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Il “piccolo Stato” in Italia: Stato territoriale, potentati, “antichi stati italiani”

PICCOLO STATO E “ANTICHI STATI ITALIANI”: SPECIFICITÀ E PROBLEMI COMUN

2.2 Il “piccolo Stato” in Italia: Stato territoriale, potentati, “antichi stati italiani”

L’interesse storiografico per il “piccolo Stato” in Italia34 è facilmente intuibile: se i

centri cittadini – tanto manifatturieri quanto marittimi – della penisola erano stati fra i principali protagonisti della ripresa economica medievale, dal XV secolo la storia italiana sembra discostarsi dalla traiettoria seguita da altre regioni europee. Se altrove, in virtù dell’azione politica della Corona francese o dell’unione dei monarchi di Aragona e di Castiglia, il potere regio riusciva ad affermarsi su vasti territori, nella penisola italiana assistiamo ad una parabola specifica, contrassegnata dal pluralismo politico e dalla molteplicità delle formazioni statali che succedevano storicamente alle repubbliche cittadine. Basti qua ricordare l’affermazione di Galasso sull’Italia come caso esemplare delle vicende del piccolo Stato nell’Europa moderna. Così come risultano particolarmente calzanti le citazioni di Simone De Sismondi riprese da Musi nel suo contributo per il convegno di San Marino sul piccolo Stato: se per lo storico ed economista elvetico, che pubblicava la sua opera sulle Repubbliche italiane nel 1807, la modernizzazione europea passava dalla costruzione di solidi Stati-nazione, la singolarità del corso storico dell’Italia medievale e moderna dava

34 Occorre precisare che non sono pochi i casi nei quali si è preso le distanze dalla definizione di “piccolo Stato” in riferimento agli Stati italiani del Cinque-Seicento, a nostro avviso soprattutto per scongiurare che tale espressione contribuisse a proiettare una svalutazione di questi Stati. Si consideri, per esempio, Fasano Guarini quando afferma che «gli “Stati regionali”, anche se di ridotta estensione, non sono […] “piccoli Stati”, ma sistemi complessi», in E. Fasano Guarini, Principi e territori in Italia. Il caso toscano tra Cinque e Seicento, in M. Rosa, C. Dipper (a cura di), La società dei principi nell’Europa moderna. Secoli XVI-XVII, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 128.

luogo a un’altra situazione, per la quale «lo Stato nazionale unitario appare come la coesistenza complessa, difficile, contraddittoria, ma necessaria della molteplicità di “piccoli Stati”»35.

Il dibattito sugli Stati italiani dalla storiografia risorgimentale ad oggi è stato arricchito da una mole sconfinata di contributi, secondo un percorso che ha conosciuto cesure, svolte significative e ritorni su questioni affrontate dalle generazioni precedenti. Senza alcuna pretesa di fornirne una ricostruzione esaustiva, proveremo ad analizzare le problematiche e le concettualizzazioni che hanno influito maggiormente nella ricerca storica sugli Stati della penisola italiana in Età Moderna.

2.2.1 La discussione storiografica fino al secondo Dopoguerra

La ricerca storiografica sugli Stati italiani pre-unitari fino alla Seconda Guerra Mondiale ha spesso concentrato la propria attenzione sul Risorgimento, guardando al periodo precedente soprattutto in funzione del processo di unificazione nazionale. Questo non significa affatto banalizzare o ridurre a scherno le opere storiche comparse in Italia tra fine XIX e primo XX secolo. Jean Boutier e Brigitte Marin hanno ricordato in un articolo a quattro mani pubblicato nel 1998 sulla Revue d’histoire moderne et contemporaine sulla storiografia recente dell’Italia moderna come «l’Italie possède une forte tradition d’études – V. Langlois et C. Seignobos, rédigeant en 1898 leur Introduction aux études historiques, considèrent l’italiane, au même titre que l’allemand, l’anglais et le français, come l’une des “langues ordinaries de la science” […] sans oublier la force de la préoccupation historiographique qui insère les recherches dans des débats de longue durée»36. Per non parlare poi dei quadri

concettuali forniti da studiosi e grandi intellettuali attivi fra le due guerre, come Benedetto Croce o Antonio Gramsci. Tuttavia, è impossibile non riconoscere, soprattutto a inizio Novecento e sotto il regime fascista, una tendenza spiccata della storiografia verso un approccio “sabaudista”, impegnato nella ricostruzione dell’ascesa della potenza del Ducato di Savoia a Regno, fino all’affermazione del suo primato sugli altri Stati della penisola italiana.

35 A. Musi, L’italia dal Sacro Romano Impero allo Stato nazionale, cit., p. 171.

36 J. Boutier, B. Marin, Regards sur l’historiographie récente de l’Italie moderne, in «Revue d’histoire moderne et contemporaine», T. 45, n. 1, 1998, p. 8.

È facilmente intuibile come questa impostazione rischiasse seriamente di inficiare la ricerca oggettiva della reale dimensione di questi Stati. A questo si aggiunga il fatto che gli studi di questo periodo si sono concentrati in larga parte sul Settecento come periodo storico di “ripresa”, nel quale si creano le condizioni per la stagione del Risorgimento a seguito di una lunga “decadenza” conosciuta dopo l’apice dell’importanza politica, economica, civile e culturale italiana nel Rinascimento37.

Prendiamo ad esempio alcune considerazioni di Gioacchino Volpe, probabilmente lo storico più influente sotto il fascismo anche grazie al rapporto con il regime e alla direzione, fino al 1943, della Scuola di storia moderna e contemporanea. È noto come i suoi primi studi sul Comune medievale e sui conflitti sociali presenti al suo interno abbiano lasciato spazio, dopo la Prima Guerra mondiale, ad un rinnovato interesse per i temi politici di lungo periodo, tra i quali divenne presto centrale la questione della Nazione. Il contrasto della sua interpretazione su tempi, significato e portata del concetto di “nazione italiana” ci appare in profondo contrasto con gli scritti di De Sismondi che abbiamo ricordato sopra. Volpe sosteneva che una “nazione italiana” era nata già all’interno del «promiscuo e vario mondo romano-cristiano-germanico»38. A fronte dei secoli di dominazione straniera, anzi, per certi

versi anche in virtù di questa dominazione, emersero secondo Volpe degli impulsi, frammentari ma potenti, verso il sentimento nazionale e lo Stato unitario. Addirittura, lo studioso riconosceva l’ideale della formazione di un grande Stato italiano già nella discussione politica del Cinquecento: «i nostri padri del Cinquecento, tra tante rovine anch’essi avevano un loro motto. […] Piangevano ancora nel Cinquecento la fine della libertà di Italia e già riconoscevano e predicavano che solo un grande stato italiano poteva controbilanciare e contenere le nuove grandi Monarchie d’Europa»39. Siamo di fronte a una

palese forzatura: la riflessione sull’opportunità di un grande Stato da costruire nella penisola italiana nel periodo delle guerre d’Italia del Cinquecento, a partire da quella di Machiavelli nel Principe, non può essere sovrapposta con obiettivi e ambizioni propri del XIX secolo e del

37 Cfr. M. Mirri, Dalla storia dei “lumi” e delle “riforme” alla storia degli “antichi stati italiani”, in Aa. Vv., Pompeo Neri. Atti del colloquio di studi di Castelfiorentino, 6-7 maggio 1988, Società Storica della Valdelsa, Castelfiorentino, 1992, pp. 401-429.

38 G. Volpe, Momenti di Storia italiana, in Id., Storici e maestri, Sansoni, Firenze, 1967, p. 243. L’opera è pubblicata negli anni ‘60 del Novecento, ma in essa Volpe raccoglie scritti e riflessioni sparse degli anni fra le due guerre. A questo proposito cfr. A. Musi, L’italia dal Sacro Romano Impero allo Stato nazionale, cit., pp. 172-173).

Risorgimento, pena il cadere in distorsioni che non aiutano il fine di una corretta interpretazione storica. Gli scritti di Volpe in materia, come le considerazioni presenti nella prefazione in Momenti di storia italiana40, sono stati criticati da Mario Mirri in quanto

portatori di una visione vitalistica del popolo e della società italiana, non adeguatamente ancorata alle fonti storiche e proiettata nella sua formazione ed evoluzione fino agli albori del Medioevo41. Concordiamo con Mirri, il quale ci fornisce anche un quadro del contesto

politico-culturale che fa da sfondo a queste opere di Volpe: «il clima del dopoguerra, un clima culturale e politico nello stesso tempo, che era stato ravvivato dalla consapevolezza della riuscita, e della affermazione anche di fronte all’Europa, di una compagine nazionale, così duramente messa alla prova dalla guerra; sembrava tanto più necessario, ora, rivolgersi all’indietro […] alle vicende lungo le quali fosse possibile riconoscere le faticose origini e le contrastate iniziative, che portarono, alla fine, alla costruzione dello Stato nazionale»42.

Queste tendenze, come è facile immaginare, conobbero una certa accelerazione negli anni centrali del regime fascista. Non dobbiamo, tuttavia, fare l’errore di restituire una versione caricaturale delle opere di questo periodo o di considerare l’intero panorama storiografico italiano dell’epoca appiattito su queste dinamiche. Ne risulterebbe, per noi, una visione distorta ed eccessivamente svalutante delle ricerche in ambito storico nella prima metà del XX secolo. Ci limitiamo a citare – all’interno di un panorama ben più vasto43 – le opere di

Antonio Anzilotti e di Federico Chabod, poiché risultano di particolare interesse per inquadrare la problematica degli Stati italiani tra il XV e il XVIII secolo. Anzilotti si è occupato in primo luogo del Granducato di Toscana, in particolare dal punto di vista delle “riforme”, tanto nel Cinquecento sotto il nuovo assetto di governo di Cosimo I Medici, quanto alla metà del Settecento nel pieno della Reggenza lorenese44. Venuto a mancare nel 1924, ha

fatto parte di quello che possiamo considerare un filone45 animato da un gruppo di storici

40 Cfr. G. Volpe, Prefazione a Momenti di storia italiana, Vallecchi editore, Firenze, 1925.

41 Cfr. M. Mirri, Dalla storia dei “lumi” e delle “riforme” alla storia degli “antichi stati italiani”, cit., p. 410. 42 Ibidem, pp. 411-412.

43 Per una buona rassegna sulla storiografia dell’età moderna nei primi 4 decenni del Novecento si consiglia ancora una volta la lettura del già citato contributo di Mirri al convegno su Pompeo Neri, in particolare M. Mirri, Dalla storia dei “lumi” e delle “riforme” alla storia degli “antichi stati italiani”, cit., pp. 405-470. 44 A. Anzilotti, La costituzione interna dello Stato fiorentino sotto Cosimo I, Lumachi, Firenze, 1910; Id., Le

riforme in Toscana nella seconda metà del XVIII secolo. Il nuovo ceto dirigente e la sua preparazione intellettuale, Mariotti, Pisa, 1924.

45 Mirri lo definisce “storiografia realistica”, cfr. M. Mirri, Dalla storia dei “lumi” e delle “riforme” alla storia degli “antichi stati italiani”, cit., pp. 405-406.

particolarmente attento alle “riforme” sul terreno della storia politica: queste, però, erano interpretate in stretta relazione con le condizioni economiche di partenza e con le conseguenze socio-economiche che potevano innescare. Indagando, appunto, le “riforme” della storia politica, era inevitabile considerare la problematica dello Stato e, in particolare, fornire un quadro della propria interpretazione circa una nuova forma costituzionale che sembrava prendere forma nella penisola italiana fra XV e XVI secolo. Anzilotti si espresse su questi temi in relazione alla Toscana di Cosimo I, nella quale si consolidava il principato mediceo: l’immagine complessiva che tratteggia Anzilotti era quella di uno Stato accentrato, modificato sostanzialmente nelle forme del potere politico e dell’amministrazione del territorio dalle riforme del nuovo Duca, dotato di nuove forme di legittimazione del potere centrale e di costruzione del consenso attorno alla figura del principe, con la capacità di contrapporre alle resistenze degli ottimati la tutela del popolo minuto46. Non sono accenti troppo diversi da

quelli di Federico Chabod, soprattutto nei suoi studi sul Ducato di Milano al tempo di Carlo V47: le sue conclusioni si soffermavano su un’organizzazione centralizzata di quello che ha

definito lo “Stato rinascimentale”, un piccolo Stato caratterizzato, però, dall’affermazione nel Cinquecento di un solido apparato burocratico centrale e da un’amministrazione che si emancipava dai vincoli personali. Sono considerazioni che lo storico valdostano ha continuato ad approfondire nell’arco della sua attività accademica, fino ai noti scritti del 1956 con i quali ha fatto il punto sulle forme statali proprie del Rinascimento: le sue formulazioni erano ormai prive di riferimenti a un ricercato spirito nazionalista, ma quanto mai perentorie nel porre l’attenzione su uno Stato impersonale, razionale, legalistico, burocratico e livellatore48. Si ha,

insomma, con questi due autori un primo approccio alla problematica dello Stato, della sua

46 Cfr. A. Anzilotti, La costituzione interna dello Stato fiorentino sotto Cosimo I, cit., pp 56-68. Anzilotti mette in netta contrapposizione il governo repubblicano e il nuovo governo del principe, dal quale risuterebbe annullato il dualismo tra città e provincia; cfr. anche la voce “Anzilotti, Antonio” del DBI (Dizionario Biografico degli Italiani), vol. 3, 1961; Fasano Guarini critica questa visione della Toscana sotto Cosimo I già in E. Fasano Guarini, Potere centrale e comunità soggette nel Granducato di Cosimo I, in «Rivista storica italiana», LXXXIX, 1977, pp. 490-538.

47 Cfr. F. Chabod, Lo Stato di Milano nell’impero di Carlo V, vol. I, Istituto romano di arti grafiche Tumminelli & C., Roma, 1934.

48 Cfr. F. Chabod, Scritti sul Rinascimento, Einaudi, Torino, 1967, che contiene i due saggi del 1956. Cfr. anche l’analisi dei contributi di Chabod sullo “Stato rinascimentale” in E. Fasano Guarini, Centro e periferia, accentramento e particolarismi: dicotomia o sostanza degli Stati in età moderna?, pp. 149-151, e in A. Molho, Lo Stato e la finanza pubblica. Un’ipotersi basata sulla storia tardomedievale di Firenze, p. 228 e ss., entrambi in G. Chittolini, A. Molho, P. Schiera (a cura di), Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia tra Medioevo ed Età Moderna, Il Mulino, Bologna.

origine e del suo consolidamento che esaltava l’accentramento politico e lo sviluppo di una burocrazia amministrativa già negli Stati del XVI secolo italiano.

D’altronde, si diffuse in questi anni anche una riflessione sugli Stati italiani che riprendeva esplicitamente la terminologia della storiografia europea sullo Stato assoluto e sullo Stato moderno. Se, come abbiamo visto, già all’inizio del Novecento possiamo rintracciare in Italia una tradizione di studi attenta alle spinte accentratrici degli Stati nella Prima Età Moderna, non si può certo dire che la problematica europea dell’assolutismo – e dell’assolutismo illuminato – trovasse spazio in queste opere. Franco Valsecchi, invece, ha rappresentato in questi anni un caso particolare: egli si ricollegava esplicitamente a questo dibattito europeo, provando ad emanciparsi dai condizionamenti imposti dal pervasivo riferimento alla tesi della “decadenza” italiana e della “ripresa” settecentesca. La problematica dello Stato era da lui concepita come questione di evoluzione costituzionale, secondo lo schema “classico” di tutte le monarchie europee, verso l’affermazione dello “Stato moderno”49. In particolare, propose di ragionare – per la Lombardia austriaca del XVIII

secolo – sul passaggio dall’assolutismo empirico all’assolutismo illuminato: l’evoluzione costituzionale in età moderna veniva così interpretata essenzialmente secondo le linee di una progressiva affermazione del potere centrale, nonché attraverso l’affermazione di un apparato amministrativo, di una vera e propria burocrazia funzionale alle esigenze politiche di centralizzazione50. Ci sembra particolarmente significativo che questa prospettiva venisse di

fatto subordinata alla spinta prodotta dalle esigenze finanziarie dei sovrani e dichiarata valida soprattutto nel Settecento per i principali Stati della penisola italiana (proprio secondo la cesura fra assolutismo empirico ed assolutismo illuminato che riconosceva nella diffusione della cultura dei lumi il salto di qualità “ideologico” necessario per realizzare la forzatura decisiva verso lo “Stato moderno”): una prima conseguenza di questa impostazione risiedeva nella svalutazione politica dei piccoli Stati italiani, almeno fino al XVIII secolo, se non fino alla diffusione della cultura illuministica nei principali centri della penisola. Anche nelle opere successive, Valsecchi continuò a sostenere questa sua convinzione: descrisse l’Italia nel periodo della Guerra di Successione spagnola come un territorio formato da «Piccoli Stati retti

49 Cfr. M. Mirri, Dalla storia dei “lumi” e delle “riforme” alla storia degli “antichi stati italiani”, cit., p. 433- 441.

50 F. Valsecchi, L’Assolutismo illuminato in Austria e Lombardia, vol. II, La Lombardia, Zanichelli, Bologna, 1934.

da dinastie ed oligarchie in decadenza, pressoché disarmati rispetto alla preponderante forza delle Potenze europee»51. In questo quadro l’unico elemento attivo risultavano essere i Savoia,

«in un’Italia che è “oggetto” della politica europea, la monarchia sabauda si presenta, unica, come “soggetto” […] polo positivo nella negatività generale»52; ad Utrecht «i Savoia soltanto

sono presenti, in essa, come soggetto attivo: gli altri Stati italiani non partecipano alla trattative che come soggetto passivo»53. Notiamo, quindi, come anche in Valsecchi, sebbene in

una prospettiva diversa dalle letture “risorgimentali” e “sabaudiste” degli Stati italiani nell’Età Moderna, si finiva per privilegiare marcatamente l’ottica del Ducato di Savoia, prima, e del Regno di Sardegna, poi, unico caso italiano in grado di sollevarsi dall’impotenza dei piccoli Stati e di giocare un ruolo attivo nelle relazioni internazionali, grazie soprattutto alla politica dei Savoia tra fine XVII e inizio XVIII secolo mirata al potenziamento del potere politico centrale secondo i canoni dello Stato assoluto. Una lettura che oggi appare insufficiente e fondata su aspetti parziali, anche, come vedremo, grazie ai suggerimenti forniti dalla letteratura successiva sugli Stati italiani della Prima Età Moderna e del Settecento.

In conclusione, possiamo notare come, seguendo approcci concettuali diversi, Chabod, Anzilotti e Valsecchi abbiano fornito interpretazioni di alcune formazioni statali della penisola italiana in Età Moderna che ne esaltavano la capacità di compiere decisivi avanzamenti sul piano dell’accentramento politico e della razionalizzazione amministrativa. Certo, si trattava di studi su contesti storici diversi tra loro e con scansioni cronologiche differenti. Abbiamo, infatti, sottolineato alcune divergenze effettive nelle loro opere. Tuttavia, possiamo notare almeno un elemento comune sul terreno della documentazione consultata e sull’oggetto privilegiato di studio: lo Stato – a differenza di quanto abbiamo potuto riscontrare negli studi che si inseriscono nel filone del “Fiscal-Military State” – era indagato dal punto di vista delle evoluzioni costituzionali, degli ordinamenti giuridici e delle riforme che venivano realizzate in ambito istituzionale ed amministrativo. Sono i campi di ricerca che sembravano essere maggiormente in voga in quella fase e che, necessariamente, costituirono un punto di partenza anche per gli studi delle generazioni successive.

51 F. Valsecchi, L’Italia nel Settecento, Mondadori, Roma, 1959, p. 6. 52 Ibidem, p. 8.

2.2.2 Alle radici della statualità: “Stato moderno”, pluralismo politico e “Stato regionale” nell’Italia della Prima Età Moderna

Per ricostruire la parabola storiografica sugli Stati italiani nella Prima Età Moderna nel secondo Novecento, suggeriamo la lettura dell’esauriente saggio di Elena Fasano Guarini, contenuto nel volume degli Annali dell’Istituto storico italo-germanico sull’Origine dello Stato a cura di Giorgio Chittolini, Pierangelo Schiera e Anthony Molho e che riprende i lavori del convegno di Chicago sul tema54. In esso l’autrice si confrontava soprattutto con la

problematica del rapporto fra centro e periferia negli Stati italiani in età moderna, analizzando la letteratura sul tema e prendendo posizione sulle principali questioni sollevate dagli storici. Inevitabilmente, rientravano in questa trattazione il dibattito sullo “Stato moderno” di respiro europeo e il carattere specifico, pur nella varietà e diversità di interpretazioni, che questa discussione assunse in relazione alla natura degli Stati italiani. Infatti, il processo della loro formazione è stato letto secondo letture contrastanti: in alcuni casi in termini di accentramento – e pertanto con un riferimento ai suoi caratteri di “modernità” – in altri secondo ricostruzioni tendenti a sottolineare la resistenza tenace delle periferie o la lunga durata di strutture pluralistiche del potere. La questione dello Stato nella penisola italiana nella Prima Età Moderna ha, inoltre, sollevato un’altra discussione, che trova spazio nel titolo del volume: ci riferiamo allo sforzo di ricerca per ricostruire le origini della statualità, intesa come forma di organizzazione del potere politico innovativa rispetto alle forme medievali. Abbiamo visto nel primo capitolo come anche altri filoni storiografici55 si siano posti questo problema, fornendo

peraltro risposte interpretative differenti: per quanto riguarda gli Stati italiani dell’Età Moderna, gli studiosi italiani e americani che hanno animato il convegno di Chicago hanno indagato la complessa, graduale e contrastata transizione verso forme di organizzazione politica statali. Un punto di vista che ci suggerisce di indagare i processi politici che hanno

54 E. Fasano Guarini, Centro e periferia, accentramento e particolarismi: dicotomia o sostanza degli Stati in età moderna, in G. Chittolini, A. Molho, P. Schiera (a cura di), Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia tra Medioevo ed Età Moderna, Il Mulino, Bologna, pp. 147-176.

55 Si pensi soprattutto all’Action Thématique Programmée dal titolo «Genèse de l’État moderne», promossa dal Cnrs francese alla metà degli anni ottanta e coordinata da Jean-Philippe Genet; per un bilancio cfr. J.-P., Genet, L’ État moderne: genèse. Bilans et perspectives, Parigi, 1990. Questo filone di ricerca è poi proseguito nel programma finanziato dalla European Science Foundation dedicato a «The Origins of Modern State in Europe 1300-1800», sotto il coordinamento dello stesso Genet e di Wim Blockmans

interessato le forme del potere nella penisola italiana fra Tardo Medioevo e Prima Età