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Il controllo dei bilanci comunitativi: le entrate dei Nove conservatori (1665-1737)

GLI ULTIMI MEDICI TRA DECADENZA, STABILITÀ E INNOVAZIONE DELLA FINANZA PUBBLICA (1670-1737)

4.2 Il controllo dei bilanci comunitativi: le entrate dei Nove conservatori (1665-1737)

Una interessante combinazione di fattori – nuovi equilibri sociali, esigenze finanziarie, interessi politici ed economici – portarono ad un’ampia riflessione sugli strumenti legislativi e amministrativi legati all’apparato fiscale, sfociando talvolta in modifiche significative del sistema. Alla luce del dibattito storiografico ricostruito, resta oggetto di discussione l’effettivo impatto che le strategie politiche e i progetti di “riforma” ebbero sulla struttura finanziaria del Granducato nell’epoca tardo-medicea. Non vi è stata, infatti, una completa convergenza di opinioni circa i risultai di questi interventi: Paola Benigni, per esempio, affermava per le

31 M. Verga, Lotta politica e riforma delle istituzioni nel Granducato di Toscana fra Sei e Settecento. Una risposta a J.C. Waquet, in «Società e storia», n° 54, 1991, 932.

riforme tentate nei vari settori della giustizia, della fiscalità e del governo del territorio erano da considerasi «tendenzialmente fallite»33; Giuseppe Pansini rincarava la dose, dicendo che «i

tentativi furono fatti, e numerosi, ma fallirono tutti»34. Anche queste visioni più critiche circa

gli effetti delle politiche di Cosimo III riconoscevano, però, l’esistenza di un progetto centralizzatore e di un disegno di espandere la base del prelievo fiscale. Riteniamo, pertanto, interessante provare a fornire qualche spunto di riflessione per interpretare l’efficacia degli interventi presi in esame dalla letteratura. Un primo terreno privilegiato per testare questa materia è rappresentato dalle trasformazioni impresse al Magistrato dei Nove: la problematica del rapporto fra potere sovrano e risorse comunitative è stata senza dubbio una delle questioni principali che hanno impegnato la classe dirigente del tempo.Abbiamo già descritto i passaggi che portarono Cosimo III a nominare nei primi anni del proprio regno Commissioni, Congregazioni e Deputazioni di riforma che investivano il sistema istituzionale del Granducato35. In particolare la riflessione sulla Magistratura dei Nove Conservatori, che trovò

un punto di approdo in successivi interventi di riforma36, è stata indicata come la più

rappresentativa della “stagione riformista” di Cosimo III e della spinta verso l’obiettivo di chiarire le competenze delle diverse magistrature centrali, riaffermando riaffermare un controllo amministrativo del centro sui bilanci delle comunità37 Ci sembra interessante

verificare questa chiave interpretativa, attraverso la consultazione di altre letture bibliografiche e dei testi legislativi del tempo, ma soprattutto di fonti di carattere contabile che ci possano rendere l’andamento quantitativo dei proventi ricavati dai Nove.

In primo luogo, è bene tenere a mente come altre letture hanno indicato una maggiore continuità nel rapporto “tutorio” fra magistrature centrali del Graducato e comunità soggette. È il caso della tesi di fondo del già citato Sovrano tutore di Luca Mannori38. L’interpretazione

dello Stato toscano che emerge da questa opera punta soprattutto sul ruolo esercitato

33 P. Benigni, Francesco Feroni: da mercante di schiavi a burocrate, cit., p. 181.

34 G. Pansini, Per una storia del debito pubblico e della fiscalità al tempo di Cosimo III dei Medici, in F. Angiolini, V. Becagli, M. Verga (a cura di), La Toscana nell’età di Cosimo III, cit., p. 295.

35 Per una sintesi cfr. E. Fasano Guarini, Lo Stato di Cosimo III, cit., 113-136.

36 La prima riforma è rintracciabile con il Motuproprio granducale del 27 febbraio 1682; si continua ad intervenire sul magistrato dei Nove successivamente con gli editti del 12 febbraio 1683 e del 23 novembre 1685, cfr. L. Cantini, Legislazione toscana,vol. XIX, ristampa digitale a cura di M. Montorzi, Ets, Pisa, 2003, pp. 283-288 e pp. 388-391.

37 Cfr. M. Verga, Appunti per una storia politica del Granducato di Cosimo III, cit., pp. 335-354.

38 Cfr. L. Mannori, Il Sovrano tutore. Pluralismo istituzionale e accentramento amministrativo nel principato dei Medici (secc. XVI-XVIIII), Giuffré, Milano, 1994.,

dall’accentramento amministrativo, che andava a discapito dell’autonomia delle comunità: era rimasto in piedi, anche dopo la fondazione del principato, un ordinamento politico plurale; il sovrano era all’apice di questo ordinamento, ma la sua posizione non era quella di un principe assoluto di fronte al quale erano direttamente sottomessi tutti gli individui dello Stato toscano, le sue competenze dirette non abbracciavano la totalità degli interessi pubblici; semmai, i cittadini delle comunità e gli abitanti del contado potevano contare sul potere regolativo e sulla tutela dei propri interessi che venivano esercitati dal principe e dai suoi uffici. Il centro politico assumeva in cura tutta una quantità di nuovi interessi sociali, attraverso il continuo controllo e la direzione degli enti intermedi, ai quali, però, viene lasciato per intero l’onere effettivo di svolgere le attività, finanziare le prestazioni e organizzare i servizi corrispondenti. In altre parole, «la relazione tra centro e periferia tende a definirsi sulla falsariga di un rapporto tutorio: in cui la comunità, pur vedendo crescere continuamente il novero dei propri compiti, non è ritenuta in grado di gestirli da sola, ed è quindi obbligata a ricercare ogni volta la convalida delle autorità centrali»39. Lo sforzo di controllo sull’operato delle comunità non

era pertanto una novità degli ultimi decenni del XVII secolo; inoltre, Mannori suggeriva di interpretarlo secondo ragioni di ordine più politico che finanziario: anche il «controllo della spesa locale costituisce il modo più efficace per rafforzare la posizione del centro»40 in una

struttura dall’origine federativa e non cementata da alcun lealismo dinastico profondamente radicato. Mannori, soprattutto, non dedicava spazio alle riforme intervenute sulle magistrature tutorie negli anni ‘70 e ‘80 del Seicento: una differenza fondamentale rispetto a Verga, il quale al contrario aveva affermato che «appare difficile vedere nelle misure di riforma di queste magistrature varate alla fine del secolo e nelle norme che assicuravano a queste spazi di intervento e di controllo della comunità, prima negati e forse neppure cercati, una sostanziale continuità con le normi e le prassi che avevano regolato negli Stati italiani i rapporti tra poteri centrali e comunità»41. Per Mannori, invece, «la centralizzazione assunse assai più la forma di

una continua mediazione tra esigenze fiscali del principe, rivendicazioni delle oligarchie locali e bisogni vitali delle masse contadine che non l’aspetto di un governo realmente verticalizzato»42. Assistiamo, insomma, a una dialettica tra una lettura che sottolineava gli

39 Ibidem, p. 139. 40 Ibidem, p. 157.

41 M. Verga, Tra Sei e Settecento, cit., p. 110. 42 L. Mannori, Il Sovrano tutore, cit., p. 211.

elementi di continuità e un’interpretazione che indicava un salto di qualità nelle riforme di Cosimo III43.

Conviene, pertanto, ricostruire l’insieme di motivazioni che portarono la Deputazione per la riforma dei Magistrati (istituita nel 1675) ad occuparsi sin da subito della problematica del controllo amministrativo delle comunità dello Stato. All’interno di questo ambito, infatti, rientravano, oltre ai Nove, anche altri uffici centrali, in particolare i Capitani di Parte guelfa, che, come indicato da Carlo Vivoli, è stato «spesso considerato una sorta di ministero dei lavori pubblici del Granducato di Toscana»44 o almeno del territorio rientrante nel contado e

nel distretto fiorentino. Lo stesso Vivoli ha ricordato come l’urgenza di una revisione delle competenze dei Nove fosse dovuta anche a un sempre più aspro conflitto di competenze apertosi fra i Nove e la Parte circa le rispettive competenze in materia di lavori pubblici sul territorio la magistratura dei Capitani di Parte guelfa in materia di lavori pubblici45. La

controversia aveva trovato degli aggiustamenti parziali sotto Ferdinando II, ma era assolutamente necessario tornare sulla materia e individuare delle soluzioni definitive. Tuttavia, le questioni da affrontare andavano ben oltre la diatriba sulle competenze fra i due uffici centrali: «tra i nodi da sciogliere vi era quello dell’eccessivo indebitamento delle comunità», un tema ricorrente negli ultimi decenni del Seicento e che il potere centrale provò ad affrontare con un significativo interventismo46; senza dubbio si volevano eliminare le

«inefficienze e malversazioni nell’attività di controllo e di verifica dei lavori, ma anche la sperequazione fiscale tra i cittadini fiorentini e gli altri sudditi nel contribuire al reperimento delle somme necessarie per i lavori»47. Siamo, quindi, di fronte a una pluralità di motivi per

una riforma, che di conseguenza rispondeva a vari principi politici, non solo a una tendenza accentratrice volta a rivedere l’assetto istituzionale. Lo stesso Verga ammetteva che il bisogno dei poteri centrali di assicurare maggiori e certe entrate per sopperire alle spese in aumento si affiancava alla necessità di salvaguardare le comunità e i lori patrimoni da un eccessivo indebitamento48. Ancora più esplicite sono le considerazioni di Paola Benigni: «alla necessità,

43 Mannori nella sua opera sembra più propenso a sottolineare le rotture e le svolte che vennero compiute in materia fiscale e di lavori pubblici sotto la Reggenza lorenese, cfr. Ibidem, p. 304 e ss.

44 C. Vivoli, I lavori pubblici sotto Cosimo III, cit., p. 225. 45 Cfr. Ibidem, p. 230 e ss.

46 Cfr. L. Dal Pane, La finanza toscana, p. 37.

47 C. Vivoli, I lavori pubblici sotto Cosimo III, cit., p. 232.

ormai urgente, di rivitalizzare le entrate dello Stato, allentando la pressione esercitata sui sudditi da un apparato giudiziario esoso e macchinoso e da una burocrazia parassitaria e corrotta, era infatti strettamente connessa l’esigenza politica di rilanciare il ruolo del Principe- padre, tutore della giustizia e dei poveri»49. Ci sembra, dunque, che si andassero a sovrapporre

obiettivi differenti e che, per certi versi, coesistessero due immagini, per certi versi contrastanti, del ruolo politico del sovrano: da un lato, una nuova sensibilità accentratrice per l’affermazione della prerogative dell’autorità statale nei confronti della “periferia”; dall’altro, una preoccupazione costante circa la cura delle comunità, soprattutto dei più deboli che erano esclusi dalla loro gestione, ma erano comunque chiamati a contribuire alla loro sostenibilità. Questa seconda prospettiva era un aspetto non secondario del governo di Cosimo III. Consultando la Legislazione toscana curata da Lorenzo Cantini nei primi anni dell’Ottocento50, abbiamo rintracciato provvedimenti che confermano tale impressione. Si

prenda ad esempio una lettera che riporta come data l’8 agosto 1681, scritta dal depositario generale Francesco Feroni al Cancelliere della Grascia51. Feroni comunicava una decisione del

Granduca, il quale aveva deciso di abolire l’appalto, prossimo a un nuovo “incanto”, della vendita delle castagne cotte e crude, «il tutto per utile e benefizio de Poveri» e assicurandosi che «se ne faccia Bando pubblico acciò che venghino tutti i Poveri avvertiti»52. I meno

abbienti potevano, infatti, trovare in alcuni periodi dell’anno un’importante integrazione del proprio reddito mediante questo modesto traffico e Cosimo III era deciso ad andare incontro alle loro esigenze. Sicuramente, aiutava anche il fatto che i proventi per l’erario dell’appalto in questione dovevano essere davvero poco rilevanti; resta, tuttavia, molto evidente l’impostazione paternalistica nei confronti della popolazione più umile.

L’interpretazione di Verga si basava in primo luogo sull’attività della Deputazione nominata da Cosimo III e sull’analisi della memoria sul Magistrato dei Nove che questa elaborò per il sovrano agli inizi del 168253. La Deputazione aveva concentrato subito i propri

sforzi sui Nove, tanto che già nel 1677 aveva prodotto alcune Considerazioni per la riforma del Magistrato de Nove54 e ravvisato i seguenti problemi: l’eccessiva complessità della

49 P. Benigni, Francesco Feroni, cit., p. 178.

50 L. Cantini, Legislazione toscana, ristampa digitale a cura di M. Montorzi, Ets, Pisa, 2003 51 Cfr. Ibidem, vol. XIX, pp. 234-235.

52 Ibidem, p. 234.

53 Cfr. M. Verga, Appunti per una storia politica del Granducato di Cosimo III, cit., pp. 341-346. 54 ASFi, Auditore dei benefici, poi segreteria del Regio Diritto, f. 6063, cc. n. nn.

gerarchia dei camerlenghi subordinati e la consistenza delle loro malversazioni; l’incidenza delle spese straordinarie nei bilanci comunitativi; la ricorrente questione delle forti sperequazioni nella distribuzione del peso fiscale. Si suggerivano, di contro, delle possibili soluzioni: ridurre drasticamente il numero dei camerlinghi subordinati; prevedere una più rigorosa e sistematica azione di controllo sul loro operato oppure, in alternativa, di passare all’appalto nella riscossione anche delle imposte dirette; limitare le spese straordinarie e ridurre lo strapotere del Soprassindaco dei Nove55. Le iniziative di riforma, tuttavia, non

vennero intraprese prima del decennio successivo. Nel 1681 vennero chiamati a sedere al magistrato dei Nove uomini che erano stati al centro della discussione sulle modifiche istituzionali da predisporre – come il senatore Alamanno Arrighi e Giuseppe Bonaventura del Teglia – e si procedette in meno di un anno nella redazione della memoria per Cosimo III. Le indicazioni contenute in essa furono sostanzialmente recepite da Cosimo III nel Motuproprio granducale del 27 febbraio 1682, che si concentrò soprattutto su due temi politici: in primo luogo, la chiarificazione delle competenze e delle responsabilità delle magistrature fiorentine incaricate del controllo del territorio, prendendo di fatto posizione in favore dei Nove e sottraendo autorità d’intervento sulle amministrazioni locali, in particolare sul livello delle loro spese, ad altri uffici centrali, su tutti i Capitani di Parte guelfa. Al tempo stesso, «veniva ridotta al minimo quella rete di camarlinghi, di rettori dei popoli che “maneggiavano” denaro e soprattutto semplificate, e sottoposte quindi a un controllo più immediato e diretto, le amministrazioni delle comunità»56. Notiamo, quindi, una certa continuità con il ragionamento

avviato all’interno della Deputazione a metà degli anni ‘70. Negli anni successivi, tuttavia, si verificarono altri interventi per migliorare l’organizzazione e l’attività istituzionale del Magistrato dei Nove. Venne presa di mira soprattutto la suddivisione delle diverse mansioni tra i vari deputati dei Nove, in modo da razionalizzare il lavoro. Con l’Editto per il magistrato dei Nove del dì 12 febbraio 168357 il sovrano indicava la necessità di proseguire lo sforzo di

riforma sopra i vicariati e le comunità, nell’ottica di un loro maggiore controllo da parte della magistratura, ma si concentrava in particolare sui problemi che affliggevano i «luoghi pii sottoposti nei quali S.A. ha notizia esserci molti disordini»58. Per rimediarvi, si disponeva che

55 Cfr. P. Benigni, Francesco Feroni, cit., pp. 179-181.

56 Ibidem, pp. 344-345. Per la memoria della Deputazione e il Motuproprio granducale del 1682, cfr. ASFi, Carte Bardi, s. III, f. 154.

57 L. Cantini, Legislazione Toscana, cit., vol. XIX, pp. 283-288. 58 Ibidem, p. 284.

il collegio dei Nove dovesse essere suddiviso in due classi, ciascuna di 4 membri e con la presenza in entrambe del senatore Alamanno Arrighi, figura centrale dell’attività istituzionale del magistrato in questi decenni decisivi. La prima classe si sarebbe dovuta occupare dei luoghi pii e dei monti eretti su di essi, nonché di seguire i processi di riforma degli statuti delle comunità. Alla seconda classe, invece, erano assegnati i «negozi e gli affari di Vicariati, Potesterie, Comunità e Popoli»59, in sostanza gli affari ordinari della rete multi-livello di realtà

istituzionali locali e di area che si dispiegava sull’intero territorio del Granducato. Questo assetto organizzativo non dovette soddisfare troppo gli uomini di governo toscani, tant’è che solo due anni più tardi la distinzione dei compiti fu ulteriormente modificata. Venne confermata la suddivisione in due classi dei deputati del magistrato per le «cose contenziose ordinarie», mentre si sarebbe dovuta mantenere la «resoluzione di tutto il Magistrato ne’ negozi gravi». Tuttavia, cambiavano i criteri di ripartizione degli affari: «a ciascheduna delle dette due classi s’assegni la metà dei’ luoghi di tutto il suo Stato sottoposto al governo del Magistrato»60. La preoccupazione per lo Stato di malversazione dei luoghi pii non era più

prioritaria come pochi anni prima oppure la suddivisione delle competenze stabilita nel 1683 non aveva dato i frutti sperati? Difficile a dirsi dalla lettura degli Editti, che al massimo sottolineavano l’esigenza di rendere più “spedito” il lavoro. Possiamo, però, affermare che prevalse in questa fase, cioè alla fine del periodo di riflessione sulle modifiche da introdurre nei Nove, il criterio della territorialità nella conduzione degli affari. Inoltre, ci sembra significativo rilevare come la principale preoccupazione di questi successivi interventi legislativi fosse l’efficienza amministrativa del funzionamento ordinario della magistratura. Da questi testi, insomma, il motivo finanziario sembra occupare una posizione di secondo piano o, al massimo, collaterale all’efficienza del controllo tutorio che spettava ai Nove.

Possiamo farci un’idea maggiore della manovra finanziaria prodotta per le casse dello Stato centrale dell’intervento legislativo sulla magistratura dei Nove con l’analisi della serie di saldi di entrata e uscita per le diverse partite assegnate a tale ufficio e che venivano analizzate dai Sindaci per stilare la revisione contabile. Questa documentazione è stata utilizzata non di rado dagli studiosi per analizzare una singola magistratura61 o per utilizzare i

59 Ibidem, p. 285.

60 Le citazioni sono prese da Lettera circolare del Magistrato de Nove alle Comunità per causa della divisione degli affari del dì 4 dicembre 1685, in L. Cantini, Legislazione toscana, cit., vol. XIX, p. 388.

dati come supporto per inferenze più generali, come la congiuntura economica62. Per quanto

riguarda i Nove conservatori abbiamo la possibilità di confrontare l’andamento di diversi e distinti conti che erano aperti nella cassa del magistrato, con l’obiettivo di comprenderne l’evoluzione compiuta tra gli ultimi anni del regno di Ferdinando II e l’estinzione della dinastia medicea. I ristretti generali di entrata e uscita dei Nove conservatori del Dominio fiorentino63 presentano separatamente i seguenti conti: Decima del Contado e dei Sobborghi,

Conto universale, Tassa dei Cavalli, Entrate per Depositi, Entrate dai Rettori. Ci siamo concentrati in particolare sui dati riportati sotto la dicitura “Somma delle entrate e uscite dei Nove Conservadori per un anno”, che mettono insieme le entrate della Decima del Contado – la più consistente – con altri cespiti secondari, come le tasse del Distretto, le tasse del Contado, l’entrata di Lettere, l’entrata di Cavallari e Messi, poiché da questa ci possiamo fare un’idea dell’andamento delle entrate ordinarie del magistrato. Abbiamo inoltre recuperato i dati del “Conto delle spese universali”, perché questi a loro volta consentono di monitorare l’evoluzione di una contribuzione richiesta alle comunità con caratteristiche particolari: come abbiamo visto, non si trattava di una entrata fissa e ordinaria, ma di un conto che poteva variare sensibilmente di anno in anno in quanto a consistenza e a finalità. Nel periodo preso ora in esame si erano già aggiunte moltissime voci a quella che in origine era la sola ragion d’essere del conto, cioè le spese per gli alloggi delle truppe. Nel complesso, queste cifre rendono conto di una parte importante delle imposte riscosse a livello locale che finivano nelle casse centrali del Granducato di Toscana. Le comunità erano sottoposte non soltanto al controllo tutorio del magistrato dei Nove, ma, com’è noto, erano chiamate a soddisfare il “chiesto dei Nove”, cioè a corrispondere le cifre relative agli oneri spesso già sostenuti dall’ufficio centrale e che venivano imputati alle comunità. Possiamo dire che il volume di queste riscossioni aumentò a seguito delle “riforme” dei Nove progettate e realizzate dai ministri di Cosimo III?

61 Si pensi al già citato studio di Contini sulla tassa delle farine, A. Contini, La riforma della tassa delle farine, cit., pp. 241-273.

62 Si pensi allo studio di Addobbati sugli stallaggi della dogana di Livorno, A. Addobbati, Commercio rischio guerra. Il mercato delle assicurazioni marittime di Livorno (1694-1795), Edizioni di storia e letteratura, Roma, 2007.

63 Cfr. ASFi, Sindaci, ff. 411-416 per gli anni dal 1665 al 1737. I dati riportati in questo paragrafo fanno tutti riferimento a questa serie documentaria. Cfr. il Grafico 1 a p. 54, la Tabella 4 a p. 56 e i dati sul Magistrato dei Nove riportate Appendice.

Guardando le entrate e le uscite ordinarie dei Nove, notiamo dai ristretti presi in esame che la parte del leone nella sezione delle entrate era decisamente svolta dalla Decima del contado: il suo valore risultava per tutto il periodo preso in esame fra i due terzi e i tre quarti dell’ammontare complessivo dell’entrata. I dati ci parlano di una significativa impennata delle cifre relative alla Decima del Contado a metà degli anni ‘80 del Seicento: la media della voce di entrata negli anni 1665-1669 era ferma a 38.926 lire; negli anni ‘70 restò sempre al di sotto delle 45.000 lire, mentre tra il 1680 e il 1685 la media annuale salì a 48.143 lire. Tuttavia, è dai dati dell’anno successivo che registriamo una vera e propria impennata: la media del quinquennio successivo sale a 117.303 lire, con picchi che arrivano quasi a 150.000 lire toscane64. Questo straordinario aumento trascinava l’entrata complessiva che toccò nel 1688 la

vetta di 167.174 lire toscane, mentre la media del quinquennio precedente all’insediamento di Cosimo III era giusto di 58.587 lire. La cassa dei Nove, insomma, poteva contare su