IL CASO DELLA FINANZA PUBBLICA TOSCANA TRA
3.1 Le imposte del Granducato e il loro sviluppo tra Cinquecento e Seicento
Passiamo adesso all’analisi della struttura fiscale dello Stato toscano in Età Moderna. È opportuno riflettere sull’evoluzione particolare che ha conosciuto il sistema istituzionale e amministrativo del Granducato: una vera e propria stratificazione di magistrature e di uffici
che hanno instaurato una dialettica fra gli antichi ordinamenti repubblicani della Dominante e quelli delle comunità soggette, ma anche fra istituzioni della Repubblica fiorentina mantenute dopo l’avvento del principato e nuovi strumenti istituiti per l’affermazione del potere mediceo. La prima osservazione da fare, infatti, riguarda la longevità del sistema fiscale toscano in Età Moderna, le cui radici affondavano nelle istituzioni della Repubblica fiorentina. Gran parte delle imposte e delle gabelle che troviamo negli ultimi anni del principato dell’ultimo Medici, Gian Gastone, erano figlie di analoghe entrate del periodo repubblicano, la gestione delle quali era affidate a magistrature cittadine. La progressiva espansione di Firenze aveva spesso imposto il dominio delle proprie magistrature alle comunità soggette e, di conseguenza, prevedeva che le casse della Dominante venissero foraggiate non solo dai “cittadini” fiorentini, ma anche dagli abitanti del contado e del distretto fiorentino36. Al tempo stesso, però, gli ordinamenti repubblicani delle città soggette
non erano stati del tutto smantellati, anzi in molti casi avevano mantenuto legittimità all’interno degli stessi “patti di soggezione” siglati con Firenze: questo dava luogo a una eterogeneità marcata nella riscossione fiscale, determinando un complesso di imposte numerose e per niente uniforme nei vari territori soggetti. L’azione politica di Cosimo I dei Medici è stata, com’è noto, decisiva per l’edificazione dello Stato regionale toscano e per porre le basi politiche e amministrative del principato mediceo. Abbiamo già ricordato come l’interpretazione sullo Stato forgiato nel corso del principato cosimiano sia stata oggetto di un confronto tra tesi diverse, talora contrapposte, soprattutto in relazione alla valutazione del tasso di accentramento politico che il Duca e il suo apparato di governo riuscirono a garantire al potere centrale37. Se è ormai universalmente riconosciuto che il nuovo principato abbia fatto
largamente ricorso alle istituzioni del passato repubblicano, senza eliminarle, ma all’occorrenza ristrutturandole e riformandole in relazione alla nuova scala di compiti previsti, è bene sottolineare come anche in materia fiscale il periodo cosimiano è stata una fase creativa di nuovi strumenti di prelievo. Come ricorda Elena Fasano Guarini, «in relazione al rapido incremento delle esigenze finanziarie dello Stato, ed in particolare al costo della
36 Cfr. E. Fasano Guarini, Potere centrale e comunità soggette nel Granducato di Cosimo I, in «Rivista storica italiana», LXXXIX, 1977, pp. 490-538.
37 Consigliamo ancora una volta di rifarsi agli studi di inizio Novecento dell’Anzilotti per una lettura che esalta le rotture fra periodo repubblicano e principato cosimiano, cfr. A. Anzilotti, La costituzione interna dello Stato fiorentino sotto Cosimo I, Lumachi, Firenze, 1910; per una revisione della tesi dell’Anzilotti e per una ricostruzione più attenta al pluralismo politico nel principato mediceo, cfr. E. Fasano Guarini, Lo Stato mediceo di Cosimo I, Firenze, Sansoni, 1973.
politica militare svolta negli anni ‘50, furono riviste e definite in modo parzialmente nuovo le basi del sistema fiscale del Granducato»38. Eredità repubblicana e revisione cinquecentesca
per una piena integrazione nell’amministrazione del principato: in sostanza, questa sarà la base fondante della struttura fiscale e finanziaria che andrà a caratterizzare il Granducato di Toscana da Cosimo I fino agli ultimi Medici.
Luigi Dal Pane, nel suo imponente lavoro sulla finanza toscana che abbiamo prima ricordato, suggeriva di suddividere le entrate del Granducato di Toscana agli inizi del XVIII secolo in tre grandi capitoli: «le entrate dello Stato potevano ripartirsi con criterio moderno in tre grandi branche: entrate patrimoniali; imposte indirette; imposte dirette, tasse e regalie»39.
Le prime facevano capo soprattutto allo Scrittoio delle Regie Possessioni, un ufficio direttamente sottostante al potere centrale che aveva il compito di amministrare e far fruttare il patrimonio dinastico della famiglia Medici e i domini legati al titolo granducale. Nel primo Settecento ne derivava ancora un’entrata tutt’altro che irrilevante40: vediamo sin da subito
come i proventi legati al patrimonio personale dei granduchi abbiano giocato un ruolo non indifferente nella finanza toscana, la quale riconosceva uno spazio non banale a capi d’entrata rientranti a pieno nelle caratteristiche proprie del “Domain State”.
L’imposizione diretta, invece, si imperniava soprattutto sulla Decima: questa era stata istituita a Firenze alla fine del XV secolo con la riforma del 1494-1495 e rimase uno dei capisaldi della finanze toscana fino alla riforma leopoldina del 1776. A differenza del precedente sistema fiscale basato sugli estimi catastali, che avevano il carattere di una descrizione complessiva del patrimonio, la riforma di fine ‘400 limitava la tassazione agli immobili e conferiva all’imposta un carattere ordinario, annuale e perpetuo. Il nome richiama la portata dell’imposizione, essendo prevista nella misura della decima parte dell’entrata degli immobili. Tuttavia, questa tassa di antica istituzione non risultava affatto, come in altri casi, uno strumento di prelievo universale e uniforme su tutto il territorio. Se da un lato la decima si limitava ai “cittadini” di Firenze e non gravava sugli abitanti dello “Stato Nuovo” di Siena, nel distretto fiorentino continuavano a valere gli estimi catastali delle varie comunità, sui
38 E. Fasano Guarini, Camerlenghi ed esazione locale delle imposte nel Granducato di Toscana del ‘500-’600, in Aa. Vv., La Fiscalité et ses implications sociales en Italie et en France aux XVIIe et XVIIIe siècles, École française de Rome, Roma, 1980, pp. 29-30.
39 L. Dal Pane, La finanza toscana, cit., p. 12. 40 Cfr. Ibidem, p. 13.
quali veniva calcolata la contribuzione richiesta alle comunità soggette. Le esenzioni previste – basti pensare alla Decima degli ecclesiastici – e la mancata revisione delle “portate”, cioè della descrizione dei patrimoni da parte dei proprietari, rimasta pressoché invariata per ben due secoli, contribuivano a dipingere un quadro sperequativo notevole sul quale si sono concentrati gli appunti di diversi storici41. La Decima ci consente di mettere subito in evidenza
un problema con cui avremo a che fare: il ricavato della tassa non confluiva nella Depositeria generale, cioè la cassa centrale del Granducato, nata come una sorta di cassa personale del Granduca, ma progressivamente messa in relazione con l’intero sistema tributario toscano. Le rimesse della principale imposta diretta erano direttamente assegnate al Monte Comune per il pagamento degli interessi sul debito pubblico42. Tali cifre, quindi, non venivano registrate
nella contabilità della Depositeria generale e rischiano di sfuggire alla nostra analisi, se non ricostruiamo correttamente la complessa relazione tra le varie casse toscane e i meccanismi del prelievo fiscale e della spesa pubblica che regolavano la condotta dei vari uffici competenti.
Le imposte indirette facevano decisamente la parte del leone nel sistema fiscale del Granducato: questa predominanza non ci deve stupire, perché siamo di fronte a un «sistema fiscale che non diversamente da quanto avveniva in altri stati italiani ed europei […] ben più che nelle imposte dirette vedeva in un articolato sistema fiscale indiretto il suo punto di forza»43. Così si esprimeva Alessandra Contini per introdurre il suo studio sulla riforma della
tassa sulle farine predisposta a fine Seicento sotto Cosimo III. Conviene, però, prendere coscienza della grande eterogeneità di imposte, gabelle, dazi e privative che rientravano all’interno della dizione generale di imposizione indiretta. In primo luogo, stavano i diritti sulle merci, le tariffe doganali, i dazi e i tributi che si riscuotevano alle Porte delle principali città del granducato di Toscana per conto dell’erario regio e che «formavano quel complesso confuso ed irrazionale che costituiva la rete delle dogane interne»44: Dal Pane esprime in
questa occasione un giudizio molto severo sul sistema doganale mediceo, rafforzandolo con la ricostruzione della impressionante mole di tributi diversi che si riscuotevano alle varie dogane
41 Oltre alla considerazioni di Luigi Dal Pane, per una più esaustiva rassegna delle critiche rivolte alle iniquità del sistema fiscale mediceo cfr. F. Diaz, Il Granducato di Toscana: i Medici, UTET, Torino, 1976.
42 Cfr. A. Contini, La riforma della tassa sulle farine (1670-1680), in F. Angiolini, V. Becagli, M. Verga (a cura di), La Toscana nell’età di Cosimo III, Edifir, Firenze, 1993, p. 243.
43 Ibidem, p. 244.
per l’entrata, il transito e l’uscita delle merci. Nella sola dogana di Firenze, oltre alla messa, tratta e passo delle merci, si riscuotevano: la partita scalata, la partita della Misericordia, la partita del cancelliere, la tassa detta dell’appalto, la veduta, la ricordatura, la tassa sopra i vini forestieri, i margini, la tassa sopra i limoni, il dazio sul pesce45. Davvero un groviglio
complicato di riscossioni, che peraltro nel caso specifico di Firenze si aggravava della riscossione alle Porte della città di alcune tasse generali come la tassa del macinato e il sigillo della carne. Non dobbiamo, però, guardare questo sistema con un occhio eccessivamente ancorato a una visione moderna. Il dibattito sul sistema doganale interno non era ancora una priorità politica della classe dirigente politica ed economica del Granducato. Inoltre, il sistema dimostra una certa dinamicità e una notevole capacità di rinnovarsi. Basti considerare la riforma del 1676 dell’organizzazione doganale del porto di Livorno, che incorporò dazi e gabelle sulle merci nella tassa di stallaggio: questa diventava così l’unica tassa imposta sulle merci in entrata e in uscita nel porto. Il provvedimento non aveva garantito soltanto un notevole aumento degli introiti fiscali – anche per il fatto che in base alla nuova normativa pagavano lo stallaggio anche i mercanti che godevano del privilegio del “libero beneficio”46 –
ma contribuì in maniera decisiva all’ascesa del commercio di transito, secondo una linea di sviluppo dello scalo labronico come interporto o porto di deposito che già possiamo rintracciare nelle sue origini cinquecentesche. In ogni caso, la ristrutturazione del sistema doganale sotto Cosimo III ebbe un’importanza cruciale, tanto che il motuproprio granducale «è considerato generalmente come il provvedimento istitutivo del porto franco»47.
Oltre ai diritti di dogana, rientrano nelle tasse indirette altri cespiti che contribuivano in maniera determinante alle entrate delle casse del Granducato. Di eredità repubblicana erano la gabella della carne, la gabella dei contratti e la gabella delle bestie dal piè tondo. La prima colpiva le bestie che si macellavano in città e fuori secondo un’antica disposizione repubblicana; nel 1557 fu dato a questa gabella un ordinamento generale e prese il nome di sigillo della carne48. La gabella dei contratti, invece, tassava i contratti dei cittadini fiorentini
relativi a beni stabili e mobili, alle eredità e alle doti matrimoniali e trovò il suo ordinamento
45 Cfr. Ibidemm pp. 23-24.
46 Cfr. C. Tazzara, La gestione della dogana nel primo Seicento, in A. Addobbati, M. Aglietti (a cura di), La città delle Nazioni. Livorno e i limiti del cosmpopolitismo (1566-1834), Pisa University Press, Pisa, pp. 219- 235.
47 L. Frattarelli Fischer, Livorno 1676, cit., p. 47. 48 Cfr. L. Dal Pane, La finanza toscana, cit. p. 33.
sotto il principato negli statuti del 1566: per sua natura, non si trattava di un’entrata regolare, né uniforme sul territorio del Granducato, poiché tendenzialmente venne conservata senza eccessive modifiche laddove esisteva già prima dell’aggregazione alla Repubblica fiorentina, mentre in caso contrario non venne istituita, salvo in via eccezionale49. La gabella delle bestie
del piè tondo presenta un aspetto interessante: anche questa affondava le proprie origini nel regime repubblicano, durante il quale era stata istituita una gabella fiorentina del 5% sopra le vendite, baratti e donazioni delle bestie asinine, muline e cavalline. Già in questo periodo, il prodotto di questa imposta era destinato a fronteggiare le spese che frequentemente si dovevano sostenere per regolare il corso e riparare gli argini del fiume Arno. Con l’avvento del principato, Cosimo I dispose nel 1549 che il ricavato si estendesse alla riparazione e manutenzione anche di altri fiumi del Granducato e, di conseguenza, che gravasse non solo su Firenze e sul suo contado, ma anche sul distretto fiorentino e sulle altri parti del suo Stato. Alla luce della sua particolare assegnazione, questa entrata era direttamente percepita dalla magistratura dei Capitani di Parte guelfa, un ufficio collegiale con figure tecniche che era competente in materia di lavori pubblici su contado e distretto fiorentino, in particolare dai deputati incaricati di occuparsi dei problemi connessi alla regimazione fluviale, gli Ufficiali dei Fiumi. Qualora gli introiti della gabella delle bestie del piè tondo non risultassero sufficienti per svolgere i lavori approvati, gli Ufficiali dei Fiumi potevano, in primo luogo, ordinare lo sborso di denari da parte dei proprietari dei terreni contigui ai corsi d’acqua; se anche questi non bastavano, la magistratura poteva ricorrere, con il consenso del Granduca, all’«imposizione sulla decima e sulle spese universali di tutto lo Stato», estendendo la base dei contribuenti che erano chiamati a sostenere queste spese, in quanto di utilità universale50.
Possiamo riscontrare in questo caso alcune dinamiche emblematiche del sistema fiscale del Granducato di Toscana: in primo luogo, vediamo come una specifica imposta era assegnata per quanto concerne la sua riscossione e alla sua gestione a una magistratura che non aveva carattere fiscale, ma possedeva altresì una propria cassa nella quale confluiva il gettito e dalla quale attingeva per sostenere le spese connesse al proprio mandato istituzionale. Inoltre, notiamo che la logica dell’imposta oscilla tra il concetto di “onere”, che ricadeva sui diretti
49 Cfr. Ibidem, p. 34.
50 Cfr. C. Vivoli, I lavori pubblici sotto Cosimo III: disposizioni normative e pratica amministrativa degli uffici preposti al controllo del territorio fiorentino nel Seicento, in Aa. Vv., La Toscana nell’età di Cosimo III, cit., pp. 226-228.
interessati di un’opera di governo del territorio, e il concetto di “utilità universale”, che prevedeva al contrario non solo la regia di un’autorità centrale, ma anche il concorso della collettività alle spese di interesse generale. La legge del 1549, infatti, sembra intraprendere una strada particolare all’interno dell’ordinamento amministrativo del Granducato, «questo complesso di disposizioni sembra prefigurare un primo tentativo, da parte del centro, di assumere su di sé l’attività relativa alla regimazione idrica»51, prendendo atto che questi
interventi, in particolare quelli di arginatura, non erano funzionali solo agli interessi dei proprietari agrari, ma riguardavano anche la sicurezza dei beni e delle persone, la praticabilità dei collegamenti, il benessere e il sostentamento della popolazione tutta. In un’espressione, ricadevano nell’interesse generale.
Proseguendo nella rassegna delle principali voci in entrata del bilancio del Granducato da Cosimo I agli ultimi Medici, arriviamo alla Tassa del Macinato. La sua origine era legata alla situazione contingente della guerra di Siena: il nuovo principe decise di far fronte alle crescenti esigenze finanziarie dovute allo sforzo bellico con l’istituzione, nel 1552, di una nuova tassa, stabilita in via straordinaria per un triennio, su tutte le farine di grani, castagne, marroni ed altre biade sul tasso di 3 soldi e 4 denari lo staio52. La cosiddetta “tassa del
macinato” entrò, tuttavia, quasi subito nel quadro delle entrate ordinarie del Granducato, fino a diventare, secondo le parole usate da Alessandra Contini, «una delle più stabili e rilevanti fonti di entrata dello Stato»53. La magistratura deputata alla gestione della tassa, l’Ufficio delle
Farine, aveva progressivamente acquisito importanza, amministrando non solo la gabella delle farine, ma anche il già citato sigillo della carne e altre imposte minori come il bollo del pane. I trasferimenti dall’Ufficio delle Farine alla Depositeria generale risultano non a caso molto consistenti54.
Per rimarcare la presenza rilevante di entrate che sono state collocate dalla storiografia anglosassone della “New fiscal history” nel campo del “Domain State”, è opportuno ricordare
51 L. Mannori, Il Sovrano tutore. Pluralismo istituzionale e accentramento amministrativo nel principato dei Medici (secc. XVI-XVIIII), Giuffré, Milano, 1994.
52 Cfr. L. Dal Pane, La finanza toscana, cit., pp. 32-33. 53 A. Contini, La riforma della tassa delle farine, cit., p. 241.
54 I calcoli effettuati da Alessandra Contini sui ristretti di entrata ed uscita della Depositeria generale per gli anni 1675-1679 ci dicono che i versamenti dell’Ufficio delle Farine rappresentavano in media il 31,7% sul totale delle entrate, cfr. Ibidem, p. 243; i ristretti della Depositeria sono consultabili in ASFi, Depositeria generale, f. 1662 e ss.
le regalie e le privative che garantivano proventi all’erario. Nella Tabella 3.155 si trova, a
sinistra, uno specchio delle caratteristiche indicate dalla storiografia per le entrate appartenenti al caso del “Domain State” e, a destra, le amministrazioni toscane che possono essere considerate da questo punto di vista.
Tabella 3.1
Caratteristiche fiscali del “Domain State” Amministrazioni del Granducato con esso coerenti
- Finanza pubblica legata al surplus dei domini della dinastia regnante;
- Proventi legati alle “regalie”: beni presenti sul territorio, la cui titolarità è rivendicata dal potere sovrano;
- Privative e monopoli concessi a privati
- Scrittoio delle Possessioni
- Appalto del Tabacco e dell’Acquavite - Magona del Ferro
- Gabella del Sale
In particolare, i monopoli del sale, del tabacco e del ferro costituivano vere e proprie regalie, la riscossione delle quali era spesso concessa in appalto a privati. Rispetto alle imposte ereditate dalla legislazione repubblicana, conoscevano solitamente una certa uniformità sul territorio. La Tassa de Sale era la più antica di queste misure: gli interventi legislativi in materia si erano accumulati e sovrapposti nell’arco dei secoli, fino a che non venne trovata una parziale sistemazione nei primi del Settecento con la legge generale del sale del 2 dicembre 170156. L’imposizione si basava su due elementi: il monopolio statale del sale
prodotto, quasi universalmente, nelle saline di Volterra e protetto da una fitta rete di gravose proibizioni; la vendita ai consumatori secondo un prezzo fissato per legge, sia attraverso l’acquisto volontario che questi potevano richiedere, sia, soprattutto, mediante una vera e propria distribuzione forzata. L’imposta, quindi, prendeva la forma di un “testatico” e si attuava mediante capitazione nelle comunità che erano tenute a pagare la tassa: in base ai diversi processi di negoziazione fra la Dominante e le città soggette, si erano stabilite delle
55 Le caratteristiche del “Domain State” qua riportate sono tratte dalla tabella pubblicata in M. Bonney, R. Bonney, W. M. Ormrod, Crises, Revolutions and Self-sustained Growth, cit., p. vii.
56 Cfr. L. Dal Pane, La finanza toscana, cit., p. 28. Cfr. il paragrafo dedicato a questa importante privativa, Infra.
concessioni e degli sconti che contribuivano a rafforzare disparità di trattamento e rilevanti differenze di prezzo57. Questa entrata, anche in relazione alla distribuzione forzata sulla base
delle bocche dei contribuenti e dei loro animali, risultava molto consistente: il suo gettito alla fine del XVII secolo era superiore ai 200.000 scudi annui, ma non veniva versato nella cassa della Depositeria generale, bensì andava quasi interamente a finanziare l’omonimo Monte del Sale58. La privativa e appalto del tabacco, invece, furono istituiti in Toscana nel 1645 ed
ebbero sin dal principio carattere generale, comprendendo tutti gli “Stati” del Granducato. Il monopolio proibiva l’introduzione di qualunque specie di tabacco in Toscana, eccettuato quello dello stesso appalto, e vietava il transito di tabacchi pesti, macinati o altrimenti lavorati59. Infine, anche la lavorazione del ferro era sottoposta a una privativa amministrata
dall’Ufficio della Magona: il monopolio si estendeva sull’intero Granducato e riguardava tanto la lavorazione del ferro proveniente dall’isola d’Elba quanto la vendita del ferro medesimo. Di conseguenza, era vietato raffinare il ferro al di fuori dell’appalto, così come introdurlo anche se non lavorato60. È noto come la storiografia abbia spesso descritto
monopoli e regalie come un sintomo esemplificativo della fiscalità di antico regime, caratterizzata dall’affermazione di diritti sovrani sui beni del territorio, dalla promozione paternalistica di determinate industrie e dalla concessione di importanti rendite a privati favoriti in cambio della garanzia di un’entrata fissa, e magari anticipata, alle pubbliche casse. Ci preme, tuttavia, evidenziare sin da subito l’assoluta normalità nell’Europa del XVII e XVIII secolo di pratiche come quelle ora descritte per il Granducato di Toscana: tali entrate