Italia è il secondo Paese al mondo per diffusione di prepagate dopo gli Stati Uniti, con oltre 18 milioni tra cui 2,5 milioni di possessori di prepagate non correntisti. A questi bisogna aggiungere i conti correnti postali di BancoPosta, circa 5,9 milioni (dato 2012).

Di fatto comunque il trend è in crescita: sono ben 17 milioni i correntisti online attivi nel nostro paese ed il 75% circa dei bonifici è fatto per via remota9. Anche il mobile banking

è in costante crescita ed il 25% dei correntisti online attivi usa con frequenza una banking App.

La diffusione degli smartphone ha ulteriormente rivoluzionato il contesto di riferimento avviando la seconda ed attuale fase dell’online banking: il mobile banking. La banca adesso non solo è accessibile da remoto ma comincia ad essere portabile: “anytime

anywhere”.

Secondo uno studio di Bain & Company10 nel 2014 i canali digitali rappresentavano già

il maggior numero di interazioni banca-cliente ed in molti paesi, tra cui anche l’Italia, il canale mobile (App ed accessi da tablet) aveva già superato il desktop. Solo in Cina, nel 2014, i mobile payments avevano raggiunto il valore di 3600 miliardi di dollari.

In riferimento alla nascita del fintech non è facile capire l’inizio esatto del fenomeno però due date sono particolarmente importanti. La prima è la nascita di Finovate nel 2014, uno dei blog più importanti del settore e fonte di una serie di eventi annuali su scala internazionale riguardanti il fintech. La seconda è la nascita della prima community di fatto costituita nel 2009: Innotribe, creata da Swift a Londra al Level 39 e che diventerà in pochissimi anni il fulcro delle startup fintech nel quartiere finanziario londinese. Il fintech nasce in contemporanea con la crisi del settore bancario tradizionale del 2008, in virtù della crisi economica e della forte perdita di fiducia da parte del pubblico nel settore finanziario. La crescita dei requisiti regolamentari di capitale, liquidità, credito, le normative verso una maggiore trasparenza nei confronti dei consumatori, l’apertura e la liberalizzazione del mercato del banking che ne sono derivate, hanno portato inevitabilmente ad un rallentamento della capacità innovativa degli attori bancari tradizionali, alle prese con problemi, alcune volte, di effettiva sopravvivenza, specie in Europa.

9 Fonte: Che Banca! Digital Banking Index Italy, gennaio 2016

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Nel 2008 gli investimenti globali in tecnologia applicata al settore finanziario sono stati di poco superiori ai 900 milioni di dollari, meno dell’8% di quanto investito nel 2014. Nel solo biennio 2014-15 sono stati investiti nelle startup fintech ben 31,3 miliardi di dollari registrando una netta progressione rispetto al biennio precedente dove i volumi totali si erano fermati a 6,7 miliardi.

Nel 2016 gli investimenti totali sono stati ben 17,4 miliardi di dollari e per la prima volta la Cina con 7,7 miliardi ha superato gli Stati Uniti dove sono stati investiti “solo” 6,2 miliardi11. Sempre nel 2016 Venture Scanner contava ben 1362 startup catalogate come

fintech per un totale di 227 mila dipendenti e con una media di 44 milioni di dollari di funding ognuna12.

2.2 Il fintech oggi

Il 2017 sarà, secondo le previsioni, un altro grande anno per il fintech: l’accelerazione registrata nel 2016 fa prevedere una crescita esponenziale nel 2017.

Secondo la ricerca condotta da PwC “Global Fintech Report 2017 – Redrawing the lines” Ad oggi l’investimento complessivo nel settore ha superato i 40 miliardi di dollari e le stesse società fintech si stanno evolvendo: da startup con l’obiettivo di abbattere il mondo bancario tradizionale, a startup che cercano di instaurare con le banche relazioni spesso di partnership. Questo perché le società fintech non hanno bisogno solo di capitali ma anche di clienti. Allo stesso tempo, le banche tradizionali hanno bisogno di nuovi approcci per guidare il cambiamento e sviluppare prodotti innovativi per i propri clienti.

Dall’indagine emerge che l’88% (83% nel 2016) degli istituti finanziari crede che, nell’arco temporale di 5 anni, fino al 24% dei loro ricavi possa essere a rischio causa lo sviluppo delle società fintech. In particolare i settori considerati più a rischio sono quello dei pagamenti (84%), trasferimenti di denaro (68%) ed investimenti personali (60%) per i quali i consumatori adotteranno sempre più strumenti non tradizionali.

Consapevoli di questo, il 77% degli istituti finanziari intervistati si aspetta di incrementare nei prossimi 3-5 anni l’offerta di innovazione sviluppata internamente con l’obiettivo di

11 Per un approfondimento: https://www.economyup.it/blog/dietro-le-quinte-di-un-anno-di-fintech/ 12 Si veda il Paper McKinsey “Cutting through the Fintech noise: Markers of Success, Imperatives For Banks”, 2015.

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raggiungere un ROI medio sui progetti di innovazione pari al 20%. In particolare gli istituti finanziari stanno attualmente concentrando i loro sforzi per il 74% su data analytics, per il 51% sulla tecnologia mobile e per il 34% sull’intelligenza artificiale.

Expected ROI on fintech related projects

Source: PwC Global fintech survey 2017 Oltre a questo però sono incrementate anche le collaborazioni con le startup fintech passando dal 32% del 2016 al 45% dell’attuale anno in corso e la percentuale è destinata a crescere in quanto l’82% degli intervistati a livello mondiale prevede di incrementare partnership con aziende fintech nell’arco dei prossimi 3-5 anni.

Queste partnership rappresentano una soluzione win–win per entrambi in quanto permettono alle banche tradizionali di esternalizzare parte della loro attività di ricerca e sviluppo, portando così più velocemente nuove soluzioni sul mercato nonché permettendo loro di ridurre i costi attraverso una maggiore focalizzazione sui propri core process e la riduzione delle inefficienze. Oltre a questi benefici viene offerta alle banche la possibilità di ampliare i servizi per i propri clienti aumentando così anche il loro grado di soddisfazione. Dall’altro lato permette alle aziende fintech di usufruire del largo data sets in possesso delle banche per testare le nuove teorie ed i nuovi modelli sviluppati nonché permette loro di avere accesso all’ampio portafoglio clienti delle banche stesse. Nonostante quanto appena riportato però l’integrazione tra queste realtà non sarà così semplice. Dal punto di vista degli istituti di credito, il fintech manca di un adeguato

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quadro regolativo e di una soddisfacente sicurezza informatica. Mentre i newcomers ritengono che lavorare assieme alle banche tradizionali sia difficile per le enormi differenze di cultura manageriale e velocità dei processi operativi.

2.3 La diffusione del fintech nel contesto globale

Riprendendo una classificazione riportata da Matteo Rizzi nel suo libro “Fintech

Revolution”13, a seconda dei livelli di sviluppo e di investimento nelle società fintech,

possiamo suddividere i vari Paesi in quattro ecosistemi:

Disconnessi:

in questo gruppo vengono classificati tutti i paesi in cui la presenza di banche locali è elevata ma allo stesso tempo il potenziale economico è basso. Sono paesi nei quali mancano investimenti ed una cultura orientata al digitale determinando così un’assenza di collegamento con le startup fintech.

Disorganizzati:

identifica l’insieme dei Paesi (di cui fa parte l’Italia) con economie sviluppate e con banche abbastanza grandi e strutturate, ma dove non c’è coordinamento tra i vari player del sistema: acceleratori ed incubatori, venture capitalist e grandi aziende di consulenza. Non solo non c’è dialogo ma non c’è alcuna entità capace di fare da collante, in quanto anche i governi di questi Paesi al momento non ritengono il fintech tra le loro priorità. Il risultato è che la scarsa attenzione generata, tiene lontano capitali ed investimenti strategici con prospettive a medio-lungo termine.

Organizzati:

sono Paesi nei quali esistono organi creati dai governi con il compito di organizzare i vari player fintech sotto uno stesso tetto. Ci sono già esempi virtuosi come quello olandese, con un suo dipartimento dedicato (Holland Fintech) ed un documento ufficiale firmato dal Ministro dell’Economia che promuove attività di innovazione finanziaria individuando opportunità importanti per l’economia interna. Anche il Lussemburgo con l’agenzia Luxembourg for Fintech ha idee chiare: diventare un hub fintech mettendo insieme fondi privati e pubblici (Luxembourg Future Fund e Digital Tech Fund per un totale di circa 170

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milioni di euro). Stessa direzione viene seguita da Israele, a Tel Aviv, con The Floor, hub dedicato allo sviluppo delle idee in ambito fintech. In questo Paese, dal 2009 le startup sono cresciute da 90 a più di 400, molte con specializzazione in cyber security perché, è bene sottolinearlo, se Israele viene incluso tra gli “organizzati” per il fintech, entra sicuramente tra i “riconosciuti” in ambito tech; non a caso è stata ribattezzata Startup Nation, visto che ormai ha surclassato la Sillicon Valley su questi temi.

Riconosciuti:

Londra, New York, Singapore continuano a fare da apripista nel settore fintech. Questo è reso possibile dal continuo investimento nell’educazione: dalle materie di studio STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) nelle scuole superiori, ai corsi di laurea sempre più frequentati nelle università. Serve poi un forte sostegno da parte dei governi. Londra nel 2016 si è confermata come la città con maggiori investimenti fintech. Nonostante infatti che gli investimenti in UK siano scesi del 30% a “soli” 783 milioni di dollari, probabilmente per le incertezze legate alla Brexit, i capitali internazionali continuano ad affluire a Londra.

“Quello dei servizi finanziari è uno dei settori più importanti che sta assumendo professionisti in ogni angolo della Gran Bretagna. Ecco perché cerchiamo costantemente di promuovere la concorrenza ed incoraggiare le nuove startup fintech” George Osborne, cancelliere inglese.

Innovazione che Londra continuerà ad incentivare, motivo per cui la FCA (Financial Conduct Authority) ha approvato “Project Innovate”, un sandobox, una zona franca per testare prodotti e servizi finanziari innovativi svincolandoli dagli attuali limiti imposti dalla legge.

Secondo il rapporto di Fintech Global pubblicato nel mese di giugno 2017, Il 70% dei capitali raccolti dalle aziende fintech europee nel primo trimestre del 2017 è andat o a compagnie aventi sede in sei grandi città, nell’ordine: Londra, Berlino, Stoccolma, Parigi, Barcellona e Amsterdam14. Circa 1,1 miliardi di dollari di finanziamento nel complesso,

con oltre un terzo di questa cifra (il 36% per la precisione) finito a startup e “new economy” con sede nella capitale del Regno Unito. Nel rapporto viene però eletta Berlino

14 Vedere: http://www.infodata.ilsole24ore.com/2017/06/23/fintech-oltre-11-miliardi-dollari-le-startup-europee/

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come la città più dinamica per il fenomeno delle startup tecnologiche della finanza, capace di raddoppiare nei primi tre mesi dell’anno la percentuale di investimenti intercettati, arrivando a 140 milioni di dollari.

Oltre al Regno Unito ed alla Germania, a testimoniare la vitalità del fenomeno in Europa, abbiamo anche i paesi scandinavi, con la comunità di startup fintech più grande del Vecchio Continente dopo quella britannica. Ottime, in prospettiva, sono anche le potenzialità di crescita del movimento fintech francese e spagnolo, il quale conta oltre 200 startup attive in questo settore

Osservando il fenomeno fintech a livello globale, scopriamo però che il nuovo leader delle tecnologie applicate alla finanza, potrebbe diventare l’Asia. Secondo il rapporto The

Pulse of Fintech di KPMG e CB Insights15, l’Asia ha superato sia gli Stati Uniti che

l’Europa per valore degli investimenti in servizi finanziari digitali nel 2016.

I fattori distintivi che rendono il mercato asiatico tanto appetibile per l’affermazione del fintech, sono la vastità della popolazione a cui corrisponde una notevole arretratezza sul piano dei servizi, anche in ambito finanziario. In Asia vive infatti circa il 60% della popolazione globale o più, considerando che molte nascite ad oggi non vengono registrate. Per contro, conti correnti e carte di credito non sono particolarmente diffusi. Per capire meglio la situazione dell’Asia, basta riportare la seguente vicenda: a fine 2016 il Primo Ministro indiano Narendra Modi ha dichiarato illegali le banconote di grande taglio da 500 e 1000 rupie con l’obiettivo di combattere la corruzione e l’evasione fiscale. Dopo tale provvedimento, Paytm, una startup indiana che fornisce servizi di pagamento su smartphone, ha acquisito 20 milioni di clienti in 40 giorni (per raggiungere gli stessi volumi in Europa, una startup dovrebbe convincere un italiano su tre, oppure un europeo su 25, compresi neonati ed anziani, ad utilizzare la propria App). Due settimane dopo la messa al bando delle banconote di alto taglio, Paytm eseguiva già più transazioni al giorno del volume complessivo di tutte le carte di credito. Nessuna società fintech in Europa e negli Stati Uniti ha mai ottenuto tali risultati16.

Il mercato indiano ha mostrato, sia dal lato dei privati che delle imprese, una propensione all’adozione delle nuove soluzioni fintech estremamente rapida. Decenni di uso massiccio di denaro contante e servizi basati sulla forza delle relazioni personali sono infatti ora

15 KPMG, CB Insights “The Pulse of Fintech, Q3 2016 – Global Analysis of Fintech Venture Funding” November 16, 2016.

16 Per un approfondimento: https://www.economyup.it/blog/10-previsioni-fintech-per-il-20173-il-boom-dell-asia/

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rapidamente sostituiti da transazioni completamente online e servizi di mobile banking altamente customizzati. Il cambiamento proviene da diverse fonti tra cui la copertura mobile e la diffusione di internet che hanno visto una crescita senza precedenti con aumenti considerevoli del numero di utilizzatori di smartphone e di internet (l’India è oggi la terza economia per numero di utilizzatori di smartphone) consentendo alle piattaforme fintech di potersi imporre con maggiore forza.

La rapida diffusione delle nuove soluzioni fintech è un fenomeno che si registra in tutti i Paesi asiatici ed in particolare, secondo il rapporto 2017 di Ernest and Young sull’utilizzo delle tecnologie fintech17, la Cina domina incontrastata con un tasso di adozione del 69%

contro una media del 33% dei mercati analizzati, in una classifica in cui il secondo paese è l’India con il 52% ed invece paesi come Regno Unito, Germania e Stati Uniti si fermano, rispettivamente, al 42%, 35% e 33%.

Se il 2016 è stato quindi per l’Asia l’anno degli investimenti, il 2017 è l’anno del vero e proprio boom ed il primo semestre dell’anno sembra confermare tale previsione. Previsione condivisa da Startup Bootcamp, uno dei programmi di accelerazione per startup più grande d’Europa che, dopo la sua prima sede a Londra, ha deciso di aprirne un’altra a Singapore. Il ruolo leader della Cina nel settore è testimoniato anche dalla rapida ascesa del numero di aziende cinesi nella lista annuale dei Top100 Fintech Innovators promossa da KPMG e H2 Ventures: se nel 2014 si contava una sola azienda cinese fra le prime 10, nell’ultimo ranking pubblicato (2016) la Cina ne conta cinque fra le prime dieci18.

Una sottolineatura merita lo sviluppo del settore fintech anche nel continente africano dove negli ultimi due anni sono nate oltre 300 startup operanti nel campo della finanza digitale ed è stata registrata una raccolta totale di investimenti superiore ai 90 milioni di dollari. Le startup sono equamente distribuite tra le regioni del sud, est ed ovest mentre la parte nord del continente presenta un certo ritardo. In particolare il Sud Africa rappresenta il territorio preferito dalle startup dove si concentrano il 31,2% delle fintech mentre la Nigeria ed il Kenya seguono rispettivamente in seconda e terza posizione. Anche altri Paesi come il Ghana ed il Cameroon stanno affermandosi come mercati emergenti per la finanza digitale.

17 Ernst and Young “EY Fintech Adoption Index 2017 – The rapid emergence of FinTech” 18 Per vedere la lista completa consultare: https://home.kpmg.com/xx/en/home/media/press-releases/2016/10/the-fintech-100-announcing-the-worlds-leading-fintech-innovators-for-2016.html

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Delle nove categorie fintech considerate nel report, i servizi di pagamento ed invio di denaro, dominano il mercato con il 41,5% delle startup mentre i servizi di lending si posizionano subito in seconda posizione (20%).

Questa forte crescita dei servizi digitali nel continente africano è sostenuta anche dalla diffusione sempre maggiore degli smartphone che dal 2007 al 2016 ha segnato un +344% (contro il +107% del resto del mondo).

Ed in Italia? Il fenomeno fintech è in forte crescita ma sempre ai suoi albori e paga i difetti di un ecosistema (quello delle startup) che soffre di problemi dimensionali e di asset strutturali (digitalizzazione, spinta culturale, quadro regolativo). Il gap cumulato rispetto agli altri Paesi europei è elevato ma i tassi di crescita sono tra i più alti in Europa, dimostrando che il mercato italiano è caratterizzato da notevoli potenzialità.

Si contano in totale 200 startup operanti in diversi settori, dal credito, ai pagamenti, all’asset management. Tra queste, troviamo realtà particolarmente interessanti che stanno affermandosi a livello internazionale.

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CAPITOLO III

Ambiti di applicazione della tecnologia fintech

3.1 Il peer-to-peer lending

La crisi del 2008, come abbiamo visto, ha avuto tra i vari effetti anche quello della riduzione dell’attività creditizia da parte delle banche. I criteri introdotti dalle nuove normative (a partire da Basilea II) sulle dimensioni del capitale delle banche, i vari stress test, liquidity test e via dicendo hanno portato alla diminuzione della disponibilità degli istituti finanziari ad erogare credito sia alle famiglie sia soprattutto al mondo delle piccole e medie imprese.

Questo restringimento dei canali finanziari tradizionali non poteva non produrre la ricerca, da parte di aziende e startup, di nuovi canali di finanziamento e le piattaforme di P2P lending (o social lending come viene spesso definito in Italia) rappresentano una soluzione alternativa al credito bancario.

Il funzionamento di tali piattaforme si basa sul marketplace, una comunità di prestatori e di richiedenti credito che si incontrano attraverso una piattaforma web fornita da un P2P lender. Il marketplace mette quindi insieme, da una parte, chi ha intenzione di richiedere un finanziamento e, dall’altra, persone o istituzioni che scelgono di investire parte del proprio capitale al fine di ricavarne un rendimento.

Secondo le stime dei consulenti di P2P Lending Italia19, nel 2016, l’intero settore ha

erogato 64 milioni di euro di nuovi prestiti segnando una crescita annua del 524% (10.3 milioni di euro nel 2015).

Il trend di forte sviluppo è continuato anche per il primo semestre del 2017 dove nel mese di giugno è stato registrato il record per il social lending Italiano con un volume mensile di erogato pari a 14,68 milioni di euro, polverizzando il record mensile precedente di 12.86 milioni registrati a maggio 2017. Il progresso rispetto al mese precedente è pari a +14% ma addirittura +233% rispetto a giungo 2016.

19Si veda: http://www.p2plendingitalia.com/prestatore/168-p2p-lending-italiano-dicembre-chiude-un-anno-record-i-volumi-preliminari-2016-son

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Record assoluto anche per il numero di nuovi prestiti erogati nel mese: in aumento a 1011 dai 921 di maggio ed in crescita del 257% su base annua. Andando più nel dettaglio, i prestiti erogati ad individui sono stati 915, quasi il quadruplo rispetto ai 250 erogati nel giugno del 2016; Quelli alle imprese sono stati17, mentre i prestiti per sconto fatture 79 (quintuplicati rispetto a giugno 2016).

Il ticket medio erogato nel mese risulta pari a:

 7.380 euro per i prestiti a individui

 158.366 euro per i prestiti alle imprese

 66.301 per i prestiti contro acquisto di fatture

I volumi cumulati erogati nei primi sei mesi del 2017 sono pari a 66.7 milioni e si attestano ad un ritmo annualizzato di quasi 134 milioni di euro. Questa proiezione rappresenterebbe una crescita pari del 109% rispetto al volume record di 64 milioni registrato nel 2016.

Il montante complessivo erogato ad oggi è arrivato a quota 161.2 milioni di euro. Di questi: 75.2 milioni sono relativi alle piattaforme operanti nel segmento prestiti personali, mentre i rimanenti 86 milioni si riferiscono alle piattaforme specializzate nei prestiti alle imprese (15.5 milioni di euro per prestiti a m/l termine e 70,5 milioni di euro per sconto fatture). I volumi cumulati si riferiscono ad un totale di 13049 prestiti erogati di cui: 11691 prestiti ad individui, 334 prestiti alle imprese e 1024 prestiti relativi ad acquisto di fatture stesse.

Piccoli passi rispetto al mercato mondiale in cui nel solo mese di maggio i nuovi prestiti, consumer e business cumulati, sono ammontati a 500 milioni di euro. I 161.2 milioni raccolti da inception sul mercato italiano, sempre considerando sia il business che consumer, sono una piccola frazione rispetto ai 2,6 miliardi dell’Europa senza il Regno Unito, per non dire degli 11,6 miliardi raccolti in UK e dei quasi 55 in USA (dati AltFi20).

Focalizzandoci però solo sui prestiti alle imprese, la posizione italiana cambia considerando che nell’Europa (escluso UK), i business lender hanno erogato in totale 414 milioni a cui vanno aggiunti i 149 dell’invoice financing.

Il modello al quale tutte le piattaforme continuano ad ispirarsi è quello del Regno Unito dove il cumulato dei prestiti diretti alle PMI ammonta a 5,34 miliardi a cui si deve aggiungere il miliardo dell’invoice financing. Nel Regno Unito secondo i dati diffusi da

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AltFi nel primo semestre del 2017 il volume di prestiti è aumentato del 35% rispetto al primo semestre del 2016 per un totale di 2,2 miliardi di sterline (circa 2,5 miliardi di euro). Alla luce delle performance dei primi dei mesi, AltFi stima volumi per l’intero 2017 pari a 4,8 miliardi di sterline (circa 5,5 miliardi di euro). Se confermato, questo dato sarebbe pari a circa 41 volte i volumi stimati per il P2P lending italiano (134 milioni di euro) nell’anno in corso.

Il quadro normativo di riferimento in Italia

I primi operatori del P2P lending in Italia furono inizialmente autorizzati ad operare da Banca d’Italia come intermediari finanziari (ex art. 106 del Testo Unico Bancario) ma per alcuni casi non tardarono ad emergere contestazioni rispetto all’attività operativa. Successivamente, l’entrata in vigore del D.L 11/2010 attuativo della Direttiva Europea 2007/64/EC (Payment Service Directive), consentì a Banca D’Italia di meglio definire il contesto normativo inquadrando le piattaforme di social lending sotto il cappello degli Istituti di Pagamento (ex art. 114 septies del Testo Unico) incentivando la creazione di una nuova categoria di operatori, attivi nell’esecuzione di ordini di pagamento.

Gli istituti di pagamento sono tenuti a rispettare alcune delle disposizioni previste dal Codice Civile, dal TUB, dalla Delibera 1058 del 19/7/2005 del Comitato Interministeriale per il Credito e Risparmio (CICR) e dalle Disposizioni Generali di Vigilanza per gli Istituti di Pagamento emanate da Banca d’Italia, rispetto al capitale minimo e patrimonio di vigilanza delle società, alla struttura organizzativa (con controlli di primo, secondo e terzo livello), ai requisiti di professionalità, onorabilità e di indipendenza di amministratori e sindaci. La Banca D’Italia vigila costantemente su tali operatori. Nel mese di novembre 2016, sempre Banca d’Italia ha pubblicato un nuovo provvedimento (Delibera 584/2016) recante disposizioni per la raccolta del risparmio dei soggetti diversi dalle banche con l’obiettivo di fornire una prima cornice regolamentare alle forme di finanziamento alternative al tradizionale canale bancario. Il documento nella sezione IX identifica esplicitamente la filiera del social lending, finanziato da una pluralità di prestatori privati (piccoli risparmiatori o investitori istituzionali). L’autorità di vigilanza raccomanda comunque di fissare un limite massimo ammissibile nell’investimento sui portali da parte dei privati, per non configurare l’esercizio abusivo dell’attività bancaria. Dal punto di vista contrattuale il rapporto fra il prestatore ed il soggetto finanziato si configura ai sensi degli articoli 1813 e seguenti del Codice Civile come un “contratto di

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mutuo” per mezzo del quale una parte mette a disposizione dell’altra somme di denaro con la promessa da parte di quest’ultima di eseguirne il rimborso entro un certo periodo di tempo. Il portale offre un contratto di servizi di pagamento “a distanza” che sottoscrive con entrambi i partecipanti all’operazione di finanziamento.

I portali attivi in Italia

Risultano attualmente attive sul mercato italiano 9 piattaforme di social lending (più che raddoppiate rispetto alla situazione di un anno fa): Prestiamoci, Smartika, Soisy MutusQuo, BLender, Younited Credit, BorsadelCredito, Lendix e Prestacap. Le prime sei piattaforme si rivolgono, al momento, a persone fisiche (consumer lending) mentre le ultime tre si rivolgono ad imprese (business lending).

Figura: Ammontare dei prestiti erogati dalle piattaforme di social lending italiane attive, alla data

del 30 giugno 2017: valori totali e flusso annuale in milioni di euro.

Fonte: Osservatorio Crowdfunding del Politecnico di Milano “2o Report Italiano sul Crowdfunding”

Il valore totale dei prestiti erogati a soggetti italiani (persone fisiche e giuridiche) dalle piattaforme censite nella ricerca è pari a 88,282 milioni di euro, di cui 56,576 (esattamente il 64%) relativo agli ultimi 12 mesi, il che vuol dire che in un anno la raccolta è aumentata di quasi 3 volte rispetto al passato.

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Figura: Numero totale dei prestatori con offerta attiva e numero dei prestiti veicolati dalle piattaforme italiane di social lending alla data del 30/06/2017.

Fonte: Osservatorio Crowdfunding del Politecnico di Milano “2o Report Italiano sul Crowdfunding”. I modelli di business

Due sono i modelli dominanti attualmente sul mercato, quello “diffuso” e quello

“diretto”.

Il modello diffuso prevede un ruolo attivo della piattaforma sia nel selezionare le richieste di credito fra tutte quelle pervenute, sia nel decidere l’allocazione del capitale investito. I prestatori mettono a disposizione della piattaforma una certa somma di denaro, fornendo alcune indicazioni rispetto all’importo prestabilito, al tasso di interesse atteso ed al risk appetite, ovvero al profilo rischio-rendimento ritenuto soddisfacente. È la piattaforma stessa ad allocare automaticamente il denaro fra i progetti ritenuti ammissibili, secondo i criteri indicati dai prestatori. Gli investitori non hanno quindi la possibilità di scegliere o di sapere ex ante chi sarà il soggetto finanziato, possono invece conoscere la capacità di reddito e le sue caratteristiche principali (età per le persone fisiche, residenza, rischio di credito) e sapranno in tempo reale se i pagamenti a servizio del finanziamento sono regolari oppure no.

I rimborsi del capitale nonché gli interessi pagati ogni mese vengono automaticamente reinvestiti, a meno che il prestatore non dia disposizioni diverse.

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Il modello diretto consente invece all’investitore di visualizzare in modo trasparente l’identità del richiedente e di scegliere a chi effettivamente prestare denaro, valutando il rapporto fra rischio e tasso di interesse promesso. In questo caso il ruolo della piattaforma consiste solo nella pre-selezione dei progetti che verranno pubblicati e resi accessibili agli investitori.

Le piattaforme attive in Italia, con l’eccezione di Lendix, hanno finora applicato il modello diffuso.

Oltre il fintech

Il lending, sia verso privati che verso imprese, è un segmento che non interessa solo alle startup fintech ma anche alle grandi aziende del settore IT come Paypal, Amazon e Alibaba le quali si sono lanciate sul mercato offrendo ai propri merchant anche servizi di lending e di cash advance.

Ad ottobre 2015 Paypal ha annunciato di aver superato il miliardo di dollari di prestiti ed oggi registra un volume giornaliero pari a 2 milioni di dollari, offrendo credito ai propri merchant fino un limite massimo di 85 mila dollari.

Anche Amazon si sta muovendo in questa direzione e nel 2011 ha lanciato Amazon Lending che eroga prestiti alle piccole e medie imprese che vendono i loro prodotti sulla propria piattaforma. Ad oggi, il volume totale di erogato ammonta a 3 miliardi di dollari con oltre 20mila PMI finanziate, un miliardo solo nell’ultimo anno21. I prestiti hanno una

durata massima di 12 mesi, con importi tra i mille ed i 750mila euro e tassi tra il 6% ed il 17%. I paesi in cui Amazon offre questo servizio sono Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone ma l’intenzione è di estenderlo presto a Canada, Francia, Italia, Spagna, India e Cina.

Anche Alibaba ha creato la sua banca digitale con MyBank, rivolgendosi alle medie imprese della Cina rurale in genere tagliate fuori dai prestiti erogati dagli istituti finanziari tradizionali. MyBank ha erogato 2,1 miliardi di dollari di prestiti nei primi due anni del servizio22.

21 Vedere: http://news.borsadelcredito.it/amazon-bbva-colossi-entrano-nei-prestiti-alternativi-alle-imprese/

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3.1

.1 Borsa del Credito

Startup italiana del fintech fondata nel 2013 da Alessandro Andreozzi e Ivan Pellegrini. Nasce come società di consulenza nel credito con l’obiettivo di creare una sorta di ponte digitale tra le società bisognose di un prestito e gli istituti bancari. Un servizio al quale a partire dal 2015 si affianca l’attività di peer to peer lending per il settore business.

“Il modo più veloce per ottenere credito” questo è il claim nella homepage di

BorsadelCredito.it ed è anche uno dei maggiori punti di forza del prodotto: per riceve un finanziamento di qualunque importo e con una durata da 12 a 60 mesi bastano 3 giorni a d un’impresa che sia dotata dei requisiti giusti. Ventiquattro ore per sapere se la domanda è accettata (tempo di cui ha bisogno Borsa del Credito per fare la valutazione del merito creditizio) ed altre 48 ore per vedersi accreditata la somma richiesta direttamente sul proprio conto corrente.

Come funziona

Il workflow di valutazione delle domande di credito per BorsadelCredito.it è semi-automatico: una prima fase di valutazione avviene automaticamente attraverso una serie di parametri oggettivi, che vengono trasmessi via web dall’imprenditore/persona fisica in pochi minuti (dati anagrafici, finalità dell’investimento, ultimi due bilanci depositati); dopo questo primo passo (che mediamente vede selezionate solo il 5-10% delle richieste e necessita di un giorno lavorativo) si accede ad una seconda valutazione che viene condotta dal personale della piattaforma attingendo a database vari offerti da credit

bureau come Experian, ai social big data ed avvalendosi della collaborazione, per quanto

riguarda il rating, di agenzie esterne come Cerved o Crif. Tra i parametri che vengono considerati per le imprese si annoverano anche la qualità della presenza dell’azienda su internet o sui social network, l’organizzazione aziendale e la qualità del progetto imprenditoriale. I richiedenti che superano questa seconda fase, secondo i dati forniti dal portale, sono fra l’1% e il 5%. La pratica viene poi finalizzata attraverso un’intervista telefonica con l’imprenditore volta a cogliere i suoi aspetti di profilo e le prospettive dell’azienda. Se la telefonata finale confermerà l’impressione positiva, il prestito sarà deliberato. A quel punto basterà tornare nella propria area riservata sul portale e, dopo aver visionato l’offerta, per la sua accettazione basterà soltanto inserire l’IBAN del proprio conto corrente aziendale ed effettuare la firma digitale del contratto attraverso un codice che arriva via sms all’imprenditore. A questo punto il processo è concluso ed,

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entro 48 ore, la somma richiesta verrà accreditata sul conto corrente indicato. In ogni momento, dal proprio profilo, l’imprenditore potrà verificare il suo piano di ammortamento e le condizioni del prestito.

I requisiti richiesti

Come requisito base per accedere alla piattaforma di BorsadelCredito.it le aziende devono avere almeno un anno di vita e 50.000 euro di fatturato. Per quanto riguarda invece i parametri contabili che il portale utilizza e verifica integralmente come vincolo per accettare il finanziamento sono:

 Rapporto fra mezzi propri e totale passivo superiore al 5%

 Margine operativo lordo positivo

 Rapporto fra crediti verso clienti su fatturato inferiore al 50%

 Debiti finanziari su fatturato inferiore al 100%

 Rapporto fra rata in pagamento prevista e cash flow inferiore al 100%

Ad oggi l’erogato totale in prestiti alle PMI italiane ammonta a 14.850.000 euro23 (dato

aggiornato a luglio 2017). Il numero totale delle aziende supportate dalla piattaforma dall’avvio dell’attività è di 339 e l’importo medio finanziato risulta pari a 40.412 euro, con un discreto aumento rispetto allo stesso valore rilevato nel 2016 (12.889 euro). Il tasso medio di rendimento per gli investitori si attesta al 5,36% lordo mentre il tasso annuo nominale (TAN) applicato ai richiedenti il finanziamento varia dal 3,4% al 7,4% (valore medio 5,27%) in base al rischio attribuito all’azienda ed alla durata del prestito (dai 12 ai 60 mesi con una media 28 mesi) a cui si sommano una commissione di garanzia che varia fra lo 0,4% e 9%, e costi di istruttoria compresi tra il 2% ed il 4%. I versamenti per il pagamento della quota capitale e della quota interessi sono mensili e scontano un costo di 2 euro.

Nessuna garanzia reale o attraverso strumenti finanziari a deposito è richiesta e non sono previste altre commissioni; non viene richiesta l’apertura di un nuovo conto corrente ma l’addebito è eseguito su quello già esistente dall’azienda.

Il finanziamento (anche solo richiesto) viene a tutti gli effetti segnalato ai sistemi di informazione creditizie.

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Le aziende finanziate

La maggior parte dei richiedenti sono microimprese, ovvero, secondo la definizione della Commissione Europea, imprese che hanno un fatturato sotto i 2 milioni di euro. Più in dettaglio, il 78% è composta da imprese con un fatturato fino ai 2 milioni di euro, il 20% ha un fatturato tra i 2 e i 10 milioni ed il restante 2% ha un fatturato superiore a 10 milioni.24

Il settore più attivo è quello dei servizi, con il 27,4% del mercato complessivo, seguito dal commercio al dettaglio 23,00% ed all’ingrosso 14,5%, infine l’industria al 18%. Quanto alla distribuzione geografica, circa l’80% dell’intero campione è equamente suddiviso tra Nord e Sud, mentre il restante 18% risiede al Centro. La maggioranza delle imprese finanziate si trova in Lombardia (26%), al secondo posto si pone la Campania con il 16,5%, seguono poi il Lazio (12,6%) e la Puglia (12,2%).

Oltre il 50% delle imprese mostra struttura giuridica di società di capitali mentre le ditte individuali rappresentano il 30% e le società di persone il 15%.

Infine, le motivazioni principali per cui viene richiesto il credito sono nel 56% per investimento e nel 38% per esigenze di cassa, proporzioni invertite rispetto a quelle rilevate da Banca D’Italia per il settore bancario.

La tipologia di investitori

I 2.841 prestatori registrati (luglio 2017) hanno in media 46 anni e per il 90% sono maschi25. Quasi un terzo (il 31,6%) risiede in Lombardia, seguono il Veneto con l’11,1%,

il Lazio (9,8%) e l’Emilia Romagna (8,6%). La prima delle regioni del sud è la Campania con il 4%.

Fino a qualche mese fa la soglia massima di investimento era pari a 50.000 euro, dal 17 aprile 2017 questo limite è stato soppresso e può essere investita qualsiasi cifra (a partire dalla somma minima di 100 euro) a patto che l’investimento da parte dei singoli risparmiatori non sia svolto a livello professionale. Questo cambiamento di rotta ha il fine di incoraggiare gli investimenti da parte dei prestatori istituzionali.

24 Vedere: http://news.borsadelcredito.it/le-imprese-preferiscono-borsadelcredito-it-alla-banca/ 25 Osservatorio Crowdfunding, “2o Report Italiano sul Crowdfundinvesting”, Luglio 2017.

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Il fondo di protezione

Partendo dal presupposto che Borsa del Credito accetta solo le richieste di finanziamento provenienti da aziende che siano economicamente e finanziariamente sane, che abbiano un livello di fatturato adatto a sostenere un eventuale debito e che non abbiano avuto pregiudizievoli (debiti non onorati, protesti ipoteche legali ecc.), il livello di rischio viene mitigato attraverso tre diverse azioni:

La prima è di tipo procedurale e consiste, come abbiamo visto in precedenza, in una severa selezione delle aziende a cui prestare denaro: per superare l’esame è necessario avere almeno un anno di attività ed un fatturato di 50mila euro nonché solidi numeri di bilancio, oltre che una buona web reputation (Borsa del Credito dichiara di utilizzare anche i dati provenienti da Tripadvisor per le valutazioni di ristoranti, alberghi e B&B). Un secondo pilastro per la protezione dell’investitore è rappresentato dalla diversificazione dell’investimento: ogni singolo prestito tendenzialmente non va oltre l’1% del portafoglio dell’investitore.

Infine, come terzo pilastro, il fondo di protezione che viene alimentato dalle stesse aziende finanziate attraverso quote che variano dallo 0,9% al 16,69% in base alla durata del prestito e al merito di credito. Il fondo funziona come un’assicurazione: rimborsa i prestiti nei limiti dei tassi di insolvenza fisiologici che si realizzano sul mercato (fino al 6%). In caso di eventi non prevedibili (come ad esempio tassi di default molto più alti delle perdite attese) il fondo potrebbe non essere sufficiente a coprire le somme prestate. C’è in realtà una quarta ed ultima difesa che Borsa del Credito offre all’investitore ed è la trasparenza. Se in portafoglio c’è un’azienda che ha un ritardo, questo viene reso immediatamente visibile: sull’anagrafica dell’investitore si accende un semaforo giallo, che rimane acceso finché il pagamento del prestito risulta effettivamente in ritardo. Nelle settimane seguenti al ritardo, Borsa del Credito si adopererà nel tentare di recuperare il credito rendendo pubbliche ai propri prestatori le procedure intraprese se queste si protraggono oltre i 4 mesi. Se alla fine di questo percorso il credito viene considerato irrecuperabile, interviene il fondo protezione che restituirà al prestatore il solo capitale investito senza interessi.

Borsa del Credito pubblica sul proprio portale i dati sulle rate scadute e non pagate di prestiti passati ed alla data del 30/06/2017 l’ammontare era pari a 443.759 euro, ovvero il 6,3% dei prestiti erogati fino al 31/12/2016 e risultava coperto dal fondo di protezione26.

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3.1.

2 Le prospettive per il futuro del peer-to-peer lending in Italia

Il 2017 ha rappresentato un anno di svolta in Italia per il social lending con un volume di erogato in forte crescita rispetto allo stesso 2016 anche se continua ad essere frenato dalla limitata presenza di investitori nel nostro Paese. Le prospettive di sviluppo sono molto interessanti e potranno concretizzarsi se aumenterà l’interesse sia da parte della “folla di internet” sia da parte degli investitori istituzionali sul fatto che possano trovare nel marketplace lending una significativa opportunità di diversificazione del portafoglio e con rendimenti non trascurabili.

Ulteriori fattori necessari per il definitivo sviluppo del P2P lending in Italia sono essenzialmente tre:

1. Un chiaro assetto regolamentare che elimini ogni ambiguità rispetto a chi può offrire credito attraverso internet;

2. L’adozione di buone pratiche omogenee da parte delle piattaforme sulle informazioni da veicolare agli investitori, in primis rispetto alle insolvenze; 3. Un regime fiscale più favorevole, o quantomeno allineato a quello delle altre

rendite finanziarie.

Il P2P lending in Italia è soggetto ad un trattamento fiscale che al momento risulta penalizzante rispetto agli strumenti di investimento tradizionali il cui rendimento è tassato al 26% (eccezion fatta per i Btp, per cui l’imposta è agevolata al 12,5%). Il P2P lending è tassato ad aliquota marginale sul reddito: vuol dire che quello che si guadagna con questo investimento viene sommato al reddito ed è soggetto ad un’aliquota variabile tra il 23% per i redditi sotto i 15 mila euro e il 43% per quelli sopra i 75mila euro (contribuenti più facoltosi e quindi tendenzialmente più disponibili ad investire in un’asset class innovativa quale il social lending). Inoltre le perdite sui crediti diventati inesigibili non sono deducibili ai fini fiscali (come sono invece le minusvalenze da altri investimenti finanziari). Da questo punto di vista è auspicabile una rapida correzione e l’omologazione dei proventi a tutti gli investimenti di natura finanziaria.

Un ulteriore fattore fondamentale per il successo delle piattaforme sarà quello di riuscire a velocizzare i tempi nella stima del merito creditizio dell’azienda richiedente il prestito. La competitività del social lending è infatti solo marginalmente legata al più basso costo del capitale (cosa non sempre vera), maggiore importanza hanno la capacità di essere

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rapidi nelle risposte verso i richiedenti e nel coprire fasce del mercato che attualmente hanno scarso accesso al circuito bancario.

3.2 Il crowdfunding

Come abbiamo visto in precedenza con Borsa del Credito ed in generale con le startup fintech operanti nel settore del social lending, spesso per ottenere finanziamenti sono richieste una serie di condizioni base come: alcuni anni di attività, indicatori di performance solidi, nonché determinati livelli di fatturato. Sono questi tutti fattori che seppur in misura minore rispetto al canale bancario tradizionale, vincolano la possibilità di accedere al credito da parte di giovani startup o imprenditori con promettenti business plan ma poca esperienza alle spalle. Per questi soggetti il fintech offre comunque strade alternative come il reward crowdfunding e l’equity crowdfunding (le altre due tipologie oltre al lending crowdfunding che abbiamo visto in precedenza trattando il social lending e che tutte insieme vanno a comporre la sfera del crowdinvesting).

3.3 Il reward crowdfunding

Il reward crowdfunding consiste nella raccolta di finanziamenti via internet a fronte di una ricompensa proporzionale all’importo investito dal sostenitore. Si tratta di una pratica che ha origini molto remote, tradizionalmente si identifica la nascita di questo modello di crowdfunding con la costruzione della Statua della Libertà: nel 1880 il magnate dell’editoria Joseph Pulitzer lanciò una pubblica sottoscrizione tramite i suoi giornali per raccogliere i 250.000 dollari che servivano per completare il basamento, come ricompensa offrì la menzione dei sottoscrittori che avrebbero contribuito.

Oggi sulla base della tipologia di ricompensa è possibile classificare i vari tipi di reward crowdfunding in tre categorie omogenee, ciascuna soggetta ad una specifica disciplina dell’ordinamento giuridico italiano.

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