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La biopsia epatica nella pratica clinica: studio della coorte consecutiva dell'UO di Epatologia dell'AOUP dal 1999 al 2011

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Università di Pisa

DIPARTIMENTO DI RICERCA TRASLAZIONALE E DELLE NUOVE

TECNOLOGIE IN MEDICINA E CHIRURGIA

Corso di Laurea Specialistica in Medicina e Chirurgia

Tesi di Laurea

La biopsia epatica nella pratica clinica: studio della coorte

consecutiva dell'UO di Epatologia dell'AOUP dal 1999 al 2011

Relatori:

Prof.ssa Maurizia Rossana Brunetto Prof. Ferruccio Bonino

Candidato: Lorenzo Ramon Navazio

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Indice

1 Introduzione ... 6

1.1 Origini della biopsia epatica ... 6

1.2 Contemporanea scoperta delle transaminasi ... 7

2 Il Ruolo della Biopsia Epatica nel Progresso di Conoscenza, Caratterizzazione e Diagnosi delle Patologie del Fegato ...10

2.1 Le Epatiti Virali ...10

2.1.1 Le fasi dell’Infezione Cronica da Virus dell’Epatite B ...11

2.1.2 La scoperta dell’Infezione da Virus Difettivo Delta ...14

2.1.3 L’Epatite Cronica Non A, Non B, poi C ...16

2.2 L’Epatite Autoimmune ...20

2.3 La Patologia delle Vie Biliari ...22

2.3.1 La colangite biliare primitiva ...22

2.3.2 La colangite sclerosante primitiva ...24

2.4 Le Patologie da Accumulo Intraepatico ...27

2.4.1 Steatosi epatica non alcolica ...27

2.4.2 Metalli ...28

2.4.3 Glicogenosi ...31

2.4.4 Proteine ...32

2.5 Danno Tossico ...33

2.6 Malattie Infettive e Parassitosi ...35

2.7 Epatocarcinoma e altre malattie neoplastiche ...36

2.8 Indicazioni alla biopsia epatica ...40

2.8.1 Diagnosi Eziologica del Danno Epatico ...40

2.8.2 Valutazione Quali-Quantitativa del Danno Epatico ...43

2.8.3 Valutazione dello Stadio Evolutivo di Malattia e Esiti di Cura ...46

2.8.4 Controindicazioni ...55

3 Tecnica bioptica ...59

3.1 Biopsia epatica percutanea...59

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3.3 Biopsia epatica laparoscopica ...61

3.4 Tipi di ago ...62

3.5 Campionamento e dimensioni ...63

4 Scopo del lavoro ...66

5 Materiali e metodi ...67

5.1 Selezione dei pazienti ...67

5.2 Raccolta dati relativi alla diagnosi istologica ...67

5.3 Analisi statistica ...71

6 Risultati ...72

7 Discussione ...118

8 Conclusione ...126

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1 Introduzione

1.1 Origini della biopsia epatica

La conoscenza e la diagnosi delle malattie del fegato ha una storia antica in cui le patologie epatiche venivano diagnosticate in una fase molto tardiva (autopsia) e sintomatica (ittero, ascite, …) e una storia moderna che ha le sue origini con l’introduzione e l’uso routinario della biopsia epatica che fu formalmente utilizzata la prima volta da Paul Ehrlich nel 1883 (citato da Frerichs nel 1884) per uno studio del contenuto di glicogeno del fegato di un paziente diabetico, e nel 1895 da Lucatello in Italia che la usò in medicina tropicale per la diagnosi di ascessi epatici (1).

Le prime pubblicazioni sistematiche furono di Schüpfer in Francia (1907), con una tecnica che permetteva di ottenere cilindri di tessuto epatico che potessero essere valutati istologicamente e quindi utilizzati per la diagnosi di cirrosi e tumori epatici. Negli anni successivi il metodo raggiunse popolarità e durante la seconda guerra mondiale vi fu un rapido aumento dell’uso di questa metodica, in gran parte per indagare i molti casi di epatite virale non fulminante che colpivano le forze armate di entrambi gli schieramenti (1).

Seguì un periodo caratterizzato dalla ricerca di tecniche meno invasive e rischiose per il prelievo del campione di fegato e diverse metodiche vennero proposte da più autori: Huard, May, e Joyeux (1935) in Francia, da Baron (1939) negli Stati Uniti, da Iversen e Rbholm (1939) in Danimarca, da Axenfeld e Brass (1942) in Germania, e da Dible, McMichael, e Sherlock (1943) in Gran Bretagna (1).

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1.2 Contemporanea scoperta delle transaminasi

Al pari della biopsia epatica la scoperta delle transaminasi che avvenne nell’Università di Napoli nel 1955 grazie alle ricerche di Fernando De Ritis, Mario Coltorti e Giuseppe Giusti contribuì in modo essenziale allo sviluppo della conoscenza e diagnosi delle malattie epatiche. Nel 1957 gli stessi autori pubblicarono un articolo in cui descrivevano il pattern enzimatico sierico indicativo di epatite virale (2) diffondendo così l’uso diagnostico delle transaminasi.

Nel 1958 Giorgio Menghini perfezionò la tecnica bioptica introducendo appunto l’"ago di Menghini" e la cosiddetta " one-second needle biopsy of the liver ", la quale garantiva un basso tasso di complicazioni gravi/mortalità unito a una relativamente limitata morbilità riducendo significativamente la fase intraepatica della manovra di prelievo (3) (Figura 1). Questa invenzione avviò l’uso routinario della biopsia epatica con la diffusione capillare dell’uso dell’ago ideato da Menghini.

Successivamente nel 1962 un altro famoso epatologo italiano, Giorgio Verme, pubblicò il primo atlante di patologia epatica basato sullo studio di un’ampia serie di casi clinici in cui la biopsia epatica permise la precisa caratterizzazione e la diagnosi della lesione istopatologica (4).

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Figura 1: Le fasi della biopsia epatica utilizzando la tecnica Menghini:

1. L’ago bioptico raccordato ad una siringa viene spinto nel tessuto sottocutaneo;

2. 1 ml. circa di soluzione fisiologica viene iniettata per espellere eventuali frammenti di tessuto dall'ago;

3. L’ago in aspirazione è inserito molto rapidamente attraverso lo spazio intercostale e nel fegato mentre il paziente trattiene il respiro in espirazione;

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9 Nel 1973 il radiologo Charles Dotter promosse l’approccio transgiugulare alla biopsia epatica, inizialmente testato su modelli animali, per i casi con rischio emorragico (5).

La tecnica prevede l’incannulazione della vena giugulare interna destra seguita dall’inserimento di una guaina tramite la tecnica Seldinger. Un catetere è quindi guidato sotto controllo fluoroscopico attraverso il lato destro del cuore verso la vena cava inferiore. Il catetere caricato con l'ago bioptico viene fatto avanzare nelle vene epatiche controllando la posizione mediante mezzo di contrasto. L'ago viene avanzato rapidamente di 1-2 cm con il paziente che trattiene il respiro e ritiene all’interno tessuto epatico per aspirazione in una siringa collegata all'altra estremità dell'ago (6).

Dagli anni 70 fino alla metà degli anni 90 la biopsia epatica ha rappresentato quindi l’indagine diagnostica di riferimento per la ricerca e la pratica clinica (4) diventando anche l'indagine base per la stadiazione delle malattie e dei tumori del fegato e la valutazione della risposta istopatologica alle terapie negli studi clinici controllati e nella pratica clinica.

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2 Il Ruolo della Biopsia Epatica nel Progresso di Conoscenza,

Caratterizzazione e Diagnosi delle Patologie del Fegato

Fino allo sviluppo dei test sierologici per le epatiti virali, la biopsia epatica è stata eseguita principalmente per scopi diagnostici (es. distinguere l’epatite cronica da altri disturbi acuti e cronici), per la prognosi e la valutazione della risposta alle terapie. La prognosi dell'epatite cronica si basava su una semplice classificazione morfologica, che distingueva l’epatite cronica attiva (caratterizzata dalla presenza di epatite periportale) dall’ epatite cronica persistente o epatite cronica lobulare (senza epatite periportale) (3).

Solo l’epatite cronica attiva era stata dimostrata a rischio di evoluzione in cirrosi. Successivamente molti studi dimostrarono che la progressione della fibrosi è influenzata non solo dall'epatite periportale, ma anche dalla severità complessiva del quadro necro-infiammatorio (3). L’epatite cronica attiva e cronica persistente non dovevano perciò essere considerate come entità distinte, ma come diverse fasi della stessa malattia, l’una eventualmente evolvente nell'altra (3).

In secondo luogo, l’eziologia specifica della malattia epatica venne riconosciuta come un fattore determinante il rischio evolutivo e il tasso di sviluppo della cirrosi e la probabilità di risposta al trattamento. Un nuovo approccio diagnostico classificativo venne perciò introdotto integrando l’eziologia con le evidenze morfologiche per stabilire meglio sia la prognosi che le indicazioni di trattamento (3).

2.1 Le Epatiti Virali

Nell’ultimo quarto del secolo scorso la biopsia epatica ha dato un contributo strumentale essenziale alla scoperta dei virus epatitici maggiori. Ha permesso di caratterizzare in dettaglio le lesioni istologiche associate alle varie fasi dell’infezione virale aumentando la conoscenza della fisiopatologia epatica. La successiva scoperta del primo marcatore sierologico del virus dell’epatite B, Antigene Australia o Antigene di Superficie del Virus dell’Epatite B (HBsAg), e la messa a punto di metodiche

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11 immuno-istochimiche permise di identificare nel tessuto epatico gli antigeni virali del virus dell’epatite B (HBV) e la successiva identificazione del virus difettivo Delta (HDV) (7) (8).

Successivamente il significato clinico patologico degli antigeni virali venne definito proprio grazie all’utilizzo sistematico della biopsia, che permise anche la definizione del significato diagnostico dei marcatori sierici di infezione virale e la loro introduzione nella pratica clinica. Ciò ha progressivamente portato alla riduzione del numero di biopsie. La storia della biopsia epatica è la dimostrazione che l’esame diagnostico invasivo migliore è quello che permette di identificare marcatori non invasivi che ne limitano successivamente l’uso.

2.1.1 Le fasi dell’Infezione Cronica da Virus dell’Epatite B

A partire dalla scoperta di HBsAg nel 1963 da parte di Blumberg (9) ad oggi le nostre conoscenze sui meccanismi di infezione e persistenza del virus dell’epatite B sono aumentate con il tempo. L’HBV appartiene alla famiglia Hepadnaviridae. È trasmesso da esposizione perinatale, percutanea e sessuale, nonché per contatto da persona a persona presumibilmente attraverso tagli e ferite aperte, in particolare tra i bambini nelle aree endemiche (10).

Il rischio di sviluppare l’infezione cronica da HBV dopo l'esposizione acuta varia dal 90% nei neonati di madri HBeAg-positive al 30% nei bambini sotto i 5 anni e a meno del 10% negli adulti (11) (12). Inoltre, le persone immunodepresse hanno maggiore probabilità di sviluppare l’infezione cronica da HBV dopo quella acuta (13).

Per anni la biopsia è servita a diagnosticare le fasi di infezione da HBV e a stadiare l’epatite cronica B (presenza degli antigeni HBsAg e HBcAg) dando un contributo strumentale essenziale. Ora sappiamo che la patologia da HBV è varia e riflette il decorso clinico della malattia (14).

L’immunoistochimica per HBsAg e HBcAg permette l'identificazione dell'epatite B come agente eziologico dell’epatite cronica e aiuta a differenziare le infezioni ricorrenti da rigetto nel trapianto di fegato allogenico. Inoltre, i patterns di immunoespressione di HBsAg e di HBcAg aiutano a determinare la fase dell'infezione. L’HBsAg non è di solito espresso in epatite acuta. In epatite cronica B, l’espressione di HBsAg può essere citoplasmatica e / o di membrana, mentre quella di HBcAg può

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12 essere nucleare e / o citoplasmatica. Una diffusa colorazione di membrana per HBsAg suggerisce una replicazione virale attiva (14).

Nella fase immuno-tollerante (o in ospiti immunodepressi), vi è diffusa positività nucleare di HBcAg e di membrana per HBsAg, senza infiammazione marcata, con una relazione inversa tra il grado di espressione diffusa di membrana e l’attività infiammatoria (15) (16). La presenza di HBsAg in gruppi di epatociti unita a una negatività di HBcAg può rappresentare uno stato di portatore inattivo senza replicazione virale in corso (17). L’espressione citoplasmatica di HBcAg è un obiettivo per le cellule T citotossiche HBV-specifiche (15).

La colorazione citoplasmatica e di membrana di HBcAg è riportata nella fase di clearance virale e correla con il danno epatico (16) (7) e la rigenerazione epatocitaria (18). L'assenza di HBcAg può prevedere una risposta al trattamento, soprattutto in pazienti HBeAg-negativi sierologicamente. Lo stadio della fibrosi e il rapporto HBeAg-negativo/anti-HBe–positivo riportato aumenta al cambiamento di distribuzione di HBcAg da nucleare a citoplasmatico. Nello stesso studio, differenze significative sono state osservate anche nei livelli sierici di ALT, nella concentrazione di HBV DNA, e nei punteggi di necro-infiammazione con una differente distribuzione nucleare e citoplasmatica di HBcAg (19). HBcAg e HBeAg hanno generalmente una espressione cellulare coincidente, e la forte presenza citoplasmatica di antigeni nucleocapsidici è un marker di alta replicazione virale (16) (20).

Istologicamente l’epatite acuta B è caratterizzata da disordine lobulare, degenerazione balloniforme, numerosi corpi apoptotici, attivazione delle cellule di Kupffer e infiammazione portale e lobulare prevalentemente linfocitaria. Un simile pattern di lesione può essere visto anche nella riattivazione acuta di epatite cronica B. A seguito di infezione acuta, la maggior parte dei soggetti elimina il virus, mentre altri sviluppano l’epatite cronica B (14).

Nell’epatite cronica B, c'è un grado variabile di infiammazione portale prevalentemente linfocitaria con epatite periportale e infiammazione lobulare focale. La storia naturale dell'epatite cronica B è divisa in una fase immuno-tollerante, una immuno-reattiva e una fase di portatore inattivo del virus B. L'infiammazione è minima nella fase immuno-tollerante e portatore inattivo del virus, ma è importante nella immuno-reattiva (14).

L'infiammazione è tipicamente associata a fibrosi, che può variare da un'espansione portale lieve a filamenti fibrosi periportali, fibrosi a ponte e cirrosi. Il pattern di lesioni dell’epatite cronica non è

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13 specifico per l’epatite cronica B ed è anche visto in altre malattie del fegato, compresa l'epatite cronica C, l’epatite autoimmune, il danno epatico farmaco-indotto e la colestasi cronica. Gli aggregati linfoidi, le lesioni duttali e la steatosi sono rari nell’epatite cronica B (14). Tuttavia, Peng et al. hanno trovato che la steatosi sia più frequente nell’epatite cronica B che nella popolazione generale, e ipotizzano che questo può essere dovuto a fattori metabolici o alla capacità di HBV di facilitare indirettamente lo sviluppo di steatosi (21).

L’HBV si replica negli epatociti, ma non è direttamente citopatico. Il danno epatico è immuno-mediato, con le cellule T specifiche per HBV che giocano un ruolo fondamentale sia nella patogenesi della malattia sia nella clearance virale (14). L’infiltrato infiammatorio dell’epatite cronica B mostra una prevalenza di cellule T CD4-positive su cellule T CD8-positive (15).

Con l’introduzione dei marcatori sierologici l’utilizzo sistematico dell’esame bioptico è servito anche per definirne il significato clinico patologico. Per l’inquadramento sierologico dell’infezione si ricercano i prodotti virali (gli antigeni, che riflettono la complessità strutturale del virus, o l’acido nucleico) e gli anticorpi (prodotti dalla risposta immune del soggetto infettato). Si distinguono: marcatori di infezione (HBsAg, HBc, HBe), di replica virale (HBV-DNA, HBeAg), di danno virus-indotto (IgM anti-HBc), di immunità (anti-HBs) (22).

I pazienti con epatite cronica B sono diagnosticati dalla persistenza dell’antigene di superficie dell'epatite B (HBsAg) nel siero per più di 6 mesi, quindi la sierologia piuttosto che i saggi molecolari è necessaria per stabilire se il paziente è un vettore attivo o inattivo, o di distinguere tra epatopatia acuta e cronica HBV-correlata (23). Ci sono due forme principali di epatite HBsAg-positiva (24) (25) vale a dire la forma HBeAg-positiva associata con l’infezione del virus di tipo selvatico, e la forma HBeAg-negativa associata alla mutazione nella regione precore del genoma virale che impedisce l’espressione dell’HBeAg.

Nella prima, lo stato di portatore attivo è definito da livelli di HBV DNA ≥ 1,8 × 104 UI / ml; livelli di viremia sopra questa soglia sono generalmente associati a malattie del fegato. In pazienti con HBeAg negativo e anti-HBe positivo, i livelli di HBV DNA o ALT tendono a fluttuare nel tempo, così la misurazione ripetuta dei livelli di HBV DNA aiuta a distinguere tra lo stato di portatore attivo e inattivo (quest'ultimo caratterizzato da livelli di HBV DNA al di sotto 1.8 × 104, da livelli di ALT normali o fino a due volte superiori, e dall'assenza di epatopatia). A causa di questi livelli fluttuanti, HBV DNA e ALT

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14 devono essere monitorati per almeno 12 mesi per escludere l’infezione attiva in pazienti HBeAg-negativi, anti-HBe positivi (14).

L’assenza di danni al fegato, valutata direttamente con la biopsia epatica o presunta dall’assenza di IgM anti-HBc, è comunque necessaria per diagnosticare un'infezione da HBV inattiva (3). Le attuali linee guida per la gestione dell'epatite B non consigliano universalmente la biopsia epatica in tutti i pazienti con epatite cronica B, ma basano la decisione su diversi parametri clinici, virologici e biochimici (14).

2.1.2 La scoperta dell’Infezione da Virus Difettivo Delta

L’antigene delta è stato scoperto nel 1977 tramite immunofluorescenza in un gruppo di pazienti italiani con infezione cronica da HBV, che ha sviluppato gravi episodi di malattia epatica acuta (8). Nel 1980, è stato dimostrato che l’HDV era l’agente infettivo responsabile dell’esacerbazione della malattia epatica in questi pazienti (26).

Il virione HD è una particella ibrida costituita dall’HD-Ag e un RNA racchiusi all'interno di un capside HBsAg derivato da HBV (8) (26). L’HDV è un virus difettivo che usa il capside HBsAg da HBV grazie al quale aderisce e penetra negli epatociti e propaga l’infezione (27). La misura della dimensione del suo genoma (che codifica l’HD-Ag) ha indicato che HDV non è un virus convenzionale, decisamente più piccolo di tutti i virus animali conosciuti (28). Una seconda caratteristica unica di HDV è che entrambi i filamenti, genomico e antigenomico contengono un ribozima, un segmento RNA inferiore a 100 basi che ha mantenuto l'informazione genetica, ma che è in grado di svolgere anche funzioni di clivaggio e unione sul genoma circolare di HDV (29).

Sia HBV che HDV infettano per via ematica. Se un individuo naive riceve entrambi i virus si parla di coinfezione. In alternativa, l’infezione da parte di HDV in un individuo già cronicamente affetto da HBV viene indicata come una superinfezione (30). Le super-infezioni acute da HDV hanno un rischio molto maggiore di evolvere in una epatite fulminante con insufficienza epatica rispetto alla sola presenza di HBV e sono caratterizzate da disordine lobulare, ballooning, numerosi corpi apoptotici, attivazione delle cellule di Kupffer e infiammazione portale e lobulare linfocitaria (31).

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15 L’immunoistochimica positiva nel nucleo (e talvolta nel citoplasma) per l’antigene Delta è essenziale per diagnosticare l’infezione attiva, perché gli anticorpi contro l'epatite D nel siero non distinguono tra superinfezione da HDV in corso o passata (14). Le infezioni croniche da HDV sono associate con una più rapida progressione del danno epatico rispetto alla sola infezione da virus B (30). È stata osservata infatti la partecipazione delle proteine di HDV nella regolazione dell'espressione genica cellulare che potrebbe innescare il danno epatico HDV-correlato inducendo fibrosi epatica (32).

L’esame sierologico per la diagnosi di HDV (anti HDV-IgG e IgM ) divenne generalmente disponibile all'inizio del 1980, spingendo gli studi di tutto il mondo sull'epidemiologia e l’impatto medico dell'infezione (33). Il test per la misura diretta dell’HDV-RNA nel siero è stato sviluppato, ma non è stato reso commercialmente disponibile ed è limitato solo a laboratori specializzati; la PCR attuale è specifica e ha una sensibilità soglia di 10-100 copie del genoma di HDV per ml di siero (34).

L’esame medico ha confermato che l’epatite cronica D di solito ha un decorso grave e progressivo (35). Il prototipo di paziente con epatite cronica D ha la presenza di HBsAg nel sangue, ALT elevata, una biopsia epatica che esibisce un’epatite aggressiva ma nessun marker di replicazione di HBV; la discrepanza tra una produzione florida di HBsAg e la mancanza di sintesi di HBV ha fornito il miglior precursore al sospetto di un'infezione da HDV sottostante (33).

Un fattore che può influenzare il decorso della malattia è il genotipo dell’HDV. Attualmente questo virus è diviso in otto principali genotipi differenti fino al 40% in sequenza nucleotidica (36). Dal 1990 la circolazione di HDV è diminuita significativamente in Europa, coerentemente con l'ipotesi che il virus sia stato scoperto al momento di una grave epidemia che è stata messa sotto controllo ormai (37). Insieme con il declino della circolazione dell’HDV, lo scenario clinico dell'epatite D è anche cambiato. Mentre la maggior parte dei pazienti affetti da epatite D osservata in Italia nel 1980 aveva un’epatite cronica attiva florida, e la cirrosi era vista in meno del 20% dei casi, alla fine degli anni 1990, la proporzione di cirrosi residua all’infiammazione era aumentata al 70% (38) (39).

Il denominatore comune nel controllo di HDV dipende da quello spettacolare di HBV raggiunto negli ultimi 15 anni, che sta privando il virus difettivo della rete HBV necessaria per propagare la sua infezione. Il drammatico declino di HDV in Europa alla fine degli anni 1990 ha sollevato la speranza che in questo settore l'epatite D sarebbe presto potuta essere cancellata dalla lista delle malattie trasmissibili (40).

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16 Questa prospettiva, tuttavia, ora appare troppo ottimistica e sicuramente prematura. Il serbatoio consistente di HDV restante in Europa è sostenuto da due diversi pool di pazienti infetti. Uno è composto dall'invecchiamento del residuo pool che è sopravvissuto al peso dell’epidemia di epatite D negli anni 1970-1980. L'altro è costituito da una popolazione di giovani pazienti con infezione da HDV recente che sono emigrati in Europa da zone in cui l’HDV rimane endemica (41).

L’infezione da HDV potrebbe ripresentarsi non solo per l'importazione, ma anche diffondendo in loco. Gli immigrati da molte parti del mondo, sono anche fortemente infetti da HBV e la segregazione di questi vettori di HBsAg in zone metropolitane sovraffollate può ripristinare localmente una fitta rete di individui HBsAg-positivi, fornendo un terreno fertile per la diffusione secondaria di HDV (33). Il vaccino per HBV protegge anche nei confronti di HDV (31).

2.1.3 L’Epatite Cronica Non A, Non B, poi C

Per molti anni la biopsia ha permesso di caratterizzare istologicamente l’epatite Non A, Non B, poi identificata come C. Era infatti l’unico strumento diagnostico che permettesse una caratterizzazione del danno epatico con criteri di esclusione delle epatiti A e B quando ancora l’agente eziologico era sconosciuto.

A metà degli anni settanta, Harvey J. Alter dimostrò come la maggior parte dei casi di epatite post-trasfusionale non fossero causati dal virus dell'epatite A o B. Gli sforzi di ricerca internazionali per identificare l’agente eziologico di quella che inizialmente fu chiamata epatite non A non B, non ebbero successo per più di un decennio. Il virus dell’epatite C infatti circola mascherato in complessi immuni contenenti anche lipoproteine dell’ospite e questa caratteristica rese impossibile la specifica identificazione degli antigeni virali mediante le convenzionali tecniche immunologiche. Nel 1987 fu utilizzato un nuovo approccio di clonazione molecolare per identificare il microrganismo sconosciuto e sviluppare quindi un test diagnostico (42). Nel 1989 la scoperta del virus HCV fu pubblicata in due articoli (43) (44).

HCV è un virus a RNA appartenente alla famiglia Flaviviridae e si diffonde principalmente attraverso il contatto diretto con il sangue o i fluidi corporei di persone infette. La condivisione di aghi tra i consumatori di droghe per via endovenosa, strumenti non adeguatamente sterilizzati utilizzati nelle

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17 procedure mediche, tatuaggi e piercing sono generalmente considerati i principali fattori di rischio per l'acquisizione dell’infezione da HCV. Si stima che il 3% della popolazione mondiale è infettato da HCV (45).

La prevalenza di infezione da HCV è anche legata all'età, nei bambini e negli adolescenti è molto bassa (0,4%) (46). HCV è estremamente eterogeneo, undici genotipi con diversi sottotipi distinti sono stati identificati. Questa eterogeneità ostacola anche lo sviluppo di vaccini, in quanto probabilmente saranno necessari antigeni da più sierotipi per la protezione globale. In assenza di una vaccinazione specifica, l'infezione da HCV rimane quindi uno dei principali problemi di salute globale e, anche se terapie efficaci sono ora disponibili, la malattia epatica allo stadio terminale HCV-correlata è ancora la più frequente indicazione per il trapianto di fegato nei pazienti adulti (3).

L’epatite acuta da HCV in soggetti immunocompetenti è ampiamente asintomatica tuttavia, nei rari casi di pazienti sintomatici, l’esame istologico può essere dirimente (47). Lo spettro istologico è ampio e comprende lesioni sia dei dotti biliari che epatocitiche lobulari. La fase precoce della malattia può mostrare un quadro colestatico caratterizzato da infiammazione portale mista composta da linfociti e neutrofili, proliferazione colangiocellulare, colestasi canalicolare o epatocellulare e infiammazione lobulare da lieve a moderata. Le biopsie effettuate nella parte successiva della fase acuta mostrano lieve infiammazione aspecifica portale e lobulare (48).

Altre caratteristiche istologiche comprendono una lesione distintiva del dotto biliare, la "lesione di Poulsen-Christoffersen", che mostra aggregati linfoidi dotto-centrici associati ad infiammazione linfocitica e lesioni duttali vere e proprie, infiammazione portale mista, necro-infiammazione lobulare con disordine, steatosi e infiltrato infiammatorio sinusoidale importante (47).

L’epatite cronica è definita come la persistenza dell’infezione per almeno 6 mesi. Istologicamente, è caratterizzata da necro-infiammazione accompagnata da variabile grado di fibrosi. Queste caratteristiche non sono specifiche dell'epatite cronica C, ma possono anche essere viste nell'epatite cronica B, con o senza virus dell'epatite D, e l'epatite farmaco-indotta (49).

La caratteristica distintiva di epatite cronica è l’infiammazione portale con o senza infiammazione lobulare. L'espansione portale focale da infiammazione linfo-plasmacellulare cronica è facilmente apprezzabile sotto basso ingrandimento come "spazi portali blu". L’infiammazione portale è composta

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18 prevalentemente da linfociti misti a poche plasmacellule e rari eosinofili, i cosiddetti follicoli linfoidi o aggregati linfoidi. L'infiammazione è di intensità variabile (49).

In alcuni casi, la presenza di plasmacellule può essere importante e questo può essere descritto come avente caratteristiche autoimmuni. Se sono presenti aspetti clinici e sierologici di epatite autoimmune, questa può rappresentare una sindrome da sovrapposizione di epatite autoimmune ed epatite C. Possono essere presenti macrofagi in sede portale e lobulare che contengono detriti in forma di pigmento o materiale PAS positivo-diastasi resistente considerato una prova di attività recente (49). L'infiammazione portale può rimanere confinata allo spazio portale. Più comunemente, coinvolge il parenchima epatico adiacente occultando così la netta demarcazione dell’interfaccia porto-parenchimale (lamina limitante), e questa è chiamata epatite periportale. L’epatite periportale è un’altra lesione distintiva di epatite cronica ed è caratterizzata dalla fuoriuscita di infiltrato linfo-plasmacellulare attraverso l'interfaccia porto-parenchimale, negli epatociti periportali (50) (51).

L’epatite periportale è focale e spesso associata a danno, perdita e apoptosi epatocitaria. Gruppi isolati di epatociti presenti negli spazi portali, separati dai lobuli, a volte sono visti in biopsie epatiche di pazienti con epatite cronica e sono indicativi di episodio passati di epatite periportale. La reazione duttulare è un'altra manifestazione di risposta rigenerativa al danno epatocitario e alla lamina limitante (49).

L’epatite lobulare è una componente attiva necro-infiammatoria dell’epatite cronica. Si manifesta come apoptosi epatocitaria isolata, necrosi spotty e a ponte o necrosi confluente. L’apoptosi epatocitaria isolata, nota anche come corpo di Councilman, è identificata come un piccolo epatocita senza nucleo o con un piccolo frammento nucleare e un citoplasma eosinofilo luminoso. La necrosi spotty è composta da piccoli gruppi di linfociti e/o macrofagi che includono epatociti danneggiati/apoptotici. Piccoli gruppi di macrofagi contenenti materiale PAS positivo-diastasi resistente indicano foci precedenti di necrosi spotty (49).

Le caratteristiche viste tipicamente in corso di epatite cronica C sono aggregati linfoidi e/o follicoli linfoidi portali, danno dei dotti biliari, steatosi macrovescicolare o mista (macrovescicolare e microvescicolare) e corpi di Mallory (52). Gli infiltrati linfoidi portali sono composti da piccoli linfociti, alcuni con centri germinativi (53) (54) (55). Gli aggregati linfoidi si verificano in prossimità dei dotti

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19 biliari e sono a volte associati a danno dell’epitelio del dotto originariamente descritto da Poulsen e Christoffersen (56).

Il danno del dotto biliare è lieve e non distruttivo, ed è caratterizzato da vacuolizzazione cellulare, eosinofilia citoplasmatica e sovrapposizioni nucleari. Le lesioni del dotto biliare sono frequenti. La steatosi, macrovescicolare o mista, è un effetto citopatico virale, che quando presente è una caratteristica dell’epatite cronica C. La steatosi è di solito lieve (52). Un’altra caratteristica di epatite cronica C comprende la deposizione di ferro. Un lieve deposito di ferro si verifica sia negli epatociti che nelle cellule di Kupffer in corso di epatite virale cronica (49).

Quando l'infezione da HCV è clinicamente sospetta, la sua diagnosi si basa sulla presenza sia degli anti-HCV che dell’HCV RNA. Le infezioni precedenti devono essere distinte dalle infezioni attive, tuttavia, fino al 40% dei pazienti infettati da HCV presentano la clearance spontanea dell'HCV RNA. Un test molecolare con una sensibilità di ≤50 UI / ml è quindi necessario per escludere la replicazione virale in corso (23) (57).

L'infezione da HCV è associata a sei diversi genotipi virali. Studi controllati randomizzati hanno dimostrato che le misure quantitative dell'HCV RNA non sono correlate con la gravità del danno istologico, quindi non possono essere utilizzate come marcatore di gravità o come marcatori surrogati di danno epatico progressivo. Come diretta conseguenza di questi risultati, nel dibattito sollevato da recenti studi che supportano o mettono in discussione il ruolo della biopsia epatica per i pazienti con infezione cronica da HCV, si dovrebbe sottolineare che i saggi molecolari non possono sostituire la valutazione istologica ai fini prognostici (3).

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2.2 L’Epatite Autoimmune

L'epatite autoimmune (AIH) è una forma di epatite cronica che non trattata è rapidamente evolutiva con sviluppo della cirrosi in almeno il 40% dei pazienti. Uno studio prospettico ha dimostrato che il 40% dei pazienti con malattia grave non trattata muore entro 6 mesi dalla diagnosi (58).

La necrosi a ponte o la necrosi multifocale all'esame istologico sono gli indici di progressione a cirrosi nell’82% dei pazienti entro 5 anni, e la mortalità è del 45%. I pazienti con esami di laboratorio e quadri istologici meno gravi hanno un decorso meno rapido, ma la cirrosi si sviluppa comunque nel 50% circa entro 15 anni e la morte per insufficienza epatica si verifica nel 10%. L’esordio acuto della malattia è comune (40%) e la presentazione clinica è molto variabile da un decorso fulminante, caratterizzato da encefalopatia epatica entro 8 settimane dall’insorgenza della malattia (58) fino al decorso asintomatico.

Questa forma di epatite è prevalente nella donna. La diagnosi richiede la biopsia epatica con la presenza degli aspetti caratteristici e l'esclusione di altre condizioni che somiglino all’AIH. L’epatite periportale e l’infiltrazione plasmacellulare portale caratterizzano la malattia (gli infiltrati preminenti di plasmacellule non si osservano nelle altre forme di epatite cronica). L’assenza di reperti istologici specifici e di plasmacellule a livello portale non esclude però la diagnosi (58).

Tutti i pazienti con sospetto di epatite autoimmune devono essere valutati per patologie epatiche ereditarie (malattia di Wilson, deficit di alfa1-antitripsina, emocromatosi genetica), infettive (epatite A, B, e C), farmaco-indotte (minociclina, nitrofurantoina, isoniazide, propiltiouracile e metildopa), alcune delle quali possono avere caratteristiche istologiche sovrapponibili alle forme autoimmuni. Le condizioni a più probabilità di essere confuse con l’epatite autoimmune sono la malattia di Wilson, l’epatite farmaco-indotta e l'epatite virale cronica (in particolare quella da virus C) (58).

La biopsia epatica è essenziale per stabilire la diagnosi e valutare la gravità della malattia al fine di determinare la necessità di trattamento. I livelli sierici di transaminasi e gammaglobuline non sono in grado di prevedere il pattern istologico di lesione o la presenza/assenza di cirrosi. Gli autoanticorpi devono essere presenti, e i marcatori sierologici convenzionali di epatite autoimmune sono gli anticorpi antinucleo (ANA), gli anticorpi anti muscolo liscio (SMA) e gli anticorpi anti microsomi epato-renali tipo 1 (anti-LKM1) (58).

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21 Le differenze tra una diagnosi certa e probabile di epatite autoimmune riguardano principalmente il livello sierico delle IgG e gammaglobuline totali, i livelli degli autoanticorpi ANA, SMA, o anti-LKM1, e la storia clinica di esposizione ad alcool, farmaci o infezioni che potrebbero causare danno epatico. La presenza di anticorpi anti recettore delle asialo-glicoproteine (anti-ASGPR), anti-citosol epatico di tipo 1 (anti-LC1), antiantigene solubile epatico (anti-SLA / LP), anti-actina e / o anti-perinucleo (p-ANCA) supporta una diagnosi probabile se sono assenti gli altri marcatori convenzionali (58). Sono stati osservati sottogruppi di epatite autoimmune: la forma più comune, il tipo 1, mostra come marcatori sierici ANA e/o SMA. Il tipo 2 che prevale in pazienti più giovani esprime invece l’autoanticorpo anti-LKM1. Tale sottoclassificazione rimane di valore incerto poiché non esistono eziologie distintive o differenze nella risposta al trattamento (59).

Un sistema a punteggio è stato proposto per valutare la consistenza della diagnosi (58). L'epatite autoimmune tipicamente entra in remissione durante la terapia con corticosteroidi e recidiva frequentemente dopo la sospensione del farmaco. Queste caratteristiche di risposta al trattamento sono state incorporate nel sistema a punteggio (58). Nella maggior parte dei casi, il sistema a punteggio non è necessario per la diagnosi di AIH in quanto le componenti cliniche, laboratoristiche e istologiche della sindrome sono di solito ben definite. Il valore principale del sistema a punteggio può essere di aiuto nella valutazione obiettiva delle varianti o delle sindromi atipiche diverse dalla malattia classica (58).

Gli autoanticorpi non sono né patogeni né malattia-specifici e la loro espressione può variare nel corso dell’AIH. Un singolo risultato con un basso titolo di autoanticorpi non deve mai far escludere la diagnosi di epatite autoimmune in un adulto o in un bambino così come un alto titolo di autoanticorpi non dovrebbe far porre la diagnosi in assenza di altre evidenze suggestive. Individui sieronegativi possono essere classificati al momento della presentazione come aventi epatite cronica criptogenetica fino al riscontro dei marcatori convenzionali più avanti nel corso della malattia o fino al test di autoanticorpi in genere non disponibili (58).

I titoli degli autoanticorpi riflettono la forza della risposta immunitaria e sono utili in schemi diagnostici solo come complemento ad altri aspetti suggestivi di diagnosi di AIH. Gli autoanticorpi non causano la malattia né i loro livelli riflettono la risposta al trattamento. Di conseguenza, essi non hanno bisogno di essere monitorati (58).

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2.3 La Patologia delle Vie Biliari

2.3.1 La colangite biliare primitiva

La CBP è una malattia colestatica cronica con decorso progressivo che può estendersi per molti decenni (60). È essenzialmente una malattia riscontrata in donne di mezza età, con una prevalenza sei volte superiore all’uomo. L’età di esordio è compresa tra 20 e 80 anni, con un picco di incidenza tra 40 e 50 anni di età (59). Negli ultimi decenni, ci sono stati molti cambiamenti nella diagnosi e nella gestione dei pazienti. Molti sono riconosciuti con malattia in stadio precoce e la maggior parte di questi pazienti rispondono bene alla terapia medica (60).

La CBP è spesso considerata un modello di malattia autoimmune a causa della sua firma sierologica caratteristica, gli anticorpi anti-mitocondrio (AMA) e la specifica patologia dei dotti biliari. Si pensa che l'eziologia della CBP derivi da una combinazione di predisposizione genetica e fattori ambientali innescanti. Un aspetto fondamentale e unico della CBP è l'alto grado di specificità di coinvolgimento dei piccoli dotti biliari intraepatici. Gli AMA, segno distintivo sierologico della CBP, sono autoanticorpi altamente specifici per la malattia che si trovano nel 90% -95% dei pazienti e in meno dell’1% dei controlli normali. Meno del 5% dei pazienti con CBP sono AMA-negativi (60).

La diagnosi di CBP deve essere sospettata in corso di colestasi cronica dopo l'esclusione di altre cause di malattia epatica. La diagnosi si sospetta in base agli indici sierici di colestasi ed è in gran parte confermata con il test per gli AMA. È più importante la presenza o l'assenza degli anticorpi piuttosto che l'aumento del livello anticorpale. Una biopsia epatica può essere utile per confermare ulteriormente la diagnosi, se necessario (60).

La maggior parte dei pazienti affetti da CBP hanno anomalie ai parametri di funzionalità epatica tra cui aumento della fosfatasi alcalina, lievi aumenti delle transaminasi (ALT o AST) e aumento dei livelli di immunoglobuline (principalmente IgM). Le variazioni dei test biochimici sono legate in parte alla fase della malattia e alla gravità delle lesioni istologiche (60).

Nei pazienti senza cirrosi, l’entità dell’aumento della fosfatasi alcalina è fortemente correlata alla gravità della duttopenia e dell’infiammazione; l'aumento dei livelli delle transaminasi e delle IgG riflette

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23 principalmente il grado della necrosi e dell’infiammazione periportale e lobulare; l’iperbilirubinemia riflette la gravità della duttopenia e dell’epatite periportale biliare (60).

Un aumento della bilirubina sierica, delle gammaglobuline e dell’acido ialuronico unito ad un calo di albumina e della conta piastrinica sono i primi indicatori di sviluppo di cirrosi e di ipertensione portale. Come in altre malattie colestatiche i livelli sierici di colesterolo sono spesso elevati (60).

La CBP è una colangite cronica non suppurativa che colpisce principalmente i dotti biliari interlobulari e settali. Quando le lesioni focali mostrano intense alterazioni infiammatorie e necrosi attorno ai dotti biliari, è spesso usato il termine di "lesione duttale florida". L'infiltrato infiammatorio è costituito prevalentemente da linfociti e cellule mononucleate in stretto contatto con la membrana basale dei colangiociti in necrosi. L'infiltrato è costituito da plasmacellule, macrofagi, cellule polimorfonucleate (in particolare eosinofili), e in alcuni casi granulomi epitelioidi che sono più spesso presenti nella fase iniziale della malattia (60).

Le venule portali sono spesso compresse e occluse dalla reazione infiammatoria. Le venule epatiche terminali sono spesso conservate nella loro posizione centrale con la progressione della fibrosi e talvolta anche nella cirrosi. La scarsità di dotti biliari o duttopenia viene solitamente definita come la presenza dei dotti in meno del 50% dei tratti portali. La dimensione del campione bioptico è importante. La probabilità di osservare la colangite e la distruzione del dotto biliare aumenta con il numero di spazi portali a causa della tipica distribuzione a chiazze delle lesioni. La stasi biliare è apprezzabile solo con lo scompenso della malattia epatica (60).

Le lesioni istologiche sono classicamente suddivise in quattro stadi. Lo stadio I è caratterizzato da infiammazione portale con o senza lesioni floride del dotto biliare. In questo stadio l’infiammazione rimane confinata alle triadi portali. Nello stadio 2 la progressione della malattia è caratterizzata dal graduale aumento delle lesioni periportali che si estendono nel parenchima epatico (epatite periportale). Le regioni periportali diventano focalmente irregolari e la lesione è caratterizzata da necrosi o apoptosi cellulare, dalla separazione degli epatociti da parte delle cellule infiammatorie e dei macrofagi (60).

Ci sono due tipi principali di epatite periportale. Il primo è l’epatite periportale linfocitica: l'associazione della necrosi o apoptosi epatocellulare con cellule linfo-istiocitarie. Il secondo è l’epatite periportale biliare contrassegnata da una particolare reazione duttulare, a volte riferita come la proliferazione dei

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24 dotti accompagnata da edema, infiltrazione di neutrofili, fibrosi periduttulare, necrosi degli epatociti, quest'ultima associata con colestasi. La gravità dell’epatite periportale è altamente predittiva di sviluppo di fibrosi estesa (60).

Lo stadio III è caratterizzato da una distorsione dell'architettura epatica con numerosi setti fibrosi. La cirrosi con noduli rigenerativi definisce lo stadio IV. L’iperplasia rigenerativa nodulare è una complicanza nota di CBP e dovrebbe essere differenziata dalla cirrosi. La biopsia epatica può essere raccomandata in pazienti AMA-negativi e per escludere altre malattie concomitanti quali l’epatite autoimmune e la steatoepatite non alcolica (60).

Grazie agli effetti benefici della terapia cronica con sali biliari che blocca la progressione di malattia, la diagnosi precoce è oggi la regola e la maggior parte dei casi diagnosticati non presenta cirrosi. Per questo motivo è stato cambiato il significato dell’acronimo, da colangite biliare primitiva a colangite cronica primitiva.

2.3.2 La colangite sclerosante primitiva

La colangite sclerosante primitiva (CSP) è una malattia colestatica cronica caratterizzata da infiammazione e fibrosi delle grandi vie biliari, con conseguente malattia epatica rapidamente evolutiva verso lo stadio terminale. Colpisce prevalentemente gli uomini tra 20-50 aa, spesso in associazione con una concomitante malattia infiammatoria intestinale (61).

L'eziologia della CSP è indefinita con crescenti evidenze per un processo autoimmune come componente della malattia. Sebbene la CSP sia una malattia rara, è tra le più comuni indicazioni per il trapianto di fegato. Infatti il trapianto è attualmente l'unica terapia per prolungare la vita ai pazienti con malattia allo stadio terminale, anche se una recidiva di malattia può essere osservata nel fegato trapiantato (61).

Le molteplici complicanze della CSP sono prurito, malattie del metabolismo osseo, varici peristomali, colangite batterica, stenosi biliari, calcolosi delle vie biliari e della colecisti, polipi e tumori maligni, ma soprattutto il colangiocarcinoma, che è la complicanza più letale della CSP (61).

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25 Alla presentazione, dal 15% al 55% dei pazienti con CSP sono asintomatici. I pazienti hanno un aumentato rischio di sviluppare dei sintomi nel corso del tempo. Sintomi come prurito e dolori addominali in ipocondrio destro sono i sintomi più comuni, intermittenti, che si verificano con una notevole variazione individuale risolvendosi spontaneamente nella maggior parte dei casi (61). Un quadro colestatico con un aumento dei livelli sierici di fosfatasi alcalina è la caratteristica biochimica della CSP, anche se alcuni pazienti possono avere livelli normali. I pazienti con CSP spesso hanno fluttuazioni dei livelli di bilirubina e di fosfatasi alcalina durante il corso della malattia. A periodi di ricadute cliniche e colestatiche seguono periodi di remissione clinica con minor colestasi (61). Molti tipi di autoanticorpi possono essere rilevati in corso di CSP. Gli ANA e gli SMA possono essere trovati dal 20% al 60% dei pazienti, di solito a titoli inferiori rispetto a quelli osservati in epatite autoimmune. Gli autoanticorpi prevalenti sono i p-ANCA (perinuclear Anti-Neutrophil Cytoplasmic Antibodies), presenti in circa l’80% dei pazienti, ma non hanno specificità diagnostica (61).

Le caratteristiche diagnostiche all’imaging includono stenosi multifocali diffuse che di solito coinvolgono i dotti sia intraepatici che extraepatici. Le stenosi sono in genere brevi e anulari, alternate con segmenti normali o minimamente dilatati con la produzione di un caratteristico aspetto a “corona di rosario”. La colangiografia è considerata il gold standard per la diagnosi di CSP ed è ancora comunemente utilizzata, non solo per la diagnosi, ma anche terapeuticamente per dilatare o applicare uno stent alle stenosi e nello screening del colangiocarcinoma per mezzo dell’esame citologico e bioptico (61).

La colangiografia retrograda endoscopica (ERCP) in pazienti con CSP è associata ad un aumentato rischio di complicanze come la colangite, la pancreatite, la perforazione del dotto biliare e la migrazione dello stent. ERCP ripetute in pazienti con CSP possono aumentare la probabilità di semina di batteri nel sistema biliare, causando la progressione della malattia. La colangiografia RM (MRC) per rilevare la CSP è emersa come una precisa, rapida, alternativa non invasiva per l’esame delle vie biliari, ed è comunemente usata in molti centri. Altri vantaggi della MRC rispetto alla ERCP comprendono il minor costo e la mancanza di esposizione alle radiazioni. Lo svantaggio della MRC è che si tratta di un esame puramente diagnostico, anche se può essere utilizzata per identificare i pazienti che trarrebbero vantaggio da una successiva ERCP terapeutica (61).

La CSP è istologicamente caratterizzata da danno, atrofia e, in ultima analisi, la perdita dei dotti biliari di medie e grandi dimensioni, all'interno o all’esterno del fegato. I dotti più piccoli influenzati

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26 dall’ostruzione gradualmente spariscono (duttopenia). L’aspetto patologico caratteristico della CSP è la fibrosi periduttale concentrica (fibrosi a bulbo di cipolla), che progredisce fino ad un restringimento e quindi un’obliterazione dei piccoli dotti biliari, lasciando una cicatrice fibrosa cordoniforme. Tuttavia, questo si trova in meno del 15% dei pazienti con CSP. Spesso, i risultati non sono specifici e devono essere interpretati insieme alla clinica e alle informazioni radiologiche (61).

È stato messo a punto il sistema da Ludwig per la stadiazione della CSP. Sono descritte quattro fasi: colangite o epatite portale (stadio 1); fibrosi periportale o epatite periportale (stadio 2); fibrosi settale, necrosi a ponte o entrambe (stadio 3); cirrosi biliare (stadio 4) (61).

Il ruolo della biopsia epatica nella valutazione della CSP appare di valore limitato. Nonostante la sua potenziale utilità per la diagnosi della malattia, l'esclusione di diagnosi alternative e la valutazione della prognosi, si deve esercitare cautela perché le lesioni istologiche possono essere imprevedibili e risultati coerenti con diverse fasi della malattia possono essere presenti contemporaneamente in un singolo fegato. La diagnosi è di solito stabilita tramite la colangiografia e il profilo colestatico (61). La biopsia epatica può essere utile in casi selezionati, come nei pazienti con colestasi e malattie infiammatorie dell’intestino con normali reperti colangiografici, e quando può essere diagnosticata la CSP dei piccoli dotti. Può anche essere utile nei pazienti con malattie croniche colestatiche che si presentano con livelli insolitamente alti di transaminasi e ipergammaglobulinemia, quando potrebbe essere diagnosticata una sindrome da sovrapposizione dell'epatite autoimmune e i pazienti sono trattati con corticosteroidi e immunomodulatori (61).

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2.4 Le Patologie da Accumulo Intraepatico

2.4.1 Steatosi epatica non alcolica

La steatosi epatica non alcolica (NAFLD) è una condizione simile alla malattia epatica alcool-indotta, ma comunque in pazienti che non sono forti bevitori. Entrambi i sessi sono colpiti con la stessa frequenza e vi sono forti correlazioni con obesità, dislipidemia, iperinsulinemia, insulino-resistenza e diabete tipo 2. Sebbene quella di NAFLD sia una diagnosi di esclusione (in particolare di eccessivo consumo di alcool), è la più probabile spiegazione per gli elevati valori sierici di aminotransferasi e/o gamma glutamil transpeptidasi (59).

Alla biopsia epatica questa condizione mostra segni di steatosi, ovvero grandi e piccole vescicole intracellulari vuote, residuate dallo scioglimento del grasso, soprattutto dei trigliceridi accumulati all’interno degli epatociti. All’estremo più benigno dello spettro clinico-patologico mancano l’infiammazione epatica, la necrosi degli epatociti e la fibrosi (nonostante la possibile elevazione persistente degli enzimi epatici nel siero) (59).

La steatoepatite (anche detta steatoepatite non alcolica o NASH) è la forma evolutiva di steatosi associata a necro-infiammazione. A differenza delle epatiti virali croniche, nella steatoepatite non alcolica la lesione necro-infiammatoria non parte dallo spazio portale, ma dall’area centrolobulare. La biopsia epatica mostra una steatosi solitamente macrovescicolare localizzata e accentuata intorno alla vena centrolobulare, infiammazione multifocale del parenchima (infiltrato infiammatorio di granulociti PMN prevalentemente intorno alla vena centrolobulare), corpi ialini di Mallory, morte degli epatociti (sia degenerazione balloniforme, localizzata intorno alla vena centrolobulare che apoptosi) e fibrosi peri-sinusoidale. La cirrosi può comparire come risultato di anni di progressione subclinica dei processi di flogosi e fibrosi in ponti porto-centrali (59).

I pazienti sono in gran parte asintomatici, con anomalie evidenti solo agli esami ematochimici. Con il crescente riscontro di questa patologia si ritiene che la NAFLD possa rendere conto di oltre il 70% dei casi di epatite cronica di origine “sconosciuta”. Alcuni studi, inoltre, suggeriscono che il 10-30% dei pazienti con NASH sviluppa alla fine una cirrosi (59).

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28 Pertanto, la NASH è ora considerata la causa più comune di cirrosi “criptogenetica”, con le sue conseguenti morbilità e mortalità. Vi sono inoltre sempre più prove che la NASH contribuisca alla progressione di altre malattie epatiche come l’infezione da virus dell’epatite C (59).

Dati recenti suggeriscono che l’incidenza del carcinoma epatocellulare non è più discesa negli ultimi anni a causa dell’aumento dell’incidenza della NASH, nonostante la significativa riduzione delle cirrosi di origine virale per merito della terapia antivirale. Le ragioni dell’aumento esponenziale della NAFLD negli ultimi 10 anni nel mondo occidentale sono da ricercare, probabilmente, nello stile di vita sedentario e nella dieta ricca di grassi (59).

2.4.2 Metalli

Emocromatosi

L’emocromatosi è caratterizzata dall’eccessivo accumulo di ferro nell’organismo, di cui la maggior parte si deposita negli organi parenchimatosi, come il fegato e il pancreas. Poiché l’essere umano non ha una via escretoria dedicata per il ferro, l’emocromatosi origina sia da un difetto genetico che provoca un eccessivo assorbimento di ferro sia dalla somministrazione parenterale di ferro (trasfusioni) (59).

L’emocromatosi ereditaria è una malattia ereditaria omozigote recessiva. Le forme acquisite di emocromatosi con fonte conosciuta dell’eccesso di ferro sono dette emocromatosi secondarie. Il ferro totale dell’organismo varia da 2 a 6 g nei soggetti adulti normali; circa 0,5 g sono immagazzinati nel fegato, di cui il 98% negli epatociti. Nell’emocromatosi ereditaria, l’accumulo totale di ferro può superare 50g, di cui oltre un terzo si accumula nel fegato (59).

I primi sintomi generalmente compaiono nella quinta-sesta decade di vita. Il gene mutato nell’emocromatosi ereditaria (HFE) è situato sul braccio corto del cromosoma 6 e codifica una molecola che regola l’assorbimento intestinale del ferro alimentare. La malattia è predominante nei maschi (5-7:1) con una presentazione clinica lievemente più precoce e raramente diventa evidente prima dei 40 anni (59).

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29 Le alterazioni morfologiche epatiche dell’emocromatosi ereditaria sono caratterizzate principalmente da deposito di emosiderina (identificati dalla reazione istologica al blu di Prussia) e cirrosi. Nel fegato, il ferro diventa evidente prima sotto forma di granuli di emosiderina di colore giallo-oro nel citoplasma degli epatociti periportali, che si colorano di blu con il blu di Prussia. Con l’aumento del carico di ferro, si osserva una progressiva compromissione del resto del lobulo, insieme alla pigmentazione dell’epitelio del dotto biliare e delle cellule di Kupffer (59).

Il ferro è un’epatotossina diretta e l’infiammazione è caratteristicamente assente. In questa fase, il fegato è di solito leggermente più grande del normale, denso e di color marrone cioccolato. Lentamente si sviluppano setti fibrosi che in ultimo portano ad aspetti di cirrosi micronodulare in un fegato intensamente pigmentato (59).

La determinazione biochimica della concentrazione epatica di ferro nel tessuto non fissato è lo standard per quantificare il contenuto di ferro epatico. Nei soggetti normali, il contenuto di ferro epatico non fissato al tessuto è inferiore a 1000 µg per grammo di peso secco di fegato. I pazienti adulti con emocromatosi ereditaria presentano oltre 10000 µg di ferro per grammo di peso secco; concentrazioni di ferro epatico superiori a 22000 µg per grammo di peso secco sono associate allo sviluppo di fibrosi e cirrosi. Il rischio di sviluppare carcinoma epatocellulare è 200 volte maggiore rispetto alla popolazione generale (59).

Malattia di Wilson

Questa malattia autosomico-recessiva è caratterizzata dall’accumulo di livelli tossici di rame in molti tessuti e organi, soprattutto fegato, cervello e occhio. Normalmente, il 40-60% del rame giornalmente ingerito (2-5 mg) viene assorbito nello stomaco e nel duodeno e trasportato al fegato labilmente associato all’albumina. Il rame libero si dissocia e viene assorbito dagli epatociti, dove è incorporato in un’α2-globulina sintetizzata nel reticolo endoplasmatico per formare ceruloplasmina (una metallotioneina contenente rame) e poi nuovamente secreta nel plasma (59).

La ceruloplasmina contiene il 90-95% del rame plasmatico. La ceruloplasmina circolante è desialilata come parte del normale invecchiamento delle proteine plasmatiche; la ceruloplasmina desialilata è endocitata dal fegato, degradata all’interno dei lisosomi e il suo rame viene così escreto nella bile.

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30 Questa via di degradazione/escrezione è la principale via di eliminazione del rame. Il rame totale del corpo è solo di 50-150 mg (59).

Il gene della malattia di Wilson (ATP7B) è localizzato sul cromosoma 13 e codifica per un’ATPasi transmembrana che trasporta il rame, localizzata sulla membrana canalicolare dell’epatocita (59). L’alterata escrezione biliare porta ad accumulare il rame nel fegato in eccesso rispetto alla capacità di legame con la metallotioneina, causando danni tossici al fegato attraverso la formazione di radicali liberi catalizzata dal rame (59).

Sebbene per la malattia vi sia un periodo di latenza di durata variabile, una volta superata la capacità del fegato di incorporare il rame nella ceruloplasmina la malattia critica può insorgere improvvisamente. In genere, è all’età di 5 anni che il rame non legato alla ceruloplasmina si riversa dal fegato in circolo, causando emolisi e modificazioni patologiche in altri siti come cervello, cornee, reni, ossa, articolazioni e paratiroidi. Allo stesso tempo, l’escrezione urinaria di rame aumenta notevolmente rispetto al suo normale livello irrisorio (59).

Le alterazioni epatiche vanno da danni relativamente modesti a lesioni massive. La degenerazione grassa può essere lieve o moderata, con nuclei vacuolati (glicogeno o acqua) e occasionalmente necrosi focale degli epatociti. Un’epatite acuta può mimare gli aspetti di un’epatite virale acuta, a eccezione forse per la degenerazione grassa che l’accompagna. L’epatite cronica della malattia di Wilson mostra infiammazione moderata o grave e una necrosi epatocitaria, con il particolare aspetto di steatosi macrovescicolare, nuclei epatocellulari vacuolati e corpi di Mallory. Con la progressione dell’epatite cronica si sviluppa la cirrosi (59).

La necrosi epatica massiva è una rara manifestazione indistinguibile da quella causata da virus o farmaci. Il deposito dell’eccesso di rame può spesso essere dimostrato con particolari colorazioni (rodanina per il rame, orceina per le proteine associate al rame). Poiché’ il rame si accumula anche nella colestasi ostruttiva cronica e l’istologia non può attendibilmente distinguere la malattia di Wilson dalle epatiti virali o da farmaci (e viceversa), è molto più utile dal punto di vista diagnostico dimostrare l’eccessivo contenuto di rame epatico superiore a 250 µg per grammo di peso secco (59).

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2.4.3 Glicogenosi

Le malattie da accumulo del glicogeno derivano da un deficit ereditario di uno degli enzimi coinvolti nella sintesi o nella degradazione sequenziale del glicogeno. A seconda della distribuzione tissutale o d’organo dello specifico enzima in condizioni normali, l’accumulo di glicogeno in queste patologie può essere limitato a pochi tessuti, può essere più esteso senza colpire tutti i tessuti o può essere distribuito in tutto l’organismo (59).

Il glicogeno è una forma di riserva del glucosio. La sintesi di glicogeno inizia con la conversione del glucosio a glucosio-6-fosfato da parte della glucochinasi. Una fosfoglucomutasi trasforma quindi il glucosio-6-fosfato in glucosio-1-fosfato, che, a sua volta, è convertito a uridin difosfoglucosio. Viene quindi assemblato un polimero altamente ramificato (PM fino a 100 milioni), contenente fino a 10000 molecole di glucosio tenute insieme da legami α-1,4-glucosidici. La catena di glicogeno e le ramificazioni continuano ad essere allungate per aggiunta di molecole di glucosio mediata dalla glicogeno sintetasi (59).

Durante la degradazione, diverse fosforilasi nel fegato e nei muscoli staccano glucosio-1- fosfato dal glicogeno fino a che circa quattro residui di glucosio rimangono in ciascuna ramificazione, lasciando un oligosaccaride ramificato chiamato destrina limite. Questa può essere ulteriormente degradata solo dall’enzima deramificante. Oltre a queste vie principali, il glicogeno viene anche degradato nei lisosomi tramite la maltasi acida. Se i lisosomi sono deficitari per questo enzima, il glicogeno in essi contenuto non è accessibile alla degradazione da parte degli enzimi citoplasmatici quali le fosforilasi. Sulla base degli specifici deficit enzimatici e dei conseguenti quadri clinici, le glicogenosi sono state tradizionalmente suddivise in più di una dozzina di sindromi indicate con numeri romani (59).

Il fegato ha un ruolo chiave nel metabolismo del glicogeno. Esso contiene gli enzimi che sintetizzano glicogeno per l’accumulo e che alla fine lo frazionano in glucosio libero, che è rilasciato nel sangue. Un deficit ereditario degli enzimi epatici coinvolti nel metabolismo del glicogeno porta quindi non solo all’accumulo di glicogeno nel fegato, ma anche a una riduzione del livello ematico di glucosio (59). Le manifestazioni istologiche sono dipendenti dalla particolare forma di glicogenosi ma generalmente il fegato presenta una distensione generalizzata degli epatociti causata da glicogeno e lipidi. I vacuoli

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32 lipidici appaiono particolarmente ampi e prominenti e si riscontra anche fibrosi che può evolvere o meno verso la cirrosi (59).

Il deficit dell’enzima glucosio-6-fosfatasi (malattia di von Gierke, o glicogenosi di tipo I) è un chiaro esempio di malattia da accumulo di glicogeno di forma epato-ipoglicemica. Altri esempi sono l’assenza di fosforilasi epatica e dell’enzima deramificante, entrambi coinvolti nella degradazione del glicogeno. In tutti questi casi, il glicogeno si accumula in molti organi, ma l’ingrossamento epatico e l’ipoglicemia dominano il quadro clinico (59).

2.4.4 Proteine

Un tipico esempio di accumulo di materiale proteico all’interno del fegato è nel deficit di α1-antitripsina. Si tratta di una malattia autosomico-recessiva caratterizzata da livelli sierici abnormemente bassi di questo importante inibitore delle proteasi, in particolare l’elastasi, la catepsina G e la proteinasi 3, che sono normalmente rilasciate dai neutrofili nelle sedi di infiammazione (59).

Il deficit di α1-antitripsina provoca la comparsa di enfisema polmonare perché’ una relativa mancanza di questa proteina tissutale consente libero corso agli enzimi distruttivi dei tessuti. Inoltre, provoca patologie epatiche, principalmente nei neonati e nei giovani adulti, con un meccanismo diverso. L’α1 -antitripsina è una piccola glicoproteina plasmatica di 394 aminoacidi sintetizzata prevalentemente dagli epatociti. Il gene che la codifica è localizzato sul cromosoma 14. Per la sua manifestazione precoce il deficit di α1-antitripsina è la malattia genetica del fegato più comunemente diagnosticata nei neonati e nei bambini (59).

Istologicamente è caratterizzato da inclusioni citoplasmatiche globulari rotonde od ovalari negli epatociti, che nelle colorazioni standard con ematossilina-eosina risultano acidofile e non distintamente demarcate dal citoplasma che le circonda. Sono fortemente PAS-positive e diastasi-resistenti. I globuli sono presenti anche negli stadi intermedi di deficit in numero e dimensioni ridotti. Nella maggior parte dei casi, il solo aspetto caratteristico della malattia epatica è dato dai globuli PAS-positivi; raramente, sono presenti degenerazione grassa e corpi di Mallory (59).

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33 I globuli diagnostici di α1-antitripsina possono essere assenti nei bambini più piccoli; la steatosi può essere presente come a suggerire la possibilità di deficit di α1-antitripsina. La principale causa di danno epatico sembra essere l’intensa risposta di autofagocitosi stimolata all’interno degli epatociti, come via alternativa di degradazione, probabilmente attraverso l’autofagocitosi dei mitocondri (59).

2.5 Danno Tossico

Il fegato è soggetto a danni potenziali causati da un grande numero di sostanze chimiche ambientali e farmacologiche. La lesione epatica può essere immediata o svilupparsi in settimane o mesi, dando segni di sé solo dopo aver causato gravi danni. Può avere l’aspetto di necrosi epatocitaria con colestasi acuta o d’insufficienza epatica insidiosa a decorso subclinico. L’epatite cronica indotta da farmaci è clinicamente e istologicamente indistinguibile dall’epatite cronica virale; pertanto, i marcatori sierologici di infezione virale sono essenziali per una corretta diagnosi differenziale (59).

L’epatopatia da farmaci è in genere seguita da guarigione dopo sospensione del farmaco. L’esposizione a una sostanza tossica o farmacologica deve sempre essere inclusa nella diagnosi differenziale di una malattia epatica. Esempi di farmaci che possono indurre danno epatico sono: salicilati, amiodarone, paracetamolo, antibiotici, metotrexate, etc. (59).

L’eccessivo consumo di alcool (etanolo) è il modello patognomonico del danno tossico oltre che la prima causa di epatopatia nella maggior parte dei paesi occidentali (62). Il consumo cronico di alcool ha numerosi e diversi effetti negativi. In seguito a un’assunzione di alcool anche modesta, piccole gocce di lipidi (steatosi microvescicolare) si accumulano negli epatociti. Con l’assunzione cronica di alcool, i lipidi si accumulano fino a configurare il quadro della steatosi macrovescicolare che comprime e disloca il nucleo alla periferia dell’epatocita. Questa trasformazione è inizialmente centrolobulare, ma nei casi gravi può coinvolgere l’intero lobulo (59).

Il fegato appare grande, morbido, giallastro e untuoso. All’inizio, la fibrosi manca o è scarsa, ma con la continua assunzione di alcool il tessuto fibroso si sviluppa intorno alle vene epatiche terminali e si estende ai sinusoidi adiacenti. La degenerazione grassa è completamente reversibile se si interrompe l’assunzione di alcool (59).

L’epatite alcolica che si sviluppa è caratterizzata da degenerazione balloniforme degli epatociti e necrosi, corpi di Mallory, reazione neutrofila e fibrosi. In alcuni casi, si osservano colestasi negli

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34 epatociti che sopravvivono e un discreto deposito di ferro negli epatociti e nelle cellule di Kupffer. I neutrofili permeano il lobulo e si accumulano intorno agli epatociti degenerati, in particolare quelli con corpi di Mallory. Linfociti e macrofagi penetrano anch’essi dai vasi portali e invadono il parenchima (59).

L’epatite alcolica è quasi sempre accompagnata da preminente attivazione delle cellule stellate sinusoidali e dei fibroblasti portali, che dà luogo alla fibrosi. Generalmente la fibrosi è sinusoidale e perivenulare e frammenta il parenchima. Il fegato può essere di dimensioni normali o aumentate, ma spesso mostra noduli visibili e fibrosi, che stanno a indicare l’evoluzione verso la cirrosi (59).

La forma di epatopatia alcolica tipica è irreversibile e generalmente evolve lentamente e insidiosamente in cirrosi. I setti fibrosi in via di sviluppo sono sottili e si estendono nei sinusoidi dal centro alle aree portali e da un tratto portale all’altro. L’attività rigenerativa degli epatociti nel parenchima intrappolato genera micronoduli di dimensioni abbastanza uniformi. Con il tempo la nodularità diventa più pronunciata (59).

Poiché i setti fibrosi separano e circondano i noduli, il fegato diventa più fibroso, perde il grasso e progressivamente raggrinzisce. Isole parenchimali sono intrappolate da bande di tessuto fibroso sempre più grandi e il fegato assume un aspetto micro- e macronodulare. Spesso compare stasi biliare mentre i corpi di Mallory (matasse aggrovigliate di filamenti intermedi di citocheratina e altre proteine visibili sotto forma di inclusioni citoplasmatiche eosinofile negli epatociti degenerati) si osservano solo raramente. Pertanto, la cirrosi alcolica in fase terminale diventa macroscopicamente e microscopicamente simile alla cirrosi da epatite virale e da altre cause (59).

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2.6 Malattie Infettive e Parassitosi

Nel paziente immunodepresso un interessamento epatico può essere causato da virus della famiglia Herpesviridae (tutta la famiglia dei virus erpetici ma in particolar modo: CMV, HHV-6 e HHV-8) e Adenoviridae. Sono di raro riscontro nel paziente immunocompetente. Le infezioni batteriche extraepatiche, in particolare la sepsi, possono indurre una discreta infiammazione epatica e vari gradi di colestasi epatocellulare. Quest’ultimo è un effetto attribuibile alle citochine proinfiammatorie rilasciate dalle cellule di Kupffer e da quelle endoteliali in risposta alle endotossine circolanti (59). Un certo numero di batteri può infettare direttamente il fegato, come lo Staphylococcus aureus nella sindrome da shock tossico, la Salmonella typhi nel quadro della febbre tifoide e la sifilide secondaria o terziaria. In alternativa, i batteri possono proliferare in un albero biliare compromesso da un’ostruzione completa o parziale. La composizione batterica rispecchia la flora intestinale e la grave risposta infiammatoria acuta all’interno dell’albero biliare è definita colangite ascendente (59). Le infezioni parassitarie e da elminti rappresentano la principale causa di morbilità nel mondo e il fegato viene frequentemente interessato. Le malattie a interessamento epatico comprendono la malaria, la schistosomiasi, la strongiloidosi, la criptosporidiosi, la leishmaniosi, l’echinococcosi e le infezioni dagli elminti Fasciola hepatica, Clonorchis sinensis e Opisthorchis viverrini (59).

Una forma di infezione epatica che merita una menzione speciale è l’ascesso epatico. Nei paesi in via di sviluppo gli ascessi epatici sono frequenti e la maggior parte rappresenta infestazioni parassitarie, per esempio da ameba, echinococco e (meno frequentemente) da altri protozoi ed elminti. Nei paesi sviluppati l’ascesso epatico è raro. Molti ascessi sono piogeni e rappresentano complicanze di un’infezione batterica in altra sede. Gli organismi raggiungono il fegato attraverso la vena porta, il circolo arterioso, per via ascendente lungo il tratto biliare (colangite ascendente), per invasione diretta del fegato da una sorgente vicina o attraverso una lesione penetrante (59).

La maggior parte degli ascessi epatici è di solito causata dalla diffusione portale di infezioni intra-addominali (es: appendicite, diverticolite, colite). Con la migliore gestione di queste malattie, la diffusione attualmente avviene soprattutto attraverso l’albero biliare o il circolo arterioso nei pazienti affetti da forme di immunodeficienza. In questi contesti, gli ascessi si possono sviluppare senza un focolaio primario in altra sede (59).

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