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Le finanze del Granduca. "Costituzione fiscale" e politiche finanziarie dello Stato toscano sotto gli ultimi Medici e la Reggenza lorenese (1670-1765)

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di laurea in Storia e Civiltà

Tesi di laurea magistrale:

La finanze del Granduca tra ultimi Medici e

Reggenza lorenese (1670-1765).

Un caso di studio sulla “costituzione fiscale” di un “piccolo Stato”

italiano attraverso le categorie di “Fiscal-Military State” e di

“Stato interventista”

RELATRICE

Prof.ssa Antonella Alimento

CONTRORELATORE

Prof. Andrea Addobbati

CANDIDATO

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Introduzione

1.

Dallo Stato Moderno al “Fiscal-Military State”: prospettive di ricerca sullo Stato in Età Moderna

1.1 L’origine dello Stato e il suo sviluppo nella storiografia tradizionale

1.1.1 La storia dell’accentramento politico nella storiografia dello “Stato Moderno” e dello “Stato assoluto”

1.1.2 La formazione degli Stati: State-Building e regime-change

1.2 La novità del “Fiscal-Military State”

1.2.1 Il dibattito sulla “Military Revolution” 1.2.2 La rivoluzione moderna nella finanza

1.2.3 Il “Fiscal-Military State” nella versione di John Brewer

1.3 La fortuna del Fiscal-Military State

1.3.1 La “New Fiscal History”

1.3.2 L’estensione spaziale e temporale della categoria

1.4 Critiche e nuove categorie: verso lo “Stato interventista”

2.

Piccolo Stato e “Antichi Stati italiani”: specificità e problemi comuni

2.1 Il “piccolo Stato” in Età Moderna

2.2 Il “piccolo Stato” in Italia: Stati territoriali, potentati, “antichi Stati italiani”

2.2.1 La discussione storiografica fino al secondo Dopoguerra

2.2.2 Alle radici della statualità: “Stato moderno”, pluralismo politico e “Stato regionale” nell’Italia della Prima Età Moderna

2.3 Lo questione delle riforme e la “cesura” settecentesca: periodizzazioni a confronto

3.

Il caso della finanza pubblica toscana tra pluralismo istituzionale e controllo

centralizzato, 1670-1765

3.1 Le imposte del Granducato e il loro sviluppo tra Cinquecento e Seicento 3.2 Al centro delle molteplici casse toscane: il ruolo della Depositeria generale 3.3 Sindaci e Soprassindaci: controllori delle finanze per conto del Granduca

4 . Gli ultimi Medici

tr

a decadenza, stabilità

e innovazione della finanza pubblica

(1670-1737)

4.1 Il dibattito storiografico sulla fase tardo-medicea

4.2 Il controllo dei bilanci comunitativi: le entrate dei Nove conservatori (1665-1737) 4.3 “I Popoli hanno a rassettare le strade, e non i particolari”: la spesa pubblica fra imputazioni di spesa alle comunità e pagamenti della Depositeria generale

(4)

4.3 Le entrate ordinarie: ipotesi per una “costituzione fiscale” del Granducato tardo-mediceo 4.4 Il porto di Livorno: riforma doganale, interessi mercantili, proventi per il sovrano (1670-1737)

4.5 La stretta su regalie e privative e la repressione del contrabbando: l’esempio della Gabella del Sale

4.6 Imposizioni straordinarie e debito pubblico (1692-1726): una logica innovativa all’interno di strumenti tradizionali

5 . Le politiche finanziarie della Reggenza lorenese tra continuità ed elementi di

rottura (1737-1765)

5.1 L’avvento dei Lorena: culture di governo ed esperienze amministrative a confronto

5.1.1 La successione lorenese: diverse prospettive e contrasti tra lorenesi, causa imperiale e oligarchia fiorentina

5.1.2 La “gelosia” lorenese della sovranità

5.1.3 Una nuova cultura di governo tra spinte accentratrici e apertura al confronto

5.1.4 L’organizzazione dell’amministrazione finanziaria dei Lorena: novità istituzionali al di sopra delle vecchie magistrature

5.2 La strategia dell’Appalto

5.2.1 Il diffuso ricorso agli appalti: bisogno di liquidità e lotta alle frodi

5.2.2 La parabola dell’Appalto generale: interessi privati, accentramento gestionale e stretta del potere sovrano sui proventi politica ed evoluzione dei contratti

5.2.3 I conti degli appaltatori (1741-1768): profitti, perdite, versamenti alla Depositeria

5.3 “Fare lo stato di tutte le finanze”: budget e bilanci generali dello Stato

5.3.1 Dal primo bilancio dello Stato alla finanza di guerra (1738-1739)

5.3.2 La ricerca del «bon ordre» delle finanze sotto il maresciallo Botta Adorno: dalla Commissione Richard (1759) all’ultimo bilancio della Reggenza (1765)

6 . Spunti di ricerca per uno “Stato interventista”: strade, regimazione fluviale,

progettazione urbanistica

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INTRODUZIONE

La storia dell’Europa Moderna ha da sempre avuto un legame molto forte con la problematica dell’origine e dello sviluppo dello Stato. In molte occasioni, questa particolare forma di organizzazione del potere politico è stata indicata come uno dei punti di forza che consentì alle principali potenze europee di imporre la propria egemonia a livello globale. Il consolidamento dello Stato ha rappresentato, senza dubbio, una cesura importante rispetto all’epoca medievale1. Non si tratta di negare gli elementi di continuità tra l’organizzazione

politica del sistema feudale e quella emersa dall’affermazione dei poteri centrali tra Tardo Medioevo e Prima Età Moderna2. Il punto è riconoscere la specificità di questa soluzione

istituzionale, non solo sul piano cronologico3, ma anche geografico: secondo gran parte della

storiografia, tra Cinquecento e Settecento non si registrarono in altri contenenti analoghe formazioni statuali4.

Si ritiene che tale legame sia tutt’ora valido e che debba essere preso in considerazione dalla ricerca per mantenere una capacità interpretativa complessiva sull’Età Moderna. Al tempo stesso, sembra sempre più decisiva la capacità di fare il punto sui diversi filoni di studi che si sono occupati della materia. Tra Ottocento e primo Novecento si è affermato nella storiografia tedesca il concetto di “Stato moderno”: questo ha dimostrato una straordinaria pregnanza interpretativa e una longevità che tutt’ora si può apprezzare in diversi studi. L’accentramento politico, il monopolio della forza legale, la definizione dei confini con le formazioni statuali confinanti, la sottomissione delle istituzioni e delle élites locali sono stati i punti che hanno caratterizzato questa tradizione di studi5. L’attenzione è stata rivolta

1 Cfr. G. Chittolini, A. Molho, P. Schiera (a cura di), Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia tra Medioevo ed Età Moderna, il Mulino, Bologna, 1994

2 Cfr. J.-P. Genet, L’État moderne: genèse, bilans et perspectives, Parigi, 1990.

3 Cfr. E. Rotelli, I confini dello Stato moderno, in «Amministrare», 1, supplemento 2013, pp. 275-294.

4 Cfr. N. Gennaioli, H.-J. Voth, State capacity and Military conflict, in «Review of Economic Studies», 82, 2015, pp. 1409-1448.

5 Cfr. E. Rotelli, P. Schiera (a cura di), Lo Stato moderno, 3 voll., Il Mulino, Bologna, 1971-1974; L. Barletta, G. Galasso (a cura di), Lo Stato moderno di ancien régime, Aiep, Repubblica di San Marino, 2007.

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principalmente alle fonti di carattere legislativo e giuridico, ricercando i punti di svolta negli ordinamenti e nelle istituzioni verso la piena affermazione di uno Stato impersonale e burocratico, come indicava il modello classico di Max Weber6.

La tensione verso l’affermazione – più o meno inarrestabile – di un termine ad quem ha portato l’attenzione sul processo di formazione dello Stato, approfondendo altre tematiche con le quali le formazioni politiche dell’Europa Moderna si sono dovute confrontare. I contributi in questo senso sono arrivati soprattutto da autori anglo-sassoni di formazione storica e sociologica; questi hanno coniato nuovi oggetti di ricerca, a partire dallo State-Building come processo che si sviluppò in Europa tra Cinquecento e Settecento7. Questo filone di studi si è

caratterizzato per sia per lo sforzo di elaborare modelli e tipizzazioni periodizzanti, sia per la concentrazione sul contesto storico dei vari casi di studio presi in esame. Questo ha consentito di guardare oltre gli ordinamenti e di indagare il retroterra sociale dei funzionari dello Stato, l’impatto della guerra e della fiscalità sulla strutturazione del potere centrale, le conseguenze sulla società del rafforzamento delle dinamiche coercitive. In particolare, è stata messa in evidenza la profonda connessione fra attività bellica e costruzione dello Stato: «State made war and war made State»8, riprendendo la celebre frase di Charles Tilly. Su questo terreno si

possono apprezzare, peraltro, le riflessioni che, a partire dalla storia militare, sono state avanzate sulla formazione dello Stato nella Prima Età Moderna: si pensi, a questo proposito, al celebre dibattito sulla ‘Rivoluzione militare’9.

Successivamente, sono emerse novità rilevanti nella letteratura a partire dalla nuova categoria del “Fiscal-Military State”: questa espressione si deve a John Brewer, il quale per la prima volta l’ha utilizzata per descrivere la Gran Bretagna tra la Gloriosa Rivoluzione e la Rivoluzione francese10. Lo storico proponeva non solo una lettura del successo internazionale

inglese in netta antitesi con le interpretazioni tradizionali, ma sottolineava particolare convinzione il ruolo della pressione fiscale, della tassazione e dei miglioramenti nel campo

6 Cfr. M. Weber, Economia e società, Donzelli, Roma, 2005.

7 Cfr. C. Tilly (a cura di), The Formation of National States in Western Europe, Princeton University Press, Princeton, 1975.

8 C. Tilly, Coercion, Capital and European States, 1000-1990, Blackwell, Oxford, 1990, p. 20.

9 Per una sintesi cfr. C. J. Rogers (a cura di), The Military Revolution Debate. Readings on the Military Transformation of Early Modern Europe, Westview Press, Boulder, 1995.

10 Cfr. J. Brewer, The Sinews of Power. War, Money and the English State, 1688-1783, Unwin Hyman, Cambridge, 1989.

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della finanza pubblica per il successo dello Stato europeo. Per molto tempo la storia del primato euro-occidentale è stata descritta soltanto nei termini di una progressiva estensione della libertà commerciale ed economica, grazie a formazioni statali con un potere coercitivo limitato sulla società e che lasciavano spazio all’iniziativa individuale. Brewer, al contrario, sosteneva che la guerra e la capacità di estrarre crescenti risorse dal territorio per finanziarla erano le chiavi fondamentali di tale primato.

La fortuna della categoria proposta da Brewer è stata impressionante. In primo luogo, tante ricerche storiche su altri casi di studio si sono confrontati con essa, anche utilizzando scelte cronologiche diverse11. Inoltre, molti autori specializzati nella storia fiscale hanno preso

spunto da Brewer per rinnovare gli approcci di ricerca alla finanza dell’Europa moderna12.

Sono stati a questo proposito elaborati modelli per la transizione da sistemi fiscali di origine medievale a sistemi fiscali più efficaci, con la convinzione che le forme di organizzazione politica della “modernità” fossero state forgiate in maniera decisiva dal rapporto tra Stato e società mediato dalla fiscalità13. A partire da questi studi, si è parlato di “Tax State” e “Fiscal

State” per descrivere l’organizzazione fiscale che gli Stati europei furono in grado di forgiare nel corso dell’Età Moderna. Se da un lato l’obiettivo di delineare modelli teorici e modelli generali comportava il rischio di astrarre la ricostruzione dal processo storico concreto, questo filone di studi si è distinto per interessanti approfondimenti sui vari casi di studio14. Inoltre, se

è vero che tra Seicento e Settecento possiamo parlare del «secolo de’ soldati»15, queste

ricerche hanno consentito di individuare altre dinamiche alla base dell’evoluzione dei sistemi fiscali, nonché altri settori della spesa pubblica importanti al pari del Militare. Recentemente si sono individuate anche nuove categorie per descrivere lo Stato in Età Moderna: si pensi al “Contractor State” proposto da Graham per sottolineare il ruolo degli attori privati nella

11 Per una sintesi cfr. C. Storrs (a cura di), The Fiscal-Military State in Eighteenth-Century Europe. Essays in honour of P.G.M. Dickson, Ashgate, Farnham, 2009.

12 Cfr. anche altri contributi precedenti, a partire da P.G.M. Dickson, The Financial Revolution in England. A Study in the Development of Public Credit, 1688-1756, MacMillan, Londra, 1967; K. Krüger, Public Finance and Modernisation: The Change from Domain State to Tax State in Hesse in Sixteenth and Seventeenth Centuries – a Case Study, in P. C. Witt (a cura di), Wealth and Taxation in Central Europe: The History and Sociology of Puvlic Finance, Leamington spa, 1987.

13 Cfr. M. Bonney, R. Bonney, M. Ormrod (a cura di), Crises, Revolutions and self-sustained Growth. Essays in European Fiscal History, 1130-1830, Shaun Tyas, Stamford, 1999.

14 Cfr. R. Bonney (a cura di), The Risa of the Fiscal State in Europe, 1200-1815, Oxford University Press, Oxford, 1999.

15 F. Testi, Lettere, vol. III, a cura di M. L. Doglio, Laterza, Bari, 1967, lettera a Francesco Montecuccoli del gennaio 1641.

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realizzazione degli obiettivi di interesse pubblico, attraverso la fitta rete di forniture, appalti e concessioni16; oppure allo “Stato Interventista” che Pincus e Robinson hanno utilizzato per

evidenziare la propensione della Gran Bretagna – proprio nel periodo studiato da Brewer – a realizzare investimenti nelle infrastrutture e nelle opere del genio civile17.

Si è parlato di una novità decisiva a proposito di questi filoni storiografici soprattutto in relazione all’impostazione metodologica e alle fonti utilizzate. Le riflessioni sullo Stato di questi autori sono basate soprattutto sulla raccolta di documentazione contabile, attraverso ricerche quantitative sulle serie di dati su andamento delle entrate, evoluzione del debito pubblico e composizione della spesa pubblica che il materiale conservato consente di rintracciare. Un approccio molto diverso da quello dominante nella storiografia dello “Stato moderno”; non solo, in alcuni di questi studi si nota anche la volontà di uscire dal settore specialistico della storia delle finanze di antico regime, utilizzando questo punto di vista per avanzare interpretazioni di più ampio respiro sulla storia politica ed economica degli Stati in Età Moderna.

Il presente studio intende applicare non le singole categorie sopra esposte a un singolo caso di studio, ma indagare una realtà storica ampiamente indagata dalla storiografia attraverso l’impostazione metodologica suggerita dai filoni del “Fiscal-Military State” e del “Fiscal State”. In particolare, si è tentato di valutare l’efficacia di uno studio così condotto su uno Stato con caratteristiche molto differenti dalle principali potenze europee, spesso il principale campo di ricerca di tale tradizione di studi: Il Granducato di Toscana fra gli ultimi Medici e la Reggenza lorenese (1670-1765). Lo Stato toscano rientra nella casistica dei “piccoli Stati”, la cui storia non può certo essere sovrapposta a quella dell’Inghilterra o della Francia moderne18. Inoltre, il dibattito storiografico sugli “Antichi Stati italiani” molto spesso

ha tenuto prioritariamente in considerazione temi diversi dal filone di ricerca sullo “Stato moderno”19: si pensi all’attenzione rivolta ai poteri locali all’interno di “Stati regionali” con

16 Cfr. A. Graham, Corruption, Party and Government in Britain, 1702-1713, Oxford University Press, Oxford, 2005.

17 Cfr. S. Pincus, J. Robinson, Faire la guerre et faire l’État. Nouvelles perspectives sur l’essor de l’État développementalise, in «Annales, HSC», vol. 71, n. 1, 2016, pp. 7-35.

18 Per una sintesi sui “piccoli Stati” nella storia europea, cfr. B. A. Raviola, L’Europa dei piccoli Stati. Dalla prima età moderna al declino dell’Antico Regime, Carocci, Roma, 2008.

19 Per una ricostruzione cfr. M. Mirri, Dalla storia dei “lumi” e delle “riforme” alla storia degli “antichi stati italiani, in Aa. Vv., Pompeo Neri. Atti del colloquio di studi di Castelfiorentino, 6-7 maggio 1988, Società Storica della Valdelsa, Castelfiorentino, 1992, pp. 401-540.

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processi di accentramento politico non paragonabili a quelli delle grandi monarchie europee20;

oppure all’importante filone di ricerca sulle “riforme” che hanno caratterizzato il Settecento italiano21.

Nonostante queste difficoltà, si è ritenuto che il tentativo meritasse di essere intrapreso. Senza cedere alla tentazione di risolvere la ricerca stabilendo o meno la coerenza del caso toscano con le categorie prese in esame, si è preferito utilizzare queste ultime come utili indicazioni per organizzare il materiale di ricerca e per tentare di rispondere ad alcune domande. Che impatto ebbero la guerra e le esigenze finanziarie sulla strutturazione istituzionale di un “Antico Stato italiano”? Che “costituzione fiscale” possiamo ricavare dalla sua finanza pubblica? In altre parole, il finanziamento delle casse pubbliche si basava su quali tipologie di entrate? Prevalevano, nel periodo preso in esame, gli introiti derivanti dalla tassazione diretta o da quella indiretta? E quale era il peso dei proventi legati a forme di prelievo più tradizionale, come le regalie e i beni patrimoniali della dinastia regnante? Quali priorità di spesa si possono rintracciare e a quali strategie politiche, sul piano interno e internazionale, risultano legate? Domande che nel dibattito storiografico hanno trovato sino ad ora riposte episodiche e frammentarie, ma che possono contare su alcuni studi più recenti che hanno adottato questa impostazione. Carlo Capra, per esempio, nel suo contributo sul sistema fiscale degli “Antichi Stati italiani” per la raccolta di saggi edita da Richard Bonney, ricordava che «public finance was clearly a crucial element in this State-building process»22.

L’indagine sulla “finanza pubblica” – concetto da non limitare alle strategie fiscale, ma da estendere ai problemi del credito pubblico, della moneta, della promozione economica – può, pertanto, fornire un contributo fondamentale per un approfondimento delle dinamiche che hanno determinato la storia degli Stati italiani nel corso dell’Età Moderna.

La scelta cronologica risponde a molteplici stimoli. In primo luogo, l’arco temporale 1670-1765 include due fasi politiche molto diverse del Granducato di Toscana: in prima battuta, i regni di Cosimo III e Gian Gastone Medici, gli ultimi Sovrani della dinastia che nel Cinquecento avevano dato avvio allo storia del principato. Il loro governo è stato valutato

20 Cfr. E. Fasano Guarini, Potere centrale e comunità soggette nel Granducato di Cosimo I, in «Rivista storica italiana», LXXXIX, 1977, pp. 490-538.

21 Cfr. F. Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Einaudi, Torino, 1969.

22 C. Capra, The Italian States in the early modern period, in R. Bonney (a cura di), The Rise of the Fiscal State, cit. pp. 417-442.

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spesso in maniera negativa dalla storiografia, soprattutto in campo finanziario: si è parlato di una progressiva decadenza politica e di un’esasperazione della pressione fiscale sui sudditi, rivolta al finanziamento di spese che poco avevano a che fare con il benessere della popolazione23. L’epoca della Reggenza, invece, è stata caratterizzata, usando del parole di

Bernardo Sordi, per «l’assoluta preminenza degli obiettivi di sfruttamento finanziario»24.

Pertanto, spesso sono stati illustrati i processi di razionalizzazione dell’amministrazione finanziaria portati avanti dai ministri della nuova dinastia lorenese, ma anche il pesante “fiscalismo” e l’ingerenza degli interessi viennesi sulle risorse toscane25. Anche alla luce dei

contributi che hanno rivisitato tali convinzioni storiografiche26, si è potuto mettere a confronto

i sistemi fiscali che hanno caratterizzato gli ultimi Medici e i trent’anni della Reggenza lorenese, mettendo in luce le rotture e gli elementi di continuità. Soprattutto, si è potuto individuare il susseguirsi di diverse fasi politiche, condizionate da ragioni interne e dagli accadimenti internazionali. In ciascuna di esse si trovano obiettivi e problemi di natura diversa, che inevitabilmente si riflettevano sulla politica in materia economico-finanziaria e fiscale. Al tempo stesso, pertanto, è possibile partire dalla ricostruzione delle scelte nell’ambito della finanza pubblica per ricavare un quadro delle scelte politiche, delle strategie di governanti e funzionari, della dialettica tra Stato, corpi sociali e gruppi di interesse, della congiuntura economica.

Infine, il lavoro è così suddiviso. Nel I capitolo, è stato approfondita la parabola storiografica sull’origine dello Stato e sul suo consolidamento in Età Moderna. In particolare, si è sottolineata la novità introdotta da Brewer, con la categoria del “Fiscal-Military State”, e dal filone della “New Fiscal History” dal punto di vista del metodo di indagine e delle fonti consultate. Si vedrà come i concetti storiografici analizzati rappresentino strumenti interessanti per affrontare nuove questioni di studio, per selezionare ed organizzare il materiale di indagine, nonché per inserire il caso di studio all’interno di un’interpretazione

23 Per una rivisitazione di questa impostazione storiografica cfr. F. Angiolini, V. Becagli, M. Verga (a cura di), La Toscana nell’età di Cosimo III. Atti del convegno Pisa – San Domenico di Fiesole, 4-5 giugno 1990, Edifir, Firenze, 1993.

24 B. Sordi, L’amministrazione illuminata. Riforma delle comunità e progetti di costituzione nella Toscana leopoldina, Guuffrè, Milano, 1991, p. 29.

25 Cfr. L. Dal Pane, La finanza toscana dagli inizi del secolo XVIII alla caduta del Granducato, Banca commerciale italiana, Milano, 1965; F. Diaz, I Lorena in Toscana. La Reggenza, Utet, Torino, 1988.

26 Cfr. su tutti J.-C. Waquet, Le Grand-Duché de Toscane sous les derniers Médicis. Essai sur le système des finances et la stabilité des institutions dans les Anciens États Italiens, École française de Rome, Roma, 1990.

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generale delle dinamiche di medio e lungo periodo che hanno caratterizzato gli Stati europei in Età Moderna. Dal punto di vista della Storia, invece, risultano meno interessanti le ricerche che hanno impiegato tali categorie come modelli teorici e tipizzanti, determinando così rigide periodizzazioni e schemi di lettura altrettanto ingessati.

Nel II capitolo si sono passati in rassegna i principali stimoli forniti dalla storiografia sul “piccolo Stato” e sugli “Antichi Stati italiani”, guardando in particolare ai temi che sono stati prevalentemente selezionati e indagati. Come è noto, il legame tra la guerra e la formazione dello Stato ha avuto per le formazioni statuali della penisola italiana un ruolo minore, per quanto diversificato: se molte ricerche hanno sottolineato l’importanza del Militare nella storia del Piemonte del XVII e XVIII secolo, al contrario la storiografia prevalentemente ha illustrato l’impatto distruttivo dei conflitti bellici sugli Stati italiani. La loro forza militare e le risorse possedute per finanziarla erano incomparabilmente inferiori a quelle delle principali potenze europee. Questo, senza dubbio, determinava una posizione periferica dal punto di vista geo-politico, nonché seri problemi per salvaguardare la propria incolumità territoriale. Nondimeno, si vedrà come anche i “piccoli Stati”, per quanto profondamente condizionati dallo scenario internazionale, si potevano garantire margini di manovra ed elaborare strategie per difendere i propri interessi economici e politici. Inoltre, il consolidamento istituzionale, i processi di accentramento politico e l’aumento della pressione fiscale non sono stati affatto assenti dallo scenario italiano nell’arco dell’Età Moderna: da questo punto di vista, risultano interessanti gli sforzi compiuti di recente dalla storiografia per una maggiore concentrazione sullo sviluppo delle istituzioni, degli strumenti fiscali e delle politiche economiche degli “Antichi Stati italiani” dal Cinquecento a tutto il Settecento, mettendo quindi in discussione la funzione periodizzante della cesura settecentesca delle “riforme”27.

I capitoli III, IV e V rappresentano il cuore di questa ricerca. In essi, si entra nel merito del caso di studio, partendo dall’analisi della struttura fiscale e dell’amministrazione finanziaria formatesi per stratificazioni successive nel Granducato di Toscana, ravvisando alcuni strumenti interessanti in mano al potere centrale per assicurarsi il controllo amministrativo delle risorse pubbliche e la verifica della contabilità delle varie casse (capitolo

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III). Non è il caso di dilungarsi ora sul contenuto di questi capitoli. Le fonti utilizzate, però, devono essere esplicitate. Non si è potuto contare, a differenza di quanto altri studiosi hanno fatto per casi di studio diversi, su una tesoreria centrale unificata, dalla quale ricavare la totalità delle entrate e delle uscite dello Stato toscano. Il pluralismo istituzionale di quest’ultimo si organizzava, dal punto di vista finanziario, in una molteplicità di casse pubbliche, ciascuna delle quali poteva contare sull’assegnamento di una o più imposte e doveva saldare le spese che le venivano imputate. Nonostante queste difficoltà, è stato possibile raccogliere una significativa mole di dati quantitativi sul periodo preso in considerazione grazie alla documentazione conservata nei fondi “Depositeria generale”, “Soprassindaci e Sindaci”, “Appalti generali delle Regie Rendite”, “Segreteria di Finanze” dell’Archivio di Stato di Firenze. Queste fonti, peraltro, presentano spesso interessanti relazioni e commenti in accompagnamento ai “ristretti” di entrata e uscita: gli autori erano le figure tecniche, i funzionari e gli uomini politici che si occupavano della finanza pubblica del Granducato e, talvolta, i loro scritti si traducevano in veri e propri manifesti programmatici. La ricerca quantitativa, pertanto, si è potuta arricchire con l’analisi del dibattito politico attorno alla fiscalità che emerge dalle fonti primarie.

Si aggiungerà soltanto che i principali argomenti affrontati per l’età tardo-medicea (capitolo IV) sono stati, da un lato, l’andamento del gettito delle principali imposte della finanza toscana e, dall’altro, la vicenda delle imposizioni straordinarie e della gestione del debito pubblico, nata in primo luogo dalle pesanti richieste imperiali di contribuire al mantenimento delle proprie armate. Per quanto riguarda, invece, l’epoca della Reggenza lorenese (capitolo V), ci si è confrontati con la nuova cultura di governo e con la riorganizzazione amministrativa del comparto finanziario voluta da Francesco Stefano, ravvisando anche in questo caso punti di rottura e elementi di continuità con l’epoca precedente; inoltre, l’Appalto generale delle Regie rendite (1740-1768), data la sua rilevanza e il suo mantenimento per tutto il periodo della Reggenza, è stato al centro della nostra indagine, guardando sia all’evoluzione dei contratti tra il Granduca e le compagnie private alle quali venivano concesse il locazioni le entrate statali, sia ai conti registrati dagli appaltatori. Si è poi ravvisata una sostanziale differenza tra gli anni del governo toscano del Richecourt – in particolare, nella prima fase caratterizzata dalla Guerra di Successione austriaca, per la quale si è parlato di una “finanza di guerra” – e quelli del Botta Adorno,

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segnati soprattutto dalla raccolta di informazioni per il buon funzionamento e la migliore amministrazione possibile delle finanze, in vista dell’atteso arrivo a Firenze di un sovrano residente attraverso la secondogenitura di Pietro Leopoldo.

Infine, nel capitolo VI, sono stati raccolti una serie di spunti ricavati dalla letteratura e da alcune fonti primarie per nuove ricerche sul caso toscano a partire dalla categoria dello “Stato interventista”. Molti contributi di autori con una formazione urbanistica, economica e geografica hanno parlato per la Toscana dei Lorena di una «logica promozionale»28: questa

presenta diversi punti di connessione con la logica alla base della proposta di Pincus e Robinson per la Gran Bretagna settecentesca. Soprattutto a seguito della pace di Aquisgrana, si può riscontrare un impegno progettuale e finanziario importante del Granducato nell’ambito degli investimenti civili: si sono rintracciati alcuni esempi a sostegno di questo approccio nel campo della viabilità, della regimazione idrica e della progettazione urbanistica. Più che dimostrare una tesi, questi spunti vogliono rappresentare soprattutto uno stimolo per ulteriori ricerche, poiché si ritiene assolutamente auspicabile che la ricerca storica su questi interventi non sia relegata agli studi specialistici sul territorio, ma venga inserita dentro le interpretazioni di carattere generale che la Storia ha fornito a proposito del Granducato di Toscana fra Sei e Settecento. Se tradizionalmente queste sono state dominate dalla centralità della cesura dinastica e da quella del governo leopoldino – periodizzazioni che privilegiano evidentemente l’avvento della stagione delle “riforme” – altri punti di vista sembrano consentire un allargamento degli orizzonti e degli oggetti di ricerca. Proprio gli investimenti in infrastrutture, nella sfera civile e a favore dei bisogni sociali costituiscono un ambito di studio che sfugge alle periodizzazioni tradizionali e che presenta aspetti spesso trascurati dalla letteratura sul Granducato di Toscana e, in generale, sugli “Antichi Stati italiani”. Sarebbe interessante, pertanto, un rilancio in questo senso della ricerca storica.

28 L’espressione è di Carlo Cresti, cfr. C. Cresti, Maremma Grossetana, Valdinievole, Valdichiana: tre esempi applicativi di ‘bonifica integrale’, in Z. Ciuffoletti, L. Rombai (a cura di), La Toscana dei Lorena. Riforme, territorio, società. Atti del Convegno di studi, Grosseto, 27-29 novembre 1987, Olschki, Firenze, 1989, p. 424.

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CAPITOLO I

DALLO “STATO MODERNO” AL “FISCAL-MILITARY STATE”:

PROSPETTIVE DI RICERCA SULLO STATO IN ETÀ MODERNA

Lo Stato ha ricoperto un ruolo da protagonista di primo piano per larga parte della storiografia europea, soprattutto negli studi tra il XIX secolo e il secondo Dopoguerra del secolo scorso. Il potenziale di attrazione esercitato da questo tema è un argomento complesso da indagare: dobbiamo considerare innanzitutto che, in qualsiasi epoca, i tempi coevi influenzano il lavoro dello storico, il quale procede attraverso strumenti più o meno consapevoli di selezione e organizzazione del materiale di indagine. Per la problematica dello Stato è forse superfluo ricordare l’influenza di Hegel1 sulla storiografia tedesca del pieno XIX

secolo, che ha seguito il filosofo di Stoccarda nell’individuazione dello Stato come essenza della vita storica2; così come quanto siano stati determinanti i processi storici di unificazione

dell’Italia e della Germania moderne per attivare alcuni filoni di ricerca. Al tempo stesso, un almeno apparente allontanamento parziale della storiografia da questi temi si può registrare dagli anni ‘90 del secolo scorso, in un periodo storico segnato significativamente dalla messa in discussione del ruolo e delle prerogative dello Stato in un contesto di fioritura di confederazioni e unioni sovranazionali e di globalizzazione finanziaria. Queste dinamiche continuano senza dubbio ad incidere nel lavoro di ricerca odierno, assieme alle spinte in senso contrario verso nuove rivendicazioni di autonomia territoriale o di indipendenza “nazionale”.

La ricerca storica sullo Stato in Età Moderna hanno conosciuto fasi diverse, elaborando paradigmi e chiavi interpretative che hanno rappresentato dei punti di riferimento obbligati

1 cfr. G. W. F. Hegel, Lineamenti di Filosofia del diritto, Laterza, Roma, 2004.

2 Sono particolarmente significative le opere di Leopold von Ranke e di Gustav Droysen, tra i primi a mettere in luce l’importanza della relazioni esterne tra nazioni per lo sviluppo della formazione statale e a fissare saldamente la relazione tra “assolutismo” e “Stato moderno”; cfr. F. Benigno, Lo Stato moderno come Topos storiografico, in G. Galasso, L. Barletta (a cura di), Lo Stato moderno di ancien régime. Atti del convegno di studi presso Antico Monastero di Santa Chiara, San Marino, 6-8 dicembre 2004, Aiep, San Marino, 2007, p. 19.

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per gli studi successivi. Proveremo ad individuare le principali tradizioni storiografiche che hanno ricostruito l’immagine dello Stato, individuandone analogie e differenze nella metodologia di indagine, nelle fonti utilizzate e nelle conclusioni che hanno proposto. L’analisi delle categorie interpretative sarà il principale punto di riferimento di questo capitolo: esse, come vedremo, provengono in larga parte da un approccio sociologico che ha come obiettivo primario quello di tipizzare e classificare i fenomeni e le loro evoluzioni. Seguendo questo schema è sempre in agguato il rischio di muoversi secondo quello che, direbbero gli psicologi, si può definire il focus dell’attenzione a fascio di luce nella notte: mettere in evidenza soltanto alcune caratteristiche lasciandone nell’oscurità altre, che possono essere altrettanto salienti ma restano così al di fuori dell’indagine. Un altro rischio sembra essere quello di assolutizzare alcuni modelli che sono stati originati per descrivere efficacemente un determinato Stato o solo alcuni Stati: solitamente i modelli sono strutturati secondo alcune variabili principali messe in relazione tra loro. Non sempre, però, queste variabili risultano soggette alla sola influenza reciproca: in base al contesto sociale, culturale e politico possono verificarsi dipendenze da variabili secondarie che incidono sulle prime seguendo dinamiche che si allontanano dal modello ideale di partenza. Forse può aiutare sostituire alle definizioni astratte qualche variabile concreta degli studi storici sullo Stato: la relazione tra la crescita dell’apparato militare e il consolidamento di una macchina amministrativa e burocratica non può limitarsi soltanto a uno studio reciproco dell’andamento delle due variabili, ma deve necessariamente considerarne anche altre (solo per citarne alcune: le teorie politiche ed economiche egemoni, gli obiettivi strategici dei governanti in un determinato periodo storico, gli interessi materiali dei soggetti in campo) per non scadere in automatismi poco proficui. Fatte queste premesse, riteniamo comunque utile confrontare queste categorie per comprendere al meglio gli ambiti di ricerca e le principali questioni che hanno tenuto botta nel dibattito storiografico sullo Stato in Età Moderna: le diverse chiavi interpretative ci consentiranno, peraltro, di individuare gli elementi di continuità e i punti di svolta che la ricerca ha registrato su questo tema, nonché di verificare l’eterogeneità degli approcci di indagine adottati e delle interpretazioni proposte dalla letteratura.

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1.1 La parabola dello Stato europeo nella storiografia tradizionale

La storiografia ha elaborato alcune categorie sullo Stato che hanno dominato a lungo il dibattito accademico, entrando peraltro nell’immaginario collettivo europeo. Basti pensare a termini come “Stato moderno” e “Stato assoluto” e quanto questi entrino tutt’ora a pieno nella nostra formazione di base. Per molti versi, tali categorie hanno instaurato un vero e proprio regime discorsivo per interpretare lo Stato nell’epoca dell’ancien régime tenendolo saldamente ancorato ad una particolare concezione della “modernità”3. Più generazioni di

storici hanno attinto a questi strumenti, utilizzandoli al pari di una bussola per orientarsi, selezionando temi e problemi storiografici, e di un’agenda che portava con sé alcune fondamentali domande di indagine. Proviamo a vedere più da vicino alcuni risvolti di questa parabola di studi.

1.1.1 “Stato moderno” e “Stato assoluto”: storia dell’accentramento politico

L’impiego del termine “Stato Moderno” affonda, non a caso, le proprie origini nell’epoca dell’affermazione del Regno d’Italia e dell’unificazione germanica sotto l’egemonia prussiana. Da regioni relativamente periferiche, le due entità statali diventarono a pieno titolo potenze protagoniste dello scacchiere internazionale. Questo suscitò inevitabilmente nuovi interessi nella storiografia circa la genesi dello Stato: gli sforzi si concentrarono sulla strada intrapresa dagli Stati ottocenteschi per affrancarsi dalla dimensione feudale e accedere alla “modernità”, spesso concepita come vero e proprio stadio evolutivo verso il quale tendere. I lavori della “scuola storica prussiana” si sono spesso concentrati sulla sfera statale dal punto di vista dello sviluppo dei suoi apparati e delle sue strutture burocratiche e amministrative, secondo un processo di accentramento delle funzioni e di sempre maggiore controllo del centro sulle periferie. Questo approccio oggi può sembrarci a ragione viziato da una “triplice riduzione”4 che sacrifica la complessità dei poteri in gioco

nell’Europa di ancien régime; questi studi, tuttavia, hanno avuto una rilevanza e un’influenza

3 cfr. F. Benigno, Lo Stato Moderno come Topos storiografico, in L. Barletta, G. Galasso (a cura di), Lo Stato moderno di ancien régime, Aiep, Repubblica di San Marino, 2007, p. 17.

4 Così si è espresso Benigno, denunciando il tre rischi della riduzione della politica e del potere alla sfera statale, della sfera statale allo sviluppo degli apparati, dell’evoluzione delle strutture burocratiche e amministrative a un processo di accentramento di funzioni negli apparati centrali a discapito delle “periferie”, cfr. Ibidem, p. 21;

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decisiva sulla storiografia del XX secolo, fornendo una metodologia di studio in grado di saldare il rigore della ricerca sulle fonti con lo sviluppo coevo della sociologia e degli sforzi per fissare scientificamente, attraverso la tipizzazione, le forme storiche del potere5.

Negli anni ‘30 del Novecento Otto Hintze riprese la problematica dello Stato moderno per darle una forma teorica complessiva. Hintze mise in evidenza il processo di statalizzazione delle forme di organizzazione feudale della società, secondo una progressiva razionalizzazione di tutte le forme di gestione della vita pubblica6. Propose una visione

stadiale: in primo luogo, Hintze individuò uno “stadio preparatorio”, nel quale lo Stato muoveva i primi passi verso la sua versione moderna e nel quale prendevano avvio i processi di concentrazione del potere politico e di miglioramento della macchina amministrativa; progressivamente lo Stato si svincolava dai vecchi rapporti comunitari che ne limitavano l’azione nel periodo feudale. Questa fase si chiudeva per Hintze con la Rivoluzione Francese ed era seguita dallo “stadio maturo”, che abbracciava il XIX secolo e che per l’appunto registrava lo sviluppo maturo di tutti i fattori che caratterizzavano lo Stato moderno. Hintze affermava che «il tipo ideale dello stato moderno appare dunque con tutta chiarezza e in tutta la sua forza soltanto nel corso del secolo XIX, per poi subito mostrare, già all’inizio del XX, i sintomi di una trasformazione di fondo e subire mutamenti essenziali di vasta portata».7

L’analisi dello storico tedesco, infatti, proseguiva oltre con il cosiddetto “Stato totale” (o socializzato), nel quale riecheggiano le prospettive del totalitarismo, che negli anni Trenta stavano minacciosamente incombendo sull’Europa.

Sono, dunque, questi i tratti salienti della concezione classica dello “Stato moderno”, la quale avrà una forte centralità negli studi del secondo Dopoguerra, partendo dalla storiografia tedesca per estendersi sensibilmente in Europa negli anni ‘50 e ‘60. Pertanto, uno dei campi di indagine privilegiati divenne la storia dell’accentramento del potere politico nelle strutture statali, ricercando le innovazioni sul piano degli ordinamenti e degli istituzioni che consentirono quella che si descriveva come un’inesorabile transizione verso lo “Stato

5 Si pensi per tutti all’opera monumentale di Weber, in particolare cfr. M. Weber, Economia e società, Donzelli Editore, Roma, 2005.

6 Hintze torna su queste tematiche a quaranta anni di distanza in O. Hintze, Dallo Stato nazionalborghese allo Stato impresa, in R. Ruffilli (a cura di), Crisi dello Stato e storiografia contemporanea, il Mulino, Bologna, 1979, pp. 39-69.

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moderno”. Se le prime riflessioni della scuola prussiana e dei primi decenni del XX secolo si erano concentrati su modelli che raggiungevano la piena realizzazione nel XIX secolo, presto si moltiplicarono gli studi che in qualche modo retrodatarono la valenza interpretativa della categoria di “Stato moderno”, abbracciando l’Età Moderna. Si pensi allo studio di Hans Rosenberg sull’ascesa della Prussia che indagava come il piccolo e frammentato Stato dell’Elettore del Brandeburgo fosse riuscito a costruire le condizioni per divenire una grande potenza. In esso troviamo peraltro un nuovo soggetto: la burocrazia, intesa non solo come apparato della macchina statale, ma in quanto soggetto attivo e determinante nella storia di uno Stato. Rosenberg, in particolare, la descriveva come un gruppo sociale dotato di autonomia e di una mentalità specifica che nella sua opera, per la prima volta, si affiancava – e in alcuni casi si sostituiva – alla monarchia come motore della storia prussiana8. Siamo,

dopotutto, nel mezzo di decenni che hanno celebrato la fortuna della storia sociale, nonché l’influenza della “rivoluzione copernicana” dell’ École des Annales, sviluppatasi attorno alla rivista Annales d’histoire économique et sociale fondata nel 1929 da Marc Bloch e Lucien Febvre. Questa, come è noto, ha fatto emergere nuovi oggetti di studio per la storia, a partire dagli elementi materiali della vita quotidiana e dalle mentalità collettive e di gruppo. L’attenzione – anche in molti studi che partivano da differenti impostazioni metodologiche – si spostò dall’analisi sulle strutture dello Stato a quella sulla costruzione degli apparati e sui gruppi sociali li componevano: in altre parole, si fece spazio una storia sociale del potere, che aveva tra i suoi obiettivi quello di mettere in evidenza la composizione, le priorità e gli interessi materiali dei gruppi inseriti nei ruoli di amministrazione e di comando dello Stato, così come delle sue strutture periferiche9. Al tempo stesso, questo esempio ci dice anche

quanto sia stata potente l’influenza esercitata dal paradigma dello “Stato moderno”: diverse scuole storiografiche si sono dovute confrontare con le tesi centrali che hanno caratterizzato questa chiave interpretativa. Fra queste, negli anni ‘50 e ‘60, troviamo anche la storiografia marxista, che adottò un approccio particolare alla questione: a tal proposito Benigno ha scritto che «la discussione sullo Stato moderno, legata ora al tema della lotta di classe, si internazionalizza e, malgrado il carattere astratto e schematico di certe formulazioni, di questa

8 Cfr. H. Rosenberg, Bureaucracy, Aristocracy and Autocracy: the Prussian Experience, 1660-1815, Harvard University Press, Cambridge, 1958.

9 Cfr. M. Berengo, Il Cinquecento, in La storiografia italiana negli ultimi vent’anni, Marzorati, Milano, 1979, pp. 487 e ss.

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discussione sono parte integrante storici di orientamento marxista […] Il punto di vista marxista predilige al continuo impulso di riforme dall’alto la messa in evidenza del significato rivoluzionario dell’evoluzione borghese, quindi la prevalente natura aristocratico-conservatrice dello Stato d’ancien regime»10. Insomma, la questione dello Stato moderno ha

sollevato per diversi decenni domande di indagine che hanno preso in considerazione quasi tutti gli studiosi interessati a descrivere gli Stati tra Tardo Medioevo e XIX secolo, indipendentemente dai loro approcci concettuali e metodologici: l’evoluzione delle forme di organizzazione del potere politico e del governo del territorio sono state indagate da una lunga tradizione di studi secondo la quale il punto di vista privilegiato doveva essere la storia dell’accentramento politico e istituzionale, con particolare riferimento alle fonti di carattere giuridico e normativo che rendevano conto di questa progressiva affermazione del potere centrale dello Stato. Da questo punto di vista, era descritto come un «fenomeno senza precedenti, che separa l’età moderna dalla medievale e la caratterizza, protraendosi nella fase costituzionale», soprattutto in relazione alla «dimensione assunta dagli apparati pubblici, militari e civili, cioè fiscali e giudiziali»11. Lo Stato, quindi, era da intendere “moderno” anche

per essere stato un fenomeno peculiare, se non esclusivo, dell’Età Moderna in Europa: una forma di organizzazione del potere storicamente determinata, comparsa agli albori dell’Età Moderna e che constava nei fatti istituzionali di un progressivo accentramento del potere. La sua parabola sanzionava una cesura rispetto al Medioevo, ma anche alle forme di governo che si sono concretizzate in altre regioni del mondo.

Ma quali sono i tratti caratteristici che tale categoria ha assunto nel dibattito storiografico? Come scrisse molto efficacemente Maravall in un articolo degli anni Sessanta, «lo Stato moderno non si può concepire unicamente nei termini della teoria politica: esso è almeno altrettanto una pratica politica»12. Di conseguenza, aggiungiamo noi, si è trattato per

molti studiosi di un fenomeno da indagare nei processi storici concreti. Negli anni ‘70 l’opera di Joseph Shennan ha fatto il punto sulla problematica, affermando che la vicenda dello “Stato moderno” «ebbe inizio in Europa agli albori del quindicesimo secolo quando l’autorità personale del principe stava divenendo la fonte principale del potere politico e che si concluse nei primi decenni del diciottesimo secolo, quando il potere del principe cessò di essere ormai

10 F. Benigno, Lo Stato Moderno come Topos storiografico, cit., p. 29.

11 E. Rotelli, I confini dello Stato moderno, in «Amministrare», n. 1, supplemento, 2013, p. 280. 12 J. A. Maravall, The origins of the Modern State, in «Journal of World History», VI, 1961, p. 795.

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distinguibile da quello del suo regno»13. Questa periodizzazione ebbe una notevole forza

prima e dopo la pubblicazione di Shennan: gli studi sullo “Stato moderno” si concentrarono soprattutto dentro i due estremi della sua prima apparizione – per quanto immatura e parziale – e della sua piena affermazione come Stato impersonale e burocratico. I secoli all’interno di questi due termini ab quo ed ad quem, cioè i secoli dell’Età Moderna, erano indagati da questo filone storiografico alla luce di una progressiva ed inesorabile estensione dell’autorità del sovrano, della nascita di un’organizzazione burocratica che reggeva l’amministrazione dello Stato, della rivendicazione da parte del potere centrale di una sorta di monopolio della forza e del diritto di tassare i propri sudditi per le spese di carattere generale.

Si pensi a quanto tali caratteristiche siano state centrali anche in altre categorie interpretative nate parallelamente allo “Stato moderno” o come estensione di quest’ultimo. L’attenzione rivolta al potere del sovrano e ai processi di accentramento ha portato alla definizione dello “Stato assoluto”. In Lineages of the Absolutist State Perry Anderson ci ha fornito, all’interno di uno studio classico di ispirazione marxista sullo Stato dell’Età Moderna, sia un quadro dei diversi ritmi con cui si sono sviluppati i principali assolutismi europei14 sia

un’indicazione dei principali ambiti nei quali si è affermato tale forma di potere. Il concetto è associato in primo luogo alla comparsa di monarchie centralizzate nell’Europa occidentale del Cinquecento, capaci acquisire sovranità a danno dei ceti feudali e dei poteri locali. Seguendo Anderson, il passaggio dalla monarchia medievale basata sugli “stati” – forma feudale di rappresentanza dei ceti sociali e, in particolare, delle prerogative nobiliari – all’assolutismo moderno è sanzionato da novità istituzionali che ne furono l’espressione più tipica: «le monarchie assolute introdussero gli eserciti stanziali, una burocrazia permanente, un sistema fiscale esteso a livello nazionale, la codificazione scritta del diritto e i prodromi di un mercato unitario»15. Notiamo, quindi, il riconoscimento di una importanza cruciale alla triade

esercito-burocrazia-fiscalità per descrivere le trasformazioni più rilevanti che hanno prodotto la nascita

13 J. H. Shennan, Le origini dello Stato Moderno in Europa (1450-1725), Il Mulino, Bologna, 1976, p. 9 [ed. or. Hutchinson & co. Publishers Ltd, London, 1974]

14 Non ha senso dilungarsi qua su questo aspetto, ma si pensi alla tesi di Anderson sull’affermazione nell’Europa orientale di una forma peculiare di assolutismo che rispondeva sostanzialmente a diversi referenti sociali e a differenti esigenze politiche, in particolare la riaffermazione di un potere coercitivo da parte del ceto feudale che, a differenza di quanto accadeva in Europa occidentale, fu nelle condizioni di consolidare i meccanismi di servitù; su questo cfr. P. Anderson, Lo Stato assoluto, il Saggiatore, Milano, 2014, p. 160 e ss. [ed. or., P. Anderson, Lineages of the Absolutist State, 1974]

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dello Stato in Età Moderna: elementi sui quali ha insistito frequentemente la stessa elaborazione dello “Stato moderno”.

Possiamo fare delle conclusioni analoghe per la categoria di “Dispotismo illuminato”. Questa, come è noto, è stata utilizzata soprattutto per lo studio dell’influenza esercitata dai nuovi riferimenti culturali nel campo dei diritti umani, dell’economia e della scienza prodotti dai philosophes e dall’illuminismo sugli obiettivi politici dei governanti, quindi in relazione a determinate esperienze storiche affermatesi nel corso del XVIII secolo16. Ci interessa notare

soprattutto come la sua definizione abbia molto a che fare con quanto abbiamo riportato fin’ora e come, a sua volta, faccia emergere nuovi temi da tenere in considerazione per l’indagine sulle istituzioni statuali e le forme della politica. Prendiamo a riferimento un articolo di Lucien Lefebvre apparso nelle Annales Historiques de la Revolution Française17.

Balza subito agli occhi la connessione con i processi di accentramento del potere e di superamento del “chaos” feudale: Lefebvre inizia il suo articolo sostenendo che «l’Europe occidentale […] consitua des Etats aux dépens du chaos féodal, l’effort des rois tendit à rassembler entre leurs mains toutes les formes de l’autorité, à organiser des services publics, aussi uniformes et aussi rationalisés qu’il était possible, à tirer de leurs domaines les moyen d’entretenir une armée qui, la diplomatic aidant, permettrait de réaliser l’agrandissement, fin suprême des dynastes-propriétaires»18. Lo Stato si affermò, quindi, come nuova istituzione

giuridica che superava il sistema feudale con l’accentramento delle forme di autorità, con l’organizzazione centralizzata di servizi pubblici e con l’estrazione dai propri domini delle risorse necessarie per finanziare un esercito che permettesse di estendere i domini posseduti dalla casa regnante. Al tempo stesso erano sottolineati sia il passaggio verso un’amministrazione più efficiente sia il condizionamento dinastico dei principali obiettivi nella politica degli Stati. Di grande rilevanza, inoltre, era l’insistenza sugli aspetti finanziari della questione: Lefebvre si soffermava sulla capacità di estrarre le risorse necessarie per il funzionamento dello Stato come base del successo politico. Grande importanza, pertanto, era riconosciuta alla tassazione e al credito pubblico: «on peut avancer que la renaissance de

16 La storiografia ha fatto riferimento soprattutto ai regni di Pietro il Grande di Russia (1682-1725), una sorta di dispotismo illuminato ante-litteram, Federico II di Prussia (1740-1786), Maria Teresa (1740-1780) e Giuseppe II d’Asburgo (1780-1790), e a Pietro Leopoldo, Granduca di Toscana della casa Asburgo-Lorena (1765-1790).

17 L. Lefebvre, Le despotisme éclaire, in «Annales Historiques de la Revolution Française», 1949, pp. 97-115; 18 Ibidem, p. 97.

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l’Etat devint vraiment apparente lorsque l’impôt réapparut et que l’emprunt put éventuellement s’y adjondre»19. Questo tema risulta peraltro riconosciuto da più parti, se

pensiamo che anche un’opera che ha messo in discussione, come vedremo, l’impostazione tradizionale degli studi politico-istituzionali sullo “Stato moderno”, come lo Spirito delle istituzioni di Denis Richet, ha potuto affermare che «l’assolutismo fu in gran parte figlio dell’imposta»20. Le questioni di carattere finanziario stavano al centro della problematica,

spesso individuate tra le principali cause degli sforzi per l’accentramento e le innovazioni di carattere amministrativo. Lefebvre continuava affermando che «le despotisme devint éclairé»21 allorché furono messi sotto accusa l’arbitrio monarchico e l’insieme delle politiche

economiche di stampo “mercantilistico” in favore del laissez faire, laissez passer; si affermò una spinta per l’abolizione della servitù e per il rispetto della persona, per la messa al bando dell’intolleranza come dei privilegi giuridici, fiscali ed economici nell’ottica di promuovere l’iniziativa individuale e la concorrenza come fonte della ricchezza generale22. Insomma, oltre

alla rilevanza dell’estrazione di risorse dal proprio territorio per soddisfare le esigenze impresse allo Stato dalla dinastia regnante, la categoria di “Dispotismo illuminato” ha consentito di fare luce sull’affermazione di una cultura pedagogica, filosofia ed economica che individuava nuovi obiettivi – oltre gli interessi dinastici e il finanziamento delle guerre – da perseguire da parte del Principe e dello Stato.

L’origine dello “Stato moderno” ha rappresentato anche più di recente un tema di confronto serrato tra gli storici. In alcuni studi la ricerca dei suoi albori è stata proiettata ancora più all’indietro nel tempo. Come possiamo apprezzare dai lavori coordinati da Jean-Philippe Genet23, si è consolidato nel tempo un filone di ricerca che ha indagato la genesi

medievale dello Stato: le periodizzazioni scelte erano indicative di come era concepito lo spazio dello “Stato moderno” fra Tardo Medioevo ed Età Moderna, cioè se si trattava di un’epoca che partiva con una forte cesura e che quindi aveva conosciuto a tutti gli effetti lo

19 Ibidem, p. 98.

20 D. Richet, Lo spirito delle istituzioni. Esperienze costituzionali nella Francia moderna, Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 73 [ed. or. La France Moderne: l’esprit des institutions, Flammarion, Parigi, 1973].

21 L. Lefebvre, Le despotisme éclaire, cit., p. 101.

22 Cfr. L. Lefebvre, Le despotisme éclaire, cit., p. 102 e ss.

23 Si pensi all’Action Thématique Programmée dal titolo Genèse de l’État moderne promossa dal Crns francese alla metà degli anni ottanta, coordinata appunto da Genet e proseguita poi nel programma finanziato dalla European Science Foundation dedicato a The Origins of Modern State in Europe, 1300-1800 sotto il coordinamento dello stesso Genet e di Wim Blockmans. Per un bilancio cfr. J.-P. Genet, L’État moderne: genèse, bilans et perspectives, Parigi, 1990.

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“Stato moderno” oppure se costituiva una sorta di lungo percorso dell’antico regime verso la conquista dello “Stato moderno” con le vicende rivoluzionarie di fine Settecento24. Un

obiettivo analogo era stato ricercato dal gruppo di studiosi italiani e americani riunitosi all’inizio degli anni ‘90 per il convegno sulle origini dello Stato a Chicago25: secondo

l’impostazione complessiva del volume che ne è derivato, l’origine dello Stato – significativamente senza utilizzare l’aggettivo “moderno” nonostante le premesse iniziali del convegno26 – deve essere collocata nel periodo storico compresa tra il Tardo Medioevo e la

Prima Età Moderna. Questo significava prendere posizione sul fatto che le forme del potere europee tra Cinquecento e Settecento andassero considerate come forme statali in senso proprio anche al di fuori delle grandi monarchie centralizzate, ma anche che i paradigmi tradizionali venivano in parte ripensati. Riprendendo le considerazioni di Luigi Blanco, «si è potuto considerare il processo di formazione statuale nell’esperienza politica occidentale come processo di lunga durata, contribuendo al superamento di quella rigida divisione tra mondo medievale ed emersione della modernità che aveva caratterizzato profondamente la storiografia precedente»27. Vediamo qua all’opera le conseguenze del confronto della

categoria dello “Stato moderno” con nuovi punti di vista che si sono soffermati su altri accenti società di antico regime: dal carattere “composito” degli Stati28, al ruolo delle corti e degli

altri luoghi del potere politico29.

Queste dinamiche risultano particolarmente evidenti dall’analisi della specifica traiettoria assunta in Italia dallo “Stato moderno”. Il dibattito accademico italiano ha conosciuto un’introduzione decisa della categoria a cavallo del 1970, facilitata dal grande risalto registrato dalla pubblicazione dell’antologia curata da Ettore Rotelli e Pierangelo

24 Su queste differenti rivelatrici cfr. L. Blanco, Lo Stato ‘moderno’ nell’esperienza storica occidentale: appunti storiografici, in «Storia, amministrazione, costituzione», v. 21, 2013, pp. 251-274.

25 G. Chittolini, A. Molho, P. Schiera (a cura di), Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia tra medioevo ed età moderna, Il Mulino, Bologna, 1994.

26 Su questo slittamento di significato intrapreso proprio alla luce della discussione del convegno, cfr. G. Chittolini, Il ‘privato’, il ‘pubblico’, lo Stato, in G. Chittolini, A. Molho, P. Schiera (a cura di), Origini dello Stato, cit., pp. 553-589.

27 L. Blanco, Lo Stato ‘ moderno’ nell’esperienza storica occidentale: appunti storiografici, in «Storia, amministrazione, costituzione», v. 21, 2013, p. 257.

28 Cfr. H. G. Koenigsberger, ‘Dominium Regale’ or ‘Dominium Politicum et Regale’. Monarchies and Parliaments in Early Modern Europe, in Aa. Vv., Politicians and Virtuosi. Essays in Early Modern Europe, Londra, 1986, pp. 1-25; J. H. Elliott, A Europe of Composite Monarchies, in «Past & Present», n. 137, 1992, pp. 48-71.

29 Cfr. C. Mozzarelli, G. Venturi (a cura di), L’Europa delle corti alla fine dell’antico regime, Bulzoni, Roma, 1991.

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Schiera30: questa raccolta di studi e ricerche che si erano preposti di approfondire il tema ha

senza dubbio spinto verso una svolta nella storiografia italiana, in precedenza molto meno stimolata dal dibattito che in altri Paesi si era sviluppato sullo Stato moderno31. I due curatori

partivano dall’assunto che lo Stato rappresentasse «un fenomeno centrale per la storia dell’organizzazione del potere nell’Europa moderna»32, segnando una netta controtendenza

con la storiografia di impostazione marxista più attenta alla ricostruzione dei conflitti di classe nella transizione da feudalesimo a capitalismo e alla storia sociale come propugnata dalle seconde Annales. Questa pubblicazione non si limitava a una semplice esposizione della produzione europea sul tema, anzi, gli autori proponevano un vero e proprio modello interpretativo ispirato alla storiografia tedesca e che aveva due idee complementari alla base: da un lato, la presenza simultanea, nel processo di formazione dello Stato moderno, del fenomeno della concentrazione del potere e di quello delle varie forme di resistenza a questo processo; dall’altro, la distinzione di fasi differenti, tra le quali la più antica – lo Stato di ordini – si caratterizzava per la sopravvivenza di un sistema pluralista di poteri, garantiti e legittimati da un regime di privilegi e di patti istituzionali33. Inoltre, essi parlavano di

«concentrazione del potere» e di «partecipazione al potere» come dei «due aspetti centrali» della vicenda dello “Stato moderno”34. Insomma, se da un lato si ebbe una svolta decisa verso

il recupero della tradizione della storiografia tedesca sullo Stato, dall’altro possiamo notare, con le parole di Fasano Guarini, come la visione più rigida dello Stato moderno era costretta a segnare il passo in favore dell’idea «selon laquelle la pluralité des centres de pouvoir et la souscription des pactes a été un des éléments essentiels dans les constitutions des États d’Ancien Régime»35. Un’idea che metteva in risalto le basi contrattuali del potere centrale e

che entrò all’interno dei paradigmi adottati dagli storici per descrivere lo Stato in Età Moderna, lasciando il segno e modificandoli. Nei suoi scritti più recenti lo stesso Rotelli ha

30 E. Rotelli, P. Schiera (a cura di), Lo Stato moderno, 3 voll., Il Mulino, Bologna, 1971-1974.

31 È abbastanza singolare come Benigno – nell’articolo più volte citato sulla storiografia dello Stato moderno – non sembri dare troppa importanza a questa pubblicazione. Un ruolo di svola decisiva per la storiografia italiana le è, invece, riconosciuto da Fasano Guarini in E. Fasano Guarini, Centro e periferia, accentramento e particolarismi: dicotomia o sostanza degli Stati in età moderna?, in G. Chittolini, A. Molho, P. Schiera (a cura di), Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, Il Mulino, Bologna, 1994.

32 E. Rotelli, P. Schiera, Introduzione, in Id. (a cura di), Lo Stato moderno, vol. I, p. 8. 33 Cfr. E. Rotelli, P. Schiera (a cura di), Lo Stato moderno, cit., vol. I.

34 Cfr. Ibidem, p. 9.

35 E. Fasano Guarini, «État moderne» et Anciens États italiens. Élements d’histoire comparée, in «Revue d’histoire moderne et contemporaine», 45, n°1, 1998, p. 30. Corsivo nostro.

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lamentato come «una cospicua storiografia giuridica e politica, spagnola, portoghese, italiana, nonché tedesca, [abbia] proceduto alacremente dagli anni Ottanta alla progressiva demolizione dello Stato quale ‘paradigma’ politico-istituzionale della seconda metà del secondo millennio dell’era cristiana»36. In effetti, l’affermazione di nuovi paradigmi rese

necessaria una profonda rivisitazione del modello, che è stato costantemente messo alla prova e rielaborato. Si pensi, per fare un esempio, all’influenza dell’opera di Denis Richet che invitava a «interessarci meno alle istituzioni in quanto tali che al loro ‘spirito’, cioè alla loro logica interna e alla loro coerenza storica»37: nella sua ricostruzione “rivoluzionaria” della

Francia moderna sottolineò le possibili trappole che si annidano nella storia istituzionale, poiché la pratica del sistema non sempre corrispondeva alla teoria annunciata dalle fonti prese in esame dalla storiografia dello “Stato moderno”. Così, si possono individuare “tempi forti” e “tempi deboli” dell’esercizio del potere regio, mentre non era corretto secondo Richet parlare di una storia unilaterale di accentramento del potere regio38. Facendo l’esempio degli

intendenti francesi, degli uomini di governo e dei funzionari di fiducia del re, dei vari officiers e commissari che garantivano la continuità istituzionale e l’efficacia dell’azione dello Stato, lo storico francese sottolineava come essi «non si trovavano di fronte a un ‘vuoto’. Al loro fianco, o talvolta schierati contro di loro, e – più spesso – confusi con loro, alcuni notabili erano chiamati a intervenire nei processi decisionali: tra governanti e governati s’interponevano così i poteri concorrenti»39. Sarebbe a dire l’intricato sistema di corpi

rappresentati e di gruppi sociali che avevano la possibilità e la capacità di esercitare un’influenza diretta sulle decisioni regie e di plasmare in maniera decisiva lo “spirito delle istituzioni”, intese non come espressioni della teoria giuridica, ma come forme concrete di esercizio delle funzioni statali. L’interpretazione del Richet si muoveva all’interno dei parametri dello “Stato moderno”, ma ne contestava le versioni più rigide e, significativamente, la tipologia di fonti, poiché rischiavano di concentrare l’attenzione soltanto sul piano politico-istituzionale e giuridico, perdendo di vista l’effettiva pratica amministrativa delle istituzioni politiche storiche e dei loro protagonisti. In un testo del 1981, un sostenitore della validità della categoria dello “Stato moderno” come chiave interpretativa

36 E. Rotelli, I confini dello Stato moderno, in «Amministrare», n. 1, supplemento, 2013, pp. 278.

37 D. Richet, Lo spirito delle istituzioni, Esperienze costituzionali nella Francia moderna, Laterza, Roma-bari, 1998 [ed. or., La France Moderne: l’esprit des institutions, Flammarion, Paris, 1973], p. 4.

38 Cfr. Ibidem, p. 54 e ss. 39 Ibidem, p. 91. Corsivo nostro.

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del sistema politico proprio dell’Europa moderna come Gianfranco Miglio ha significativamente individuato due punti cruciali che mettono in evidenza questo slittamento e che, secondo l’autore, risultavano all’opera fin dentro il XIX secolo: si riferiva ad un «sistema politico dominato dalla funzione pubblica diffusa e dal potere contrattato»40. Due concetti che

oggi contengono una valenza interpretativa fondamentale per lo studio dello Stato e delle forme del potere politico in Età Moderna.

Nondimeno, il concetto di “Stato moderno” è rimasto fortemente radicato nella storiografia. Come ha scritto Gian Giacomo Ortu, «lo Stato moderno è un avvenimento di tale complessità da essere normalmente assunto, oltre la sua propria particolarità storica, come significativo delle maggiori trasformazioni strutturali che intervengono nella società europea tra l’epoca medievale e l’epoca contemporanea»41. Siamo davanti a una categoria densa di

significato, alla quale è stata conferita una funzione esplicativa estesa a tanti ambiti diversi: è proprio questa molteplicità di valenze interpretative a rendere tutt’oggi lo “Stato moderno” un’approssimazione concettuale da utilizzare e, al tempo stesso, da approfondire e mettere alla prova. Senz’altro possiamo concludere dicendo che molti studiosi – da diverse prospettive e provenendo da differenti scuole di ricerca – si sono concentrati sul progressivo accentramento dei poteri nello sviluppo dello Stato in Età Moderna. Definizioni concettuali come quelle di “Stato moderno”, “Stato assoluto” e “Dispotismo illuminato” sono servite a inquadrare le caratteristiche salienti e i fattori più rilevanti di questo processo, nonché a segnare le differenze del fenomeno sul piano cronologico e geografico. È importante sottolineare come in questi studi si sia riconosciuta sempre maggiore centralità alle questioni del militare (innovazione tecniche e tattiche, crescita esponenziale dei costi finanziari, impatto sulla società) e allo sviluppo delle strutture fiscali e amministrative dello Stato. Accanto allo scontro tra il potere politico centrale e le diverse forme del potere locale e territoriale, i due argomenti al centro della riflessione storiografica sulla formazione dello Stato e sul consolidamento del suo potere centrale in Età Moderna sono stati proprio la guerra e la fiscalità. La descrizione storica di queste opere, per quanto facesse rientrare a pieno questi argomenti nella propria trattazione, rimane, tuttavia, ancorata perlopiù a un’indagine su fonti di carattere legislativo e giuridico, così come alla documentazione più direttamente legate

40 G. Miglio, Genesi e trasformazioni del termine concetto ‘Stato’, Morcelliana, Brescia, 2007, p. 82. Corsivo nostro.

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