V
ERONICA
C
OPELLO
Edizione commentata della raccolta donata da Vittoria
Colonna a Michelangelo Buonarroti (ms. Vat. lat. 11539)
Volentieri delle cose accetto: e quando l’arò, non per averle in casa, ma per essere io in casa loro, mi parrà essere in paradiso (MICHELANGELO BUONARROTI, Lettera a Vittoria Colonna)
P
REMESSA
Fra il 1540 e il 1541 Vittoria Colonna, Marchesa di Pescara, donò a Michelangelo
Buonarroti una raccolta di 103 sonetti spirituali. Il manoscritto (non autografo) è conservato
presso la Biblioteca Apostolica Vaticana (Vat. lat. 11539) e rappresenta l’unica silloge allestita
personalmente dalla poetessa. Eppure, salvo B
RUNDIN2005, nessuno ancora si era adoperato
a fornire un commento a queste rime. Il presente lavoro intende contribuire a colmare questa
lacuna.
Al commento si fa precedere un’introduzione suddivisa in due parti. La prima è
strettamente legata alla raccolta vaticana, al fine di contestualizzarla all’interno dell’opera
poetica della Colonna (Cap. 1) e di descriverne gli aspetti strutturali e stilistici più salienti (Cap.
2). Nella seconda parte, invece, si mettono a fuoco alcuni aspetti della spiritualità della
poetessa, specie quelli funzionali alla comprensione di un’operazione poetica volta a tradurre
in versi un’intima e profonda esperienza religiosa. La prospettiva che qui si è assunta vorrebbe
tenere conto di tre fattori: la dinamicità del pensiero religioso della Marchesa, la pluralità delle
esperienze religiose con cui venne in contatto, e l’attendibilità storica del materiale a cui si fa
riferimento (distinguendo, per quanto possibile, tra le informazioni ‘interne’ fornite dalle rime
della Colonna e quelle ‘esterne’ rese disponibili dai documenti).
Riguardo al primo punto (la dinamicità del pensiero religioso), occorre osservare
innanzitutto che il sentimento religioso che pervase Vittoria in seguito alla morte di Francesco
Ferrante d’Avalos (1525) era ben radicato nella tradizione culturale e familiare, e la scomparsa
del marito rappresentò per lei l’occasione – tragica e sconvolgente – di approfondire quella
fede che le era giunta in eredità. Di lì in poi, la sua spiritualità conobbe diverse fasi. La fede
cominciò innanzitutto ad assumere un rilievo particolare nella pratica quotidiana, ma con
significativi risvolti anche sul piano politico ed economico (1526-1534). Con il ritorno a Roma
e l’incontro con Bernardino Ochino, la devozione della Colonna acquistò uno spessore che i
contemporanei non poterono fare a meno di notare: «Sua Ex. è totalmente data al spirito»
1(1535-1540/1541). Infine, la svolta del 1540/1541 è dovuta all’approfondirsi del rapporto con
il cardinal Reginald Pole, che condusse la Colonna verso una fede più intima e personale, forse
meno legata ai riti, ai sacramenti e agli oggetti della tradizione cristiana
2. Nell’introdurre il
commento, però, interessa in primo luogo delineare i tratti fondamentali che la vicenda
religiosa della Colonna assunse negli anni Trenta, quando vennero composte le rime spirituali
incluse nell’antologia donata a Michelangelo. Dalla biografia e dall’opera letteraria appare
come la Marchesa cercasse di percorrere ogni via utile ad accelerare il proprio cammino verso
Dio, affinché ogni aspetto della propria vita fosse indirizzato ad approfondire la fede
personale: non era casuale la scelta delle persone da frequentare, dei maestri da seguire (Cap.
1), del posto in cui vivere (par. 3.1), degli abiti da indossare (par. 3.2), del cibo con cui nutrirsi
(par. 3.3), dei luoghi in cui andare (par. 3.4), dei testi da leggere e delle immagini da
contemplare (par. 2.4), dei modi con cui usare il tempo e il proprio (notevole) patrimonio (par.
3.4). Per la Colonna, tutto concorreva all’educazione dello sguardo, poiché «gli effetti visibili
ce danno cognitione de la causa invisibile»
3.
Per questo motivo Vittoria si apriva a qualsiasi esperienza religiosa le apparisse
autentica e profonda. La molteplicità di carismi spirituali con cui la Colonna venne in contatto
– è il secondo fattore – rappresenta un utile punto di partenza per indagare i tratti della sua
1 Lettera di Agostino Gonzaga a Isabella d’Este, 12 marzo 1535 (in LUZIO 1885, p. 26).
2 A questo ultimo periodo (1541-1547) appartiene anche l’elaborazione e la pubblicazione del Beneficio di Cristo ad opera di Marcantonio Flaminio. La Colonna ne fu certamente al corrente, ma l’eventuale influenza di tale opera concerne gli anni successivi alla raccolta donata a Michelangelo.
religiosità (Cap. 1): la tradizione francescana e poi cappuccina, l’ascetismo di Ochino e lo
spiritualismo di Pole, la novità costituita dai Gesuiti, ma anche – ed è un aspetto che spesso
viene dato paradossalmente per scontato – la liturgia ufficiale della Chiesa, insieme a quella
del popolo (per esempio il canto delle laude). La vita quotidiana della Marchesa si nutrì per
molti anni della ripetitività tipica delle regole monastiche, in cui gli orari sono scanditi
ordinatamente dalla recita delle ore canoniche e dell’ufficio quotidiano. La familiarità che si
dovette creare con i testi utilizzati nei conventi lasciò il segno nella composizione delle rime
sacre. Nel commento si è quindi cercato di fare spesso riferimento a quelle preghiere della
tradizione cristiana che senza dubbio la Colonna conosceva a memoria.
I Capitoli 2 e 3 delineano gli aspetti più significativi della religiosità della Colonna. Il
primo descrive gli aspetti più evidenti della religiosità della raccolta vaticana, e dunque
pertiene propriamente all’ambito della letteratura: si tratta, sostanzialmente, della «spiritualità
delle rime». Quella che emerge è una fede consapevolmente vissuta in un cammino in cui
brucia il desiderio della meta (il Paradiso), ma ove dubbi e incertezze hanno la loro parte.
Nell’itinerarium in Deum gioca un ruolo essenziale la virtù dell’umiltà (par. 2.2), che predispone
il cuore ad accogliere il raggio della grazia divina (par. 2.3). La fede, poi, si fortifica «nella
tranquillità della contemplatione» – mentale ma anche corporea, tramite dipinti e disegni (par.
2.4) – delle Sacre Scritture e della croce (par. 2.1).
Il Cap. 3, infine (è il terzo e ultimo fattore), si occupa di alcuni aspetti della «spiritualità
biografica» della Marchesa, partendo quindi dai dati storici e limitandosi al racconto di fatti,
ricostruiti attraverso testi di varia natura: epistole, opere letterarie, cronache, diari, atti notarili,
etc.
Chiudono il volume cinque appendici (le prime quattro raccolgono strumenti di lavoro;
la quinta è dedicata alle immagini) e una bibliografia – tentativamente integrale – degli scritti
critici relativi alla vita e all’opera di Vittoria Colonna.
Desidero ringraziare i professori che mi hanno accompagnato durante gli anni del dottorato: Maria Cristina Cabani, Giorgio Masi, Alberto Casadei, Roberta Cella e Luigi Blasucci sul versante pisano; Giovanni Bardazzi e Roberto Leporatti su quello ginevrino. Ringrazio Abigail Brundin che mi ha seguito nei mesi trascorsi a Cambridge e mi ha dato l’opportunità di leggere in anteprima il Companion to Vittoria Colonna (Brill 2016). Ringrazio Concetta Ranieri che ha letto con reale attenzione il mio lavoro negli ultimi mesi. Continuo a essere grata verso coloro che hanno segnato la mia formazione universitaria, su tutti Uberto Motta e Claudio Scarpati. Numerose altre persone mi hanno aiutato a vario titolo nella stesura di queste pagine, in particolare Roberto e Elena Copello, Lucia e Cecilia Benassi, Benedetta Ziglioli. Ringrazio infine anche Mr. Bettex e la ‘Fondation pour des bourses des études italo-suisses’, con il cui contributo ho potuto svolgere parte della mia ricerca a Ginevra.
N
OTA AL TESTO
Il manoscritto Vat. lat. 11539
Il codice Vat. lat. 11539 si presenta davvero come lo definì Michelangelo: un
«librecto», di 21,8x15,3 cm, membranaceo con rivestimento cartaceo, con il taglio d’oro,
costituito da 56 fogli più il foglio di rispetto. È composto da nove fascicoli ternioni, ad
eccezione dell’ultimo che è quaternione (con l’ultimo foglio incollato al secondo cartone della
copertina). Compare una numerazione moderna stampata a macchina dal f. 1 al f. 55, mentre
il f. 56 è segnato a mano. Restano bianchi i ff. 1r, 56r e 56v.
La scritta che una mano del sec. XVIII aveva posto sul dorso (Son. Sp.li d[ella] S
aVittoria) e che a Enrico Carusi nel 1938 già appariva «molto sbiadita», ora non risulta più
leggibile, e sono visibili solo poche lettere; più sotto, si legge la sigla C[arte] 55 e – nel
margine inferiore – la segnatura IV. Sul verso del primo foglio di guardia (f. non numerato) vi
è una scritta raschiata in profondità in cui Carusi è riuscito a identificare le parole Bibl. Coll.
Rom. Soc. Jesu. Tuttavia, vent’anni più tardi José Ruysschaert
constatava già che «cum ff. I. 56
recenter a tabulis divulsa essent, vestigia huius inscriptionis paene totaliter evanerunt»
1. Più
sotto è attaccato un piccolo pezzo di carta scritto da una mano del sec. XIX, che recita: Sonetti
spirituali Della Sig.ra Vittoria. / Codex membran, in 4, ms. sarc. Constat / foliis scriptis 55. Ancora
più in basso vi è il timbro «dono di Pio X». Nel margine superiore del recto del secondo foglio
di guardia (anch’esso non numerato) si leggono invece alcune parole scritte da una mano del
XVI secolo: Sonetti spirituali / Della Sig.ra Vittoria. Poco più sotto vi è un pezzetto di carta
incollato con la scritta a stampa (erasa) «ex Bibliotheca privata P. Petri Beckx». Infine, l’intero
margine interno del f. 56r presenta evidenti residui di cera rossa.
I 103 sonetti iniziano al f. 1v e sono trascritti uno per pagina, con una ordinata
calligrafia, da una mano non identificata del XVI secolo. Sono contrassegnati da numeri
romani da I a CIII posti nel margine superiore della pagina, sopra ciascun componimento. Il
libretto termina con un indice approssimativamente alfabetico dei sonetti (ff. 53r-55v), di cui
vengono solo riportate le parole incipitarie seguite dal numero romano corrispondente.
L’impaginazione dell’indice segue quella dei componimenti, e presenta così 14 righe per
pagina. L’elenco si interrompe però al testo Su l’alte eterne (LXIII); mancando ancora 19
sonetti, si può immaginare fossero elencati in un altro foglio (ora mancante), 14 nel recto e 5
nel verso.
La raccolta fu allestita con ordine e attenzione, ma pure con sobrietà: il manoscritto
appare pulito e ordinato, privo di annotazioni o prove di penna, mentre i pochi errori sono
stati il più delle volte raschiati e corretti, così da risultare quasi invisibili. Purtroppo la
copertina originaria, che avrebbe potuto svelare meglio in che modo il codice si presentasse
al suo destinatario, è andata perduta.
Sono sporadici i segni di abbreviazione: una h barrata in ch (= che) a XXXVIII 9 e un
titulus sulla m di vedremo (= vedremmo) a XCII 1, di imortal (= immortal) a LII 7, di imondo (=
immondo) a LVII 8. Rare sono anche le correzioni del copista. Si tratta innanzitutto di alcuni
interventi a penna, forse di altra mano: un trattino sotto la u e una o in interlinea correggono
vulgo in volgo (XXVI 2); un trattino sotto la x e una s in interlinea correggono exposti in esposti
(LVI 8); due linee orizzontali cassano spirto a inizio del verso XXXIII 13 (correzione
interessante, dato che spirto ritorna nell’edizione Valgrisi, dove il sonetto compare a stampa
per la prima volta):
L’amasti in terra, or prega in ciel beato L’amasti in terra, or prega in Ciel, beato
1 RUYSSCHAERT 1959,p.276.
spirto ch’ella ritorni omai pura gentile
ai pensier, ai desiri, a l’opre sante. (XXXIII 12-14)
spirto, ch’io segua la bell’orma umile,
i pensier, i desiri e l’opre sante. (S1:123, 12-14)
Ancora: a LIII 4 si legge: «col virginal velo la sua luce pura»; ma il verso è ipermetro, e la
viene espunto con una sottolineatura. Il verso rimane anomalo per quanto riguarda
l’accentuazione (4
a5
a7
a10
a), a cui si provvede invertendo due termini: un numero 2 sopra
virginal e un 1 sopra velo cambiano l’ordine di dizione, dando origine al definitivo «col velo
virginal sua luce pura». Allo stesso modo, al verso 12 dello stesso sonetto LIII, «sempre bel»
andrà letto come «bel sempre», comparendo un 2 sopra sempre e un 1 sopra bel. Un’ultima
correzione riguarda l’indice: al f. 55v, l’incipit del sonetto LXIX era stato copiato come Se cen
l’armi celesti; la e di cen è stata poi barrata e sostituita da una o in interlinea.
Vi sono poi modifiche su raschiatura: al sonetto I, l’intero v. 3 e le parole Vergata carta
il sacro del v. 7; a XII 12 il Ma, e al v. 13 la prima sillaba di scoverse; a XX 3 l’ultima lettera di
intera; a XXVII 1 le ultime due lettere di Non e al v. 13 le prime cinque lettere di dolcezze; a
XLVIII 12 sembra vi sia una correzione per le parole E per, che risultano scritte in modo più
stretto e con un inchiostro più scuro, ma non è chiaro se vi sia stata una raschiatura; a LVII 9
per le parole sol meraviglia (fino alla g compresa).
I 103 sonetti: scansione cronologica
Come si può vedere dall’Appendice 1, la disposizione dei 103 sonetti pare
approssimativamente seguire la scansione cronologica di edizione e, sembra legittimo
ipotizzare, anche di composizione. Fra i primi 26 testi, infatti, 15 erano già stati pubblicati nel
1538 o 1539, mentre altri 8 sarebbero stati editi a breve, nel 1542 (fra i sonetti già andati in
stampa nel 1538-1539 vi sono poi solo il XXXII e il mariano XCV, accuratamente posto in
coda alla silloge; par. La struttura della raccolta). Il manoscritto vaticano, insomma «comincia
dove finiscono le stampe apparse entro il 1540»
2.
La maggior parte dei componimenti (93) comparve poi– nuovamente o per la prima
volta – nell’edizione di Vincenzo Valgrisi del 1546. Nove dei dieci sonetti mancanti – XXVII
(S2:2), XXXVIII (S2:31), XLV (S2:23), XLVI (S2:30), XLVII (S2:3), LV (S2:34), LVI (S2:19) –
sarebbero venuti alla luce solo nel 1900, quando Domenico Tordi scoprì un manoscritto
risalente al 1540 che li conteneva: il cod. Ashb. 1153 della Biblioteca Medicea Laurenziana
(sigla L; par. Le sillogi per Margherita di Navarra)
3. Il solo sonetto XXXIX (S2:12), conservato
unicamente dal Vat. lat. 11539, rimase inedito fino al 1938, quando Carusi si accorse della sua
importanza e lo identificò con quello che la Colonna donò a Michelangelo
4. Nella raccolta
vaticana, questi dieci testi paiono raggruppati in brevi serie (ad esclusione del XXVII, che
rimane isolato), che sono forse indizio dell’unità di ispirazione e della simultaneità della
stesura: XXVIII-XXXIX, XLV-XLVI, LV-LVI.
Una raccolta di rime per Michelangelo
Fu Carusi a proporre per primo l’identificazione del ms. Vat. lat. 11539 con un librecto
di rime di cui parla Michelangelo in una lettera inviata al nipote Leonardo il 7 marzo 1551:
2 DIONISOTTI 1981, p. 282.
3 TORDI 1900a; cfr. BULLOCK 1982, pp. 473, 484 e 499. Di queste nove rime, solo VIII (S2:32) e IX (S2:22) circolarono in altri manoscritti e stampe.
Messer Giovan Francesco mi richiese circa un mese fa di qualche cosa di quelle della marchesa di Pescara, se io n’avevo. Io ò un Librecto in carta pecora, che la mi donò circa dieci anni sono, nel quale è cento tre sonecti, senza quegli che mi mandò poi da Viterbo in carta bambagina, che son quaranta, i quali feci legare nel medesimo Librecto e in quel tempo gli prestai a molte persone, in modo che per tucto ci sono in istampa. Ò poi molte lectere che la mi scrivea da Orvieto e da Viterbo. Echo ciò ch’io ò della Marchesa5.
L’intuizione di Carusi si appoggiava su tre elementi: il manoscritto vaticano è un librecto di
pergamena («carta pecora»); contiene esattamente 103 sonetti; in fondo presenta tracce di
cera, che «doveva servire per tenere attaccata qualche cosa di più che un foglio»
6: l’ipotesi è
che fosse stata utilizzata dallo stesso Michelangelo per «legare nel medesimo Librecto» il
fascicolo di 40 sonetti ricevuto più tardi. L’identificazione, dunque, pare certa.
Michelangelo dovette essere cosciente dell’eccezionalità di tale dono, l’unico che per
certo Vittoria allestì personalmente (par. Il mito delle tre raccolte). Infatti, al nipote Leonardo,
che gli aveva chiesto dei sonetti della Colonna per conto di Fattucci, Michelangelo
rispondeva il 20 dicembre 1550:
Ebbi ieri una lecte[ra] da messer Giovan Francesco che mi domanda se io ò cosa nessuna della marchesa di Pescara; vorrei che tu gli dicessi che io cercherò e risponderogli sabato che viene benché io non credo aver niente, perché quando stecti amalato fuor di casa, mi fu tolto di molte cose7.
È difficile credere che Michelangelo non ricordasse di possedere un intero libro di poesia
della Colonna, lo stesso libro che solo tre mesi dopo si rifiutava di inviare a Fattucci. A
quest’ultimo il Buonarroti il 1° agosto 1550 aveva per altro già parlato della Marchesa,
inviandogli sul retro di una lettera il sonetto Se ben concetto ha la divina parte (Rime, 236) e il
madrigale Un uomo in una donna, anzi uno dio (Rime, 235) composti proprio per la Marchesa:
M(esser) Giovan Francesco amico caro, […] per non esere troppo breve nello iscrivervi, non avendo da scrivere altro, vi mando qualche una delle mie novelle che io iscrivevo alla marchesa di Pescara, la quale mi voleva grandisimo bene, e io non manco a llei. Morte mi tolse un grande amico8.
La conferma della ritrosia di Michelangelo a inviare il codice a Fattucci è contenuta in
un’altra lettera a Leonardo dell’8 maggio 1551: «Circa i’ Librecto de’ sonecti della Marchesa,
io non lo mando, perché lo farò copiare prima e poi lo manderò»
9. L’accuratezza che
caratterizza il manoscritto Vat. lat. 11539 permette di escludere che possa trattarsi di questa o
di un’altra copia.
La storia del manoscritto
La storia del manoscritto è per una buona parte ricostruibile grazie alle note di
possesso. Le parole Bibl. Coll. Rom. Soc. Jesu indicano che il libro appartenne alla Biblioteca
del Collegio Romano della Compagnia di Gesù, la cui sede era stata dal 1584 (quando papa
Gregorio XIII la inaugurò) al 1873 nell’attuale Piazza del Collegio Romano. Quando nel 1873
il neonato Stato italiano emanò la legge di soppressione delle Corporazioni religiose, la
biblioteca del Collegio Romano venne confiscata. A padre Pierre-Jean Beckx (1795-1887),
5 BUONARROTI 1965-1983, vol. IV, MCLX, pp. 361-362. 6 CARUSI 1938, p. 241; RUYSSCHAERT 1959,p.276. 7 BUONARROTI 1965-1983, vol. IV, MCLVII, pp. 357. 8 BUONARROTI 1965-1983, vol. IV, MCXLVII, pp. 344-345. 9 BUONARROTI 1965-1983, vol. IV, MCLXI, p. 363..
Preposito Generale della Compagnia, fu però concesso di conservare la propria biblioteca
privata per un totale circa di 4000 voci. Qui confluirono – anche per salvarli dalla confisca –
alcuni fra i volumi più pregiati del Collegio. Fra questi vi fu il Vat. lat. 11539, come dimostra
il pezzetto di carta con la scritta a stampa ancora parzialmente visibile «ex Bibliotheca
privata P. Petri Beckx», identica a quella presente sugli altri volumi della collezione. Nel 1911
tornò alla luce una parte della collezione Beckx, probabilmente nella Villa Mondragone di
Frascati (dal 1865 sede di un collegio gesuita)
10. Di qui, il manoscritto giunse alla Biblioteca
Apostolica Vaticana nel 1912 come «dono di Pio X», che lo aveva acquistato dai gesuiti
insieme ai codici Vaticani Latini 11414-11709, al Vaticano latino 13497, ai Vaticani Graeci
2341-2390 e al Vaticano Turco 80
11.
Ruysschaert ha osservato che la prima parte dei Vaticani Latini acquistati da Pio X e
provenienti dal Collegio Romano erano appartenuti all’umanista francese MarcAntoine
Muret (1526-1585)
12. Muret giunse in Italia nel 1554; nel 1563 divenne professore alla
Sapienza e nel 1576 prese gli ordini ecclesiastici. Nel 1578 il re di Polonia gli offrì un incarico
di insegnamento, ma papa Gregorio XIII (lo stesso che fece costruire il Collegio Romano) lo
convinse a restare a Roma. Qui morì nel 1585, lasciando in eredità la propria biblioteca
all’omonimo nipote, il quale, a sua volta morendo l’anno successivo, la donò al Collegio
Romano
13. Molti dei volumi compresi nella collezione Muret portano la scritta «ex
bibliotheca Mureti»
14. Benché che il Vat. lat. 11539 non presenti tale nota di possesso,
Ruysschaert ha ipotizzato che fosse ugualmente appartenuto a Muret: «In f. Iv, schedula
recensionis, legi poterat: Coll(egi) Rom(ani) Soc(ietatis) Iesu, eadem manu quae annotationem
similem in codicibus qui Mureti fuerunt, apposuit (cf. e.g. Vat. lat. 11536, f. 1)»
15.
Purtroppo, il Vat. lat. 11539 non compare infatti nel catalogo della Bibliotheca Mureti
contenuto nel codice Vat. lat. 11562 e non è dunque possibile stabilire se effettivamente fosse
appartenuto a Muret
16. Permane così la domanda su come il codice sia arrivato in mano ai
gesuiti, che potrebbero comunque esserne venuti in possesso già a fine XVI secolo. Nel 1581
il compositore fiammingo Philippe de Monte (1521-1603) pubblicò Il primo libro dei madrigali
spirituali a cinque voci, in cui metteva in musica otto sonetti di Vittoria Colonna (LXXXII, LII,
XCVII, LXXXIII, XXXI, LXII, L, LXXXI). Nella dedica al gesuita Claudio Acquaviva, appena
eletto Preposito Generale dell’Ordine, scriveva che «i madrigali mi furon mandati dal
P[adre] Lorenzo Cottemanno della vostra Compagnia, molto a me amorevole, e altre volte
mio discepolo»
17. La dedicatoria non specifica che il gesuita Cottemanno avesse fornito tutti i
madrigali musicati nel libro; eppure, le informazioni contenute in queste poche righe
risultano ulteriormente interessanti se si considera che «the texts that Laurentius Coteman
sent to Monte very closely follow the versions of Colonna’s manuscript for Michelangelo […]
rather than the ‘definitive’ versions published a year before Colonna’s death as Le rime
spirituali (Venice, Valgrisi 1546)»
18. Il confronto fra i testi usati da De Monte, il manoscritto
vaticano e l’edizione del 1546 è sorprendente: la lezione delle rime consegnate al compositore
coincide con quella della raccolta donata a Michelangelo in tutti i numerosi casi in cui questa
10 Cfr. ZANDBERGEN 2004-2015. 11 RUYSSCHAERT 1959,p.VII. 12 RUYSSCHAERT 1959,p.VIII. 13 RENZI 1993, p. 288.
14 Il ms Vat. Lat. 11562 conserva il «catalugus collectionis librorum typis impressorum in Collegio Romano olim asservatae et “Bibliotheca Mureti” noncupatae» (RUYSSCHAERT 1959,p.308), compilato da un bibliotecario di fine
XVI secolo e edito da RENZI 1993. Tuttavia, «clare apparet nome “bibliotheca Mureti” in Collegio Romano
adhibitum non designasse libros typis impressos olim Mureti, sed bibliothecam specialem eiusdem Collegii, quae instituta est occasione donationis Marci Antonii Mureti iunioris» (p. 308).
15 RUYSSCHAERT 1959,p.276. 16 RENZI 1993.
17 NUTEN 1958; cfr. PIÉJUS 2016. 18 FILIPPI 2011, p. 219.
diverge dalla Valgrisi
19, benché tutti e otto i sonetti fossero disponibili tanto nella stessa
Valgrisi (nella quale erano stati tutti editi per la prima volta) quanto nelle ristampe. A ciò si
aggiungono altre due considerazioni: la prima, che «Michelangelo’s manuscript is in fact the
only one that contains the eight sonnets published by Monte in 1581»
20; la seconda, che fra gli
otto testi ve se sono tre che nella raccolta vaticana costituiscono una serie compatta
(LXXXI-LXXXIII) e che di per sé avrebbero poco in comune (il primo è dedicato alla musica
paradisiaca, il secondo alla Vergine, il terzo a santa Caterina d’Alessandria).
In che modo Lorenzo Cottemanno giunse in possesso di una copia della raccolta
vaticana (o di una parte di essa)? L’originale era gelosamente custodito da Michelangelo, che
accampava scuse per non prestarlo ad alcuno. Eppure lo stesso Michelangelo ammetteva che
«gli prestai a molte persone, in modo che per tucto ci sono in istampa»
21. Si può escludere
che i sonetti contenuti nel Vat. lat. 11539 siano andati in stampa, da una parte perché ben
dieci sonetti rimasero inediti fino al XXI secolo, dall’altra perché le edizioni presentano testi
con lezioni spesso molto divergenti. Non si può però escludere che effettivamente
Michelangelo avesse prestato il librecto, oppure che gli fosse stato sottratto durante la sua
malattia, e che potesse quindi essere stato copiato. Né si può escludere, infine, che la
diffusione in ambito gesuitico avesse luogo dopo la morte dell’artista, che avvenne proprio a
Roma nel 1565.
Dall’altra parte, quella della Colonna, gli stretti rapporti che ella mantenne con
l’Ordine gesuita fino agli ultimi tempi della sua vita consentono di accennare l’ipotesi che
fosse stata lei stessa a distribuire un certo numero di rime spirituali a un gesuita (ad personam,
come usava fare), a Viterbo o a Roma.
La datazione
Per quanto riguarda la datazione del manoscritto, il primo elemento da tenere in
considerazione è la già citata lettera di Michelangelo al nipote Leonardo del 7 marzo 1551. Da
qui si apprende che la raccolta pervenne nelle mani dell’artista circa dieci anni prima del
marzo 1551, e prima che la Colonna si trasferisse a Viterbo (nel settembre 1541), poiché da lì
giunsero poi altri 40 sonetti. Dunque la Marchesa li inviò da Roma (in cui abitò certamente
dall’ottobre 1538 all’agosto 1540), da Orvieto (dove soggiornò tra il marzo e il giugno del
1541) o da Bagnoregio (luglio-agosto 1541).
L’unico elemento interno realmente significativo è contenuto nel sonetto XCIX, in
cui Margaret Pole, che morì il 27 maggio 1541, è presentata come ancora viva («vive prigion»,
v. 2). Questa data può quindi costituire un terminus ante quem per l’allestimento della
raccolta. Il novembre del 1538, quando la madre del cardinale venne imprigionata,
rappresenta invece il terminus post quem della composizione del sonetto.
19 Si porta la lezione del ms. vaticano, coincidente con quella usata da De Monte, seguita da quella dell’edizione Valgrisi, limitandosi alle varianti sostanziali e tralasciando differenze minime (come sei / se’) e oscillazioni grafiche: LII 11 e vinti] o vinti; 14 d’un foco ripurgati] d’un sol ardor purgati; XCVII 5 Simil] tal io; 6 io come] come; 7
fermo] levo; 9 la barca] il vento; 10 vuol tentar] ritenta; 12 la lego prima] lego il mio legno; 14 ritrarla] ritrarmi; LXXXIII 1 Su l’alte eterne rote] Ne l’alta eterna rota; 5 spezzò il ferro] Aprio il ferro; 7 fin contra i disdegni V2] fin per me’, li sdegni
(DE MONTE: fine contra i sdegni); 8 in quei fieri] in sì fieri; 9 sul divin] nel divin; 10 regge i beati] pasce gli eletti; 11 su
l’altro] ne l’altro; 12 buon zelo] gran zelo; 13 tanti ne indusse] tant’alme trasse; 14 prega ch’io l’abbia viva or che sei in] prega per me il Signor, poiché se’ in; XXXI 11 attenta] intenta; 12 nel primo] nel sommo; 13 mal l’ampia misura] mai tuono o misura; LXII 3 l’odore] il Su’ odore; 4 ognior più vivo ardente] ognor vivo ed ardente; 9 rinforza] raddoppia; 13 l’ardito suo guerrier] l’animoso guerrier; L 9 voi senza fede deste] Tolti dal latte, deste; 10 per parola] per parole; LXXXI 4 che certa] che vera; 9 Amore] Amor.
20 PIÉJUS 2016. I sonetti LXXXII, XCVII, LXXXIII e LXII non compaiono nessun ms; LII e L si trovano nel ms L; XXXI e LXXXI nel ms Ra.
Un secondo e più debole indizio proviene dal sonetto XCVIII rivolto a Pietro Bembo.
Ai vv. 12-13 la Colonna gli rivolge queste parole: «Bembo mio chiaro, or ch’è venuto il giorno
/ ch’avete solo a Dio rivolto il core». Se si interpreta correttamente, la Marchesa si riferisce al
cardinalato, conferito ufficialmente a Bembo il 19 marzo 1539. Il sonetto potrebbe essere stato
composto per quella occasione (or che…).
Un ultimo elemento, ancora più indeterminato nel tempo, è presente nel sonetto
LXIII, in cui la poetessa afferma che «si rinverde la gioiosa speme» di andare in
pellegrinaggio a Gerusalemme. Si sa che il breve papale che le concesse l’autorizzazione a
compiere il viaggio è del 13 marzo 1537 e che il 6 dicembre 1538 la Colonna scriveva che
questo suo intento era durato due d’anni prima di svanire (par. I pellegrinaggi).
Riassumendo, la cronologia ricordata da Michelangelo (dieci anni sono, dal marzo
1551) coincide con quella del sonetto XCIX (prima della morte di Margaret Pole nel maggio
1541). Di certo la raccolta è stata allestita dopo il novembre del 1538, quando Lady Salisbury
venne imprigionata, e forse dopo il marzo 1539, quando Bembo venne fatto cardinale.
La presente edizione
Nel 1982 usciva per Laterza, a cura di Alan Bullock, il volume delle Rime di Vittoria
Colonna, i cui limiti sono stati più volte sottolineati dalla critica
22. Le perplessità riguardano
soprattutto l’arbitraria suddivisione fra rime amorose (A1 e A2), spirituali (S1 e S2) ed
epistolari (E), e l’autorevolezza dei testimoni su cui si è basata l’edizione di A1 (ms F
I) e S1
(l’edizione Valgrisi del 1546). Tuttavia, le critiche non hanno condotto a un’effettiva revisione
filologica del corpus, così che, dopo Bullock, nessuno ha osato assumersi la responsabilità di
una revisione integrale.
Nel 2005 Abigail Brundin pubblicò un’edizione – non sempre impeccabile
23– del
codice Vat. lat. 11539, affiancata da una traduzione inglese e seguita da alcune note di
commento. Alla Brundin va il merito di aver risposto a ciò che più di uno studioso aveva
augurato: «Urge […] ricostruire l’unità del manufatto»
24.
Nella presente edizione sono stati corretti i sei soli errori del copista, che scrive due
volte la u di un a XXXVIII 8 (la prima maiuscola di inizio verso, V, e la seconda minuscola, u);
gicondo per giocondo a LVII 1; poteo (come terza persona)
in luogo di potea a LXXII 13; giungesi
per il congiuntivo giungessi a XCIV 11
25; togle in luogo in togli a C 10. Inoltre, a XVI 1, nel
manoscritto si legge «D’altro che diamante o duro smalto»; il verso è ipometro e il senso
necessita della preposizione di prima di diamante, come infatti recita l’indice: «D’altro che di
diamante» (f. 53v)
26. La caduta della preposizione si spiega facilmente nella sequenza «di
diamante». Si segnala infine la presenza di un verso ipermetro («e di fede, onde i pensier, la
mente e ’l core», XXIX 3), che tornerebbe regolare solo ipotizzando un’anasinalefe
27.
Il manoscritto non è autografo, e non è dunque possibile stabilire quanto dei
fenomeni grafici sia da attribuire al copista e quanto alla poetessa. Si è scelto dunque senza
remore di normalizzare gli usi grafici secondo l’uso moderno, operando le scelte seguenti:
22 Cfr. almeno ROMEI 1983; RABITTI 1984; e soprattutto TOSCANO 1988,pp. 22-51.
23 BRUNDIN 2005, che trascrive per esempio l’Angel in luogo di l’agnel (II 12); Spirto, ch’ella per ch’ella (XXXIII 13);
virginal velo la sua per velo virginal sua (LIII 4); bel sempre per sempre bel (LIII 12).
24 BARDAZZI 2004, p. 84.
25 Nel manoscritto non vi sono altri casi di s scempia in luogo di geminata. 26 Peraltro, il coevo manoscritto L presenta proprio la lezione «de diamante».
27 O «sinalefe interversale regressiva», come la definisce MENICHETTI 1993, pp. 162-165. Nella stampa Valgrisi il testo subirà notevoli mutamenti e il verso sarà interamente riscritto.
- è stata eliminata la h etimologica o pseudoetimologica nelle voci alhora, anchor, Christo,
harmonia, hemispero, heredità, Herode, historia, hebreo, hoggi, homai, honore, hora, horrore, hoste,
humano, humore, talhora, thesoro, Thomaso, e nelle voci non omografe del verbo havere; mentre è
stata introdotta nelle forme del verbo avere che la richiedono nell’ortografia moderna (ho, ha,
hanno), nelle interiezioni (oh) o nel che eliso e seguito da apostrofo (per esempio: da c’hor del
manoscritto a ch’or); la grafia dhe, infine, è stata normalizzata nella più diffusa deh;
- è stata eliminata la t di et (resa eufonicamente con ed prima di una vocale in caso di necessità
metriche, cosa che non accade, per esempio, a XLV 8; a LXV 11, invece, neanche il copista
scrive la t, che impedirebbe la sinalefe; così a XCIII 2);
- sono stati eliminati i latinismi grafici e uniformati i casi di oscillazione grafica,
normalizzandoli all’uso moderno, in admirar, delitie, essempio/exempio, exangue, excede, excelso,
exilio, experti, exposti
28, expresso, gielo, Giesu/Iesu, gratia, leggero/leggiero, malitia, pacienza, satio,
silentio, triompho;
- è stata conservata la lezione del codice quando presenti la consonante scempia in luogo di
geminata (come in aghiaccio, alora, aversario, avezza, converà, imagine, obedienza, obligarsi, oblighi,
rinovare, sucessor, Thomaso, Zacheo); allo stesso modo, sono state mantenute le alternanze
fonetiche e morfologiche, frequenti nei testi del XVI secolo come già in Petrarca (ali/ale;
eguale/equale;
fuore/fore;
inseme/insieme;
lasciare/lassare;
nemico/nimico;
nutrire/nudrire/nodrire; pensero/pensiero; pietade/pietate; sentero/sentiero; secreto/segreto;
umiltate/umiltade), le alternanze nelle desinenze derivanti dal latino –entia (potenzia e
innocenzia di contro a pazienza e obedienza), la grafia analitica di né meno, a pena, e pur, ogni or
29,
o pur, o ver, là su, sopra naturale, in vano, undici mila, mezzo giorno; le preposizioni sono state
invece normalizzate nella forma sintetica (coi da co i, ai da a i, nei da ne i, ecc.), salvo nei casi
in cui l’operazione avrebbe implicato il raddoppiamento della consonante (come ne la);
- le maiuscole di inizio verso non sono state conservate, mentre quelle interne al verso sono
state mantenute anche se non sempre coerenti (madre/Madre; buon Pastore/buon pastore;
Paradiso/paradiso). Le sole eccezioni sono Padre, Signore, Figlio e Spirito se riferiti alla divinità
– trascritti sempre maiuscoli, secondo l’attuale uso biblico – e il nome proprio Rosso Mar
(XXXVI 6);
- sono stati normalizzati i segni diacritici (apostrofi, accenti, dieresi) e la punteggiatura. In
particolare, è stato introdotto l’accento circonflesso per le forme della terza persona plurale
del perfetto (fêr per fecero, insuperbîr per insuperbirono, fûr per furono) e per raccôr (forma
sincopata dell’infinito raccogliere). Sono stati introdotti accenti per disambiguare màrtiri da
martìri, sole (aggettivo o sostantivo) e sòle (per suole), pòi (per puoi) da poi avverbio, vèr (verso)
da ver (vero), fòra (futuro del verbo essere, per sarà) e per agevolare la lettura nei perfetti con
epitesi nudrìo e scolpìo; il che polivalente è stato conservato nella sua veste originaria priva di
accento.
Varianti
La scelta di prendere come testo base un solo manoscritto – di assumere, cioè, la
prospettiva bédieriana del testimone unico autorevole – rende le numerose varianti una
testimonianza storica, talvolta utile a una puntuale comprensione dei versi, ma ultimamente
estranea al testo. Il manoscritto vaticano costituisce infatti una raccolta in sé compiuta (con
un inizio, una fine e una precisa fisionomia: par. La struttura della raccolta), ha un destinatario
identificato, si può datare con precisione, ed è l’unico progetto di organizzazione dei testi
28 In questo caso è addirittura il copista a correggersi: la x è sottolineata e sostituita in interlinea con una s (LVI 8). 29 La forma sintetica ognihora (e ognihor) è stata trascritta come ognora (e ognor): XX 10, LXI 14, LXII 4, LXVII 3, XCVII 14.
operato direttamente dalla Colonna a noi pervenuto. Come criterio momentaneo di lavoro, in
calce al commento di ciascun sonetto si riportano quindi unicamente le varianti che il Vat.
lat. 11539 presenta rispetto all’edizione Valgrisi, che costituì e costituisce (in virtù
dell’edizione Bullock) la vulgata delle rime spirituali. Si rinuncia a una collazione con tutti i
numerosi testimoni esistenti, di cui ad locum si fornisce comunque l’elenco (fino alla Valgrisi
compresa).
A partire dal sonetto LXXX le divergenze con l’edizione del 1546 «si assottigliano fino
a perdersi; e comunque esse sono più numerose nella prima che non nella seconda metà
della raccolta»
30. Il fatto sembra spiegabile con la vicinanza cronologica che intercorse tra la
composizione delle ultime rime del manoscritto vaticano e la stampa Valgrsi (par. I 103
sonetti). Di queste varianti si discutono di seguito alcuni casi significativi, lasciando poi al
commento il compito di un’eventuale integrazione.
Il carattere dialogico della raccolta vaticana emerge sin dal componimento proemiale:
al v. 8, in luogo delle parole scriva per me quel ch’Ei sostenne (Valgrisi) e di scriva nel cuor (L,
Pa1, R; Rime 1538, Rime 1543) si trova scriva ad altrui, lezione che appartiene dunque
unicamente alla raccolta compilata per Michelangelo, e che nella presenza di un destinatario
trova la sua ragion d’essere.
A II 12 la lezione agnel di Dio si presenta in alternativa a l’Angel di Dio della Valgrisi.
Non mi pare sia da discutere l’eventualità che la seconda lezione possa essere considerata
corretta
31. Si tratta senza dubbio di un banale errore di copiatura, soprattutto considerando
che l’espressione è riferita inequivocabilmente a Gesù, di cui nel verso successivo si dice che
«se stesso in cibo per noi dispensa». Tale dimensione del dono di sé per la salvezza
dell’umanità nella Bibbia è sintetizzata proprio nell’immagine dell’agnello sacrificale,
l’Agnus Dei di Gv 1,29 e Gv 1,36 (senza contare Ger 11,19, At 8,32 o le numerose occorrenze
dell’Apocalisse).
Alcune varianti mirano a una semplificazione, spesso con l’eliminazione di
espressioni metaforiche: a XIV 10-11 gli apparecchiassi una candida fede / per mensa diventa
semplicemente gli appresentassi; a LXXXIV 6 si vede navigar > vaneggiar e al v. 8 erge e tien
saldo al porto il suo intelletto > purga ed empie ogni mortal difetto; a LXXXVII 9-10 scompare la
similitudine: onde qual Progne i figli entro i suoi nidi, / tal ei col sangue > onde or per cari figli
entro i Suoi nidi / col dolce sangue. Anche il velo / posto a nostri occhi di LXVIII 3-4 perde la sua
valenza metaforica facendosi letterale e più aderente alla Scritture, coerentemente alla
circostanza in cui è ricordato («il limbo i sassi, i monumenti, il velo»): ’l velo / del tempo antico.
A XXVI 10-11, l’edizione Valgrisi perde l’accento personale: ma da lunge il sole / che
vicin l’infiammava il cor mi scalda si trasforma in e ’l gran sol il suo gran foco / ch’ogni animo
gentil anco riscalda; un generico ogni animo gentil prende infatti il posto del cor della poetessa
(a cui allude il pronome mi), oltre a rinunciare alla polarità lunge-vicin. In qualche modo
analogo è il mutamento di prospettiva che si osserva nel sonetto XLII, dove il dialogo a tu
per tu con la Madonna si muta in una narrazione in terza persona: al v. 1 tuo > suo; al v. 6
t’accendeva > s’accendeva; al v. 8 sentisti > le aprio; al v. 12 partoristi > partorio; al v. 13 tua > sua;
al v. 14 avesti > ebbe.
A XIV 14 si fa dichiarare a Gesù: oggi t’ha fatto salva il mio valore, espressione che
poteva apparire un’allusione alla giustificazione per fede nella sola grazia di Cristo (il mio
valore); così, forse per eliminare ogni luogo potenzialmente soggetto ad ambiguità dottrinale,
nella Valgrisi l’endecasillabo diventa serberà il Ciel al tuo verace amore. Ancora, a XXV 112-13,
il petto (cioè il cuore della poetessa) è detto sicuro già della gioiosa speme del paradiso; nel verso
30 SCARPATI 2005, p. 142.
31 Sono di questo parere anche TOSCANO 1998, p. 46 e BARDAZZI 2004, p. 84. Fino al Concilio di Nicea, in realtà,
angelo fu uno dei nomi con cui designare il Figlio di Dio. In ogni modo, mi sembra da escludere la possibilità che
si sarebbe potuto vedere un rimando alla dottrina della predestinazione, e così la Valgrisi lo
muta: e lo riempie di verace speme. Anche la revisione di LXXVIII 6-8 può essere stata
determinata dalla medesima preoccupazione: affermare che Entra del bel misterio in mortal
petto / quel grande o picciol raggio che concede / da sopra natural divina fede, / dono solo di Dio puro e
perfetto poteva implicare ancora una volta la predestinazione divina (quel… che concede). Ne
consegue una riscrittura profonda della quartina: ma se del bel misterio in mortal petto / entra
quel vivo raggio, che procede / da sopra natural divina fede / immantinente il tutto avrà concetto.
Scompare dunque ogni termine passibile di ambiguità: il raggio non presenta più differenze
(grande o picciol) ed è solo vivo; il verbo concede, che implicava un diverso operare di Dio, è
sostituito da procede; il verso finale viene mutato radicalmente, eliminando ogni riferimento
alla fede come dono sol di Dio, perché se tutto dipendesse dalla Grazia sarebbe inutile che
l’uomo si adoperasse per ottenere la salvezza. Analogamente, in LXXIX 7-8 ho pur per grazia
fermo il core / non mai drizzar la vela ad altro porto il sintagma per grazia potrebbe essere
scomparso (> è pur omai fermato il core) per il medesimo motivo: se fosse soltanto la Grazia a
permettere che il cuore dell’uomo non muti più direzione nel suo cammino verso il Cielo,
allora la salvezza dipenderebbe unicamente dalla predestinazione.
Sempre il clima controriformistico dovette sovrintendere al mutamento di XXX 1,
dove un mitologico Apra ’l sen Giove (cioè Dio), contro cui si era scagliato l’Erasmo del
Ciceronianus già qualche decennio prima
32, è sostituito da un più appropriato Aprasi il ciel.
Infine, per smorzare la forse eccessiva sensualità dell’immagine, a LI 2 il seno della Madonna
diviene il latte.
Di segno contrario, a XX 3-4 chiusa intera / vuol la nostra virtù seco per fede diventa Seco
intera / vuol la nostra virtù solo per fede: nella revisione, il seco viene quindi trasferito al v. 3, e
sostituito con quel solo che ha fatto di questo sonetto il maggior teste dell’adesione della
Colonna alla giustificazione sola fide. Di fronte all’esplicito (e poco ortodosso) messaggio
espresso dalla Valgrisi, l’autorevolezza del codice vaticano resta garante dell’autenticità della
lezione.
Nota metrica
Nelle quartine, i 103 sonetti presentano sempre lo schema ABBA ABBA. Nelle terzine,
invece, la situazione è più variegata: lo schema CDE CDE compare 32 volte (31,06%); CDE
DCE 21 (20,38%); CDE CED 21 (20,38%); CDC DCD 14 (13,59%); CDE DEC 10 (9,70%); CDE
ECD 4 (3,88%). Nel penultimo sonetto (CII), infine, la rima C risulta irrelata: una deviazione
più che significativa dalla consuetudine metrica del sonetto, dunque, che si conserva peraltro
invariata nella stampa Valgrisi e quindi nell’edizione Bullock
33.
32 ERASMO DA ROTTERDAM 1965, pp. 129-133.
33 La revisione per la stampa Valgrisi del sonetto X (S1:55) presenta anch’essa una rima irrelata nelle terzine, che leggono: «Lontan da sé l’imagin falsa sgombri, / e, mentre può, s’adorni de la vera / chiunque al vero onor l’anima invia, / e del divino amor tanto s’ingombri / che si purghi e rinovi, onde l’altera / luce non scorga in lui più cosa vile».
INTRODUZIONE
Parte I
C
APITOLO1
D
ALLE RIME AMOROSE ALLE RIME SPIRITUALI
Quasi nulla si conosce della produzione poetica di Vittoria Colonna prima della morte
di Ferrante d’Avalos, avvenuta nel 1525
1. Di certo, però, la sua fama di poetessa si diffuse poi
rapidamente: già nel 1532 Ariosto ne cantava le lodi nell’ultima edizione del Furioso, mentre
nel 1535 un suo sonetto veniva incluso nella seconda edizione delle Rime di Bembo. Tuttavia,
la Marchesa dovette presto accorgersi della natura effimera degli onori mondani garantiti dalla
fama letteraria, come testimoniano le rime che Bernardo Tasso le indirizzava, delineandone il
percorso esistenziale
2: in un primo tempo la Colonna si era appagata della fama eccezionale di
cui godeva, mentre in seguito sembrava aver abbandonato la scrittura poetica poiché un
«nuovo desire» (50, 13) aveva conquistato il suo spirito. Ella aveva ormai volto il pensiero
«ov’è tranquillo eterno giorno» (58, 3), non curandosi del fatto che «si squarcia Poesia le
chiome ’l seno» (58, 9), e, soprattutto, essendosi ormai convinta di come l’attività poetica
precedente fosse un «mortale onore» (61, 4):
[Vittoria Colonna] a se stessa dice: “Non son io terra vil, che fra poche ore sarà pressa da’ piè?” […]
Poi sgombrando dal cor tutt’altre voglie, accesa d’un celeste e bel desio
alza la mente a più lodato segno, e gli occhi del pensier fermando in Dio senza chiuderli mai, piacer ne coglie
tanto, ch’ogn’altro a lato a quello è un sdegno. (62, 94-110)
Alla testimonianza di Bernardo Tasso va forse collegato il desiderio di fama che aveva acceso
l’animo della poetessa per sua stessa ammissione; ciò avviene proprio nel sonetto in cui ella
dichiara i nuovi presupposti del proprio poetare, non a caso posto in apertura della raccolta
vaticana:
Poi che ’l mio casto amor gran tempo tenne l’alma di fama accesa, ed ella un angue in sen nudrìo, per cui dolente or langue volta al Signor, onde ’l rimedio venne… (I 1-4)
Al riguardo, nell’edizione del 1538, lo stesso sonetto presentava una lezione ancora più
esplicita: «Il cieco honor del mondo un tempo tenne…» (v. 1). Il fatto interessante è che le rime
di Bernardo Tasso sono anteriori al 1534, anno in cui andava in stampa il suo Libro secondo de
gli Amori. «La testimonianza di Bernardo», scrive Giovanni Ferroni, è quindi «fra le primissime
di tipo poetico che, dall’interno della cerchia, relativamente ristretta, d’intellettuali con cui la
marchesa era in contatto, ne attestino la conversione e, soprattutto, che ne esplicitino gli effetti
in ambito letterario». In particolare, «il Tasso offre la rappresentazione di una fase di impasse,
di una sospensione della scrittura a causa della scoperta del rapporto col divino come
dimensione totalizzante dell’esistenza. Se ebbe effettivamente luogo, si trattò di una fase non
lunga poiché la raccolta lirica testimoniata dal ms. Vaticano Chigi L IV 79 (V3), datata
all’ottobre del 1536, conserva già alcuni sonetti spirituali»
3, vale a dire S1:24, S1:99, S1:88, S2:25,
1 L’unico componimento sopravvissuta è l’epistola per la rotta di Ravenna (1512): A2:1. 2 Si tratta dei testi 37, 49-53, 59-63 del Libro secondo degli Amori, Venezia 1534.
S1:86, S1:139, XXX (S1:23). Questo manoscritto – scoperto da C
ARBONI2002 – segue di
pochissimo la famosa lettera di Carlo Gualteruzzi a Cosimo Gheri del 12 giugno 1536, nella
quale si legge che «la Signora Marchesa di Peschara ha rivolto il suo stile a Dio et non scrive
d’altra materia». Un anno più tardi, il 4 novembre 1537, Pietro Aretino scrivendo alla Colonna
confermava: «Havete cambiato lettione, e trasformato i libri poetici ne i volumi prophetici,
studiate Christo, Paolo, Agostino, Girolamo e l’altre squille de la religione»
4. Di tale
abbandono netto delle rime amorose in favore di quelle spirituali dà testimonianza – come si
è detto – il sonetto I. Il nuovo dato che le rime di Tasso aggiungono alla biografia della Colonna
è che il passaggio avvenne dopo un momento di sospensione della scrittura, dovuto al
disprezzo per la gloria terrena e a un rinnovato interesse religioso. I due aspetti non sono
evidentemente slegati: l’attrattiva suscitata dai beni eterni comportava quasi
obbligatoriamente il venir meno di ogni fascino per i successi mondani.
Non dovette passare molto tempo perché la Marchesa trovasse il modo di far convivere
le proprie aspirazioni, quella poetica e quella spirituale, ponendo i propri versi al servizio di
Dio. In ogni modo, il passaggio dalle rime amorose a quelle spirituali risulta piuttosto fluido,
sia dal punto di vista tematico che da quello formale, tanto che a volte non è possibile
etichettare i sonetti in un senso o nell’altro
5. Il punto di avvio è il processo di idealizzazione
del marito defunto, presente in tutto il corpus amoroso. Qualche esempio dai primissimi sonetti
dell’edizione Bullock:
Alma felice, se ’l valor ch’excede nel mondo ogn’altro ancor nel Ciel sublima, come in le nobil menti sei la prima
esser de’ tua la più pregiata sede. (A1:4, 1-4) A le vittorie tue, mio lume eterno, non gli die’ ’l tempo e la stagion favore; la spada, la virtù, l’invitto core
fur i ministri tuoi la state e ’l verno. Prudente antiveder, divin governo vinser le forze averse in sì brev’ore
che ’l modo a l’alte imprese accrebbe onore non men che l’opre al bel animo interno. Viva gente, real animi alteri,
larghi fiumi, erti monti, alme cittadi da l’ardir tuo fur debellate e vinte. Salisti al mondo i più pregiati gradi; or godi in Ciel d’altri trionfi veri,
d’altre frondi le tempie ornate e cinte. (A1:6)
L’idealizzato Ferrante diventa ben presto una guida verso il Cielo e un tramite fra l’amore
terreno e l’amore spirituale:
S’erge il pensier col sol, ond’io ritorno al mio, che ’l Ciel di maggior luce onora; e da questo alto par che ad or ad ora richiami l’alma al suo dolce soggiorno.
Per l’exempio d’Elia non con l’ardente celeste carro ma col proprio aurato
4 Carteggio, LXXXVII p. 149.
5 Tale fluidità emerge anche dalla dinamica editoriale: è significativo che la prima edizione di rime colonnesi (1538) presenti solo 18 testi spirituali su 145 (S1:1; S1:2; S1:5; S1:7; S1:24; S1:51; S1:88; S1:93; S1:95; S1:99; S1:100; S1:111; S1:114; S1:115; S1:121; S1:139; S2:1; S2:35) e che ancora nel 1542 ve ne siano solo 36 su 167.
venir se ’l finge l’amorosa mente
a cambiarmi ’l mio mal doglioso stato con l’altro eterno; in quel momento sente
lo spirto un raggio de l’ardor beato. (A2:13, 5-14)
Quindi già nelle rime amorose il ricordo di Ferrante conduceva al cielo, a Dio
6. Nella
composizione dei testi a tema sacro la Colonna non dimentica però il marito, né si limita a
sostituirlo con un altro amore più grande; ne riconosce anzi il ruolo insostituibile nel proprio
cammino di fede:
Or veggio che ’l gran sol, vivo e possente, fuor del cui lume a buon nulla riluce, col mortal casto amor l’alma conduce a la divina Sua fiamma lucente,
e ch’Ei volle sgombrar pria la mia mente
con quel picciol mio sol, ch’ancor mi luce, per entrarv’Egli poi, suprema Luce, e farla del Suo foco eterno ardente. Parea pur raggio qui dal Ciel mandato,
quasi favilla che si mostra in segno che ne ven dopo lei fiamma maggiore; però sempre l’amai senza dissegno da colorirsi in terra, ond’ei beato
so ch’or prega per me l’alto Signore. (S1:146)
La metafora del sole (vv. 1 e 6) è impiegata per alludere a due entità differenti: soltanto
l’aggettivo che precede (gran per Dio, picciol per Ferrante) permette di stabilirne l’identità e la
maggiore o minore rilevanza. La Marchesa riconosce che tramite l’amore per il D’Avalos il
Padre celeste ha voluto preparare la sua mente, predisponendola a cedere a un amore più
grande (vv. 5-6). Questo non si sostituisce al primo, ma permette anzi di intuirne la vera
portata, quella cioè di essere «segno» di Dio (v. 10). L’amore terreno viene trasfigurato (e
quindi salvato), e insieme viene trasmutato anche il linguaggio poetico, così che le immagini
utilizzate per parlare di Ferrante ritornano per parlare di Dio (par. Le metafore). Nella Colonna
non domina insomma una logica di pentimento, che invece affiora (spesso solo come topos) dai
canzonieri di Petrarca e di molti petrarchisti, poiché non vi era nulla di peccaminoso nel suo
amore coniugale
7. In virtù della propria (inconsueta) posizione di vedova, la Marchesa non
nega la propria vicenda personale; ella, piuttosto, vive l’amore per il Signore come
inveramento di quella prima fiamma che le aveva scaldato il cuore. La sua nuova passione è
sincera e coerente, così distante dall’operazione parodica di Girolamo Malipiero (Petrarca
Spirituale, 1536), che prevedeva l’eliminazione sistematica degli elementi biografici e il
«travestimento spirituale» dell’esperienza amorosa in nome di un pentimento assoluto.
Nelle rime spirituali il D’Avalos brilla ancora («ancor mi luce» S1:146, 6) e continua a essere
ricordato come un sol (v. 6), quale era nei testi d’amore
8; il suo ruolo è solo ridimensionato:
6 Cfr. anche A2:44: «Mentr’io qui vissi in voi, lume beato, / e meco voi, vostra mercede, unita / teneste l’alma, era la nostra vita / morta in noi stessi e viva ne l’amato. / Poi che per l’alto e divin vostro stato / non son più a tanto ben qua giù gradita / non manchi al cor fedel la vostra aita / contra ’l mondo vèr noi nimico armato. / Sgombri le spesse nebbie d’ogn’intorno / sì ch’io provi al volar spedite l’ali / nel già preso da voi dextro sentero; / vostro onor fia ch’io chiuda a’ piacer frali / gli occhi in questo mortal fallace giorno / per aprirli ne l’altro eterno e vero». 7 Dal sonetto proemiale («e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente / che quanto piace al mondo è breve sogno», Rvf, I 13-14) alla canzone conclusiva («Mortal bellezza, atti e parole m’hanno / tutta ingombrata l’alma», Rvf, CCCLXVI 85-86).
8 Cfr. S1:147, 1-4: «Se ’l commun Padre, or del Suo Cielo avaro, / m’asconde voi, miei lumi, e lui, mio sole, / l’Altro immortal, cui l’alma adora e cole, / scorge ella più che mai lucente e chiaro».
accanto a lui è sorto un gran Sol (v. 1) che lo fa apparire picciol (v. 6). Tale accostamento fra astri
di diverso splendore è la condizione per cui, nella prospettiva dell’eterno, l’affetto per il marito
possa non venire meno
9.
Nei testi della raccolta vaticana, però, non vi è alcuna allusione diretta al marito.
Solamente – nel sonetto d’apertura – la poetessa riferisce del suo amor (I 1), che fu casto (perché
coniugale) e quindi non da condannare. Il topico pentimento proemiale concerne, come si è
visto, il desiderio di fama mondana, a cui si desidera sostituire ora una scrittura poetica più
umile, sottomessa all’ispirazione divina.
Una poesia al servizio di Dio
La nuova poesia si lascia dunque alle spalle il desiderio di fama e la materia amorosa
per «parlar de l’invisibil cose» (LIX 2) di Dio. Un soggetto di tale portata non poteva che
suscitare critiche e disapprovazioni (LIX 1), quasi che la Marchesa fosse stata spinta da
orgoglio e piena consapevolezza dei propri mezzi letterari. Invece, la Colonna ribadisce più
volte come la sua scrittura risponda a un’indicazione e a un’ispirazione divina, alla quale ha
scelto di obbedire umilmente (LIX 5-6; CII 5-8; S1:2, 9-14), cosciente della limitatezza degli
strumenti poetici a disposizione (LXXII 12-14; LXXIII 9-11). All’insufficienza dei mezzi umani
per descrivere l’esperienza del divino si aggiunge la certezza – con cui si chiude la raccolta –
che il Signore «al cor non a lo stil risguarda» (CIII 14; par. Lingua e stile). La levigatezza dei
versi non appare infatti fra le priorità della Colonna (CII 1-4), la quale da subito assume come
modello retorico la scrittura dei Vangeli. Lo attesta una delle prime prove spirituali, il sonetto
S1:139, conservato nel già citato ms. V3 (datato ottobre 1536)
10.
L’opre divine e ’l glorioso impero in terra e ’n Ciel del chiaro eterno Sole scrisser quei santi in semplici parole che non giunser con arte forza al vero. Mossa da simil fede io scrivo, e spero che se le lode vostre, al mondo sole, qual posso canto, e come il ver le vole, non se ne sdegni il vostro animo altero, e quasi gemma cui poco lavoro d’intorno fregia, sì ch’altra vaghezza non può impedir la sua più viva luce, il vostro onor, salito a tanta altezza ch’uopo non ha di più ricco tesoro,
dentro ’l mio basso stil nudo riluce. (S1:139)
La forza della verità è tale da non aver bisogno di artifici retorici (v. 4), che rischierebbero
piuttosto di offuscarne lo splendore (vv. 9-11). Così, l’onor di Gesù brilla anche dentro il basso
stil nudo della Colonna: i versi, come umili contenitori, si pongono al servizio di una verità più
alta e persino ineffabile, coscienti che la propria bellezza dipende dalla presenza divina da cui
sono originati e di cui sono intrisi.
Mentre per i Vangeli il vero era la vita del Figlio di Dio in terra, per la Colonna
consiste nella propria esperienza di fede, la quale acquista così, inevitabilmente, un valore
esemplare e può muovere i lettori all’imitazione. Fine primario della scrittura poetica è la lode
9 La Colonna, infatti, continua a desiderare di rivederlo: «tirami omai tanto al Tuo regno dentro / ch’almen lontan mi scaldi il Tuo gran sole, / e poi vicin il picciol mio riveggia» (S1:88, 12-14).
di Dio
11, secondo un intento “missionario” che affiora talvolta da versi dalla natura solitamente
intima e riflessiva. Al sonetto I 8, per esempio, il manoscritto vaticano legge «sì ch’io scriva ad
altrui quel ch’ei sostenne» (par. Le varianti). Il dato è significativo perché il sintagma ad altrui
modifica la precedente lezione nel cuore (nell’edizione del 1538) e sarà a sua volta modificato
in per me (nella Valgrisi del 1546): all’interno di una poesia concepita ad uso personale, la
silloge appare come una parentesi rivolta all’esterno. In questo, svolge certo un ruolo
determinante la presenza di un destinatario reale, Michelangelo, che però non viene mai
nominato: prima è altrui (I 8), poi è un gentile core (CII 12). Eppure l’interlocutore recita una
parte non secondaria nella concezione delle rime spirituali: egli è il referente ultimo, colui al
quale i versi sono tacitamente rivolti. L’esperienza religiosa della Marchesa, quale è esposta
nelle rime, potrebbe infatti occasionalmente alimentare la fede in un lettore disposto ad
accogliere il divino (CII 12-14)
12.
In questa dinamica, la poesia diventa uno strumento nelle mani di Dio, che ne è la vera
fonte di ispirazione; ma egli non è solamente il nuovo Apollo (S1:2, 1-6; I 9-11), bensì la stessa
materia scrittoria – penna, inchiostro e carta (I 5-7) – quasi a dire che ogni aspetto delle rime
spirituali è intriso di Cristo. È «lui, che move il pensier» (LIX 12), è suo il foco che infiamma
l’intelletto facendone fuoriuscire versi come faville (CII 9-11). La Colonna ne è talmente
consapevole da accorgersi quando le capita di venire meno alla fedeltà verso la sorgente
originaria delle proprie rime. Una tentazione terrena infatti può mettere a rischio la verità della
poesia: prima era il desiderio di fama (I 1-2), ora è addirittura lo scrivere sol per usanza (CIII 3),
per abitudine, per esercizio di stile, senza essere dominati da quel fuoco divino che solo è
garanzia di purezza. È in questi casi che la poetessa avverte su di sé l’opera ingannatrice del
demonio, il quale agisce silenziosamente e astutamente invitandola a continuare a comporre
versi che, passati al filtro della coscienza, si dimostrano in realtà inutili se non nocivi, sia per
sé che per il mondo (CIII 1-8).
11 LIX 11 e 14; S1:46, 14: «le Sue lodi scrivo»; S1:139, 6-7: «le lode vostre […] / qual posso canto».
12 Cfr. Carteggio, LXXI, p. 116: «Ce son tanti oblighi che tenemo tutti di aiutare, spronare et infiammare li homini a la via de Dio».