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I personaggi di Marco Polo e Kublai Kan nelle opere di Calvino, da Marco Polo (1960) a Le città invisibili (1972)

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Università degli studi di Pisa

Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica

Corso di Laurea Magistrale in Italianistica

Titolo della Tesi:

I personaggi di Marco Polo e Kublai Kan nelle opere di Calvino,

da Marco Polo (1960) a Le città invisibili (1972)

Candidato: Relatore:

Giovanni Vecchio Prof.ssa Cristina Savettieri

Correlatore:

Prof. Vinicio Pacca

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INDICE

Introduzione

...4

CAPITOLO I

La sceneggiatura cinematografica Marco Polo

...10

1.1. Il progetto della scrittura-cinema...10

1.2. L'esperienza dello spettatore...27

1.3. La scrittura per immagini...35

CAPITOLO II

Il racconto dei viaggi di Marco

...45

2.1. La cornice de Le città invisibili...45

2.2. Esplorazione e demistificazione...59

2.3. Una lettura politica...64

CAPITOLO III

Marco e Kublai

...68

3.1. Marco Polo...68

3.2. Kublai Kan... 74

3.3. Una dialettica senza fine...79

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INTRODUZIONE

Quando si leggono i classici risulta difficile svolgere un'analisi dalla quale possa scaturire qualcosa di effettivamente originale. Ogni disamina può sembrare superflua, tutto è stato già detto e pensato. Si rischia di non adottare mai un punto di vista effettivamente proficuo, e si ha difficoltà a credere nell'inesauribilità della letteratura.

Ciò può accadere con qualsiasi autore inserito in un canone, e in particolare con Calvino, che può essere considerato l'ultimo autore inserito nel canone della letteratura italiana novecentesca. La peculiarità di questo scrittore però è quella di aver occupato un posto in ogni tipo di canone: editoriale, accademico, scolastico.

Continuano ad essere oggetto di discussione i motivi della sua fortuna; secondo i denigratori, la sua opera avrebbe incontrato i favori del pubblico per la facilità di lettura. Giudizi del genere finiscono però per eccedere in intransigenza: lo scrittore avrebbe avuto solo la capacità “di fare la cosa giusta al momento giusto” 1, e di sfruttare le sue

amicizie e il dialogo con i critici per perpetuare i suoi successi.

In realtà Calvino era consapevole del rischio di riduzione della narrativa ad una moda, pertanto cercava di allontanarsi da quel giudizio:

1 Claudio Giunta, Le «Lezioni americane» di Calvino 25 anni dopo: una pietra sopra?, “Belfagor”,

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I miei libri non appartengono alla categoria dei best-sellers che vendono decine di migliaia di copie appena escono e l'anno dopo sono già dimenticati. La mia soddisfazione è vedere i miei libri ristampati tutti gli anni, alcuni con una tiratura di dieci, quindicimila copie ogni volta. 2

Può rivelarsi più utile l'attenzione alla quantità di generi affrontati dallo scrittore: ogni tipo di forma narrativa in prosa è stata solcata, e sebbene si possa riscontrare una predilezione per la forma del racconto breve, emerge comunque dalla sua produzione una discreta varietà di generi.

Un altro elemento da associare al successo dello scrittore è quello del confronto col pubblico. Calvino esponeva esplicitamente i suoi interessi, e, anche se non intenzionalmente, ciò portava ad instaurare un dialogo con i lettori. Questa attitudine risulta evidente ad esempio con l'Orlando furioso, opera associata alla carica fiabesca della trilogia de I nostri antenati. La considerazione per il pubblico viene espressa in uno scritto che comincia, non a caso, con un riferimento al poema ariostesco:

Nell'ultimo canto dell'Orlando Furioso, Ariosto rappresenta nel poema i lettori del poema. […] È quella la prima volta, credo, che non il lettore singolo e solitario ma il “pubblico” appare riflesso nel libro come uno specchio.

[…] Nell'intenzione che ogni scrittore mette nel suo progetto d'opera, è implicito un progetto di pubblico. Anche lo scrittore più innovatore, più arduo, più controcorrente, e forse proprio lui più degli altri, ha in mente un suo pubblico o contropubblico, sa che questo contropubblico (sia pur minoritario o magari ancora solo potenziale) già esiste ed

2 Italo Calvino, Intervista a cura di Felice Froio, in Dietro il successo. Ricordi e testimonianze di alcuni

protagonisti del nostro tempo: quale segreto dietro il loro successo?, Milano, Sugarco, 1984, ora in Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, Milano, Mondadori 1994, pp. 261-262.

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è quello che conta. 3

L'attenzione rivolta al personaggio di Marco Polo è assimilabile a quella dedicata all'Orlando furioso. Per lo stile e la struttura, il Milione può far pensare alla cronaca oppure alla trattatistica storico-geografica. La difficoltà di inserirlo in un genere preciso si evince anche dalla varietà dei titoli coi quali il libro è circolato. Intitolato originariamente Le divisament dou monde, è conosciuto anche con i titoli Livre des

Merveilles o De mirabilibus mundi 4.

L'opera nasce dall'incontro tra il mercante veneziano Marco Polo e lo scrittore Rustichello da Pisa, autore di romanzi in prosa in lingua d'oïl, che trascrive in francese il racconto orale di Marco nelle carceri genovesi:

Il lungo viaggio in Oriente del veneziano Marco Polo (1254-1324) ebbe luogo dopo un precedente viaggio compiuto dal padre Niccolò e dallo zio Matteo, mercanti in Oriente, che avevano raggiunto la corte di Qubilai (il Gran Khan), imperatore della dinastia gengiskhanide e sovrano di gran parte dell'Asia. Dopo il loro ritorno a Venezia, i due mercanti partirono di nuovo per l'Asia intorno al 1271, portando con sé il giovane Marco, con una non ben precisata missione da parte del papa Gregorio X. Nel suo lungo soggiorno alla corte del Gran Khan, Marco si inserì nella gerarchia feudale mongola, divenendo uno degli uomini di fiducia dell'imperatore e percorrendo a più riprese la Cina e altre regioni di quel continente, con vari compiti (comunque, non sembra che vi esercitasse la mercatura). Tornato a Venezia nel 1295, fu più tardi fatto prigioniero dai genovesi in una occasione che non ci è nota; e nelle prigioni genovesi incontrò

3 Italo Calvino, Un progetto di pubblico, in Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano,

Mondadori 1995, pp. 342-343.

4 Lucia Battaglia Ricci, Milione, in Letteratura italiana. Le opere, Vol. I: Dalle origini al Cinquecento,

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Rustichello da Pisa autore di romanzi in prosa in lingua d'oïl. Da questo incontro e dal racconto orale di Marco, che Rustichello trascriveva fedelmente in francese, nacque l'opera intitolata Le divisament dou monde […]. Tornato a Venezia nel 1299, Marco si occupò della diffusione del libro, trascritto e tradotto in redazioni e lingue diverse (se ne contano circa centocinquanta manoscritti, e poi, a partire dalla fine del Quattrocento, infinite edizioni a stampa).5

Le città invisibili, pubblicato nel 1972, è una riscrittura immaginosa del Milione:

Marco si ferma alla reggia dell’imperatore Kublai Kan 6, il quale, non potendo recarsi

personalmente in visita nelle città del suo regno, chiede al veneziano di fargli un resoconto di quello che ha visto durante i suoi viaggi.

La descrizione si articola in nove capitoli, tutti preceduti e seguiti da una cornice che mette in scena Marco e Kublai.

Le città descritte da Marco sono suddivise in undici sottoinsiemi: ognuna di esse infatti fa parte di una sezione, il cui titolo allude al significato a cui quella città è legata. Abbiamo così undici serie, ognuna delle quali comprende cinque città. I titoli e gli argomenti delle serie sono nell’ordine: Le città e la memoria (il ricordo), Le città e il

desiderio (le attese), Le città e i segni (l’interpretazione), Le città sottili (la labilità), Le città e gli scambi (i rapporti umani), Le città e gli occhi (lo sguardo), Le città e il nome

(il nome), Le città e i morti (la morte), Le città e il cielo (i modelli ideali), Le città

continue (i confini), Le città nascoste (l’utopia).

Dal punto di vista formale l'opera segna il definitivo abbandono dell'istanza

5 Giulio Ferroni, Storia della letteratura italiana. Dalle origini al Quattrocento, Torino, Einaudi 1991,

p. 153.

6 La grafia del nome cambia tra Marco Polo, nel quale si usa “Khan”, e Le città invisibili, nel quale è

utilizzata la forma “Kan”. Sono comuni anche le forme Khubilaj Khaan e Qublai Qaghan a seconda degli autori che citano il personaggio, ma ci atteniamo alle forme utilizzate da Calvino nelle sue opere.

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realistica a favore dell'adesione a una concezione della letteratura come gioco combinatorio. Ma, come sottolinea Marina Polacco, sarebbe limitante circoscrivere l'importanza del testo esclusivamente alla questione dello stile, poiché “il rifiuto di una visione diretta e l'adozione di un punto di vista straniante caratterizza fin dall'esordio la scrittura calviniana” 7, Le città invisibili si lega comunque, dal punto di vista

contenutistico, alla visione del mondo propria degli anni in cui l'opera è stata realizzata.

Per Calvino, e non solo per lui, si tratta di uno snodo cruciale: siamo agli inizi degli anni Settanta e l'idea di letteratura coltivata all'indomani della guerra e della resistenza […] sembra definitivamente tramontata, travolta dall'evidenza di una evoluzione dello scenario economico-politico ben diversa da quella immaginata e sperata. […] L'istanza generale rimane sempre e comunque quella di rappresentare il mondo e il ruolo dell'individuo nel mondo.8

Il proposito di questo lavoro è quello di analizzare un testo difficilmente classificabile: Marco Polo, trattamento cinematografico del 1960, considerandone le analogie con il testo del Milione e con Le città invisibili. Marco Polo è un testo lasciato inedito dall’autore, probabilmente destinato ad una rielaborazione successiva, ma obbiettivamente compiuto e stabile dal punto di vista formale, rilevante per la sua natura di genesi del capolavoro calviniano del 1972.

Le città invisibili è quindi per Calvino la riscrittura di una propria riscrittura, di

un testo che a sua volta trascrive il racconto orale di Marco Polo 9. Il soggetto del 1960

7 Marina Polacco, Kublai Kan, i mondi possibili e le menzogne del racconto, in Finzioni. Verità, bugie,

mondi possibili. Edited by Rosalba Galvagno, Maria Rizzarelli, Massimo Schilirò, Attilio Scuderi,

“Between”, IX.18 (2019), p. 3.

8 Ivi, p. 4.

9 Marina Zancan, “Le città invisibili” di Italo Calvino, in Letteratura italiana. Le opere, Vol. I: Il

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è ricco di precisi riferimenti intertestuali al Milione, e lascia intravedere i contenuti che sono sviluppati nel romanzo del 1972. Tuttavia, sarebbe stato in grado di porre le basi per un'ottima opera di intrattenimento, a prescindere dalla conoscenza da parte del pubblico dell'opera medievale da cui prende ispirazione.

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CAPITOLO I

La sceneggiatura cinematografica Marco Polo

1.1. Il progetto della scrittura-cinema

Marco Polo è una sceneggiatura scritta da Calvino nel 1960 su proposta del regista

Mario Monicelli. Per illustrare la genesi dell'opera sono utili le parole dello stesso Monicelli:

Con Calvino avevo già avuto un precedente rapporto. C’era stato allora il boom dei documentari esotici, del tipo di Magia verde di Napolitano o di quelli di Quilici, di Jacopetti10. Mi venne un’idea bellissima che proposi a Cristaldi: ripercorrere la rotta che

fece Marco Polo da Venezia a Pechino passando oggi sullo stesso itinerario e vedere che cos’era rimasto e che cos’era cambiato. Civiltà che erano rimaste ancora a livello tribale, mentre in altre zone erano sorte città, falansteri, grattacieli. Rifare insomma questo percorso in maniera documentaristica e un po’ fantasiosa. […] Parlando con Cristaldi e con Suso Cecchi d’Amico, si pensò: “chi può dare una traccia a Marco Polo, fra il magico, il documentaristico e il rievocativo?” E Suso disse: “Sentiamo Calvino”. Ci rivolgemmo a lui che accettò. Dopo un po’ si presentò con una cinquantina di pagine veramente straordinarie che forse non servivano per il film ma che si sarebbero potute pubblicare in un volumetto. Sembravano arazzi persiani11

10 Si tratta di documentari a stampo giornalistico e divulgativo prodotti tra gli anni Cinquanta e Sessanta:

Gian Gaspare Napolitano, Magia verde (1953); Folco Quilici, Sesto Continente (1954); Gualtiero Jacopetti, Il mondo di notte (1960).

11 Note e notizie sui testi, in Romanzi e racconti, edizione diretta da Claudio Milanini, a cura di Mario

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Il progetto alla fine non si realizza e il testo rimane inedito, eccetto che per un brano pubblicato sul settimanale “L'Espresso”, con titolo indecorosamente ammiccante e molto probabilmente non attribuibile all'autore 12. Fra le carte dello scrittore sono

conservati vari documenti, tra cui un soggetto di Suso Cecchi D'Amico, il progetto originario del regista Luigi Vanzi e un contratto con la casa produttrice Vides di Franco Cristaldi 13; la stessa casa di produzione finanzierà una miniserie televisiva trasmessa

nel 1982 in quarantasei paesi, basata però su un soggetto firmato da altri sceneggiatori.

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La trama segue le avventure di Marco Polo e dei due mercanti Matteo e Niccolò, rispettivamente zio e padre di Marco, dalla loro partenza da Venezia, il viaggio in Asia e l'incontro con il Gran Khan Kublai, fino al ritorno in patria. Le cronache narrate nel

Milione vengono riformulate in una narrazione romanzata con la quale il racconto

enciclopedico trascritto da Rustichello da Pisa si trasforma in un film d'avventura. Ai personaggi di Marco, del Khan e dei mercanti Matteo e Niccolò Polo vengono attribuite alcune peculiarità caratteriali. Nel Marco Polo viene quindi anticipata la cornice di Le

città invisibili del 1972.

Il testo, un centinaio di cartelle dattiloscritte - erronea al riguardo la testimonianza di Monicelli, che ne ricorda “una cinquantina”- è strutturato in tredici capitoli-sezione: 1. La partenza; 2. Le soglie dell'Oriente; 3. Il Vecchio della Montagna; 4. Marco finto monaco; 5. Alla corte del Gran Khan; 6. Le ambascerie di Marco Polo; 7. Il rubino del re di Ceylon; 8. Agaruk, principessa guerriera; 9. Kocacin va sposa; 10. Di nuovo

12 Alla corte del Gran Can sedusse la Gran Cagna, “L'Espresso”, n. 27, 8 luglio 1979. 13 Note e notizie sui testi, in Romanzi e racconti, p. 1264.

14 Marco Polo, miniserie TV, regia di Giuliano Montaldo, sceneggiatura di David Butler, Vincenzo

Labella, Giuliano Montaldo, prodotto da Vides Cinematografica, RAI Radiotelevisione italiana, National Broadcasting Company (NBC), 1982-1983, https://www.imdb.com/title/tt0083446/.

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Agaruk; 11. Avventure di mare; 12. Oriente perduto; 13. Epilogo. 15

I capitoli sono a loro volta suddivisi in ulteriori paragrafi titolati, ad indicare le singole scene. Il racconto si apre con l'arrivo di Matteo e Niccolò a Venezia dopo due anni in viaggio per l'Oriente: i due progettano di portare con loro Marco, che credono abbia preso gli ordini in convento, alla corte di Kublai Khan affinché il sovrano venga convertito alla religione cristiana. Ma Marco non è affatto frate. “È un giovanotto dall'aria scapestrata” affascinato dalle mercanzie orientali, che trascorre il tempo ascoltando i racconti dei marinai nelle osterie e corteggiando le giovani levantine 16.

Matteo e Niccolò pensano quindi di partire senza Marco, ma il ragazzo si imbarca clandestinamente; durante il viaggio rivela la sua abilità e il suo ingegno nel respingere un assalto dei Mamelucchi, e riesce a sventare l'assassinio di Halogu Khan smascherando il Vecchio della Montagna, capo della setta degli Ashish. I tre veneziani vengono ricevuti da Kublai con tutti gli onori. Marco apprende le lingue e la cultura dell'impero e Si guadagna quindi la stima del Gran Khan, che lo nomina ambasciatore. L'apprendimento delle lingue gli permette di fare amicizia con la principessa adottiva Kocacin, di cui Kublai è segretamente innamorato. Seguono altre disavventure durante le quali Marco continua a dimostrare il suo valore, riferendo le notizie apprese durante i suoi viaggi ad un Khan sempre più potente, ma sempre più malinconico. Ogni conquista, ogni nemico sconfitto lascia nell'imperatore del Catai un vuoto:

- Le cose della terra sono meravigliose... - dice Kublai, pensieroso, - ma quando un uomo è giunto al punto di poter dire: io le possiedo tutte, non c'è nessun genere di pietra preziosa o ricamo di seta o fiera in gabbia che io non possieda, allora è il momento che

15 Italo Calvino, Marco Polo, in Romanzi e racconti, edizione diretta da Claudio Milanini, a cura di

Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, vol. III, 1994, pp. 509-86.

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vorresti che tutte queste cose messe insieme formassero un disegno.17

Dopo anni di servizio alla corte del Khan, i tre veneziani si congedano. La partenza degli amati Polo, e soprattutto il dolore determinato dalla separazione con la principessa Kocacin, che viene data in sposa al re indiano Argon, inducono il Gran Khan al suicidio. La trama si conclude con il ritorno a Venezia, dove Matteo e Niccolò si godono le ricchezze trasportate con loro dall'Oriente, e con Marco che racconta le sue esperienze ai veneziani increduli. A causa della sua frenesia e dell'enfasi della sua narrazione, gli rifilano il soprannome di “Marco Milione” - che oggi viene di norma interpretato come forma contratta di “Emilione” 18:

Marco, nella calle, tiene dietro a una ragazza, e le sta raccontando qualcosa. - Ebbene, non immagini, nel Catai ce n'è un milione di volte di più.

Dalle finestre: - Sì, sì, milione! Sempre milioni! Il numero più basso che conosse xe il milion!

Marco al mercato. - Questa mussola... Ma sapete che al Catai c'è una mussola che qui varrebbe un milione di scudi la spanna!

Da tutti i banchi gli fanno il verso: - Milione! Milione! Marco! Milione! 19

Il progetto del film, come ricorda Bruno Falcetto, passa attraverso tre mani diverse. Al primo soggetto del regista Luigi Vanzi segue un testo della sceneggiatrice Suso

17 Ivi, p. 547.

18 Concorde con la versione di Calvino è invece quella dell'umanista Giovanni Battista Ramusio: “nel

continuo raccontare ch'egli faceva più e più volte della grandezza del Gran Cane, dicendo l'entrata di quello essere da 10 in 15 milioni d'oro, e così di molte altre ricchezze di quei paesi riferiva tutto a milioni, lo cognominarono «messer Marco Milioni»”, Delle navigationi et viaggi, Vol. II, Venezia, Giunti 1574.

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Cecchi d'Amico che delinea un diverso sviluppo della storia20. A questo punto del

processo subentra Calvino, il cui intervento è testimoniato da una lettera alla sceneggiatrice datata 2 settembre 1960 e contenente un'ampia sintesi della vicenda - ciò che in termini tecnici si definirebbe un “soggetto” - e una spiegazione delle novità apportate al progetto iniziale, a partire dal tipo di atmosfera che lo scrittore sperava di ottenere, fino ad uno studio preliminare sulla caratterizzazione dei personaggi:

Per raggiungere quel minimo d'eccitazione fantastica che mi mettesse in grado di funzionare, ho dovuto leggermi e rileggermi il Milione, anche là dove meno dà appiglio a un racconto, per imbevermi di quella carica visionaria che è il suo segreto […] Mi tengo alla struttura episodica della tua traccia, anzi ne accentuo in qualche punto la frammentazione in quadri. 21

Questa lettera è utile per cominciare a comprendere lo spirito con il quale Calvino ha tentato di attingere da quella “carica visionaria” per il suo lavoro, e per definirne lo stile adottato. I punti di riferimento sono la “struttura episodica” e, ovviamente, la rilettura del Milione.

La testimonianza contenuta nella lettera lascia intendere che non si tratterà di una vera e propria sceneggiatura, e questo si intuisce ancora meglio dalla lettura del testo. Utilizzare questo termine tecnico per definire il Marco Polo non è del tutto esatto. La forma della sceneggiatura prevede per lo più indicazioni sul come si deve muovere la macchina da presa, pertanto è caratterizzata da uno stile molto essenziale e impersonale.

20 Bruno Falcetto, Le cose e le ombre. “Marco Polo”: Calvino scrittore per il cinema in La visione

dell’invisibile. Saggi e materiali su “Le città invisibili” di Italo Calvino, a cura di Mario Barenghi,

Gianni Canova, Bruno Falcetto, Milano, Mondadori 2002, p. 63.

21 Italo Calvino, Lettere (1940-85), a cura di Luca Baranelli. Introduzione di Claudio Milanini, Milano,

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Inoltre in una sceneggiatura i dialoghi sono introdotti da didascalie dei personaggi, che nel testo di Calvino sono assenti. Le descrizioni, anche quelle relative allo stato d'animo di un personaggio, sono pure e semplici avvertenze per una realizzazione pratica. Per rappresentare una notte stellata d'estate, quindi, è probabile che su una sceneggiatura si legga “EXT-NOTTE”; per parlare di un personaggio sorpreso per una visione orrenda la sceneggiatura si limiterà a delineare l'espressione che dovrà assumere un attore con pochi aggettivi qualificativi che indichino spavento, incertezza. Con le dovute eccezioni, qualsiasi soggetto o traccia cinematografica presenta questo tipo di essenzialità.

Leggiamo invece l'incipit del Marco Polo:

1. LA PARTENZA

Una nave dall'Oriente

Il cielo, sul porto di Venezia, è uno sventolio di tutti i colori; le vele latine rosse e gialle, i fiocchi bianchi, le rande ammainate color rame, e in punta agli alberi fiamme e stendardi di tutte le nazioni della Cristianità e del Levante. Sopra ancora, sbattono le ali i gabbiani.22

Ogni sceneggiatura si compone convenzionalmente di un titolo di scena, descrizioni e dialoghi; questo tipo di struttura viene rispettata, potenziata però dall'attitudine narrativa dello scrittore. Fin dall'incipit si può notare uno stile particolare, percepibile in tutto il testo, col quale Calvino mantiene un compromesso tra la scrittura tecnica, finalizzata alla resa produttiva del film, e l'abilità descrittiva, finalizzata, in

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questo caso, alla resa delle immagini.

Calvino riprende a tal fine la forma del racconto adottata da Rustichello, strutturato in brevi paragrafi titolati da rubriche, che ne riassumono il contenuto. Prendiamo ad esempio un brano del Milione in cui si parla dei Nezariti, meglio conosciuti come “Setta degli Assassini”, e del loro capo, il “Veglio della Montagna”:

DEL VEGLIO DELLA MONTAGNA, E COME FECE IL PARADISO, E GLI ASSESSINI

Milice (Mulehet) è una contrada dove il Veglio della Montagna soleva dimorare anticamente. Or vi conteremo l'affare, secondo come messer Marco intese da più uomini. Lo Veglio è chiamato in lor lingua Aloodyn (Alaodin). Egli avea fatto fare tra due montagne in una valle lo più bello giardino e 'l più grande del mondo […]. Quivi era donzelli e donzelle, gli più belli del mondo e che meglio sapevano cantare e sonare e ballare; e faceva lo Veglio credere a costoro che quello era lo paradiso.23

La scrittura del Milione è caratterizzata da una concisione estrema, sia nella narrazione che nelle descrizioni, e da capitoli che si chiudono in maniera perentoria con formule conclusive che rimandano al capitolo successivo: “Or lasciamo qui e andiamo più innanzi”24; “Or lasciamo questo reame, e conteremo di una diversa gente ch'è lungi

da questa provincia dieci giornate”25.

Calvino ha avuto l’intuizione di parafrasare i capitoli del Milione adattandone la struttura. Le rubriche del Milione si traducono nel Marco Polo in didascalie che 23 Marco Polo, Il Milione, Prefazione di Maurizio Scarpari, versione trecentesca dell'«ottimo» a cura di

Daniele Ponchiroli, con versione in italiano moderno di Maria Vittoria Malvano, Torino, Einaudi 2005, p. 33.

24 Ivi, p. 34. 25 Ivi, p. 38.

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descrivono l'ambientazione di ogni scena. Anche l'utilizzo di periodi molto brevi rimanda allo stile dell'opera di Rustichello:

Il giardino di Allah

Marco apre gli occhi e si trova nel Paradiso. Le Urì, i suoni, i canti, i bagni nel laghetto. Lui è semivestito come gli Ashish, e intorno ci sono tanti altri giovani come lui, tutti estasiati, che passeggiano a braccetto magari con due ragazze alla volta. Marco invece, che ad andare in estasi pure lui di solito non è restio, qui l'aria estasiata ce l'ha ma stavolta si vede che resta sulle sue. Di tutte le belle cose che vede cerca subito il rovescio, il trucco, il fasullo; gli ci vuol poco a scoprire che quel passaggio è come uno scenario di teatro e quelle Urì tutto quel che fanno lo fanno per mestiere.26

A livello narrativo nulla si perde, e le informazioni fornite al lettore sono essenziali, presentate in maniera fotografica, ma sufficienti a dare un'idea dell'ambientazione. Paragrafi e rubriche vengono riproposti in una forma affine a quella della sceneggiatura cinematografica, composta di scene e relativi titoli. Si tratta di una strategia che Calvino aveva ideato per sperimentare una via di mezzo tra il cinema e la narrativa; secondo lui, infatti, il cinema e la letteratura presentano caratteristiche molto diverse sia per quanto riguarda il processo creativo, sia per i sentimenti suscitati nei lettori e negli spettatori:

Raccontare in letteratura e raccontare in cinema sono operazioni che non hanno nulla in comune. Nel primo caso si tratta di evocare delle immagini precise con delle parole necessariamente generiche, nel secondo caso si tratta di evocare dei sentimenti e

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pensieri generali attraverso immagini necessariamente precise.27

In Quattro domande sul cinema italiano, questionario proposto dalla rivista “Cinema Nuovo”, al quale risposero vari scrittori tra cui Anceschi, Ferrata, Pasolini, Fortini, Soldati, Calvino tenta di individuare una forma e una poetica filmica più congeniali al se stesso adulto e scrittore. Nella sua risposta Calvino distingue due approcci speculari, che concorrono nella stesura del Marco Polo. Nel brano citato sopra, in cui si parla del paradiso artificiale creato dal Vecchio della Montagna, Marco, dopo essersi travestito, si interroga su ciò che vede intorno a lui. Non viene descritta l'espressione del volto del personaggio, ma una sua peculiarità caratteriale, non funzionale ai fini della produzione, o per lo meno non esclusivamente. Un approccio simile è evidente in altri brani:

Un colpo di tosse alle sue spalle. C'è il Sultano di Samarcanda, coi due vecchi Polo. (Sono in visita dal Sultano e Marco si è allontanato come al solito per curiosare).28

Questo tipo di scrittura è utile per fornire una visione complessiva di ogni scena, ma affinché possa rivelarsi utile alla mansione del regista e degli attori, o di uno sceneggiatore che possa rielaborare un testo da sottoporre ad un regista, si dovrebbe cogliere il valore di alcuni dispositivi letterari utilizzati, come il discorso indiretto libero:

Ora tocca a Marco. Una volta che si è in gioco bisogna starci fino in fondo. Marco

27 Italo Calvino, Quattro domande sul cinema italiano (1961), in Saggi, 1945-1985, a cura di Mario

Barenghi, Milano, Mondadori 1995, p. 1920.

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prova a resistere. Ma come si fa? Ecco, da una finestra entra una bellissima farfalla. Marco per non guardare la ragazza segue il volo della farfalla. Ma la farfalla ora gira intorno alla ragazza. Marco cerca di guardare con lo stesso sguardo spassionato farfalla e ragazza: non sono in fondo la stessa cosa? 29

La ricerca di precisione delle immagini non procede attraverso descrizioni puntuali. Ciò che conta è rendere un'idea, dalla quale ricavare istantaneamente tutti i particolari inerenti all'immagine riprodotta:

Il falcone

Il Khan cavalca col leopardo sulla sella e il falcone in mano. Marco cavalca al suo fianco con un altro falcone.

Il falcone nell'aria, s'abbatte sulla preda, la riporta. Le varie fasi della caccia col falcone. 30

In questo caso, a Calvino interessa rivelare l'aura di regalità di cui il Gran Khan si fregia. Quello sulla rassegna delle fasi della caccia, ampiamente descritta nel capitolo LXXIX del Milione 31, è un lavoro da riservare ad uno sceneggiatore di professione.

L'evocazione di “sentimenti e pensieri generali”, richiesta secondo lo scrittore dal linguaggio cinematografico, viene così ottenuta attraverso immagini precise, suscitate dalle parole generiche del linguaggio letterario.

L'impiego di questo tipo di scrittura, caratterizzata da una peculiare attenzione per

29 Ivi, p. 544. 30 Ivi, p. 551.

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la ricostruzione mentale delle immagini, trova riscontro con quanto esposto in Visibilità, la quarta delle sei Lezioni americane:

L’esperienza della mia prima formazione è già quella d’un figlio della “civiltà delle immagini”, anche se essa era ancora agli inizi, lontana dall’inflazione di oggi.

[…] Il mio mondo immaginario è stato influenzato per prima cosa dalle figure del “Corriere dei Piccoli”, allora il più diffuso settimanale italiano per bambini. Parlo d’una parte della mia vita che va dai tre anni ai tredici, prima che la passione per il cinema diventasse per me una possessione assoluta che durò per tutta l’adolescenza.

[…] Passavo le ore percorrendo i cartoons d’ogni serie da un numero all’altro, mi raccontavo mentalmente le storie interpretando le scene in diversi modi, producevo delle varianti, fondevo i singoli episodi in una storia più ampia, scoprivo e isolavo e collegavo delle costanti in ogni serie, contaminavo una serie con l’altra, immaginavo nuove serie in cui personaggi secondari diventavano protagonisti. 32

Il legame con il mondo delle strisce a fumetti è particolarmente evidente in alcune scene del Marco Polo rappresentate esattamente come vignette. Tali risultano nella loro ricostruzione visiva e mentale, come in questa scena in cui Marco organizza un finto assassinio ai danni di Halogu Khan e subisce conseguentemente una esecuzione fasulla:

Indomani di sangue...

Nella reggia non si vedono che ombre. Halogu Khan è seduto al trono. Tutto si svolge in silenzio, solo uno zufolo non interrompe mai di suonare. Si vede l'ombra

32 Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, in Saggi, 1945-1985, a cura

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dell'Ashish Marco entrare di soppiatto, alzare il pugnale sul Khan, che cade a terra. Si alza l'ombra del catafalco del Khan con il popolo in lutto. L'ombra della mannaia s'alza sulla testa di Marco. Si riabbassa. 33

La successione delle azioni di questa scena è circoscritta a due ambientazioni differenti: la reggia di Halogu Khan e il patibolo sul quale si ritrova Marco. Di questi luoghi vengono evidenziati alcuni particolari da diversi punti di vista. Ma il meccanismo risulta ancora più evidente in un brano in cui Marco deve sfuggire a una proposta di matrimonio, nel quale la sagoma del personaggio viene riproposta in ambienti diversi:

Perplessità e decisione

Marco passeggia in lungo e in largo nel cortile. Marco passeggia in lungo e in largo nella locanda.

È sera. Marco passeggia in lungo e in largo nella sua stanza.

Dalla sua finestra, di notte, cala una corda. Marco scende giù per la corda, furtivo. Trova il suo cavallo, monta in sella, scappa via verso i confini del regno. 34

Il legame di Calvino con il cinema viene analizzato dettagliatamente da Vito Santoro, che in una monografia dedicata ripercorre l'attività dello scrittore dalle recensioni giovanili per “l’Unità” ai contributi critici degli anni Cinquanta per “Cinema Nuovo”, fino alla sua attività di soggettista.

Quanto detto nella lezione sulla visibilità è per Santoro il punto di partenza per 33 Calvino, Marco Polo, p. 537.

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delineare non solo la struttura episodica, organizzata, scrive lo studioso, “per nuclei narrativi, articolati tra loro secondo un «montaggio» molto simile a quello connotativo teorizzato da Ejzenštejn”35, ma anche per la ricostruzione mentale che entra in gioco

nelle scene vista sopra:

Attraverso questo concetto di «“cinema mentale” dell’immaginazione», di chiara matrice kantiana (fondato com’è sulla successione “categorie-immaginazione-sintesi trascendentale”), Calvino sottolinea il legame profondo intercorrente tra la natura dei mezzi cinematografici e la struttura del testo filmico da un lato e le categorie dello spirito umano dall’altro.36

La propensione per la ricostruzione mentale delle immagini si traduce, secondo Santoro, in un'avversione per la sceneggiatura tradizionale; nel momento in cui letteratura e cinema subiscono processi diametralmente opposti, il legame tra i due si potrà costituire soltanto se la letteratura si presenta come punto di partenza per la scrittura cinematografica:

Dunque, il cinema ha sempre esercitato su Calvino una fascinazione limitata pressoché esclusivamente alla sfera visiva: delle parole e dei dialoghi si può sempre fare a meno. Non c’è da stupirsi: la parola orale è sempre stata, per lo scrittore, portatrice di approssimazione e, in quanto tale, “disgustosa”.

Un racconto, buono o cattivo che sia – dichiara Calvino a Ferdinando Camon in un’intervista del 1973 – una volta che l’ho scritto, magari potrà non piacermi più, ma

35 Vito Santoro, Calvino e il cinema. Prefazione di Pasquale Voza, Macerata, Quodlibet 2012, p. 12. 36 Ivi, p. 13; la prima frase tra virgolette è una citazione di Calvino, Lezioni americane, in Saggi,

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continuo a portarmelo dietro, è qualcosa di definitivo, è scritto. Mentre gli interventi diciamo così teorici sono più dalla parte del parlato, hanno quel tanto d’approssimativo, d’effimero che è del parlato, comportano un certo disgusto che ho sempre avuto per la parola parlata: parlata da me, soprattutto. […] Solo se il discorso è figurato, indiretto, non riducibile a termini generici, a facilonerie concettuali, cosciente delle proprie implicazioni, ambiguità, esclusioni, solo allora dice veramente qualcosa, non mente. 37

Santoro si basa sul citato brano delle Lezioni americane e su quanto Calvino dichiara nelle interviste; tuttavia in Marco Polo l'attenzione alla sfera visiva non implica un'assenza di dialoghi, che occupano al contrario una parte consistente di tutta l'opera. I dialoghi non sono introdotti da didascalie dei personaggi come avviene nei copioni teatrali, ma sono riportati sotto forma di discorso diretto, esattamente come nei romanzi:

Nel prato, tra i pavoni, passa lento il Gran Khan. Fa finta di non vedere Marco e la ragazza, ma attraversa il prato proprio davanti a loro.

- Dove va? - dice Marco.

- Non so. Passeggia così, alle volte... dice Kocacin. - È triste?

- Non si può leggere nel cuore.

- Nessun uomo ha mai avuto un impero più grande, né ricchezze come le sue... E mogli così belle... Fossi io...

- Tu sei tu, lui è lui.

- Oh, se fossi lui, non sarei così saggio... Forse mai tanto potere e tanta saggezza si sono trovati nella stessa persona. E anche gusto della vita. Ha tutto...

- Nel tutto c'è il dolore.38

37 Ivi, p. 19.

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I dialoghi sono determinanti per la caratterizzazione dei personaggi; ad esempio per definire i profili di Niccolò e Matteo, gli unici tra i personaggi principali a parlare in veneziano. Le scene in cui intervengono i due mercanti si permeano di una, forse eccessiva, coloritura dialettale, che rimanda alla concitazione dei botta e risposta tipici della commedia dell'arte:

- Ostrega, presto, ti gai da vestirte da frae, no ghe tempo da perdar, il Gran Khan te vol vedar.

- Da frate?

- Da frae da frae, ciò, no xerimo intesi che te fazevi el frae? - Ma adesso che ho sgominato il Vecchio della Montagna... - Cossa ghentra? Ciapa sto saio, radite la crapa, ostrega! 39

Dei dialoghi, in questo caso, non si può fare a meno, risultano anzi fondamentali. L'avversione manifestata da Calvino per la parola parlata si rivolge per la precisione nei confronti della trascrizione dei dialoghi e della pubblicazione in volume delle sceneggiature cinematografiche. Santoro cita in merito una lettera a Michelangelo Antonioni, nella quale Calvino incentiva il regista a revisionare il materiale fornito ad Einaudi per la pubblicazione delle sue sceneggiature, al fine di documentare quanto di “non scritto” e di “non scrivibile” si deve alla pura intuizione cinematografica:

La tua parola è molto più essenzialmente cinematografica, cioè non affidata alla parola, ma all’immagine, al ritmo, ai silenzi. Come trovare l’equivalente di tutto questo

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in un libro? Un dialogo scritto, anche se non equivale a un dialogo rappresentato, può darne una qualche idea; così si dica per un momento cinematografico d’azione; ma un silenzio, una pausa, un momento di stasi o di moto, come renderli sulla pagina scritta? Qui ci vorrebbe lo scrittore che riempisse quello che tu hai lasciato all’immagine. Ma siccome questo lavoro di scrittore prima del film non c’è stato (e qui sta il tuo titolo di merito maggiore come regista: cioè che pensi per immagini, che non hai bisogno d’aver prima spiegato sulla carta quello che vuoi dire, ma sai farlo nascere dal libero contatto con le cose) per fare un libro l’unica cosa sarebbe che tu ri-raccontassi il film come l’hai visto e sentito facendolo. 40

La lettera è del 3 ottobre 1962. Per queste avvertenze Calvino doveva tener conto della sua esperienza pregressa. È infatti da alcuni brani di Marco Polo che si comprende chiaramente cosa Calvino intendesse quando parlava di “discorso figurato, indiretto […] cosciente delle proprie implicazioni, ambiguità”; quel tipo di discorso ottenuto dal “lavoro dello scrittore”, che potesse rendere i silenzi, le pause, i momenti di stasi e di moto in forma scritta.

Alcune particolari scene sono caratterizzate da descrizioni tese verso qualcosa di imprecisato. I verbi al condizionale suscitano attesa, ambiguità, irresolutezza:

Il paradiso degli uccelli

La carovana riposa. Marco dorme sotto un platano. Gli saltella vicino un uccello, un francolino, e fischia. Marco si sveglia e risponde al fischio. L'uccello saltella e si direbbe lo voglia guidare verso qualche luogo. Marco si alza. L'uccello vola via, no, ritorna.

40 Vito Santoro, Calvino e il cinema, p. 18. Per la lettera che Calvino scrive ad Antonioni cfr. Italo

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Marco segue il suo volo. Al francolino ora si è aggiunto un altro uccello, anzi due, più ci si inoltra in direzione di una valletta, più uccelli volano nell'aria, pavoncelle, cotornici. Su ogni ramo degli alberi ci sono uccelli che cantano, e nei laghetti appaiono gru e fenicotteri di diversi colori, e per i prati passano fagiani bianchi. Marco è lì che guarda, attento, tranquillo.

Si direbbe che stia per succedere qualcosa. Invece non succede niente. Cala il sole. Marco attraversa il prato. Si allontana.

Il volo di qualche uccello lo accompagna per un poco, poi si disperde. 41

Una sequenza del genere può essere riportata, nella maggior parte delle trasposizioni cinematografiche, come scena paesaggistica, ma sarebbe difficile ottenere di più. È solo leggendo il testo che si comprende in che modo Calvino realizzi il compromesso tra scrittura per il cinema e scrittura per la letteratura.

La similitudine utilizzata da Monicelli, che parla di “arazzi persiani” per definire le sequenze del Marco Polo, potrebbe far pensare alla semplice suggestione derivante dalla lettura di un racconto di ambientazione esotica, effetto che Calvino comunque voleva ottenere per attenersi alla sensibilità del regista Vanzi42. Tuttavia il paragone con

questa determinata tecnica di rappresentazione artistica è perfettamente calzante per descrivere il modo con il quale le varie “scene” acquisiscono tutta la visibilità e il dinamismo necessario, seppur nella loro brevità.

Una delle scene che si presta bene alla definizione di Monicelli è quella in cui Marco, alla corte del Gran Khan, riporta gli esiti delle sue ambasciate:

La relazione al Gran Khan

41 Ivi, p. 527.

42 Intenzione espressa nella già citata lettera a Suso Cecchi D'amico del 1960, in Lettere (1940-85), p.

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Tornato alla corte del Gran Khan, Marco riferisce a Kublai sui paesi che ha attraversato, e mostra i frutti, le merci, i preziosi, che ha portato dal suo viaggio. Non ne udiamo le parole, ma lo vediamo raccontare con il calore che gli è proprio. Il Khan, che lo ascolta nutrendo i suoi falconi, sorride, pieno di curiosità. 43

1.2. L'esperienza dello spettatore

La percezione determinata dai brani fin qui citati è assimilabile all'esperienza provata da uno spettatore: il lettore subisce il punto di vista della macchina da presa, apparentemente, senza filtri; ne segue le inquadrature, i movimenti, i tagli, e allo stesso tempo può cogliere l'atmosfera generale di tutta la scena.

Inoltre, grazie all'impersonalità della scrittura-cinema, non si avverte la presenza della voce narrante. Raramente viene utilizzata la prima persona plurale - con formule del tipo “vediamo”, “udiamo” - al fine di mettere in primo piano il punto di vista del lettore. È come se anche Calvino volesse diventare, insieme a chi legge, spettatore di ciò che scrive; esigenza, quella di ricoprire il ruolo di “puro spettatore”, esplicitata in

Autobiografia di uno spettatore, scritto pubblicato nel 1974 come prefazione alla

raccolta di sceneggiature felliniane Quattro film, nel quale lo scrittore spiega come la sua “erudizione cinematografica” fosse appunto da spettatore, e non “da specialista”44.

Calvino ripercorre “le tappe del proprio rapporto con il cinema, soffermandosi in particolare sulle suggestioni ricevute durante l'adolescenza”45:

43 Marco Polo, p. 555.

44 Italo Calvino, Autobiografia di uno spettatore, in Romanzi e racconti, edizione diretta da Claudio

Milanini, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, vol. III, 1994, p. 38.

45 Virginia Di Martino, “La storia della nostra vita”. Autobiografia di uno spettatore di Italo Calvino,

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Autobiografa di uno spettatore […] rappresenta un'occasione estremamente interessante per indagare l'apporto dell'universo cinematografico nei confronti della genesi dell'immaginario calviniano. Fra queste pagine Calvino disegna la propria storia di spettatore sovrapponendo le prospettive della visibilità a quelle della scrittura in prima persona. 46

Da questo “racconto-saggio”47 risultano alcuni concetti utili per contestualizzare in

maniera più accurata l'analisi di Marco Polo. Calvino ricorda in che modo il cinema rispondesse a “un bisogno di distanza, di dilatazione dei confini del reale”48, un bisogno

di distinguere un “mondo dentro lo schermo illuminato nella sala buia”, e un “altro mondo eterogeneo separato da una discontinuità netta”49; distinzione che si può

comprendere soltanto nel momento in cui si esce fisicamente dal cinema.

L'abitudine italiana di doppiare i dialoghi rientra tra quegli aspetti funzionali ad esaudire questo bisogno. Un film che parla la propria lingua, diversa da quella usata quotidianamente dallo spettatore, è un film che, più di quelli doppiati, può rispondere a questa esigenza di discontinuità tra il mondo interno della sala e quello esterno; tuttavia è forse “un bene che il doppiaggio sia eseguito in una lingua di fatto inesistente, in quell'italiano che «non aveva rapporti con nessuna lingua parlata del passato o del futuro», e che meglio può preservare, nella sua convenzionalità, la magia dell'alterità”50.

Se Calvino è riuscito a interpretare la sua scrittura cinematografica in maniera del tutto indipendente e personale è probabilmente grazie a questa necessità di distanza.

46 Maria Rizzarelli, Sguardi dall’opaco. Saggi su Calvino e la visibilità, Acireale-Roma, Bonanno 2008,

p. 97.

47 Ibidem.

48 Calvino, Autobiografia di uno spettatore, p. 41. 49 Ibidem.

50 Di Martino, “La storia della nostra vita”, pp. 92-93; le frasi tra virgolette sono citazioni di Calvino,

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Calvino si attiene sempre ad una distinzione tra cinema e letteratura, che devono muoversi in un rapporto propedeutico, di successione tra loro. In quanto scrittore, non aspira ad un intervento diretto nel mondo del cinema, “in linea a ciò che è indiretto, mediato, distante” ma “dichiara il proprio desiderio di venire, più che «tradotto» dalla pagina allo schermo, plagiato dal cinema” 51:

Calvino si augura, dunque, che la propria opera diventi un serbatoio di immagini e temi […] Più che un rispecchiamento diretto, viene espresso il desiderio di un gioco di allusioni, di richiami schermati e indiretti: forse un augurio che tenta di esorcizzare la sensazione di angoscia claustrofobica suscitata da un cinema troppo esplicitamente vicino. 52

L'atteggiamento degli intellettuali nei confronti del cinema cambia con la caduta del fascismo. Oltre alla frequenza con la quale gli scrittori si accostano al mondo del cinema, subentra l'impegno da parte degli intellettuali, che utilizzano il cinema come strumento per illustrare la realtà:

Nel dopoguerra Calvino non è più lo spettatore “puro” dell'adolescenza e, anche se, a differenza di molti suoi compagni di mestiere, non oltrepassa mai la linea di demarcazione che separa il territorio della letteratura da quello del cinema e conserva sempre nei confronti della decima musa una posizione dilettantesca, la vicinanza fra i due universi capovolge totalmente il rapporto con le figure del grande schermo.53

51 Ivi, pp. 100-101. 52 Ibidem.

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Il distacco dal mondo dello schermo è direttamente proporzionale al distacco da mantenere con la realtà circostante, con il mondo fisico fuori dalla sala. “Lo schermo non è più una porta aperta su mondi altri, piuttosto «una lente d'ingrandimento posata sul fuori quotidiano». Perduta la magia dell'altrove, il cinema diventa strumento, tra gli altri, funzionale alla decodifica della società circostante”54, ma secondo lo scrittore una

situazione del genere si pone in netto contrasto con la sua esperienza di puro spettatore:

Nel secondo dopoguerra il cinema ha cessato di essere quell'altrove di sogno in cui […] lo scrittore amava rifugiarsi. Ora il cinema è il luogo in cui vengono messi in scena i problemi collettivi della nazione, prospettandone o invocandone una soluzione. E la critica è chiamata ad intervenire e a schierarsi con una passione tutta ideologica. […] I film si tagliano con l'accetta e se ne valuta il contenuto, secondo quella metodologia ideologico-valutativa, peculiare della critica marxista militante, organica al Partito comunista italiano. 55

Lo scrittore si esprime dettagliatamente sulla distinzione tra politica e letteratura, concepiti come due metodi opposti per trattare la realtà circostante, in una conferenza tenutasi ad Amherst, negli Stati Uniti, nel 1976.

Il dattiloscritto della conferenza è edito con il titolo Usi politici giusti e sbagliati

della letteratura. Dalla definizione del ruolo che Calvino attribuisce alla letteratura in

questo scritto si può comprendere in che modo l'ambiguità e l'incertezza ricercata in una certa produzione calviniana non siano riconducibili a fini esclusivamente estetici:

La mia generazione potrebbe essere definita come quella che ha cominciato a

54 Di Martino, “La storia della nostra vita”, p. 98; le frasi tra virgolette sono citazioni di Calvino,

Autobiografia di uno spettatore, p. 41.

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occuparsi di letteratura e di politica allo stesso tempo.

Negli ultimi anni invece mi è capitato spesso di preoccuparmi di come vanno le cose politiche e di come vanno le cose letterarie, ma quando penso alla politica penso solo alla politica e quando penso alla letteratura penso solo alla letteratura.

[…] Ma a un livello più profondo, sono consapevole che il nodo di rapporti tra politica e letteratura contro il quale abbiamo inciampato nella nostra gioventù non è ancora sciolto; nei suoi resti sfilacciati e logori ancora s'impigliano i nostri passi.56

Lo scrittore prende in esame la passione ideologica con la quale vengono esposti i problemi della nazione; approccio sottoposto, dalla fine degli anni Sessanta, alla critica radicale della nuova avanguardia, che “attaccò e contestò la narrativa italiana accusandola d'essere sentimentale, antiquata, ipocritamente consolatoria”.57 Questo

atteggiamento consolatorio è per Calvino “un segno d'autolimitazione, di ristrettezza d'orizzonti, d'incapacità di vedere la complessità delle cose”58. Ciò a cui devono tendere

gli artisti, infatti, non è l'imposizione di un codice di valori precostituiti, di una verità già data, ma un cambiamento degli schemi mentali da ottenere in maniera indiretta, proponendo nuovi modelli di visione e di immaginazione:

La letteratura è necessaria alla politica prima di tutto quando essa dà voce a ciò che è senza voce, quando dà un nome a ciò che non ha ancora un nome, e specialmente a ciò che il linguaggio politico esclude o cerca d'escludere.

[…] C'è anche un altro tipo d'influenza […] cioè la capacità d'imporre modelli di linguaggio, di visione, d'immaginazione, di lavoro mentale.

56 Italo Calvino, Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, in Saggi, 1945-1985, a cura di Mario

Barenghi, Milano, Mondadori 1995, pp. 351-52.

57 Ivi, p. 353. 58 Ivi, p. 354.

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[…] Se un tempo la letteratura era vista come specchio del mondo, o come una diretta espressione di sentimenti, ora noi non riusciamo più a dimenticarci che […] ciò che i libri comunicano resta talvolta inconscio allo stesso autore, che i libri dicono talvolta qualcosa di diverso da ciò che si proponevano di dire 59

In Usi politici giusti e sbagliati della letteratura Calvino non fa altro che ribadire, in maniera più articolata, l'avversione, già dimostrata in Autobiografia di uno spettatore, per i modelli proposti dal cinema d'autore degli anni Sessanta, e in particolare per la caricatura dei comportamenti sociali che caratterizza tutta la produzione media del cinema di quegli anni, ritenuta detestabile per la pretesa di essere spietata, quando si rivela in realtà “compiaciuta e indulgente”.60

Attribuisce invece “qualità costante e originalità stilistica” al genere del western all'italiana, da lodare per “il rifiuto della dimensione in cui il cinema italiano s'era affermato e fermato” e per il tentativo di costruire “uno spazio astratto, deformazione parodistica d'una convenzione puramente cinematografica”61. Se prestiamo attenzione al

lessico utilizzato per le didascalie di alcune scene di Marco Polo, risulta più evidente l'influenza di questo tipo di produzione in Calvino spettatore. Questo vale, ad esempio, per la scena della finta esecuzione di Marco Polo: il titolo Indomani di sangue può suggerire un richiamo ad una certa tradizione del genere western.

L'attenzione di Calvino però si riversa per lo più sulla produzione americana, “sia per le forme semplici dei dispositivi narratologici (più ‘divertenti’ dei film neorealisti) che possono essere decostruiti nei loro elementi di base, che per quella fruizione spettacolare che imparenta il film ad altre forme di arte popolare”62.

59 Ivi, pp. 358-60.

60 Calvino, Autobiografa di uno spettatore, pp. 42-43. 61 Ivi, p. 43.

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La scrittura del Marco Polo punta a nascondere la figura del narratore. Il lettore-spettatore si identifica con l'occhio del regista, o direttamente con la macchina da presa. A questo proposito Santoro evidenzia un passaggio significativo della riflessione di Calvino sul finale del film di Antonioni L'eclisse (1962):

Nel finale del film, il personaggio si dissolve, sostituito dalla macchina da presa, cioè dall’occhio del regista, che osserva il luogo dell’appuntamento dei due amanti e gli elementi che lo caratterizzano, decontestualizzati dal circuito emotivo della protagonista, in un lirico susseguirsi di immagini: ne deriva quello che Calvino definisce molto acutamente “un cinema dell’occhio puro” che è proprio il contrario del romanzo del puro

regard: qui ogni cosa appare nella pienezza dei suoi significati storico-sociali63

A proposito di Fellini, invece, Calvino evidenzia la costante “forzatura dell'immagine fotografica”. È sempre “avendo in mente una rappresentazione ben precisa come punto di partenza” che il regista può “trovare la sua forma più comunicativa ed espressiva”.64

E proprio in questa traiettoria risiede la funzione conoscitiva del cinema, cioè la capacità di dare allo spettatore “una forte immagine” dell’esterno e del lontano e, al contempo, di forzare lo spettatore stesso a scrutare la propria interiorità e la propria esistenza quotidiana. Dunque nella capacità di operare un rapporto dialettico tra lontananza e vicinanza. Ed è in fondo quello che Calvino chiede alla letteratura e al cinema.65

2017), p. 86.

63 Santoro, Calvino e il cinema, p. 50.

64 Calvino, Autobiografia di uno spettatore, p. 47. 65 Santoro, Calvino e il cinema, p. 52.

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La stesura della sceneggiatura è stata dunque per Calvino un'occasione per soddisfare il sentimento della distanza, per ritrovare la sua condizione di puro spettatore, per cimentarsi nella ricerca di un cinema dell'occhio puro e per nascondere la presenza del narratore; operazione che può essere paragonata a quella sondata, sul fronte della produzione romanzesca, in Se una notte d'inverno un viaggiatore (1979). La caratteristica principale di questo romanzo è costituita dalla rottura della finzione narrativa a favore della concreta esperienza del lettore, che viene esplicitamente chiamato in causa fin dalle prime righe del romanzo: “Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d'inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero”66. La soggettività dell'autore, in

quest'opera, viene posta in secondo piano rispetto all'importanza attribuita al lettore. Lo scrittore Silas Flannery arriva a desiderare di sparire, di annullarsi:

Come scriverei bene se non ci fossi! Se tra il foglio bianco e il ribollire delle parole e delle storie che prendono forma e svaniscono senza che nessuno le scriva non si mettesse di mezzo quello scomodo diaframma che è la mia persona!67

Calvino si confronta con le teorie diffuse dallo strutturalismo di Roland Barthes negli scritti Scrivere verbo intransitivo (1966) e La morte dell'autore (1968): “ho letto in un libro che l'oggettività del pensiero si può esprimere usando il verbo pensare alla terza persona singolare […]. Solo quando mi verrà naturale d'usare il verbo scrivere all'impersonale potrò sperare che attraverso di me s'esprima qualcosa di meno limitato 66 Italo Calvino, Se una notte d'inverno un viaggiatore, in Romanzi e racconti, edizione diretta da

Claudio Milanini, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, vol. II, 1992, p. 613.

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che l'individualità del singolo”68 . Alla fine l'annullamento del soggetto autoriale non si

realizza, sia perché il personaggio di Silas, colto alla sprovvista dalla notizia di un plagio, è costretto a ritrattare il suo desiderio, sia perché nel romanzo si percepisce inevitabilmente la presenza dell'autore Calvino, proprio a causa dell'esplicito richiamo al lettore. Sarebbe stato comunque molto difficile ottenere, in un'opera di narrativa, la prospettiva offerta nel Marco Polo, nel quale l'autore comunque non si annulla, ma assume lo stesso punto di vista del lettore e dello spettatore; la mancata realizzazione del progetto di Vanzi non ha permesso l'approfondimento di questa prospettiva. Marco

Polo è finito nel dimenticatoio, e lo stesso Calvino non lo ha più considerato:

Io sono entrato presto nel mondo della carta scritta, che lungo qualche suo margine confina col mondo della celluloide. Oscuramente ho subito sentito che, in nome del mio vecchio amore per il cinema, dovevo preservare la mia condizione di puro spettatore, e che ne avrei perso i privilegi se fossi passato dalla parte di quelli che fanno i film: non ebbi, d'altronde, mai la tentazione di provare. 69

1.3. La scrittura per immagini

L'opera di Rustichello è un'enciclopedia geografica e antropologica, un resoconto di viaggi basato essenzialmente su una disamina di città e culture. Non c'è una trama vera e propria, ma una storia da individuare e ricostruire.

Oltre che per la struttura in brevi paragrafi, Il Milione è anche un modello per la scrittura per immagini. Un adattamento della storia di esplorazioni offerta nel Milione non sarebbe stata funzionale per un film. Calvino sceglie di focalizzarsi solo su alcuni 68 Ivi, p. 784.

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tra gli innumerevoli viaggi di Marco nel capitolo dedicato alle ambasciate per conto di Kublai Khan:

Ambascerie di Marco: (possono essere anche sketch molto brevi, visioni documentarie, o veri e propri episodi, da spunti del Milione, ma ci si mette quelli che si vuole)

a Cangiu, paese dove vige l'iniziativa femminile;

a Camul, dove l'ospitalità impone ai mariti d'andarsene e lasciare le mogli con i forestieri;

a Caragian, paese dei coccodrilli, e dove per monete si usano conchiglie.70

Peraltro il resoconto dei viaggi è intervallato da un ritorno a corte con la relazione al Gran Khan, episodio introdotto per alleggerire il ritmo della narrazione. Anche i singoli viaggi si intersecano tra loro – a simulare un'operazione di montaggio – per poi concludersi con il rientro finale di Marco, che porta doni a Kublai, Kocacin e i due vecchi Polo:

Marco diventa triste. - Il mio vento mi riporta lontano. Devo ripartire in ambasceria. Domani all'alba.

Le conchiglie marine

Cavalcando sulla riva del mare, nello Yu-nan, Marco vuole scendere sulla spiaggia. Raccoglie delle conchiglie, come per gioco.

Entrando in un paese, regala una conchiglia a una bambina che sta su un uscio. Esce

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la madre, e gli dà un capretto e in più alcune conchiglie più piccole.

[…] Marco è sempre più sbalordito, ma capisce quando vede, nel mercato, che lì le conchiglie sono usate comunemente per moneta. […]

La montagna dei diamanti

Marco, nelle montagne dell'Indostan, giunge al paese dei diamanti e viene guidato a vedere come i cercatori di diamanti riescono a procurarseli. […]

La caccia al coccodrillo

Nello Yu-nan, allarme per il coccodrillo.

Marco partecipa a una battuta di caccia al coccodrillo.

I doni

Un coccodrillo catturato viene presentato da Marco a Kublai Khan. A Kocacin, Marco cinge il collo d'una collana di diamanti.

Ai due vecchi egli porta delle conchiglie. Quelli, spazientiti, fanno il gesto di buttarle via. Marco gesticola come spiegasse che no, che sono moneta corrente. I due vecchi non gli danno retta.71

La sequenza dedicata alle ambasciate segue lo schema previsto dall'appunto inviato a Cecchi D’Amico. La scelta di Calvino è diretta alla composizione di un insieme di episodi visivamente efficace, che possa rendere l'idea di una successione incessante di

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viaggi e scoperte, e dell'alternanza dei luoghi visitati. È evidente la volontà di scandire il ritmo della narrazione e di arricchire la caratterizzazione dei personaggi, ma l'insistenza sembra orientarsi per lo più sulla potenzialità visiva del racconto.

L'esigenza della resa visiva delle immagini accompagna lo scrittore fino alla fine della sua produzione:

La nostra vita è programmata per la lettura e m'accorgo che sto cercando di leggere il paesaggio, il prato, le onde del mare. Questa programmazione non vuol dire che i nostri occhi siano obbligati a seguire un istintivo movimento orizzontale da sinistra a destra, poi di nuovo a sinistra un po' più in basso e così via […] Leggere, più che un esercizio ottico, è un processo che coinvolge mente e occhi insieme, un processo d'astrazione o meglio un'estrazione di concretezza da operazioni astratte, come il riconoscere segni distintivi, frantumare tutto ciò che vediamo in elementi minimi, ricomporli in segmenti significativi. 72

In Mondo scritto e mondo non scritto Calvino individua nel processo descrittivo la “prima operazione per rinnovare un rapporto tra linguaggio e mondo”73. Per Calvino la

lettura non è solo una facoltà percettiva; è il linguaggio a determinare la realtà fisica, pertanto la lettura del mondo e la sua descrizione sono per l'uomo una caratteristica antropologica.

Il fine dell'efficacia visiva della narrazione viene perseguito cercando di attribuire alla descrizione un valore complementare a quello del racconto:

Il mio interesse per le descrizioni è dovuto anche al fatto che l'ultimo mio libro,

72 Italo Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, in Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano,

Mondadori 1995, p. 1871.

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Palomar, comprende parecchie descrizioni. Cerco di fare in modo che la descrizione diventi racconto, pur restando descrizione. In ognuno di questi miei brevi racconti, un personaggio pensa solo in base a ciò che vede e diffida d'ogni pensiero che gli venga per altre vie.74

Palomar viene citato dallo stesso Calvino come dimostrazione del fatto che l'uomo

è programmato per leggere.

Come evidenziato sopra, Calvino insiste sulla netta distinzione tra scrittura letteraria e scrittura cinematografica. Palomar viene considerato da Emanuele Zinato il punto d'incontro tra le due forme. Secondo Zinato il “cocciuto divorzio fra scrittura e cinema può sembrare davvero imprevisto e stravagante”75, ma dobbiamo ricordare che

Calvino era consapevole della differenza sostanziale tra la produzione di uno sceneggiatore e quella di uno scrittore, come si evince dalla lettera ad Antonioni, e insiste sulla distinzione a ragion veduta.

Per Zinato, Calvino non sarebbe riuscito a dar seguito alle intuizioni avute durante la sua carriera di critico proprio a causa di questa distinzione ostinata; considerando però l'esperimento del Marco Polo si può riconoscere il tentativo di unire cinema e letteratura, anche se in una forma ambigua tra il racconto e la sceneggiatura.

L'esempio di Palomar rappresenta comunque un importante punto di arrivo per la vocazione visiva dello scrittore, ed è un riferimento utile da confrontare con l'esperienza calviniana di spettatore e critico di cinema:

La vista è per Calvino il senso galileiano della distanza critica che percependo le superfici delle cose si identifica con la conoscenza intellettuale.

74 Ivi, p. 1873.

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Questo progetto – che è sensato pensare abbia, per ipotesi, la sua lontana origine reattiva nell’esperienza adolescente e voyeuristica di spettatore cinematografico – trova un suo estremo compimento in Palomar, uscito nel 1983. 76

Secondo Zinato, Palomar rappresenta l'estremo compimento di un “programma pedagogico”77 che trova la sua spinta iniziale nell'esperienza del Calvino spettatore, il

quale, tuttavia, “nonostante le acute osservazioni su L’avventura di Antonioni, non sa teorizzare il «cinema moderno» con il suo proliferare di specchi, di doppi, di personaggi riflessivi più che attivi”78

Per definire il Marco Polo, nell'appunto inviato a Cecchi D’Amico, Calvino parla di “documentarismo”:

Quello su cui dobbiamo puntare è lo spettacolo delle meraviglie del mondo come poteva esser concepito in un tempo in cui il mondo era sconosciuto […]. Mi tengo alla struttura episodica della tua traccia, anzi ne accentuo in qualche punto la frammentazione in quadri, insomma punto su una specie di documentarismo della fantasia visionaria esotizzante, che penso si adatti alla sensibilità di Vanzi.79

L'interesse di Calvino per il documentario si concretizza nella stesura del testo di

America paese di Dio, realizzato nel 1966 e diretto proprio da Luigi Vanzi. Il

documentario racconta l'America “dal punto di vista sociale e politico sullo sfondo dell’immaginario mitico che ha contribuito a costruirne l’identità.” 80 America paese di

76 Ivi, p. 89. 77 Ivi, p. 90.

78 Zinato, L'occhio del signor Palomar, p. 91. 79 Lettere (1940-85), p. 658.

80 Giada Del Debbio, Calvino e gli Stati Uniti: dal Diario americano a America paese di Dio, Tesi di

Laurea Magistrale, Università di Pisa, relatrice Prof.ssa Angela Guidotti, correlatore Prof. Vinicio Pacca, 2018, p. 85.

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Dio rappresenta un punto cardine per l'esperienza cinematografica dello scrittore, e

presenta anche molte associazioni tematiche con Le città invisibili.

Calvino si occupa della stesura del testo della voice over che accompagna le immagini del film, mantenendo il suo ruolo di spettatore:

Nel documentario, Calvino gioca con il proprio ruolo di spettatore, che si adatta perfettamente all’esperienza del viaggio in America e rappresenta del resto un tratto fondamentale di tutta la sua opera come scrittore. La sua scrittura è immaginativa, procede per vividi scorci, crea colori e forme nella mente del lettore. Nel caso del documentario, lo stesso processo si sviluppa per così dire in direzione inversa: ciò che è dato allo spettatore del documentario sono le immagini, con i significati che esse rivestono di per sé. Tuttavia, Calvino non le lascia parlare da sole, non si limita a fotografare. Aggiunge un impianto di analisi che, a volte solo attraverso qualche parola, cambia anche risolutamente le tinte e i colori delle immagini, coniugando la realtà fotografata ad una forma di spiegazione.81

Il compito di Calvino è quello di commentare immagini già realizzate, ma rimane evidente il punto di vista dello scrittore, la riflessione della sua interiorità:

L’interpretazione, filtratissima, è quella ben determinata che ne dà Calvino, come individuo e come viaggiatore, in un preciso momento storico. Il documentario non parla dunque solo dell’America, ma parla dell’America vista da Calvino; quindi, in ultima analisi, parla di Calvino che vede l’America. 82

81 Ivi, p. 86. 82 Ivi, p. 87.

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La scrittura per immagini infatti non consiste in una semplice lettura, né si basa su una descrizione scontata e realistica. Calvino rimane fedele, anche in un documentario, alla capacità dell'immagine felliniana di forzare lo spettatore a scrutare la propria interiorità:

Ciò che il cinema dà adesso non è più la distanza: è il senso irreversibile che tutto ci è vicino, ci è stretto, ci è addosso. E questa osservazione ravvicinata può essere in un senso esplorativo-documentario o in un senso introspettivo, le due direzioni in cui possiamo definire oggi la funzione conoscitiva del cinema. Una è quella di darci una forte immagine d'un mondo esterno a noi che per qualche ragione oggettiva o soggettiva non riusciamo a percepire direttamente; l'altra è quella di forzarci a vedere noi stessi e il nostro esistere quotidiano in un modo che cambi qualcosa nei nostri rapporti con noi stessi. 83

Può destare sorpresa il fatto che non ci siano molti lavori critici dedicati al rapporto tra senso documentario e senso introspettivo rapportati al cinema in Calvino 84, ma può

essere utile, per comprendere in che modo la visibilità calviniana si rapporti al suo senso introspettivo, l'analisi delle didascalie ai quadri dell'artista Cesare Peverelli per la mostra L'atelier de l'artiste, tenutasi a Parigi nel 197685. Il taccuino di Calvino registra

la composizione delle didascalie con il titolo “ALTRE CITTÀ per Peverelli”:

83 Calvino, Autobiografia di uno spettatore, pp. 43-44.

84 “Il lavoro critico più noto sulla ‘visibilità’ calviniana è quello di Belpoliti, L’occhio di Calvino (1996).

Ed è assai sintomatico che nel terzo capitolo, dal titolo Occhio all’opera – in cui Belpoliti intende ripercorrere l’interesse di Calvino per l’arte, la fotografia, la pittura e il cinema – ,vi siano paragrafi dal titolo Fotografia, Pittura e Collezione e il cinema sia invece assente”, Zinato, L'occhio del signor

Palomar, p. 87.

85 Note e notizie sui testi, in Romanzi e racconti, edizione diretta da Claudio Milanini, a cura di Mario

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