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PICCOLO STATO E “ANTICHI STATI ITALIANI”: SPECIFICITÀ E PROBLEMI COMUN

2.1 Il “piccolo Stato” in Età Moderna

Il “piccolo Stato”, dunque, può essere considerato sia una realtà storica fattuale, sia uno strumento di analisi proprio della teoria politica del tempo. Soprattutto in relazione alla prima declinazione, possiamo dire che non abbia riscontrato nella storiografia un interesse nemmeno lontanamente paragonabile a quello suscitato dalle grandi potenze2. Troppo spesso il “piccolo

Stato” è rientrato sotto la lente dello storico soltanto in virtù dell’essere entrato nelle dispute fra due o più grandi potenze. A questo sostanziale disinteresse da parte della storiografia più datata – con la significativa, per quanto al suo tempo del tutto isolata, eccezione dei contributi

2 Nel suo Il piccolo Stato nell’età moderna, Maurizio Bazzoli sottolinea come per il “piccolo Stato” non si possa indicare niente di paragonabile all’opera di Paul Kennedy sull’ascesa e il declino delle grandi potenze, cfr. M. Bazzoli, Il piccolo Stato nell’età moderna. Studi su un concetto della politica internazionale tra XVI e XVIII secolo, Jaca Book, Milano, 1990, p. 11; P. Kennedy, The Rise and Fall of th Great Powers, Random, New York, 1987.

di Werner Kaegi3 – si sommano altre difficoltà nella concettualizzazione della categoria di

“piccolo Stato”. Da più parti è stata ravvisata l’intrinseca ambiguità del termine4: se, come

abbiamo visto nel primo capitolo, già la definizione di “Stato” porta con sé una serie di questioni e molteplici declinazioni, un aggettivo come “piccolo” risulta carico di interrogativi problematici. Tale definizione presenta un carattere marcatamente relazionale, nel senso che non può essere colta se non in rapporto con altre entità statali più grandi. Inoltre, apre alla sua applicazione in termini valoriali: il “piccolo Stato” può qualificarsi sulla base della sua estensione territoriale o della numerosità della propria popolazione, della salute della propria economia oppure del suo grado di autonomia nelle relazioni internazionali e nella politica estera.

Fortunatamente, oggi possiamo contare su almeno quattro volumi, usciti in Italia negli ultimi 25 anni, che fanno il punto della situazione sulle elaborazioni concettuali che hanno dato linfa vitale al “piccolo Stato”. Ci riferiamo ai già citati studi di Maurizio Bazzoli sul piccolo Stato in Età Moderna5, agli atti dei convegni di Firenze6 e di San Marino7, nonché al

più recente contributo di Blythe Alice Raviola dall’accattivante titolo L’Europa dei piccoli Stati8. La prima cosa che possiamo estrapolare da questi studi è il fatto che “piccolo Stato” è

soprattutto una categoria intrinseca al pensiero politico dell’Europa moderna. Già a partire dalla riflessione teorica della penisola italiana del XVI secolo – all’interno di un’elaborazione sollecitata dal dramma delle guerre d’Italia e dell’incapacità degli Stati italiani di far fronte alla calata degli eserciti francesi e spagnoli, che avevano messo in luce la sproporzione di forze tra le monarchie transalpine e le formazioni statali italiane – possiamo notare continui riferimenti a questa dimensione e la sentita necessità degli autori di confrontarsi con tale realtà. Machiavelli e Guicciardini, per citare due tra i pensatori del XVI secolo più influenti a livello italiano ed europeo, tornano frequentemente sulla problematica della grandezza

3 Cfr. W. Kaegi, Meditazioni storiche, ed. it. di D. Cantimori, Laterza, Bari, 1960, pp. 1-90, in particolare i saggi Sul piccolo stato nella storia della Vecchia Europa e Il piccolo stato nel pensiero europeo.

4 Cfr. F. Cardini, Introduzione, in L. Barletta, F. Cardini, G. Galasso (a cura di), Il piccolo Stato. Politica, storia, diplomazia. Atti del Convegno di Studi di San Marino, Antico Monastero di Santa Chiara, 11-13 ottobre 2001, Aiep, San Marino, p. 17.

5 Gli studi di Bazzoli sull’argomento sono stati raccolti in M. Bazzoli, Il piccolo Stato nell’età moderna, cit. 6 E. Gabba, A. Schiavone (a cura di), Polis e piccolo stato tra riflessione antica e pensiero moderno. Atti delle

giornate di studio, Firenze, 21-22 febbraio 1997, Edizioni New Press, Como, 1999.

7 L. Barletta, F. Cardini, G. Galasso (a cura di), Il piccolo Stato. Politica, storia, diplomazia. Atti del convegno di Studi di San Marino, Antico Monastero di Santa Chiara, 11-13 ottobre 2001, Aiep, San Marino, 2003. 8 B. A. Raviola, L’Europa dei piccoli Stati. Dalla prima età moderna al declino dell’Antico Regime, Carocci,

auspicabile di uno Stato per la propria conservazione, sicurezza e possibilità di sviluppo. Per il primo le dimensioni dello Stato non sembrano dirimenti per la sua stabilità: il “piccolo Stato” può mantenersi libero e sicuro quando si presentano condizioni politiche favorevoli, come nel caso delle libere città tedesche; in caso contrario, sarà obbligato ad ingrandirsi a discapito di altri, secondo una politica di potenza e di conquista, oppure in collaborazione con altri, attraverso la costruzione di leghe sul modello federale svizzero9. Guicciardini, invece, ha

scritto delle pagine nelle quali la sicurezza dello Stato sembra essere in più stretto rapporto con le proprie dimensioni: una riflessione amara, sulla scorta di quanto stava accadendo intorno a lui, sulle difficoltà del piccolo Stato a resistere alle pretese degli Stati maggiori, con il rischio sempre più incalzante di soccombere. Giuseppe Galasso ha, inoltre, sottolineato due aspetti interessanti della riflessione del Guicciardini sul “piccolo Stato”: in primo luogo, parlando del dominio toscano dei Fiorentini, traccia una connessione, densa di conseguenze, tra le realtà politiche minori e la libertà dei popoli10; inoltre, possiamo registrare un uso

frequente dell’aggettivo “piccolo”, non solo in riferimento alle formazioni statali di più piccole dimensioni, ma anche a compagini politiche importanti come il Regno d’Aragona di Ferdinando il Cattolico, “piccolo” in relazione alle risorse a disposizione del Regno di Castiglia e per il fatto di non poter vantare un’assoluta autorità regia su tutte le materie nelle province del proprio regno11. Queste considerazioni estratte – utilizzando il contributo di

Giuseppe Galasso al convegno di studi di San Marino sul “piccolo Stato” – dalle opere di Machiavelli e Guicciardini sono utili per indicare alcune questioni significative riguardo al tema: innanzitutto, la riflessione teorica sul “piccolo Stato” appare intrinsecamente connessa con il dibattito politico coevo, quindi con le proposte e le soluzioni offerte da scrittori e

9 Cfr. G. Galasso, “Piccolo Stato” e storiografia italiana dal Rinascimento al Risorgimento, in L. Barletta, F. Cardini, G. Galasso (a cura di), Il piccolo Stato, cit., p. 132.

10 Questa spinta alla libertà va intesa, nel pensiero del Guicciardini, soprattutto come una indole antidispotica e repubblicana che si radica nella nobiltà delle città toscane, non come una spinta a forme di governo pienamente democratiche. Per tornare alle considerazioni sul dominio dei Fiorentini, Guicciardini sottolinea come sia «da ammirare che e’ Fiorentini abbino acquistato quello poco dominio che hanno e’ Veneziani o altro principi di Italia el suo grande, perché in ogni piccolo luogo di Toscana era radicata la libertà in modo che tutti sono stati inimici a questa grandezza […] Non è un piccolo luogo in Toscana che non sia stato libero e che quasi ora non aspiri alla libertà»; cfr. F. Guicciardini, Ricordi, a cura di G. Masi, Mursia editore, Milano, 1994, p. 6).

11 Cfr. G. Galasso, “Piccolo Stato” e storiografia italiana, cit., p. 133. Su Ferdinando il Cattolico Guicciardini fa presente che il «piccolo regno suo di Aragona» è, bensì, «piccolo a comparazione del Regno di Castiglia per la strettezza del paese e delle entrate […] e perché i re aragonesi, non avendo l’assoluta autorità regia in tutte le cose, sono in molte sottoposti alle costituzioni e alle consuetudini di queste province, molto limitate contro alla potestà de’ re», cfr. F. Guicciardini, Storia d’Italia, a cura di S. Seidel Menchi, Einaudi, Torino, 1972, lib. IV, p. 610.

intellettuali che si confrontano con i problemi della buona conservazione dello Stato e con le conseguenze della politica di potenza. In questo quadro, il “piccolo Stato” può diventare, in base agli obiettivi degli autori, un motivo di critica e di polemica per la sua debolezza oppure un ideale di libertà e di benessere. Al tempo stesso, ci sembra molto interessante che già in Guicciardini, l’aggettivo “piccolo” ha poco a che fare con l’estensione territoriale di uno Stato e sia molto più legato ad altri aspetti del potere: dalle risorse a disposizione del sovrano, al rapporto fra il centro e le strutture del potere locale, fino alla posizione ricoperta nelle relazioni internazionali. Si tratta, inoltre, di un termine indubbiamente relativo, rapportato ad altre entità che risultano maggiormente dotate di “grandezza”, come la ricchezza economica della Castiglia nei confronti del Regno di Aragona. Il concetto di “piccolo Stato” nel secolare dibattito politico europeo, quindi, deve a nostro avviso essere analizzato anche alla luce di questa complessità polisemica e al suo radicamento in un contesto storico preciso caratterizzato da certi rapporti di forza e determinati processi di sviluppo, non soltanto sulla base di statiche considerazioni territoriali e demografiche.

La riflessione storiografica e politica sul “piccolo Stato” in Età Moderna risulta, in fondo, sempre presente nel pensiero europeo, anche se, molto spesso, più come elemento di paragone all’interno di trattazioni più complessive sullo Stato che come filone di elaborazione autonomo. A questo proposito, la discussione storiografica recente ha comunque conosciuto delle divergenze di interpretazione. Bazzoli, per esempio, è stato tra i primi – e in questo discostandosi dalla visione fornita inizialmente dal Kaegi – a rivalutare la centralità della tematica del piccolo Stato nell’opera di Machiavelli. Nei Discorsi possiamo notare un confronto fra tre tipi diversi di “piccolo Stato”, a ben vedere praticamente inteso nel senso di repubblica cittadina: l’aristocratica Sparta, paragonata da Machiavelli alla Venezia moderna; il governo misto di Roma, che aveva saputo introdurre il tribunato della plebe, consentendo una partecipazione sociale mista – e “tumultuosa” – alla conduzione del governo; infine, i “Toscani antichi” e gli “Svizzeri moderni”, cioè le città toscane prima dell’avvento del principato mediceo e la federazione elvetica di repubbliche cittadine, che rappresentano un modo di ampliare il proprio territorio alternativo al modello romano della conquista12. Una

visione del “piccolo Stato” e delle sue possibili strategie di conservazione che possiamo, quindi, definire “positiva” anche nell’autore del Principe, opera nella quale, come è noto, la

proposta politica contingente di Machiavelli è ben distante dalla prospettiva dei piccoli Stati13.

È stato ravvisato come Bazzoli abbia contrapposto la teoria politica del XVII secolo a quella del XVIII secolo, descrivendo la prima come maggiormente incline a privilegiare i grandi Stati e vedendo nel Settecento – soprattutto nel Settecento illuminista – una nuova sensibilità secondo la quale i piccoli Stati diventano protagonisti ideali accanto ai principali attori della vita internazionale14. Non possiamo che notare delle differenze nell’impostazione propria di

Botero e dei teorici della ragion di Stato, se paragonati con la riflessione illuministica propria di autori come Montesquieu e Rousseau: questi contribuiscono a diffondere un’immagine altamente positiva del piccolo Stato, realtà politica assai meno incline a coltivare un drammatico spirito di conquista e a degenerare nel dispotismo, proprio perché meno suscettibile di essere condizionata da un’arbitraria “ragion di stato”15. Tuttavia, non ci sembra

corretto fornire una ricostruzione schematica e perentoria delle interpretazioni di Bazzoli. Nella sua panoramica sul pensiero politico europeo tra XVII e XVIII secolo, l’analisi di opere fondamentali come quelle di Botero, Pufendorf, Bielfeld, Mably è in primo luogo orientata a mettere in luce la complessità del dibattito e il fatto che diverse posizioni convivono anche nel medesimo periodo storico: in particolare, si nota una netta divergenza tra le idee di Bielfeld e di Mably, due autori che scrivono attorno al 1760 a pochi anni di distanza e che sul tema della neutralità offrono visioni differenti sulle possibilità di azione del piccolo Stato16. Allo stesso

modo, notiamo come lo stesso Stato non sia classificato da tutti gli autori allo stesso modo: la Svizzera, per esempio, risulta uno Stato di media entità per Mably, ma è un piccolo Stato senza possibilità di svolgere un ruolo internazionale autonomo secondo Bielfeld. Possiamo, quindi, avanzare un ulteriore considerazione alla luce di queste divergenze: il concetto di “piccolo Stato” ha avuto anche una funzione valutativa e classificatoria per la teoria politica dell’Europa moderna. Come ogni classificazione, risponde ai criteri adottati dall’autore, che

13 Cfr. N. Machiavelli, Il Principe, Bur, Milano, 1991, pp. 217-235.

14 Cfr. G. Giarrizzo, L’ideale del “piccolo Stato dalla ragion di Stato all’Illuminismo, in L. Barletta, F. Cardini, G. Galasso (a cura di), Il piccolo Stato, cit., p. 153.

15 Cfr. M. Bazzoli, Il piccolo Stato nell’età moderna, cit., pp. 90-99.

16 Cfr. Ibidem, pp. 46-81. Dalle pagine scritte da Bazzoli, emerge come Botero rifletta sui “piccoli Stati” come categoria distinta di formazione statale e prediliga gli stati “mezzani”, maggiormente predisposti alla conservazione dello Stato, ma senza per questo compiere una svalutazione delle possibilità di conservazione da parte del “piccolo Stato”. Per quanto riguarda Bielfeld, nel suo Institutions politiques, pubblicato nel 1760, sancisce come le piccole potenze hanno necessariamente un ruolo marginale e subordinato ai grandi Stati: solo le alleanze con questi ultimi, in un rapporto di forza palesemente squilibrato, possono garantire la conservazione dei propri domini. Una visione radicalmente diversa da quella del Mably, che dal canto suo indica proprio nella neutralità la strategia migliore per i piccoli Stati.

variano in base agli obiettivi dell’opera, al contesto nel quale è stata scritta, ai problemi di natura intellettuale con i quali si è dovuta confrontare. Soprattutto, il “piccolo Stato” risulta una realtà storica concreta, che nelle varie fasi dell’Età Moderna in Europa ha a che fare con problemi specifici e con una serie di strumenti con i quali organizzare le risposte politiche alle questioni interne e alle pressioni del contesto internazionale.

A questo proposito, ci sembra molto calzante l’osservazione di Blythe Alice Raviola, per cui ciò che è stato sacrificato nella ricerca storiografica sul piccolo Stato è proprio il dato storico e fattuale, concentrandosi quasi esclusivamente sul piano teorico17. Senza sottovalutare

l’importanza di quest’ultimo, fondamentale per capire quali fossero i problemi principali con i quali si dovevano confrontare sovrani, intellettuali e funzionari di governo, l’analisi dei processi storici dei piccoli Stati è un ambito di ricerca importante per ricostruire la storia politica di un’Europa che non possiamo ridurre a una sola dimensione: se nelle grandi monarchie del XVI secolo si può intravedere l’iniziale formazione di grandi apparati burocratici e amministrativi e un processo di accentramento del potere decisionale – per quanto questo non vada considerato, come abbiamo visto, un cammino incontrastato e ineluttabile verso lo “Stato moderno” –, Raviola descrive un Lungo Cinquecento (1500-1650) caratterizzato da un’Europa dei piccoli stati. È un approccio che si discosta parecchio dall’impostazione propria del Kaegi, il quale scriveva a proposito dell’Europa moderna: «il principio del piccolo Stato viene confinato nelle zone “interstiziali” fra le grandi potenze, nelle quali continuò con diversa fortuna la sua vita […] nei secoli XVII e XVIII il piccolo Stato sembra ancora un momento potente, che tende a ritardare tutto questo movimento»18,

ossia l’affermazione dei grandi spazi politici sotto dinastie consolidate. Giuseppe Galasso mette a verifica questa affermazione del Kaegi e la critica duramente, riferendosi soprattutto alla penisola italiana e alle zone germaniche come grandi aree di presenza e di attiva conservazione del piccolo Stato in tutte le sue forme. In particolare, le guerre d’Italia hanno contribuito, secondo Galasso, sia a dare legittimità alle grandi potenze moderne, sia a costituire quello che definisce il «sistema moderno degli Stati europei»19, nel quale i tentativi

17 Cfr. B. A. Raviola, L’Europa dei piccoli Stati, cit., pp. 11-13.

18 W. Kaegi, Sul piccolo Stato nella storia della vecchia Europa, in Id. Meditazioni storiche, Laterza, Bari, 1960, pp. 27-28.

19 G. Galasso, Piccolo Stato e piccole potenze nella grande politica europea dell’età moderna, in «Filosofia politica», n. 3, 2001, p. 383.

egemonici delle principali potenze si scontrano, soprattutto nella penisola italiana del pluralismo politico e dei molteplici centri sovrani, con forme di resistenza e di abile diplomazia da parte dei piccoli Stati: «l’Italia del secolo XVII, ancora in gran parte soggetta ai sovrani di Spagna, si ridusse tutta a un’area di piccoli Stati […] può essere considerata per più versi – con la Germania e con la Svizzera – il caso esemplare delle vicende del piccolo Stato nella storia dell’Europa moderna»20. Ne consegue non solo che non è corretto limitare la

parabola del piccolo Stato nella politica europea agli spazi “interstiziali” fra le grandi potenze, ma anche che i piccoli Stati hanno esercitato un ruolo attivo nelle relazioni internazionali e occupato una posizione strategica dentro il sistema degli Stati europei. Queste considerazioni si estendono al XVIII secolo, nel quale maturarono nozioni come “sistema di stati” e “principio di equilibrio”, che, come è noto, furono trascritte nero su bianco nella pace di Utrecht fra Inghilterra e Spagna. Anzi, proprio in riferimento a questo scenario internazionale, il piccolo Stato divenne addirittura un riferimento irrinunciabile della grande politica europea, in quanto entità spesso cruciale per mantenere un equilibrio fra le grandi potenze e scongiurare che qualcuna potesse espandersi troppo e acquisire un peso eccessivo21.

Tornando a Raviola, la studiosa ha sottolineato che, oltre alla ripartizione interna dell’area prettamente tedesca, «l’Impero ebbe a che fare con spazi frammentati e microstati anche nei Paesi Bassi e in Italia; zone che, dopo la separazione dei domini della corona decisa da Carlo V, divennero estremi problematici della via delle Fiandre, giustificata, nella sua esistenza, proprio dall’appartenenza dell’Olanda e di Milano a un solo re»22. Un’immagine

suggestiva che contribuisce a contro-bilanciare la storia dell’Europa moderna come vicenda propria delle grandi potenze, delle grandi dinastie e che apre un capitolo particolare nella questione del piccolo Stato: quello delle Province Unite. Queste sono da includere nell’insieme dei piccoli Stati europei di antico regime? Domanda complessa, perché si misura con un’entità statale di dimensioni territoriali limitate, ma che nel XVII secolo assunse a tutti gli effetti i tratti della grande potenza navale, commerciale e imperiale. Oltre a questo,

20 Ibiderm, p. 384.

21 Cfr. Ibidem, p. 387-391. Peraltro, come Galasso accenna brevemente, questo non significa che la sicurezza dell’integrità del piccolo Stato diventasse acquisita: al principio della tutela dello status quo poteva subentrare repentinamente il principio della compensazione, per cui si faceva corrispondere a ogni ingrandimento di una potenza un accrescimento territoriale adeguato delle altre (si pensi, come esempio più eclatante, alla sorte di una pur grande entità statale come la Polonia).

dobbiamo considerare come la contrapposizione fra i Paesi Bassi e la potenza imperiale e spagnola di di Carlo V, prima, e di Filippo II, poi, ha avuto un ruolo decisivo nel dare forza nel tardo Cinquecento all’idea di “piccolo Stato” come alternativa credibile e di successo alla “monarchia universale” del modello romano23. Da provincia strategica dell’Impero spagnolo24,

la rivolta di questa regione contro Filippo II portò, come è noto, alla creazione di un’unione di tipo federale tra le sette province componenti i Paesi Bassi settentrionali: secondo Raviola, siamo di fronte a caratteristiche peculiari ed interessanti, ad un processo politico che significò la «nascita di un nuovo piccolo Stato»25 dalla federazione di una pluralità di potentati, per

decenni in lotta tra loro al pari degli Stati italiani del primo Cinquecento. Lo Stato che emerse aveva delle caratteristiche contrastanti, peraltro difficilmente sintetizzabili in maniera univoca negli schemi delle categorie interpretative analizzate nel primo capitolo: non stupisce che, in primo luogo, il raggiungimento dell’autonomia da parte dei fiamminghi sia stato letto come risultante della lotta a quelle tendenze che caratterizzavano il modello dello Stato assoluto incarnato dalla Spagna di Filippo II, quindi la centralizzazione fiscale, l’assolutismo dinastico, la burocrazia professionale. In questo senso, le Province Unite non potevano non apparire un modello alternativo, un esempio concreto della sostenibilità di uno stato territoriale organizzato secondo basi consociative e federative26. Tuttavia, sono state descritte dalla

storiografia anche come un’esperienza che ha contribuito in maniera cruciale proprio all’evoluzione dello Stato moderno: l’alleanza di Utrecht del 1579 sancì l’unione indissolubile delle province settentrionali in un organismo federale che si dotava delle sue istituzioni di rappresentanza, di un proprio apparato di governo e di un sistema di amministrazione del