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La vertebroplastica nella gestione delle fratture vertebrali da osteoporosi primitiva o secondaria a trattamento cronico con glucocorticoidi.

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia Corso di Laurea Specialistica in Medicina e Chirurgia

Tesi di Laurea

La vertebroplastica nella gestione delle fratture vertebrali da

osteoporosi primitiva o secondaria a trattamento

cronico con glucocorticoidi

Candidato Relatore

Antonio Figliomeni

Dott. Maurizio Mazzantini

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Sommario

RIASSUNTO ANALITICO ... 3

CAPITOLO 1: LA FRATTURA VERTEBRALE DA OSTEOPOROSI ... 5

1.1 EPIDEMIOLOGIA ... 5

1.2 SINDROME CLINICA E DIAGNOSI ... 8

1.3 OSTEOPOROSI DA GLUCOCORTICOIDI ... 20

CAPITOLO 2: TRATTAMENTO DELLE FRATTURE VERTEBRALI ... 27

2.1 IL TRATTAMENTO CONSERVATIVO E I SUOI LIMITI ... 27

2.2 VERTEBROPLASTICA E CIFOPLASTICA ... 41

CAPITOLO 3: RISULTATI DEGLI STUDI CONTROLLATI A LUNGO TERMINE SU VERTEBROPLASTICA E FRATTURE VERTEBRALI ... 51

3.1 EFFICACIA SUL DOLORE E SULLA FUNZIONE ... 51

3.2 INCIDENZA DI NUOVE FRATTURE VERTEBRALI ... 68

3.3 FATTORI DI RISCHIO PER NUOVE FRATTURE VERTEBRALI DOPO VERTEBROPLASTICA E CIFOPLASTICA ... 82

CAPITOLO 4: PARTE SPERIMENTALE DELLA TESI ... 92

Incidenza di nuove fratture vertebrali dopo procedura di vertebroplastica in pazienti con osteoporosi indotta da glucocorticoidi: studio di coorte, prospettico, controllato. ... 92 4.1 Introduzione ... 92 4.2 Pazienti e metodi ... 93 4.3 Risultati ... 99 4.4 Discussione ... 100 APPENDICE ... 105 BIBLIOGRAFIA ... 107

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3 RIASSUNTO ANALITICO

La vertebroplastica (VP) è una procedura atta a ridurre il dolore causato da una frattura vertebrale (FV) tramite l’iniezione di un cemento nel corpo vertebrale al fine di stabilizzarlo. Esistono ancora incertezze circa la sicurezza della VP nel lungo termine in paragone al trattamento conservativo (costituito da riposo, terapia antalgica e ortesi). In particolare, è controverso il possibile incremento di nuove FV, specialmente nelle vertebre vicine a quella trattata. Questo può ragionevolmente essere dovuto ad un effetto di convergenza di stress meccanico operata dal cemento, che ha una struttura più compatta e rigida del normale osso spugnoso, che costituisce l’interno di un corpo vertebrale. Tale problema riveste particolare importanza in pazienti osteoporotici in terapia cronica con glucocorticoidi (GC), farmaci che rappresentano un forte fattore di rischio per l’insorgenza di fratture da fragilità, specialmente a livello vertebrale. Pertanto, è legittimo chiedersi se l’esecuzione di una VP in pazienti con osteoporosi da GC – e conseguenti FV da fragilità – non determini un eccessivo rischio di nuove FV rispetto ai vantaggi che tale procedura può offrire nel breve termine. Scopo del presente studio è quindi valutare comparativamente l’incidenza di nuove FV in due gruppi di pazienti, tutti trattati con VP: un gruppo in terapia cronica con GC (n=70) e l’altro no (n=71). Si tratta di uno studio di coorte prospettico della durata di due anni, nel quale sono stati inclusi pazienti di entrambi i sessi con osteoporosi e almeno una FV dolorosa e non responsiva al trattamento conservativo. In tutti i pazienti è stata eseguita un’accurata valutazione anamnestica e clinica, associata ad un’indagine biochimica basale che ha permesso di escludere anormalità nel metabolismo del calcio. Inoltre, in tutti i casi è stata valutata la presenza di una correlazione tra i dati clinici e le evidenze registrate

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attraverso le tecniche di imaging. Dopo l’esecuzione della VP, i pazienti hanno eseguito delle visite di controllo a 1, 3 e 6 mesi, e ogni 6 mesi fino alla conclusione del periodo di osservazione. Al momento della dimissione dall’ospedale, a tutti i pazienti è stata prescritta una terapia antifratturativa costituita da bisfosfonati orali (alendronato o risedronato), vitamina D e, in caso di necessità, supplementazione di calcio. Per valutare l’insorgenza di FV incidenti, sono stati eseguiti degli esami radiologici della colonna dorso-lombare ogni 12 mesi, o quando i pazienti avessero lamentato un dolore al rachide suggestivo di una nuova FV. Dopo due anni di follow-up abbiamo evidenziato una significativa differenza tra i due grfollow-uppi. Mentre i pazienti non trattati con GC hanno mostrato un’incidenza cumulativa di nuove FV del 22,5%, i pazienti trattati con GC hanno presentato un valore pari al 44,3%, con un RR di 1,96 (IC 95%: 1,19 – 3,26; p=0,0087). Il modello di regressione logistica ha mostrato che il rischio di nuove FV era associato a uso di GC (OR 4,53; IC 95%: 1,5 – 13,69; p=0,0073) e bassi valori di T-score misurati al collo femorale (OR 3,57; IC 95%: 1,82 – 7,02; p=0,002). I risultati di questo studio indicano che la terapia cronica con GC determina un incremento, pari a circa 2 volte, del numero di FV in pazienti trattati con VP. Di conseguenza, la terapia con GC deve essere tenuta in considerazione come fattore di rischio aggiuntivo di nuove FV, oltre ai fattori di rischio già noti, quali marcata riduzione della BMD e deficienza di vitamina D.

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CAPITOLO 1: LA FRATTURA VERTEBRALE DA OSTEOPOROSI

1.1 EPIDEMIOLOGIA

L’osteoporosi (OP) è la più comune malattia sistemica dello scheletro, caratterizzata da alterazioni della qualità dell’osso che predispongono all’insorgenza di fratture da fragilità1. Il rischio di sviluppare questa patologia è legato a fattori genetici e molteplici fattori ambientali e di stile di vita; tra questi ultimi sono da annoverare la sedentarietà, un basso indice di massa corporea, un insufficiente apporto di calcio con la dieta, insufficienza di vitamina D, terapia cronica con glucocorticoidi (GC), il fumo e, forse, l’eccessivo consumo di alcol.

La frattura vertebrale (FV) rappresenta una delle più frequenti complicanze dell’OP. Ogni anno negli Stati Uniti vengono diagnosticate più di 700.000 FV da OP2.

TABELLA I - Fattori di rischio per fratture vertebrali

Fattori di rischio

Età Sesso femminile

Storia di precedenti fratture da fragilità Familiarità per fratture femorali Bassi valori di densità minerale ossea

Basso indice di massa corporea Terapia cronica con GC

Insufficiente apporto di calcio con la dieta Deficit di vitamina D

Sedentarietà Fumo di sigaretta Consumo di alcol

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L’incidenza è tuttavia largamente sottostimata, poiché considera solo quelle fratture associate ad un’evidente presentazione clinica. La quota di FV che raggiunge l’attenzione medica e che viene diagnosticata attraverso indagini di imaging strumentale va da un quarto fino ad un terzo delle fratture totali. Per quanto riguarda i dati italiani, uno studio multicentrico del 2010 ha stimato che il numero annuale di FV è di 155.000. Di queste, solo 47.000 determinano un accesso al pronto soccorso3. L’incidenza di FV aumenta con l’età; nelle donne tra i 50 e i 60 anni l’incidenza è dello 0,9%, con una prevalenza del 5-10%, mentre nelle donne di 80 anni l’incidenza si porta ad un valore annuale dell’1,7%, con prevalenza superiore del 30%4.

Il rischio di FV è fortemente associato alla riduzione della densità minerale ossea (Bone Mineral Density, BMD), aumentando di due volte per ogni deviazione standard al di sotto del valore medio misurato all’esame densitometrico (Double Energy X-ray Absorptiometry, DEXA). La diminuzione della BMD inizia dopo i 40 anni, con un’importante accelerazione dopo la menopausa. Le donne dopo gli ottant’anni possono presentare una forte perdita, fino alla metà, della BMD a livello vertebrale5. La presenza di una FV aumenta il rischio di nuove fratture, sia vertebrali che non vertebrali. Nel 1999 un lavoro di Melton et al.6 ha valutato l’incidenza di nuove fratture (vertebrali ed extra-vertebrali) in una popolazione di pazienti con precedente FV e ha calcolato il rischio rispetto alla popolazione generale. In questo studio sono stati raccolti tutti i casi di FV riscontrati tra i residenti della città di Rochester nel periodo 1985-1994. Il follow-up medio di ciascun paziente è stato di 5 anni. Complessivamente, tra i pazienti con precedente FV, il rischio di sviluppare una frattura in qualsiasi distretto scheletrico è risultato essere più alto di quasi tre volte rispetto alla popolazione generale (RR 2,8; IC 95% 2,5-3,1). In base ai dati

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raccolti, è stato stimato che l’incidenza cumulativa di rifrattura aumenta stabilmente con il tempo, essendo del 20% ad un anno e del 70% a 10 anni. Il maggior incremento del rischio di frattura è stato riscontrato per il distretto vertebrale che, rispetto alla popolazione generale, è più alto di 12,6 volte, mentre, per quanto riguarda le fratture degli arti, l’aumento è stato minore (2,3 volte per le fratture d’anca e 1,6 volte per quelle del polso). Nel 2001, uno studio retrospettivo pubblicato da Lindsay et al.7 ha avuto come obiettivo la valutazione dell’incidenza di rifrattura nell’anno successivo allo sviluppo di una FV. Gli Autori hanno preso in considerazione una coorte di 4.356 pazienti con OP post-menopausale arruolate nei gruppi di controllo di tre trial che avevano l’obiettivo di valutare l’effetto della terapia con risedronato rispetto alla somministrazione di un placebo; successivamente, è stato selezionato un campione di 381 pazienti che avevano sviluppato una FV durante il periodo di osservazione. Nel corso dell’anno successivo allo sviluppo della frattura, l’incidenza di un secondo evento è stata del 19,2% (IC 95%: 13,6-24,8), mentre il RR rispetto alle pazienti con OP – ma senza una precedente FV – è stato di 9,3 (IC 95%: 1,2 – 76,6). Questi dati hanno un significato molto importante dal punto di vista clinico, poiché la presenza di una FV deve essere valutata dal medico come un fattore di rischio per l’insorgenza di nuove fratture e, come vedremo successivamente, per un peggioramento della qualità della vita del paziente.

Un altro parametro molto importante è la gravità delle FV. Delmas et al.8 hanno messo in evidenza che la gravità di una lesione vertebrale correla con un maggior rischio di sviluppare una nuova frattura, soprattutto vertebrale. Questi autori hanno studiato retrospettivamente un gruppo di 2.576 donne in menopausa da almeno due

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anni e con diagnosi di OP. In 3 anni, le pazienti senza precedente FV hanno presentato un’incidenza di frattura del 4,3%, mentre pazienti con fratture di grado lieve, moderato o grave hanno presentato rispettivamente delle incidenze di rifrattura del 10,5%, 23,6% e 38,1%. Lo stesso studio ha messo in evidenza che il rischio di rifrattura dipende anche dal numero delle precedenti FV e dal T-score della BMD femorale. L’incidenza di nuove FV in pazienti con 3 o più FV è stata del 36,2%, significativamente maggiore rispetto alle pazienti che presentavano nessuna (4,3%), una (13,4%) o due (18,8%) fratture. Per quel che riguarda la BMD, si è visto che valori di T-score femorali < -3,0 correlavano con un’incidenza di rifrattura del 23% contro un 12,4% registrato nelle donne con un Tscore basale compreso tra 2,5 e -3,0.Infine, per quanto riguarda l’incidenza di fratture non vertebrali, il rischio è stato significativamente maggiore nelle donne con una precedente FV grave (15,8%) rispetto a donne senza precedenti fratture (8,1%) o con FV lieve (9,8%). Questo studio non ha riscontrato una correlazione statisticamente significativa tra numero delle FV e della BMD e l’incidenza delle fratture non vertebrali.

1.2 SINDROME CLINICA E DIAGNOSI

Poiché le FV da OP sono delle lesioni da fragilità ossea, oltre a verificarsi in seguito ad eventi più o meno traumatici, possono essere associate ad attività relativamente atraumatiche, come il piegarsi in avanti, l’alzarsi in piedi dalla posizione seduta, il tossire o anche lo starnutire vigorosamente.

La maggior parte delle FV insorge con dolore. Tuttavia, gran parte di queste fratture possono essere diagnosticate in maniera incidentale ed a varia distanza temporale, in

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seguito a un esame radiologico eseguito per altro motivo. Questo è stato confermato da diversi studi. Ad esempio, nel 2000 è stato pubblicato un lavoro di Gehlbach et al.9 che aveva lo scopo di studiare la frequenza con la quale i medici riconoscevano, e quindi trattavano, le FV di una popolazione di donne ospedalizzate e che avevano svolto almeno un esame radiologico del torace nel biennio 1995-1997. Su un campione di 934 donne di età superiore ai 60 anni, la revisione delle radiografie ha messo in evidenza la presenza di FV in 132 pazienti, ma solo il 52% di queste presentava la descrizione di una frattura nei referti originali.

Spesso quelle che vengono chiamate fratture “asintomatiche” non sono altro che FV sintomatiche, la natura del cui dolore non è stata riconosciuta al tempo dell’insorgenza (diagnosi errate di altre patologie come spondiloartrosi o ernie discali). Talora, effettivamente, una FV avviene con scarso dolore: sono i casi, poco frequenti, in cui la deformazione vertebrale avviene, per così dire, per gradi, tramite un cedimento graduale e progressivo. Pur essendo quest’ultima modalità più caratteristica delle FV da importante deficienza di vitamina D o comunque da osteomalacia, essa può verificarsi anche nell’OP.

Quando la frattura è sintomatica, il paziente lamenta un dolore al rachide, focale, intenso e ad esordio improvviso. Il dolore tipicamente peggiora quando il paziente sta seduto, in piedi o cammina, mentre migliora da sdraiato. Un modo pratico per la valutazione clinimetrica del dolore è attraverso la VAS (Visual Analog Scale), uno strumento di misurazione che permette di avere un’indicazione dell’entità del dolore percepito dal paziente in una scala da 0 (assenza di dolore) a 10 (il più forte dolore mai provato nella vita).

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Negli ultimi anni sono stati pubblicati diversi studi che descrivono la storia naturale della FV, soprattutto nell’obiettivo di confrontare l’efficacia del trattamento conservativo delle FV stesse con un approccio più interventistico. Nel 2010 Klazen et al.10 con uno studio prospettico, hanno valutato la presenza di dolore in 49 pazienti con FV insorta nelle due settimane precedenti e trattate con terapia conservativa (che verrà trattata in maniera più estesa successivamente) ovvero con riposo, uso di farmaci analgesici, ortesi e terapia riabilitativa. Il follow-up è durato mediamente 2 anni con valutazione del dolore a 6 e 23 mesi. Il valore basale della VAS era di 7,2 ± 2,5. Dopo i primi 6 mesi il 63% dei pazienti ha mostrato una significativa riduzione del dolore, mentre a 23 mesi questa percentuale era del 69%. Questo vuol dire che dopo quasi due anni dall’aver sviluppato una FV, il 31% dei pazienti non aveva ancora avuto una riduzione significativa della sintomatologia dolorosa. Un altro dato interessante è che, nei primi 6 mesi di follow-up, questo gruppo di pazienti ha fatto maggior uso di farmaci anti-dolorifici. Tra i diversi parametri misurati all’inizio dello studio (età e sesso dei pazienti, VAS basale, numero medio, distribuzione, forma e causa delle FV) gli autori non sono riusciti a individuare dei fattori predittivi della riduzione del dolore e che possano spiegare la presenza di un gruppo di pazienti che mantiene i sintomi.

Le FV da compressione insorgono più frequentemente a livello toracico inferiore o nella zona di transizione toraco-lombare. La deformità dei corpi vertebrali dorsali porta a una ipercifosi, la quale determina una ovvia riduzione dell’altezza del paziente. Inoltre, l’aumentata cifosi impedisce la normale espansione delle pareti toraciche, con conseguenze di tipo restrittivo sulla funzionalità polmonare. Diversi lavori hanno investigato la riduzione dei volumi polmonari in pazienti con FV e OP.

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Un importante limite di questi studi è il fatto che, spesso, non è stata valutata l’abitudine al fumo, che è un importante fattore confondente, poiché rappresenta uno dei più importanti fattori di rischio per lo sviluppo di malattie croniche del polmone. Per questo motivo, un buon contributo è stato dato dal lavoro di Lombardi et al.11 che ha valutato la funzione polmonare in pazienti affetti da OP, ma non fumatori. Gli autori hanno analizzato le radiografie del torace e le spirometrie di due gruppi di pazienti, uno con FV e OP, e l’altro con solo OP, confrontandole con un terzo gruppo di donne, usato come controllo. Il maggior grado di cifosi è stato riscontrato tra le donne con OP e FV, con differenze statisticamente significative rispetto agli altri gruppi. Per quanto riguarda i parametri spirometrici, all’aumentare della cifosi sono stati osservati valori minori di Capacità Vitale Forzata (FCV) e del Volume Espiratorio Massimo nel primo Secondo (VEMS), con una forte correlazione negativa tra il grado della cifosi toracica e il valore percentuale del predetto del VEMS. Da ciò si può comprendere che la presenza di una FV non solo interferisce con la meccanica respiratoria, ma che questa alterazione diventa ancor più significativa, dal punto di vista clinico, all’aumentare del numero e della gravità delle FV.

Molto raramente, la retropulsione di un frammento della frattura può determinare la compressione del midollo spinale o della cauda equina, portando a ipostenia e perdita di sensibilità agli arti inferiori, ma anche incontinenza intestinale o vescicale. In base alla gravità e alla rapidità dell’insorgenza del deficit, questo può costituire un’emergenza chirurgica12.

Il dolore di origine vertebrale può limitare la capacità di svolgere le normali attività quotidiane, con un’importante riduzione della qualità della vita del paziente. Nel

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tempo sono stati elaborati diversi metodi di valutazione dell’impatto delle FV sulla qualità della vita che, attraverso dei questionari, permettono di dare una misura delle ricadute fisiche, funzionali e psicologiche sul paziente. Per quanto riguarda la gestione delle FV, quelli più utilizzati sono l’EuroQol five dimension scale (EQ-5D) e il Quality of life questionnaire of the European Foundation for Osteoporosis-41 (QUALEFFO-41). L’EQ-5D è un questionario strutturato su 5 domande che prende in considerazione le capacità motorie, la cura personale, le normali attività quotidiane, il dolore e la presenza di sintomi di ansia e depressione. Per ogni domanda ci sono tre livelli di risposta (nessun problema, qualche problema, problema grave); questo significa che il questionario può individuare fino a 243 diversi stati di salute. Oltre al questionario è presente una scala di autovalutazione di tipo analogico, in cui il paziente da un punteggio complessivo al suo stato di salute. Invece, il QUALEFFO-41 è un questionario con 41 domande che coinvolgono 5 aree di interesse: il dolore, le normali attività quotidiane, il funzionamento della sfera sociale, la percezione dello stato di salute e la sfera psicologica.

Nel 2010 è stato pubblicato il lavoro di Adachi et al.13 che ha esaminato i questionari EQ-5D di 57.141 donne di età superiore ai 55 anni reclutate nel periodo 2007-2009. L’obiettivo era quello di valutare l’impatto sulla qualità della vita delle fratture di dieci diversi distretti scheletrici, e confrontarlo con i punteggi registrati dalle donne che non avevano anamnesi positiva per fratture. Gli autori hanno convertito i 243 diversi stati di salute in una scala che va da 0 a 1, dove per 1 si intende il massimo stato di benessere, e lo 0 corrisponde a uno stato equivalente alla morte. I punteggi più bassi dei questionari EQ-5Q sono stati registrati nelle pazienti con frattura del ginocchio (0,61), FV (0,63) e frattura d’anca (0,64), rispetto al punteggio medio di

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0,79 registrato tra le donne senza fratture. In particolare, la quota di pazienti che lamentavano problemi di mobilità e nelle attività abituali era il doppio rispetto alle donne senza fratture; il triplo se si considerano le attività volte a mantenere la cura della persona. Invece, per quanto riguarda il dolore e l’ansia o la depressione, la differente frequenza con cui si presentavano era meno drammatica. La disabilità, comprensibilmente, è risultata essere più alta in caso di fratture multiple. Infine, gli Autori hanno fatto un confronto con la qualità della vita delle donne non fratturate, ma affette da importanti patologie croniche, come il diabete mellito di tipo 1 (0,67), patologie reumatologiche, come l’osteoartrite o l’artrite reumatoide (0,69) e malattie polmonari, come l’asma o l’enfisema, (0,71). Ciò rende ancora più incisivo il messaggio che la presenza di una FV può interferire in maniera importante con le normali attività dei pazienti.

Ci sono numerose evidenze che le FV, in modo analogo alle fratture femorali, hanno un impatto negativo sull’aspettativa di vita. Già nel 1993 era stata riportata una riduzione della sopravvivenza del 20% rispetto alla popolazione generale14. Successivamente, è stato pubblicato un lavoro di Ismail et al.15, che aveva come obiettivo quello di valutare il rischio di mortalità nei pazienti che avevano sviluppato almeno una frattura da fragilità. Il rischio, aggiustato per l’età, è risultato essere modestamente aumentato nelle donne (RR 1,9) e statisticamente non significativo negli uomini. Quando si analizzano questi dati bisogna tenere ben presente che, nella maggior parte dei casi, i pazienti affetti da frattura presentano delle comorbidità o comunque dei fattori che rappresentano dei fattori di rischio indipendenti per un aumento di mortalità. Tra questi fattori confondenti abbiamo il fumo, un ridotto BMI, il consumo di alcol, precedenti fratture di anca, e malattie croniche. Gli autori, dopo

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Figura 1 - Curve di sopravvivenza, aggiustate per età, per donne con e senza FV; da

Ismail et al.15.

aver corretto il dato di mortalità per questi fattori confondenti, hanno riscontrato un RR di 1,6. Questo vuol dire che, in effetti, la presenza di una FV ha un suo ruolo indipendente nella riduzione dell’aspettativa di vita. Secondo gli autori questa aumentata mortalità poteva essere spiegata con l’immobilità secondaria al dolore cronico causato dalla frattura, che favoriva l’insorgenza di nuove patologie. Nel 2000 Cauley et al.16 hanno pubblicato un lavoro nel quale veniva preso in considerazione un campione di donne che non presentava particolari fattori di rischio, oltre alle FV da OP. Lo studio, durato 3,8 anni, si basava sulla valutazione della mortalità di un campione di 6.459 donne di età compresa tra i 55 e gli 81 anni, di cui 907 presentavano almeno una frattura in qualsiasi distretto scheletrico. Nel corso del periodo di osservazione, il tasso di mortalità calcolato nelle pazienti con FV è stato di 67,5 su 1000 persone/anno, contro un valore di 50 su 1000 persone/anno nelle

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pazienti con frattura femorale e solo 4,5 su 1000 persone/anno per le donne senza nessuna frattura. Rispetto al lavoro citato in precedenza, qui il RR di mortalità risultava essere più alto. In particolare, rispetto alle donne non fratturate, il RR dopo una qualsiasi frattura era di 2,55, mentre in caso di FV, il dato si portava a ben 8,64. Ciò che si può estrapolare da queste evidenze è che la presenza di una frattura da fragilità può interferire in maniera indipendente con l’aspettativa di vita di un paziente. Questo diventa particolarmente vero nei casi di FV, oltre che per le fratture femorali.

Per quanto riguarda la diagnosi differenziale della FV, bisogna considerare che, oltre alla fragilità da OP, queste possono essere determinate da ulteriori patologie. Se non prendiamo in considerazione i traumi, che determinano una lesione su un osso sano,

Figura 2 - RR di mortalità, aggiustato per età, successivo allo sviluppo di differenti

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la seconda causa più frequente di frattura è data dalle neoplasie, primitive (emangiomi, tumori a cellule giganti) e secondarie (metastasi), oltre a quelle ematologiche, come il mieloma multiplo o i linfomi. Una sintomatologia dolorosa localizzata alla colonna può essere confusa anche con una patologia degenerativa, come l’osteoartrosi, infiammatoria, come un’osteoartrite, o infettiva, come l’osteomielite o la spondilodiscite. Infine, la presenza di una cifosi può far pensare, soprattutto nel giovane, alla malattia di Sheuermann, un’osteocondrosi dei corpi vertebrali.

Per quanto riguarda la diagnosi strumentale di frattura vertebrale, la tecnica più largamente disponibile e con un buon rapporto costo-effetto è lo studio radiologico della colonna toracica e lombare in proiezione antero-posteriore e laterale17. L’Rx permette una rapida identificazione delle fratture, una valutazione della perdita di altezza (in termini assoluti e in percentuale) e la definizione morfologica della deformità che ne consegue. Negli anni, sono stati sviluppati diversi metodi di valutazione sia qualitativi che quantitativi, ma nella pratica clinica il metodo semi-quantitativo sviluppato da Genant et al.18 è ampiamente accettato ed è di uso comune. Il metodo valuta la forma della vertebra e in particolare l’altezza del corpo vertebrale in sede anteriore, centrale e posteriore. Si parla di frattura quando è visibile una riduzione di almeno il 20% di una delle tre altezze rispetto al segmento del corpo vertebrale non coinvolto. Le fratture complete da compressione sono caratterizzate dalla contemporanea riduzione delle altezze anteriore e posteriore. È possibile definire il grado della frattura in lieve (grado I), moderata (grado II), o grave (grado III), in base all’entità della riduzione dell’altezza del corpo vertebrale, rispettivamente 20-25%, 26-40% e superiore al 40%. La comparazione con

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Figura 3 - Metodo di Genant per la diagnosi radiologica delle FV; modificata da

Genant et al.18

preesistenti esami radiologici permette al clinico di valutare la presenza di nuove fratture vertebrali. Diversi studi hanno dimostrato che il metodo semi-quantitativo di Genant è affidabile e ha una buona concordanza tra diversi operatori19.

La principale indagine di secondo livello nello studio delle FV è la Risonanza

Magnetica Nucleare (RM). A livello della frattura, questa tecnica di imaging mostra

una riduzione dell’intensità del segnale in sequenze T1, mentre in sequenze T2 si può

apprezzare un aumento dovuto all’edema della spongiosa, un reperto che si osserva

nelle fratture acute, ma non in quelle più datate. La RM permette inoltre di studiare

l’eventuale compressione del midollo spinale o delle radici dei nervi periferici. La

stabilità della frattura può essere valutata attraverso delle acquisizioni con sequenze

STIR (short T1 inversion recovery), le quali permettono di apprezzare l’integrità dei

legamenti spinali. La RM è una tecnica di imaging fondamentale nella diagnosi

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neoplasia20. Questa tecnica permette di evidenziare il maggior numero di reperti caratteristici di una o dell’altra patologia. La colonna vertebrale rappresenta la sede

del 39% delle metastasi dello scheletro. Queste originano più frequentemente da

carcinomi della mammella, prostata, rene e tiroide. L’accrescimento delle metastasi

determina prima la sostituzione del midollo osseo e poi l’osteolisi, ovvero la

rarefazione del tessuto mineralizzato, che è responsabile del cedimento vertebrale. Al

contrario, la FV da OP si verifica su un corpo vertebrale in cui c’è una perdita di

massa ossea, senza sostituzione della componente emopoietica. Queste differenze

anatomopatologiche si traducono in diversi reperti osservabili all’imaging. La RM è

una tecnica multiparametrica. Questo significa che, cambiando il tipo di acquisizioni

è possibile analizzare delle specifiche caratteristiche del tessuto studiato. La

sostituzione del midollo osseo da parte del tessuto neoplastico si presenta come un

segnale ipo-intenso in sequenze T1. Negli anziani, questo reperto può essere

riscontrato con difficoltà a causa dell’abbondante tessuto adiposo del loro midollo,

che appare iper-intenso. Per questo motivo, lo studio con acquisizioni STIR delle

lesioni maligne ha una sensibilità maggiore. Queste sequenze attenuano il segnale

originato dal tessuto adiposo, mentre le neoplasie presentano un segnale iper-intenso.

Nelle FV da OP, l’intensità del segnale varia in funzione del fatto che la frattura sia

acuta o cronica. Le fratture acute sono caratterizzate dalla presenza di edema

infiammatorio senza la sostituzione del midollo. La presenza di edema si manifesta

con una ipo-intensità in T1 e iper-intensità nelle sequenze T2, che può mimare un

quadro neoplastico, anche se l’edema coinvolge principalmente l’osso subcondrale.

La diagnosi differenziale non viene fatta solo sulla base delle differenze dell’intensità

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contrario delle FV da OP, in quelle causate dalle neoplasie, la vertebra può

presentare un profilo di convessità della parete posteriore del corpo vertebrale, il

coinvolgimento dei peduncoli e l’evidenza di altre metastasi, di forma per lo più

rotondeggiante, nel contesto degli altri segmenti vertebrali. Per quanto riguarda le FV

croniche da OP, queste presentano la riduzione del proprio soma senza alterazioni del

segnale dell’osso trabecolare.

Ormai la RM viene largamente considerata come un esame strumentale indispensabile nella selezione dei pazienti da avviare alla vertebroplastica o cifoplastica, perché è l’unica metodica in grado di mostrare alterazioni di segnale dell’osso spugnoso del corpo vertebrale compatibili con una frattura recente o ancora instabile. Inoltre, ci sono diversi lavori che hanno messo in evidenza che questa tecnica permette di identificare una quota importante di fratture non visualizzate con altre tecniche di imaging. Ad esempio, di tutte le fratture studiate con la RM da Takahara et al.21, solo il 47,3% era stato visto con una semplice Rx della colonna. In un altro studio, Spigel et al.22 hanno eseguito una RM pre-operativa in un gruppo di 28 pazienti che erano stati destinati alla VP in seguito ad uno studio con TC. Nel 57% dei casi il referto della RM aveva determinato una variazione del numero di vertebre da trattare. Quindi, rispetto alla RM, il valore di altre tecniche di imaging è sicuramente inferiore. La Tomografia Computerizzata (TC), per esempio, permette di

avere il miglior quadro anatomico dell’anatomia vertebrale, ma è una tecnica costosa,

che espone il paziente ad irradiazione e soprattutto, non permette di apprezzare

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1.3

OSTEOPOROSI DA GLUCOCORTICOIDI

Dalle varie forme di OP, che vengono sommariamente mostrate in Tabella II, quella indotta da glucocorticoidi (GC) rappresenta la causa più frequente di OP secondaria. I GC sono farmaci che hanno un potente effetto anti-infiammatorio e trovano impiego in diverse condizioni cliniche che vanno dalle patologie reumatologiche, alle polmonari o gastrointestinali, oltre alla terapia dei pazienti sottoposti a trapianto d’organo. Tuttavia, nonostante il loro ruolo terapeutico, l’uso cronico di GC è gravato da diversi effetti collaterali, e il tessuto osseo è uno dei sistemi più coinvolti. Si stima che l’uso di questi farmaci interessi circa lo 0,5-0,9% della popolazione generale, con una prevalenza che aumenta con l’età. Gli effetti che i GC esercitano sullo scheletro si manifestano già poche settimane dopo l’inizio del trattamento e il risultato è una maggiore fragilità ossea responsabile delle fratture. In uno studio

TABELLA II - Classificazione dell’Osteoporosi. Osteoporosi Primaria

Idiopatica

Post-menopausale Senile

Osteoporosi secondaria

da Glucocorticoidi o altri farmaci da malattie endocrine

da malattie ematologiche da malattie reumatologiche da malattie renali

da malattie metaboliche del collagene da emocromatosi

da sarcoidosi

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trasversale multicentrico svolto in Italia nel 2006, Angeli et al.23 hanno valutato la prevalenza delle FV nella popolazione sottoposta a terapia cronica con GC. Gli autori, valutando i reperti radiografici di 551 pazienti, hanno riscontrato che il 37% dei pazienti presentava almeno una FV. La prevalenza chiaramente aumentava con l’età, arrivando al 45% dopo i 70 anni. Questi dati suggeriscono una prevalenza maggiore rispetto a quella riscontrata nei pazienti con OP post-menopausale, se si considera che l’European Vertebral Osteoporosis Study (EVOS)24, su 15.570 pazienti di età compresa tra i 50 e i 79 anni riporta una prevalenza tra il 12 e il 20%, a seconda del metodo radiografico utilizzato per la definizione di una FV.

Per quanto riguarda il rischio di frattura, dati interessanti sono stati forniti da uno studio retrospettivo di van Staa et al.25 eseguito su un’ampia coorte di pazienti selezionati dal General Practice Research Database (GPRD); utilizzando questo registro del sistema sanitario del Regno Unito, gli Autori hanno selezionato un campione di 244.235 pazienti sottoposti ad un trattamento cronico con GC e lo hanno confrontato con un gruppo di controllo costituito da un uguale numero di pazienti non sottoposti a nessun trattamento steroideo. Nel corso del periodo di osservazione, durato 1,3 anni, l’incidenza complessiva di fratture non vertebrali è stata di 2 su 100 persone/anno contro un valore di 1,3 su 100 persone/anno registrato nel gruppo di controllo, mentre, per quanto riguarda le FV, l’incidenza tra i pazienti in trattamento con GC è stata di 0,3 su 100 persone/anno rispetto a un valore di 0,2 su 100 persone/anno dei controlli; rispetto al gruppo di controllo, questi pazienti hanno presentato un RR di sviluppare una qualsiasi frattura di 1.33 (IC 95%: 1,29 – 1,38),

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che sale a 2.60 (IC 95%: 2,31 – 2,92) se si considerano solo le FV. È stata considerata anche la relazione tra il rischio di frattura e la dose di farmaco somministrata. La dose quotidiana di GC, espressa in mg equivalenti di prednisone, è stata calcolata dividendo la dose cumulativa assunta nel corso della terapia, per il numero di giorni del trattamento. Successivamente, le dosi quotidiane sono state suddivise in tre classi e per ciascuna è stato calcolato il rischio di FV: dosaggio basso (<2,5mg), medio (2,5-7,5mg) e alto (>7,5mg), rispettivamente con un RR di 1,55, 2,59 e 5,18. Da questi dati si può comprendere che all’aumentare della dose di GC vi è un drammatico aumento del rischio di sviluppare una FV, e che – dato altrettanto importante – l’incremento del rischio di FV risulta significativo anche per dosi di GC considerate generalmente (ed erroneamente) sicure per lo scheletro.

Nell’ambito dell’OP da GC, ha suscitato molto interesse l’alterazione che questi farmaci determinano sulla BMD, poiché, contrariamente all’OP post-menopausale, si è osservato che non esiste una relazione diretta tra la sua riduzione e il rischio di frattura. Tra gli studi che per primi hanno affrontato questo problema, quello di Peel et al.26 ha messo in evidenza che ad un importante aumento del rischio di frattura non corrispondeva un altrettanto importante riduzione della BMD. I pazienti di questo studio erano stati trattati con una dose cumulativa di 28g di prednisone e avevano un RR di sviluppare una FV di 6 volte maggiore rispetto ad un gruppo di donne in OP post-menopausale. Al contrario, all’esame densitometrico, lo Z-score della BMD della colonna lombare misurava solo -0,79, mentre il valore relativo al femore totale era di -1,46. Gli autori avevano quindi suggerito che la BMD non può essere considerata come un fattore predittivo per il rischio di frattura. In effetti, una meta-analisi di van Staa et al.27 ha confermato questa conclusione. In questo lavoro sono

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stati revisionati i dati di numerosi studi eseguiti sugli effetti che ha la somministrazione cronica di GC orali sulla BMD e il rischio di frattura. Gli autori si sono basati sul fatto che nell’OP post-menopausale, poiché vi è un rapporto diretto tra BMD e FV, è possibile stimare il rischio di frattura correlato ad una determinata riduzione della BMD. Quindi, sulla base della riduzione della BMD nei diversi campioni, è stato stimato un certo rischio di FV, confrontandolo con il rischio effettivamente osservato. Ad esempio, nel numeroso campione analizzato dal già citato studio25, in presenza di una riduzione della BMD del 4,7%, il RR di frattura osservato era stato di 3,05, mentre quello stimato era solo di 1,48. Ciò ha dei risvolti importanti dal punto di vista della gestione clinica, perché il trattamento dell’OP da GC tende ad essere intrapreso per valori di T-score più alti rispetto all’OP post-menopausale (T-score ≤ -1 vs ≤ -2,5; raccomandazioni dell’American College of Reumathology)28.

Dal punto di vista patogenetico (che in questo contesto tratteremo solo brevemente), i GC agiscono sul metabolismo osseo sia in maniera diretta che indiretta. Per quanto riguarda l’azione diretta, il target è rappresentato dalle cellule della componente organica, quindi osteoblasti, osteociti ed osteoclasti, mentre quella indiretta si ha attraverso un’azione sul metabolismo calcio/fosforo, sul sistema neuroendocrino e sui muscoli. L’OP indotta da GC si sviluppa in due fasi: una prima fase, che presumibilmente è causata dell’eccessivo riassorbimento osseo, nella quale la BMD si riduce rapidamente, e una seconda fase più lenta e progressiva, in cui la BMD continua a ridursi, ma principalmente a causa di un’alterata neoformazione ossea29. Per quel che riguarda gli osteoblasti, i GC determinano da una parte una riduzione della proliferazione e della differenziazione, e dall’altra ne stimolano l’apoptosi. I

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meccanismi implicati sono diversi; uno dei più importanti è l’inibizione del segnale Wnt/β-catenina, che ha un ruolo chiave nell’osteoblastogenesi. In presenza di questi farmaci, le cellule stromali del midollo osseo, che sono i precursori degli osteoblasti, modificano il loro programma di differenziazione e si trasformano in adipociti. Oltre ad inibire la differenziazione degli osteoblasti, i GC inibiscono la funzione delle cellule mature. In particolare, riducono la sintesi del maggior componente della matrice extracellulare, il Collagene di tipo I, con la conseguente riduzione della matrice ossea disponibile per la mineralizzazione. Per quel che riguarda gli effetti pro-apoptotici, questi si manifestano sia sugli osteoblasti che sugli osteociti attraverso l’attivazione della Caspasi 3, che appartiene alla cascata di attivazione dell’apoptosi cellulare.

I GC modificano la funzione degli osteociti, cellule che agiscono da meccano-sensori e che giocano un ruolo importante nella riparazione dell’osso dovuta ai micro-danni. Gli osteociti presentano un corpo cellulare che risiede nelle lacune osteocitarie. Dal corpo cellulare originano numerosi dendriti, i quali decorrono all’interno di un network di canalicoli che permette la loro interconnessione. Tra la parete dei canalicoli e i dendriti è presente un fluido interstiziale il cui flusso dipende dalle forze meccaniche che vengono scaricate sull’osso. Questo flusso stimola la membrana dei dendriti osteocitari che quindi percepisce il carico meccanico sull’osso e, in base a questo, orienta il rimodellamento osseo locale. Gli osteociti, se sottoposti a carico meccanico, mandano segnali inibitori agli osteoclasti30. Al contrario, attraverso dei segnali che non sono ancora ben caratterizzati, gli osteociti apoptotici stimolerebbero il riassorbimento mediato dagli osteoclasti. Ciò è importante perché i GC inducono l’apoptosi degli osteociti e quindi alterano il normale processo di

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rimodellamento locale, compromettendo le proprietà biomeccaniche dell’osso. Questi farmaci condizionano anche l’attività degli osteoclasti, cellule che derivano dalla linea monocito-macrofagica, e che si differenziano in cellule mature sotto lo stimolo di citochine, come il fattore stimolante le colonie di macrofagi (M-CSF) e il ligando attivante il recettore di NF-κB (RANK-L). I GC, da una parte aumentano la sintesi di queste citochine, agendo a livello delle cellule stromali e osteoblastiche, che sono deputate alla sintesi di M-CSF e RANK-L, e dall’altra diminuiscono l’espressione del loro recettore trappola solubile, l’osteoprotegerina (OPG)31, 32. Il risultato è un’aumentata formazione di osteoclasti e una loro prolungata sopravvivenza.

Per quel che riguarda gli effetti indiretti dei GC, questi coinvolgono soprattutto il metabolismo del calcio, dell’ormone paratiroideo (PTH) e dell’ormone della crescita

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(GH). L’azione sul calcio si manifesta su più livelli. I GC ne inibiscono l’assorbimento da parte del tratto gastrointestinale, sia antagonizzando l’azione della vitamina D sia riducendo l’espressione del suo canale a livello duodenale; mentre a livello renale ne riducono il riassorbimento tubulare33, 34. I GC determinano un alterazione della secrezione di PTH35. Nelle persone sane il PTH presenta una secrezione tonica alla quale si aggiunge una secrezione pulsatile, caratterizzata da bassa ampiezza e alta frequenza; questa rappresenta il 25% dell’intera secrezione quotidiana. L’esposizione agli steroidi determina una secrezione pulsatile alterata. Ciò si riscontra non solo nell’OP da GC, ma anche nelle donne in età post-menopausale36. Oltre a questo, a livello delle cellule ossee, i GC aumentano il numero e l’affinità dei recettori per il PTH37, aumentandone la sensibilità. La somministrazione prolungata di GC è associata anche ad altri effetti indiretti che possono giocare un ruolo nella patogenesi dell’OP da GC. Tra questi abbiamo l’aumento della produzione di somatostatina da parte dell’ipotalamo, che può determinare una riduzione della secrezione di GH38, e l’inibizione della produzione di gonadotropine e quindi di estrogeni e testosterone. Infine, oltre all’effetto diretto e indiretto sul metabolismo osseo, i GC aumentano il rischio di fratture determinando un effetto catabolico sui muscoli, il quale è responsabile di un aumento del rischio di cadute.

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CAPITOLO 2: TRATTAMENTO DELLE FRATTURE VERTEBRALI

2.1 IL TRATTAMENTO CONSERVATIVO E I SUOI LIMITI

Il trattamento delle FV prevede un approccio conservativo e uno chirurgico mini-invasivo, che consiste nella vertebroplastica (VP) e nella cifoplastica (CP). Nella maggior parte dei casi, la frattura di uno o più corpi vertebrali si presenta con una sintomatologia dolorosa che raggiunge rapidamente un acme e poi tende a risolversi spontaneamente in un periodo di 6-12 settimane. Il dolore è associato a una riduzione nella capacità di svolgere le normali attività quotidiane modificando, anche in maniera significativa, la qualità della vita del paziente. Il trattamento conservativo consiste nel riposo, nella terapia con farmaci analgesici, nell’utilizzo di ortesi e nella successiva terapia riabilitativa. Infatti, indipendentemente dalla tipologia di trattamento, tutti i pazienti con FV stabilizzata devono essere trattati con una riabilitazione motoria. L’obiettivo dell’approccio conservativo è quello di ridurre l’entità della sintomatologia dolorosa e migliorare la capacità del paziente nel mantenere una postura corretta e un buon livello di mobilità, riducendo la durata dell’allettamento. Ottenere un successo terapeutico in questa fase permette di evitare, o quanto meno ritardare, un circolo vizioso caratterizzato dal declino funzionale determinato dalle FV, che a sua volta aumenta il rischio di sviluppare ulteriori fratture. Purtroppo questo tipo di approccio presenta dei limiti, che vanno dalla mancata risposta del paziente alla terapia anti-dolorifica, allo sviluppo di effetti collaterali da farmaci, oltre al fatto che alcune pratiche, come il riposo prolungato a letto o l’uso di ortesi, sono state messe in discussione dai risultati di vari studi. Nel momento in cui il trattamento conservativo non è in grado di controllare la sindrome

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clinica determinata dalla FV, è opportuno valutare la necessità di passare ad un intervento chirurgico mini-invasivo. In questo paragrafo verranno passati in rassegna i più importanti presidi utilizzati nel trattamento conservativo e i loro principali limiti, mentre successivamente saranno descritte la VP e la CP.

Per quel che riguarda la terapia del dolore, i farmaci che sono a disposizione del medico sono molteplici; tra questi, i più importanti sono il paracetamolo, i farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS), gli oppioidi, i miorilassanti e quelli che agiscono sul dolore neuropatico (come gli antidepressivi triciclici). Il paracetamolo è il farmaco con il migliore profilo di tollerabilità e per questo rappresenta la prima scelta terapeutica. I FANS invece, pur essendo dei farmaci efficaci, sono gravati da importanti effetti collaterali, che vanno da lesioni mucose acute gastroduodenali all’aumentato rischio di sanguinamento, all’insufficienza renale acuta, oltre alle possibili reazioni di tipo allergico. Questi farmaci, indipendentemente che vadano ad inibire la ciclossigenasi 2 in maniera aspecifica o selettiva, aumentano nel lungo termine anche il rischio di sviluppare eventi cardiovascolari, specialmente in pazienti ipertesi e con malattia coronarica cronica. Quando il trattamento con paracetamolo o FANS non permette di avere un buon controllo del dolore, perché presentano una scarsa efficacia o sono responsabili della comparsa di effetti collaterali, è possibile utilizzare i farmaci oppioidi. In caso di dolore moderato, si può optare per l’uso di codeina o tramadolo, mentre per i sintomi più intensi è più opportuno prendere in considerazione l’oxicodone e i farmaci simili. Questi farmaci sono efficaci nel controllo del dolore, anche se sono gravati da diversi effetti collaterali, come sedazione, riduzione della motilità gastro-intestinale, depressione centrale dell’attività respiratoria e maggior rischio di deficit cognitivi e di stabilità posturale

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(questi ultimi incrementano il rischio di caduta e quindi di nuove fratture). L’effetto analgesico del paracetamolo e dei FANS è legato alla ridotta produzione dei mediatori dell’infiammazione, mentre i farmaci oppioidi, legandosi ai propri recettori, riducono la stimolazione nocicettiva generata dalle fibre nervose che sono localizzate nel periostio dei corpi vertebrali fratturati. Bisogna considerare che spesso una componente del dolore è determinata dallo spasmo riflesso dei muscoli paravertebrali, la cui riduzione è la base razionale su cui poggia l’uso dei miorilassanti. Tuttavia, l’efficacia di questi farmaci non è mai stata provata sul dolore da FV, ma solo in pazienti che lamentavano un’aspecifica sintomatologia algica a livello del rachide. In questo senso, un contributo è stato dato da Browning et al.39, i quali hanno eseguito una meta-analisi degli studi che avevano come obiettivo la valutazione dell’efficacia – rispetto al placebo – della ciclobenzaprina in pazienti che lamentavano dolore al rachide causato da diverse patologie. L’efficacia è stata analizzata su 5 ambiti, ovvero la presenza di dolore locale, spasmo muscolare, dolore alla palpazione, mobilità della colonna e capacità di svolgere le normali attività quotidiane. Effettivamente, rispetto al placebo, il trattamento con ciclobenzaprina ha determinato un miglioramento in tutti e 5 gli ambiti presi in considerazione. Bisogna però precisare che questo miglioramento è stato modesto e limitato ai primi giorni di trattamento, mentre dopo una settimana, non solo si apprezza una riduzione dell’efficacia, ma vi è anche un aumento della presentazione di effetti collaterali, come la sonnolenza, registrata nel 20% dei pazienti, seguita da secchezza delle fauci (8%) e vertigini (7%). A questo punto è importante sottolineare che, in generale, non esiste una codificazione circa i farmaci da impiegare nel trattamento del dolore acuto da FV: la scelta del o dei farmaci (nella loro varia codificazione e associazione)

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dipende infatti dall’entità del dolore, dalla presenza di comorbidità, dagli effetti avversi emergenti, dalle necessità funzionali del paziente – e la terapia va quindi ritagliata sul paziente, caso per caso.

Il trattamento conservativo delle FV acute include (oltre al riposo e uso di antidolorifici) l’utilizzo di ortesi spinali o corsetti, ovvero di dispositivi tecnici che riducano il movimento del rachide e consentano, talora, un parziale scarico del peso del tronco sul bacino. L’uso di corsetti è diffuso e ha lo scopo di ridurre il dolore e permettere – ammesso sia possibile – una più rapida guarigione della frattura. Oltre ad una parziale immobilizzazione della colonna, il corsetto mantiene il rachide in iperestensione relativa in maniera da ridurre il carico sul segmento anteriore dei corpi vertebrali. I dispositivi ortopedici che vengono usati nel trattamento delle FV sono numerosi e vengono scelti in base al tipo e al livello della frattura; possono essere prefabbricati oppure essere costruiti su misura del paziente. In base ai distretti della colonna coinvolti dall’azione stabilizzatrice del corsetto, si distinguono ortesi toraco-lombari, lombo-sacrali e toraco-lombo-sacrali.

I corsetti più utilizzati in Italia sono il C35 e lo SPINOMED. Il busto Camp-C35, che appartiene ai modelli cosiddetti “a tre punti”, è costituito da un telaio con struttura in titanio e alluminio che agisce su tre livelli: presenta due piastre metalliche rivestite di materiale plastico che comprimono lo sterno e la regione toraco-lombare, e una fascia che poggia sul bacino; in questo modo, quest’ortesi mantiene il rachide in posizione di iper-estensione relativa e contemporaneamente permette un parziale scarico del peso della parte superiore del corpo, trasferendolo dalla colonna lombare al bacino. Il busto SPINOMED invece è costituito da una barra metallica verticale posteriore che viene stabilizzata anteriormente e inferiormente da una fascia che

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passa davanti all’addome e, superiormente, tramite due fasce che poggiano sulle spalle, e che permettono di indossare questo corsetto come uno zaino. Questo tipo di corsetto non determina uno scarico del peso a livello del bacino; tuttavia, la posizione di iper-estensione, che viene mantenuta dalla barra metallica, permette una migliore distribuzione delle forze tra la componente anteriore della colonna, costituita dai corpi vertebrali e dai dischi intervertebrali, e quella posteriore, data dalle strutture articolari e ligamentose. Infine, un’ultima importante differenza tra i due dispositivi sta nel fatto che mentre la piastra dorsale del Camp-C35 può essere posizionata al massimo a livello della decima-undicesima vertebra toracica, la barra metallica dello SPINOMED stabilizza anche i corpi vertebrali superiori, e quindi nelle FV del distretto dorsale superiore si tende a preferire quest’ultimo modello. Nella pratica clinica, si assiste all’applicazione – spesso non motivata – di busti e corsetti a tutti i soggetti fratturati, che vengono utilizzati con modi e tempi standard e spesso per periodi molto lunghi. Questo tipo di approccio, che non ha una valida base di evidenza di efficacia, deriva in campo ortopedico dal trattamento delle cosiddette FV da “scoppio”, ovvero quelle fratture da trauma maggiore che insorgono su ossa non osteoporotiche, prevalentemente quindi in soggetti più giovani. In questi casi l’immobilizzazione e l’uso dei corsetti sono resi necessari per limitare la possibilità che frammenti ossei dislocati dall’evento fratturativo possano ledere le strutture nervose attigue, specialmente se la FV ha interessato i corpi vertebrali dorsali. È tuttavia necessario ammettere che, in via precauzionale, un uso ragionato di corsetti o busti sia raccomandabile in una buona percentuale di pazienti con FV da OP. Nella realtà, l’efficacia di questi dispositivi in tale ambito clinico è materia di dibattito: la

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maggior parte dei trials randomizzati controllati è stata eseguita nelle cosiddette FV “da scoppio”, e per quanto riguarda le FV da OP, la letteratura è molto scarsa.

Nel 2004, uno studio prospettico randomizzato di Pfeifer et al.40 ha riscontrato delle evidenze a favore dell’utilizzo di ortesi toraco-lombari. Gli autori hanno selezionato un campione di 62 donne con FV acuta da OP e in trattamento con farmaci analgesici e antiosteoporotici (bisfosfonati, supplementi di calcio e vitamina D). Le donne sono state divise in due gruppi: quelle del primo gruppo, oltre alla terapia farmacologica, dovevano indossare un corsetto almeno due ore al giorno, mentre l’altro gruppo, utilizzato come controllo, era sottoposto alla sola terapia medica. Dopo 6 mesi è stata fatta una valutazione di diversi parametri, come la forza isometrica sviluppata dai muscoli paravertebrali e flessori dell’addome, l’angolo di cifosi della colonna, e la capacità vitale polmonare, oltre ad alcuni fattori che descrivono la qualità della vita, come la presenza di dolore e di limitazioni nello svolgere le attività quotidiane. Rispetto alle pazienti trattate con la sola terapia farmacologica, le donne che avevano usato l’ortesi presentavano un aumento della forza dei muscoli paravertebrali del 73%, di quella dei muscoli flessori dell’addome del 58%, con un grado di cifosi inferiore dell’11%. Inoltre, l’uso del corsetto era associato ad un miglioramento della funzione polmonare (capacità vitale più elevata del 7%) e una minore limitazione nello svolgere le normali attività quotidiane (score ai questionari di valutazione inferiore del 27%). Per spiegare questi risultati gli autori hanno preso in considerazione i principi del cosiddetto “biofeedback motorio”, una pratica clinica che sfrutta l’utilizzo di specifiche apparecchiature, come i dispositivi ortopedici, e che permette al paziente di migliorare la consapevolezza della propria efficienza nell’eseguire una determinata funzione. In questo caso l’uso di un’ortesi,

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stabilizzando la postura della colonna, determinerebbe una stimolazione meccanica sul rachide del paziente. Il risultato è un aumento dell’attività dei muscoli paravertebrali e, quindi, della loro capacità di sviluppare forza contrattile. Ciò confermerebbe i risultati di un precedente studio di Lantz e Schultz41 del 1986, i quali hanno misurato l’attività elettrica dei muscoli del rachide in un gruppo di 5 uomini in buona salute durante l’esecuzione di alcuni task motori. Ai volontari era stato chiesto di indossare dei busti ortopedici, effettuando la misurazione in due momenti, con e senza ortesi. Rispetto ai task eseguiti senza busto, gli autori hanno registrato un’attività elettrica maggiore durante l’utilizzo del busto. Tuttavia, altri studi hanno riportato risultati opposti e che sostanzialmente mettono in evidenza un’efficacia scarsa o nulla nei confronti del trattamento delle FV senza ricorso a ortesi. Ad esempio, nel 2009 uno studio di Bailey et al.42 ha confrontato il grado di disabilità, dopo 3 mesi dallo sviluppo di una frattura “da scoppio”, in un gruppo di pazienti trattate con ortesi toraco-lombare, rispetto ad un gruppo di pazienti che non hanno usato nessuna dispositivo ortopedico. Il grado di disabilità è stato misurato somministrando il questionario Roland-Morris Disability Questionnaire (RMDQ), il quale è caratterizzato da una serie di 24 domande dalla quale si ricava uno score che va da 0 (nessuna disabilità) a 24 (disabilità grave). Dopo tre mesi i pazienti che avevano fatto uso di ortesi presentavano un RMDQ score di 6 ± 5, mentre i pazienti che non avevano fatto uso del corsetto avevano uno score di 7 ± 6, risultati che non presentano delle differenze significative. Oltre al grado di disabilità, gli autori hanno indagato una serie di outcome secondari, come il dolore (valutato con la VAS), la qualità di vita correlata allo stato di salute (somministrando il questionario SF-36) e la durata dell’ospedalizzazione, senza trovare alcuna differenza significativa.

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Risultati simili sono stati riportati nel recentissimo lavoro di Shamji et al.43, i quali hanno considerato un campione di 23 pazienti con FV “da scoppio”. Anche in questo caso il campione è stato diviso in due gruppi, di cui solo uno è stato trattato con ortesi. I parametri presi in considerazione erano il dolore, valutato con la VAS, la qualità della vita, misurata con il questionario SF-36 e il grado di disabilità. Quest’ultima è stata misurata con l’Oswestry Disability Index (ODI), un questionario a 10 item che valuta la capacità di svolgere normali attività quotidiane, e che ha un punteggio espresso in fasce percentuali, che va dalla presenza di minima disabilità (0-20%) fino alla massima disabilità (81-100%). Dopo un periodo di follow-up di 6 mesi, la valutazione comparativa di questi due outcome non ha messo in evidenza la presenza di differenze statisticamente significative. In questo lavoro è stata valutata anche la variazione media del grado di cifosi toracica dopo il trattamento con busto: nel gruppo trattato con ortesi, l’aumento dell’angolo di Cobb è stato di 5,3 ± 4,4°, mentre nel gruppo non trattato senza ortesi la variazione è stata di 5,2 ± 3.6°; anche in questo caso non è stata trovata una differenza significativa. Questi ultimi due studi42, 43, pur avendo fornito dei risultati molto interessanti, hanno il limite di aver preso in considerazione pazienti con FV “da scoppio”, mentre il lavoro di Pfeifer et al.40 si è basato su un campione di pazienti con FV da OP. Proprio per questo motivo, un contributo importante viene fornito da uno studio prospettico multicentrico pubblicato nel 2013 da Hoshino et al.44. Gli autori hanno valutato un campione di 362 pazienti con FV da OP trattati in maniera conservativa attraverso l’uso di diversi tipi di corsetti, farmaci analgesici e anti-osteoporotici (bisfosfonati). Lo schema terapeutico non era uniforme, a causa del disegno multicentrico dello studio. Dopo 6 mesi di trattamento, è stata valutata la variazione di parametri quali la qualità della

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vita (attraverso il questionario SF-36), la presenza di dolore al rachide (misurata con la VAS), la presenza di alterazioni cognitive (misurate con il test Mini-Mental state Examination), l’entità del collasso vertebrale (attraverso lo studio radiologico) e la capacità di svolgere le normali attività quotidiane (utilizzando uno score che individua 4 gradi di funzionalità, dalla completa indipendenza al paziente costretto continuativamente a letto). L’obiettivo dello studio era valutare l’effetto che i diversi presidi classificati come “trattamento conservativo” hanno su questi parametri; in particolare sono stati presi in considerazione l’ospedalizzazione, il trattamento con bisfosfonati e FANS e l’utilizzo di ortesi. La valutazione dell’effetto di ciascun tipo di trattamento è stato fatto con l’analisi della regressione lineare e i dati sono stati aggiustati per i potenziali effetti confondenti di fattori come l’età, il sesso, fumo e precedenti comorbidità. Sorprendentemente, i dati raccolti da questo studio dimostrano che, dopo 6 mesi dallo sviluppo di una FV, nessun trattamento di tipo conservativo preso in considerazione, tra cui l’utilizzo di ortesi, determina una variazione statisticamente significativa di quei parametri che descrivono il benessere del paziente.

Riassumendo, le ortesi sono dei dispositivi che hanno una grande importanza nella gestione dei pazienti con FV instabili, ovvero fratture con lesioni capsulo-legamentose posteriori, le quali possono determinare delle importanti lesioni neurologiche. Al contrario, le FV da OP coinvolgono solo i corpi vertebrali, quindi le strutture anteriori della colonna, e sono considerate delle fratture stabili. In questo caso, sebbene non ci sia un consenso unanime, parte della letteratura mette in evidenza che l’uso di ortesi non determina un vantaggio significativo per la guarigione della frattura. Anzi, bisogna sottolineare che l’uso prolungato di questi

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dispositivi può portare a degli effetti collaterali, come il decondizionamento dei muscoli paravertebrali con conseguente ipotrofia, l’irritazione e la formazione di lesioni cutanee da compressione, soprattutto nei soggetti anziani, oltre all’alterazione della funzionalità polmonare dovuta alla compressione che il corsetto può determinare sulla parete toracica.

Per quanto riguarda la terapia riabilitativa, l’obiettivo è quello di rafforzare la muscolatura assiale del paziente, in particolare i muscoli paravertebrali, e stimolare i riflessi propriocettivi in maniera tale da migliorare postura e deambulazione e diminuire la probabilità di future cadute. I muscoli paravertebrali agiscono sul rachide con un’attività estensoria sul piano sagittale; questi muscoli sono fondamentali nel determinare una postura normale, bilanciando la naturale tendenza della colonna a flettersi anteriormente. Allo stesso tempo, questa funzione consente di ridurre lo stress biomeccanico sui corpi vertebrali. Questo è molto importante in caso di FV, perché aumentando il tono dei muscoli paravertebrali si migliora la lordosi lombare e la postura, con un effetto di riduzione anche del dolore acuto determinato dalla frattura stessa, e quello cronico associato alla deformità cifotica/lordotica. Diversi studi hanno mostrato che nelle donne con OP post-menopausale, il tono dei muscoli paravertebrali e la mobilità della colonna sono tra i più importanti fattori che modificano la loro qualità di vita. Ad esempio, questo è stato confermato in uno studio prospettico di Miyakashi et al.45 eseguito su un gruppo di 174 pazienti con FV da OP postmenopausale. Gli Autori hanno valutato diversi fattori, come la BMD, il numero di FV, il grado di cifosi della colonna, l’intensità della forza dei muscoli paravertebrali e la mobilità del rachide. Quest’ultima è stata misurata attraverso degli studi radiografici con il rachide

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atteggiato in flessione e in estensione. La qualità della vita dei pazienti è stata valutata con il Japanese Osteoporosis Quality of Life (JOQOL), un questionario composto da 38 item divisi in 6 domini: presenza di dolore, abilità nelle attività quotidiane, abilità nelle attività sociali-ricreative, stato di salute generale, postura e cadute-fattori psicologici. Gli autori hanno riportato una correlazione negativa tra JOQOL score e l’età del paziente, il numero di FV, la forza isometrica sviluppata dai muscoli paravertebrali e l’angolo descritto dalla cifosi lombare, mentre vi era una correlazione positiva con la BMD femorale e la mobilità della colonna lombare. Anche se tutti questi elementi possono essere considerati dei fattori indipendenti che modificano la qualità di vita, l’analisi statistica ha messo in evidenza che i principali fattori che hanno un impatto sulla vita dei pazienti sono la forza dei muscoli paravertebrali e il grado di motilità della colonna. Bisogna inoltre precisare che, tra i diversi segmenti della colonna che possono essere affetti da FV, il coinvolgimento del distretto lombare è quello che ha un impatto negativo maggiore sulla mobilità del paziente e quindi sulla sua qualità della vita. Questo è stato confermato da un lavoro prospettico di Fink et al.46 che ha valutato l’effetto negativo delle fratture di diversi segmenti scheletrici in un gruppo di 909 donne con OP post-menopausale. Tra i diversi dati raccolti, è opportuno mettere in evidenza i giorni di allettamento e quelli di ridotta attività a causa della frattura, rispettivamente di 25,8 e 158,5 per le FV lombari, e 12,6 e 72,1 per le fratture del distretto toracico.

Non tutti i tipi di esercizio fisico hanno un effetto positivo sul paziente con OP. Infatti, gli esercizi che determinano un’intensa flessione della colonna sviluppano un importante carico sui dischi intervertebrali che, soprattutto se degenerati, viene trasmesso ai corpi vertebrali. Ciò è stato dimostrato da un vecchio lavoro di Sinaki et

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al.47 in cui un gruppo di donne con OP primitiva e dolore al rachide erano state sottoposte a diversi schemi di terapia fisica. Dei quattro gruppi in cui erano state divise le pazienti, il primo aveva eseguito degli esercizi che prevedevano dei movimenti di sola estensione del rachide, il secondo di sola flessione, il terzo svolgeva esercizi misti, di estensione e flessione, mentre il quarto non era stato sottoposto a fisioterapia. Dopo un periodo medio di circa due anni, tra i diversi gruppi è stata osservata una differente prevalenza di nuove FV. In particolare, il gruppo di pazienti che avevano svolto esercizi di estensione del rachide aveva una prevalenza del 16%, quelli che avevano svolto esercizi di flessione l’89%, contro un 53% dei pazienti sottoposti ad un programma misto e un 67% nel gruppo di controllo. Questi dati sono molto interessanti perché, allo stesso tempo, suggeriscono l’importanza della terapia riabilitativa basata su un programma di esercizi di estensione del rachide, mentre pongono l’attenzione sull’effetto negativo degli esercizi di flessione che, aumentando il carico sui corpi vertebrali, incrementano in maniera significativa il rischio di nuove FV. Come è stato descritto da diversi lavori, la terapia fisica dovrebbe avere l’obiettivo di determinare un rafforzamento dei muscoli paravertebrali. Ciò si può ottenere sia con esercizi di estensione del rachide eseguiti in posizione prona con o senza un piccolo carico, sia con esercizi di contrazione muscolare isometrica. Un programma di esercizi che si focalizza su questi obiettivi è lo Spinal Proprioception Extension Exercise Dynamic program (SPEED) elaborato da Sinaki48. Questo programma è caratterizzato da una serie di esercizi che, da una parte, si focalizzano sul rafforzamento dei muscoli estensori del rachide, dall’altra stimolano la propriocezione. Gli esercizi vengono svolti indossando un’ortesi provvista di un leggero carico che ha la funzione di facilitare il

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