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La questione delle riforme e la “cesura” settecentesca: periodizzazioni a confronto

PICCOLO STATO E “ANTICHI STATI ITALIANI”: SPECIFICITÀ E PROBLEMI COMUN

2.3 La questione delle riforme e la “cesura” settecentesca: periodizzazioni a confronto

Un’indagine sulla storiografia sul Settecento italiano sembra, infatti, aprire un capitolo molto distante, con pochi punti in comune con quella su XVI e XVII secolo. Va da sé che, data la contiguità con il XIX secolo, siano stati ancora più diffusi i contributi che hanno forzato le interpretazioni storiografiche verso un’ottica “risorgimentista” e “sabaudista”. In

99 Per un esempio di questo tipo cfr. C. Capra, The Italian States in the early modern period, in R. Bonney (a cura di), The rise of the Fiscal State in Europe c. 1200-1815, Oxford University Press, Oxford, 1999, pp. 417-442.

100Ricordiamo, come semplici esempi, Aa. Vv., La Fiscalité et ses implications sociales en Italie et en France aux XVIIe et XVIIIe siècles, École française de Rome, Roma, 1980; J.-C. Waquet, Le Grand-Duché de

Toscane sous les dernirs Médicis. Essai sur le système des finances et la stabilité des institutions dans les anciens Etats italiens, École française de Rome, Roma, 1990; A. Alimento, Riforme fiscali e crisi politiche nella Francia di Luigi XV. Dalla “taille tarifée” al catasto generale, Olschki, Firenze, 1995;

generale, però, siamo di fronte a una discussione storiografica particolarmente ricca e variegata, che conosce non poche svolte lungo tutto l’arco del XX secolo, ma che ha individuato soprattutto nella questione delle riforme e nella “cesura” storica del XVIII secolo due delle principali argomentazioni che hanno orientato gli studi storici sul Settecento.

Per una ricostruzione esauriente di questo dibattito, ci sono sembrate decisamente stimolanti le considerazioni di Mario Mirri in occasione del colloquio di studi di Castelfiorentino del 1988 su Pompeo Neri101. Nella sua lettura, viene tratteggiata

l’affermazione del Settecento come oggetto di studio in sé per gli storici agli albori del Novecento, dentro quel paradigma della “ripresa” settecentesca, degli inizi della fuoriuscita da un lungo periodo di “decadenza”, ma secondo filoni di ricerca differenti: così, abbiamo da un lato la “storiografia realistica”, con ancora una volta Anzilotti tra i principali esponenti e la sua attenzione sull’azione di governo legata ai processi socio-economici, e dall’altro studi sugli uomini di cultura, degli scrittori e dei funzionari di governo, in un clima storiografico tra le due guerre mondiali più focalizzato sulla storia delle idee e sulla rilevanza dei movimenti di pensiero102. Non dobbiamo, però, immaginare che si esauriscano in questo secondo periodo gli

interessi storiografici per le condizioni socio-economiche, come possono dimostrare le opere di Luigi Dal Pane103 e la riscoperta di estimi e catasti come fonti primarie decisive per lo

studio delle questioni amministrative, fiscali ed economiche (si pensi alle possibilità di approfondire, per questa via, la distribuzione della proprietà fondiaria104). È con il secondo

Dopoguerra che, secondo Mirri, il Settecento in Italia si consolida come un ambito di studi ben riconoscibile, individuando anche in questo caso due filoni di ricerca principali. In primo luogo, la tradizione di studi di cui ha fatto parte lo stesso Mirri – insieme ai vari Dal Pane, Villani, Villari – basata sul materialismo storico, su uno stretto rapporto con la lezione di Gramsci e con l’histoire économique et sociale delle “Annales” (soprattutto con la pubblicazione de La Méditerranée di Fernand Braudel), che poteva ora contare

101M. Mirri, Dalla storia dei “lumi” e delle “riforme”alla storia degli “antichi stati italiani”, in Aa. Vv., Pompeo Neri. Atti del Colloquio di Studi di Castelfiorentino, 6-7 maggio 1988, Società Storica della Valdelsa, Castelfiorentino, 1992, pp. 401-540.

102Cfr. Ibidem, pp. 405-419.

103Cfr. L. Dal Pane, La questione del commercio dei grani nel Settecento in Italia, Vita e Pensiero, Milano, 1932; Id., Studi sui catasti onciari del Regno di Napoli, Macrì, Bari, 1936.

104Per una rassegna sulla storiografia più recente che ha messo al centro della propria riflessione il tema dei catasti cfr. A. Contini, F. Martelli, Catasto, fiscalità e lotta politica nella Toscana nel XVIII secolo, in «Annali di Storia di Firenze», II, 2007, pp. 151-183.

sull’affermazione definitiva della “storia economica”. Sul piano, invece, di un’attenzione maggiore, di eredità per certi versi gobettiana, al movimento della cultura settecentesca e ai suoi protagonisti, si impone – con Giarrizzo, Diaz e Venturi – il tema dell’Illuminismo, anzi, per Mirri, una vera e propria lettura “illuministica” del Settecento, nel duplice senso di Settecento inteso essenzialmente come età dell’Illuminismo e di una storiografia dedita soprattutto a mettere in luce il ruolo politico degli intellettuali.

In questo panorama storiografico, non può che essere considerata un punto di svolta di portata epocale la pubblicazione, nel 1969, del primo volume di Settecento riformatore di Franco Venturi105. Nel dibattito accademico ha segnato un decisivo «passaggio da

un’egemonia all’altra»106, mettendo sul piatto un’opera che ha rappresentato per generazioni

di storici una lettura obbligata per addentrarsi nello studio del Settecento italiano. Già negli anni ‘50 aveva proposto una forte presa di distanza da una storiografia italiana ancora ripiegata nella riproposizione della dicotomia tra “assolutismo empirico” ed “assolutismo illuminato” proposta dal Valsecchi107. Il titolo della sua opera principale già ci dice come al

centro dello sforzo di Venturi troviamo non gli «stati e staterelli italiani», bensì il «filo rosso del moto riformatore», da rintracciare e seguire nei suoi sviluppi per cogliere a pieno i problemi dell’Italia dagli inizi del XVIII secolo, alla «primavera dell’Illuminismo italiano», che sboccia negli anni ‘60, fino alla sua crisi degli anni ‘80 del secolo108. Un’impostazione che

diventerà un punto di riferimento per la ricerca italiana sul Settecento, con, per dirla con Verga, «l’identificazione stessa del tema delle riforme e dei riformatori come questione centrale della produzione storiografica italiana»109. Questo filone dimostra tutta la sua

influenza anche in tempi particolarmente recenti: nella sua ultima opera110 Carlo Capra indica

L’Italia del Settecento di Carpanetto e Ricuperati111 come l’ultima opera organica e rilevante

sul XVIII secolo italiano, ma con dei limiti di cui avere contezza: «sotto l’influenza dominante delle interpretazioni di Venturi, esso scontava tuttavia, insieme a una certa

105F. Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Einaudi, Torino, 1969.

106M. Mirri, Dalla storia dei “lumi” e delle “riforme”alla storia degli “antichi stati italiani”, cit., p. 479. 107Cfr. M. Verga, Tra Sei e Settecento: un’«età delle pre-riforme»?, in «Storica», anno I, n. 1, 1995, pp. 89-121. 108Le espressioni tra virgolette sono riprese da F. Venturi, Prefazione a Settecento riformatore, cit., pp. XIII-

XIX.

109M. Verga, Tra Sei e Settecento: un’«età delle pre-riforme»?, cit., p. 92.

110C. Capra, Gli italiani prima dell’Italia. Un lungo Settecento, dalla fine della Controriforma a Napoleone, Carocci, Roma, 2014.

mancanza di coordinamento fra i due autori, uno squilibrio fra l’ampio spazio dedicato alla considerazione degli intellettuali e dei loro pensieri e l’analisi a volte un po’ sommaria della realtà economico-sociale e delle vicende politiche»112.

Torniamo a Venturi. A ben vedere, il tema delle “riforme” negli studi sul Settecento italiano risulta tutt’altro che innovativo, basti pensare ai lavori dell’Anzilotti. Quello che si impone adesso, tuttavia, è un nesso strettissimo tra lumi e riforme, secondo un rapporto che in precedenza, negli studi sull’argomento, non era stato così forte e che segna il generale “ritorno all’Illuminismo” come una delle più rilevanti novità culturali e storiografiche di quel periodo. Con Venturi si è affermata una linea interpretativa – nella scia degli stimoli forniti dai contributi francesi degli anni ‘20 e ‘30 di autori come Paul Hazard e Daniel Mornet – che ha portato in primo piano il tessuto europeo della circolazione delle idee e la formazione di una comune coscienza europea e progressista, all’interno della quale la tematica delle “riforme” diviene in qualche modo espressione e contenuto del movimento dei lumi. Seguendo Mirri, «l’Illuminismo, nella interpretazione di Venturi, non è un puro dibattito intellettuale, ma contiene, anzi, molto concretamente, una forte carica politica, di “riforma”: elaborando i temi del progresso, della “felicità terrena”, della felicità pubblica, pretende di incidere nella realtà presente»113.

In ogni caso, le straordinarie pagine di Settecento riformatore restituiscono lo sconfinato impegno di ricerca del Venturi in archivi e biblioteche per rintracciare, soprattutto, documentazione inerente il dibattito intellettuale sulle grandi questioni del Settecento. Attraverso questa scelta metodologica e questo specifico punto di vista, fornisce una lettura dei processi politici e socio-economici più rilevanti del periodo preso in considerazione. Prendiamo in considerazione, in particolare, lo spazio temporale fra la metà degli anni ‘30 e la metà degli anni ‘60 del Settecento: «nessun avvenimento politico essenziale dominò quel trentennio 1734-1764 se non la pace e l’equilibrio finalmente raggiunto. Nessun fatto economico di primaria importanza vediamo in quegli anni se non la tendenza generale,

112C. Capra, Gli italiani prima dell’Italia, cit., p. 13.

113M. Mirri, Dalla storia dei “lumi” e delle “riforme”alla storia degli “antichi stati italiani”, cit., p. 496. Per apprezzare il pensiero di Venturi circa il ruolo dei protagonisti del movimento delle idee settecentesco cfr. anche F. Venturi, Introduzione, in Id. (a cura di), Riformatori lombardi, piemontesi e toscani, Ricciardi, Napoli, 1958.

europea, all’espansione»114. Come si capisce da queste note introduttive al volume, Venturi

prende posizione su alcuni dibattiti sul XVIII secolo italiano, che ci sembra abbiano esercitato una notevole influenza su diversi studi successivi. In primo luogo, la visione degli anni Trenta come il «punto più basso dello sgretolamento politico, della depressione economica, della delusione intellettuale»115 nel panorama italiano, caratterizzati al principio da voci sempre più

insistenti di un ritorno della guerra dopo un lungo periodo di pace e, poi, sfociati nel conflitto per la successione del trono polacco. Una disputa che certo non poteva appassionare la classe dirigente degli Stati italiani, ma che ebbe ripercussioni importanti sul quadro geo-politico italiano e sulle dinastie al potere nei diversi Stati della penisola116. Accanto al difficile quadro

politico e alle operazioni belliche sul territorio della penisola, Venturi descrive la seconda metà degli anni Trenta come un periodo di forte crisi economica, anche laddove i movimenti militari furono meno gravosi, all’interno di un più generale fenomeno europeo di depressione117. Al tempo stesso, è in questi anni tra la fine degli anni Trenta e lo scoppio della

Guerra di Successione austriaca che riconosce, almeno in alcuni centri della penisola, l’inizio della ripresa, i primi segnali del «lento e difficile confluire dei nuovi governanti e delle forze intellettuali»118. Tuttavia, il movimento delle idee – così come la presa di parola sui problemi

economici, politici e istituzionali del tempo in termini innovativi da parte di autori come Sallustio Bandini o Celestino Galiani – non solo non è ancora sufficientemente “maturo”, nel senso di pienamente connesso con la cultura dei lumi; sono alcune condizioni politiche fondamentali che non si sono ancora verificate per dare slancio all’apice del moto riformatore. In particolare, il quadro fornito da Venturi individua una delle principali, se non la principale cesura, nella pace di Aquisgrana e nel mezzo secolo di pace che inaugura per gli Stati italiani. Da un lato le guerre di successione, soprattutto l’andamento e gli esiti della Guerra di Successione austriaca, segnano lo spostamento del baricentro della grande politica europea e il collocamento della penisola italiana «sempre più al margine della grande politica europea,

114F. Venturi, Prefazione a Settecento riformatore, cit., p. XVI. 115F. Venturi, Settecento riformatore, cit., p. 3.

116 Cfr. M. Verga, La «disavventura inesplicabile»: mutamenti dinastici e riforme nell’Italia del primo Settecento. Note sul Granducato di Toscana da Cosimo III a Francesco Stefano di Lorena, in C. Mozzarelli, G. Venturi (a cura di), L’Europa delle corti alla fine dell’antico regime, Bulzoni, Roma, 1991, pp. 405-427. 117Cfr. Ibidem, p. 12-13.

118Ibidem, p. 50. L’espressione è riferita in questo caso al Granducato di Toscana sotto la nuova dinastia lorenese. L’altro centro politico che secondo Venturi conosce con il cambiamento di dinastia un cambio di passo, come e più che in Toscana, è il Regno di Napoli con Carlo di Borbone.

in un angolo autonomo e neutrale, fuori dal gioco delle nuove potenze che emergevano»119,

come la Prussia e la Russia, e dallo scontro per il traffico coloniale. Dall’altro, Venturi risulta molto perentorio nell’affermare che «il moto riformatore settecentesco ha come sua premessa indispensabile l’intesa raggiunta tra Austria e Spagna nel trattato di Aranjuez del 14 giugno 1752, coronata poi, nel 1756, dall’accordo tra Vienna e Versailles»120 e dal “rovesciamento

delle alleanze”. Si tratta di una visione della stagione politica aperta dall’intesa fra Asburgo e Borboni molto diversa da quella che era stata espressa nella storiografia più attenta alle connessioni con il Risorgimento e alla politica espansionistica sabauda, che come è noto conosce una battuta d’arresto nella seconda metà del XVIII secolo121. Sicuramente possiamo

ravvisare nelle pagine di Venturi una certa insistenza sul conflitto tra le due principali dinastie europee come motore determinante della storia politica italiana del XVIII secolo. Tuttavia, ciò che ci sembra più interessante rilevare è la periodizzazione delle riforme negli Stati italiani che si staglia con autorevolezza nella discussione storiografica: queste iniziano con le prime proposte che si elaborano in alcuni contesti all’uscita dalla crisi economica e politica degli anni Trenta, attraversano una fase di primi tentativi di intervento, interessanti ma non adeguatamente maturi, per arrivare alla vera e propria età delle riforme a partire dagli anni Cinquanta e, soprattutto, nei due decenni successivi.

Ci sembra che il giudizio di Mirri, nell’articolo citato, sia eccessivamente severo nei confronti dell’opera principale di Venturi, che viene descritta come più attenta ai “riformatori” che alle “riforme”, «una ricostruzione di dibattiti intellettuali, una successione, per quanto ricca e straordinaria, di idee, senza che, mai, ci si diffonda a esaminare concrete iniziative di governo con le loro motivazioni»122. Sicuramente, come ammette lui stesso, Venturi è

convinto che la guida migliore per comprendere anche la vita economica delle società italiane tra il 1734 e il 1764 stia proprio nella storia del formarsi e dello svilupparsi della “volontà di riforma”123; detto ciò, a nostro avviso, è sbagliato sottovalutare i suoi sforzi tesi a

comprendere le iniziative concrete di governo in maniera di confini, appalti, circolazione

119 Ibidem, p. 60.

120 F. Venturi, Settecento riformatore, cit., p. 412.

121 Le riflessioni di Gioacchino Volpe sulla stasi di un presunto scontro di lungo periodo contro la dominazione austro-imperiale e, in generale, straniera vengono significativamente bollate da Venturi come «brontolii degli storici nazionalisti», di fatto a suo avviso incapaci di cogliere la portata politica e le nuove opportunità offerte dal nuovo quadro internazionale.

122 M. Mirri, Dalla storia dei “lumi” e delle “riforme”alla storia degli “antichi stati italiani”, cit., p. 525. 123 Cfr. F. Venturi, Prefazione a Settecento riformatore, cit., p. XV.

monetaria e viabilità124. Semmai, è più opportuno sottolineare come – alla luce della

periodizzazione scelta e del giudizio ambivalente sulle prime iniziative di riforma nella Toscana dei Lorena, nella Napoli di Carlo di Borbone e nella Lombardia austriaca – tali sforzi si concentrano soprattutto in relazione all’affermarsi del movimento delle idee più riconducibili ai philosophes e ai fisiocratici. Infatti, concordiamo con Mirri quando ricorda la presenza di altre spinte riformatrici negli Stati italiani. Risultano attive già all’inizio del XVIII e non sono affatto sovrapponibili alle riflessioni dei pensatori illuministi: «il dibattito sugli antichi Stati, che si apre all’inizio del secolo […] non può non essere considerato nella sua specificità, con i suoi diversi tentativi di tradurre in soluzioni tecniche e procedure praticabili esigenze, principi, diritti che compresero certamente, da un certo momento in poi, i valori affermati dai philosophes, ma includevano anche altre esigenze, e in primo luogo quella di concrete forme di controllo e di partecipazione»125. Così come Mirri non concorda affatto

sulla visione di una “crisi” degli anni Trenta del secolo: la storia economica tende a convergere sull’interpretazione di quel periodo secondo lo schema di una ripresa economica, a partire dall’avvertimento di un’inversione di tendenza del trend di lungo periodo dei prezzi agricoli126.

Le conclusioni di Mirri suggeriscono che la problematica delle “riforme” settecentesche non può essere studiata soltanto in relazione al movimento internazionale delle idee, ma ha bisogno di relazionarsi con una storia politica fortemente ancorata alle ricerche sugli apparati di governo, sugli uffici, sulle istituzioni, sulla composizione sociale delle classi politiche, sulle strategie politiche del governo alla luce della discussione interna e delle pressioni del contesto internazionale. Significa che il «punto di vista deve divenire quello della vicenda trisecolare degli antichi Stati»127. Ci preme sottolineare come non si tratta soltanto di un

problema di periodizzazione, in ogni caso profondamente rivista, o di rapporto fra le iniziative di governo e movimento delle idee: per quanto ci riguarda non possono essere concepiti se non come momenti dialettici, al pari delle spinte economico-sociali, di un determinato processo storico. È, soprattutto, un invito a non dimenticare che sullo sfondo di una

124 Cfr. Ibidem, pp. 411-442.

125 M. Mirri, Dalla storia dei “lumi” e delle “riforme”alla storia degli “antichi stati italiani”, cit., p. 503. 126 Cfr. Ibidem; cfr. anche L. Dal Pane, Industria e commercio nel Granducato di Toscana nell’età del

Risorgimento, vol. I, Il Settecento, Patron, Bologna, 1971.

circolazione straordinarie di idee riformatrici attraverso l’Europa continuano ad esistere le formazioni statali con le loro classi dirigenti, i propri obiettivi di rafforzamento del potere sovrano e le rispettive strategie di inserimento nel gioco delle relazioni internazionali. Considerando la specificità dei problemi con cui sono alle prese gli Stati italiani del XVIII secolo, notiamo, infatti, come questi registrino una notevole continuità con le discussioni aperte fra gli ultimi decenni del Seicento e i primi del Settecento, nei quali «si avvertono, parallelamente, prima di tutto sul terreno fiscale e finanziario e della politica economica, parecchi nodi e contraddizioni e molte esigenze e proposte di “riforme”»128. Un fervore che si

concretizza soprattutto negli ambiti delle riforme finanziarie (problemi della circolazione monetaria e del regolamento dei tassi d’interesse), fiscali (catasti per recuperare una base imponibile certa ed equa o discussioni in materia di appalti e di forme di imposizione diretta e individuale sui redditi), economiche e sociali; ma che prevedono anche la rielaborazione e il rafforzamento dell’amministrazione centrale degli Stati. Insomma, «la vecchia tematica dei “lumi” e delle “riforme”, per questa via, si risolve in quella più ampia della complessa evoluzione, in età moderna, degli antichi Stati»129 italiani. E, aggiungiamo noi, l’insistenza sui

problemi fiscali e finanziari, sul reperimento delle risorse e sulla razionalizzazione dell’amministrazione e degli appalti richiama la necessità di addentrarsi il più possibile nella materialità delle fonti di carattere fiscale e contabile, sulla scia del metodo adottato dalla storiografia anglo-sassone esaminata nel primo capitolo, per capire a pieno il rapporto fra Stato e società nelle entità territoriali italiane nel periodo che intercorre tra la fine del XVII secolo e la metà del XVIII secolo.

Un’affermazione tutt’altro che pacifica. Marcello Verga, a metà degli anni ‘90, lamentava ancora una «frattura disciplinare e accademica tra studiosi di storia degli Stati italiani della Prima Età Moderna, i cosiddetti studiosi di “storia degli Antichi Stati italiani”, e gli studiosi delle riforme e dei riformatori del Settecento»130. Questa frattura, però, è stata

almeno ridotta dall’affermazione di nuove tendenze storiografiche: da un lato, autori come Capra e Ricuperati131, pur in continuità con la lezione del Venturi, hanno segnato un passaggio

128 Ibidem, p. 531. 129 Ibidem, p. 532.

130 M. Verga, Tra Sei e Settecento: un’«età delle pre-riforme»?, cit., p. 95.

131 Come esempi indicativi cfr. C. Capra, Giovanni Ristori da illuminista a funzionario, La Nuova Italia, Firenze, 1968; G. Ricuperati, L’esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Ricciardi, Milano, 1970.

cruciale dalla storia delle idee e dei riformatori alla storia delle istituzioni, dei funzionari e degli apparati di governo; dall’altro, Verga ravvisava, specificatamente per il Granducato di Toscana, ma più in generale per il XVIII secolo italiano, una nuova sensibilità per la storia delle istituzioni degli Stati italiani, estesa anche al Settecento dopo alcuni decenni nei quali si