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Allevamento di bovine da latte: ricerca di agenti mastitogeni e loro sensibilità agli antibiotici

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Academic year: 2021

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Dipartimento Scienze Veterinarie

Corso di Laurea Magistrale in Scienze e Tecnologie delle Produzioni Animali

Tesi di Laurea

Allevamento di bovine da latte: ricerca di agenti

mastitogeni e loro sensibilità agli antibiotici

Candidato Relatore

Dott.ssa Giulia Lazzerini Dott.ssa Barbara Turchi

Correlatore

Dott. Filippo Fratini

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Indice

Introduzione 1

Anatomia e fisiologia della ghiandola mammaria 3

Struttura microscopica 5

I capezzoli 8

Mammogenesi 12

Lattogenesi 13

Eiezione del latte 14

La mungitura 16

La mastite bovina 31

Definizione e patogenesi 31

Epidemiologia della mastite clinica 40

Nutrizione e immunità 44

Gli effetti delle mastiti sulla riproduzione e la fertilità delle vacche da latte 49

Gestione dell’asciutta e del periparto 52

Scopo della tesi 58

Materiali e metodi 59

Campionamento 59

Determinazione della carica batterica mesofila totale e del valore di pH 60 Determinazione del numero di cellule somatiche e della conducibilità elettrica 61

Esame batteriologico 62

Valutazione dell’antibiotico-resistenza mediante metodo Kirby Bauer 63

Risultati e discussione 65

Conclusioni 81

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Introduzione

Il controllo delle mastiti è un traguardo sicuramente raggiungibile dagli allevatori. Se questo non avviene non è per mancanza di strumenti operativi o di risorse, ma per una ridotta consapevolezza di poter raggiungere tale risultato. Questa tesi non si limita ad affrontare tale problema, ma dimostra in concreto cosa fare e quando partendo dal presupposto che la prevenzione ed il controllo della mastite si realizza no attraverso interventi razionali di natura gestionale, igienica e terapeutica.

Gli interventi gestionali hanno lo scopo di aumentare la capacità della bovina di resistere agli agenti patogeni, quelli igienici sono rivolti sopratutto a ridurre l’esposizione del capezzolo agli agenti di mastite e a limitare la loro penetrazione in mammella. Infine, gli interventi terapeutici si prefiggono soprattutto lo scopo di ridurre la conseguenza delle mastiti (terapia in lattazione), mentre la terapia in asciutta ha il duplice scopo di curare le infezioni eventualmente presenti e prevenire l’insorgenza di nuove (Zecconi, 2010).

Per quanto riguarda il controllo delle mastiti, questo oggi si basa su un programma articolato in 10 punti, come a suo tempo definito dal National

Mastitis Council (NMC):

1) registrazione dei dati produttivi e sanitari degli animali; 2) revisione periodica del piano di controllo;

3) definizione dinamica degli obbiettivi da raggiungere; 4) mantenimento di un ambiente idoneo per gli animali; 5) uso di adeguati metodi di mungitura;

6) corretta installazione, funzionamento e gestione dell’impianto di mungitura;

7) monitoraggio dello stato sanitario delle mammelle; 8) gestione degli animali in asciutta;

9) terapia appropriata degli animali in lattazione; 10) eliminazione degli animali con infezioni croniche.

L’applicazione di questo tipo di programma, con i necessari adattamenti alle singole realtà aziendali, permette di migliorare lo stato sanitario della mandria, garantendo anche una qualità igienico-sanitaria migliore del latte

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prodotto in azienda, con una maggiore quantità di latte, minor costi e di conseguenza maggiori redditi.

Nel caso in cui si volesse impostare un programma efficace, il primo passaggio sarebbe quello di raccogliere informazioni sullo stato sanitario degli animali e sul loro livello produttivo. La raccolta costante, ripetitiva e ben organizzata di tali dati permette di controllare l’andamento delle performance dell’azienda e di conseguenza di poter intervenire in modo gestibile ed efficiente (Zecconi, 2010).

Scopo del presente lavoro è stato quello di valutare la qualità igienico-sanitaria di campioni di latte provenienti da un allevamento di bovine da latte situato della provincia di Firenze, isolare microrganismi potenziali agenti di mastite e valutarne i profili di antibiotico-resistenza.

Di seguito si illustrano i principali fattori coinvolti nella gestione sanitaria della mammella, i metodi utilizzati per l’indagine effettuata ed i risultati, concludendo con una riflessione sulle possibili soluzioni da poter adottare in modo da ridurre casi di mastite recidivante.

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Anatomia e fisiologia della ghiandola mammaria

La mammella è una ghiandola che possiedono i mammiferi, ed ha la funzione principale di sintetizzare il latte. La sua forma e volume nonché il numero e la posizione delle ghiandole variano in base alla specie. La sua formazione avviene solitamente in posizione ventrale lungo due linee paramediane, che vanno dal cavo ascellare alla regione inguinale. Nel maiale sono presenti 6-8 ghiandole per lato, la cavalla è provvista di una sola ghiandola, così come la capra e la pecora, mentre la vacca ne possiede due.

La mammella viene suddivisa anatomicamente in cute, fasce mammarie e il corpo ghiandolare (Bronzo, 2007).

La cute è abbastanza fine e coperta da peli delicati e radi, con numerose ghiandole sudoripare e sebacee. Diversamente, a livello del capezzolo, la cute è più resistente e si presenta di forma conica con un apice contenente uno o più fori lattiferi.

La fascia mammaria, della ghiandola mammaria è composta da tessuto sottocutaneo, delimitato da fasce connettivali (Fig. 1).

Figura 1: Mammella della vacca: conformazione,

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Infine, il corpo ghiandolare, è rappresentato da una ghiandola tubulo-alveolare composta a secrezione apocrina (lipidi) e merocrina (protidi). Rappresentato da più lobi, separati da tessuto connettivo, il corpo ghiandolare è infiltrato da notevoli quantità di tessuto adiposo. Ciascun lobo possiede dei dotti escretori, che fanno capo ad un dotto lattifero o lobare che si apre, nella parte più alta del capezzolo, nel seno lattifero o galattoforo. In base al tipo di seno lattifero, si possono avere ghiandole semplici o composte. La tipologia presente nei ruminanti è quella semplice, nel quale abbiamo un solo dotto papillare e un seno lattifero, nel quale affluiscono più dotti lobari.

La mammella nella bovina è rappresentata da quattro ghiandole mammarie, chiamati anche quarti, dove ognuno rappresenta un’entità separata, con un proprio sistema di dotti escretori ed una propria cisterna e di conseguenza anche un proprio capezzolo.

La mammella, presenta una forte vascolarizzazione che, aggiunta al latte prodotto, può arrivare a pesare più di 50-60 kg. Essendo un peso considerevole la bovina possiede un robusto sistema di legamenti fibrosi, che si inseriscono a livello pelvico e alla parete addominale, atti a sostenerla (Bronzo, 2007).

Il canale del capezzolo mette in comunicazione l’apice dello stesso con la cisterna del capezzolo (Fig. 2). Sono presenti una serie di pieghe della mucosa, nel punto in cui il canale si apre nella cisterna, in numero variabile da 4 a 8, conosciute con il nome di rosette di Furstemberg. Tramite un’apertura circolare, la cisterna del capezzolo comunica superiormente, con la cisterna del latte, mentre la cisterna comunica unicamente con il più compatto tessuto ghiandolare. , Il tessuto ghiandolare, rappresentato da numerosi piccoli dotti, conferisce alla mammella a livello ventrale, un aspetto spugnoso; mentre dorsalmente si presenta denso e di aspetto carnoso.

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Struttura microscopica

Le bovine che hanno partorito e che quindi si trovano nella fase della lattazione, possiedono un parenchima mammario che comprende gli alveoli, in corrispondenza dei quali viene secreto il latte, ed è presente il sistema dei dotti, attraverso il quale il latte raggiunge le cisterne. La ghiandola mammaria è di tipo tubulo-alveolare, ovvero il secreto dei lobuli passa dai condotti intralobulari a quelli interlobulari, fino ai condotti lattiferi e al seno lattifero o cisterna del latte, comunicando con l’esterno attraverso il dotto papillare che scorre nel capezzolo e si apre tramite un ostio sulla sua superficie. Le cellule epiteliali che costituiscono gli adenomeri tubulo-alveolari, sono caratterizzate da un notevole sviluppo del reticolo endoplasmatico rugoso e del Golgi, i quali sono estremamente attivi al momento della secrezione. Gli alveoli sono delle strutture con dimensioni

Figura 2: Conformazione interna della mammella della vacca

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estremamente ridotte, con una forma a sfera o piriforme e formati da un solo strato di cellule epiteliali. Questi si riuniscono in gruppi da 200 alveoli circa, a formare dei grappoli o lobuli, separati da setti fibrosi. In successione molti lobuli formano i lobi mammari. I lobi vengono separati da un tessuto connettivo, il quale è collegato ad una serie di legamenti, che formano il legamento sospensore. I dotti e gli alveoli sono rivestiti da cellule mioepiteliali, distinti da una forma stellata, ricchi di miofilamenti (Fig. 3). Gli alveoli sono racchiusi dentro uno stroma delicato che contiene una rete capillare molto fine. Le cisterne del capezzolo, del latte e dei dotti, sono rappresentate esternamente da un epitelio bistratificato (Bronzo, 2011).

Nel caso di animali che producono elevati quantitativi giornalieri di latte, per la produzione di un litro di latte è necessario che passino attraverso la ghiandola mammaria circa 500 litri di sangue; diversamente per gli animali con produzioni più modeste occorre circa il doppio di sangue (1000 litri). Il sangue arriva per la gran parte tramite le arterie pudende esterne, che alla base della mammella danno origine alle arterie mammarie craniali e

Figura 3: Conformazione strutturale degli alveoli

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caudali. Un’altra parte dell’irrorazione è fornita cranialmente dall’arteria addominale sottocutanea; mentre caudalmente dall’arteria perineale. Nel complesso, il sistema venoso è formato dalle vene pudende esterne che attraversano il canale inguinale. Insieme alle vene addominali sottocutanea e alla vena perineale, le vene pudende si anastomizzano alla base della mammella, dando luogo al così detto circolo venoso alla base della mammella (Bronzo, 2007).

La mammella viene principalmente innervata dalle branche del terzo e quarto nervo lombare, le quali attraversano il canale inguinale. Il primo e il secondo nervo lombare si inseriscono cranialmente, mentre caudalmente ritroviamo i nervi perineali; sono nervi sensoriali, ma possono trasportare, passando il plesso mesenterico caudale, delle fibre di tipo simpatico, che hanno lo scopo di modulare il flusso di sangue attraverso azioni dirette sulle arteriole (Fig. 4 e Fig. 5). Cute e capezzoli ricevono soprattutto un’innervazione di tipo sensoriale, mentre i nervi presenti nel parenchima ghiandolare sono quasi ed esclusivamente di tipo vasomotorio (Bronzo, 2007).

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Lo scopo principale della cute è quello di proteggere la mammella. Le due strutture costituite dai legamenti mediani e laterali, sostengono il peso della mammella: i mediani partono dalla linea alba, estendendosi tra la parte destra e sinistra, mandando sei setti all’interno, in modo da attutire gli insulti meccanici dovuti alla deambulazione; i laterali invece vanno dal legamento sub-pelvico fino alle fasce laterali della mammella. Dal punto di vista funzionale, tra i legamenti larghi laterali e mediani sono presenti delle strutture che hanno la funzione di impedire lo schiacciamento delle formazioni alveolari poste più in basso. L’avanzare dell’età è correlata alla perdita di elasticità di questi legamenti, che si allungano progressivamente, arrivando nel peggiore dei casi ad un abbassamento della ghiandola chiamato “mammella pendula” (Bronzo, 2007).

I capezzoli

Il capezzolo è costituito da: cute, stroma e mucosa. Lo stroma è costituito da una componente vascolare e da una muscolare. Le numerose vene hanno lo scopo di drenare il sangue dai plessi venosi sottocutanei, fino alla

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giuntura tra capezzolo e mammella. I dotti galattofori convergono verso il capezzolo, successivamente attraversano la “cisterna della mammella” o “seno lattifero, che prosegue fino alla “cisterna del capezzolo”. Tra la cisterna del latte e quella del capezzolo è presente una ripiegatura connettivale anulare, situata alla base, appena percettibile alla palpazione. Proseguendo dopo la cisterna del latte troviamo, in posizione distale, il “canale papillare”, lungo pochi millimetri (Fig. 6).

Nel mezzo tra la cisterna del capezzolo e il canale papillare si trova la “rosetta di Fürstenberg”, il suo scopo è quello di trattenere il latte tra una mungitura e l’altra. Un importante meccanismo di difesa contro le infezioni mammarie, è rappresentato dal canale papillare e dallo sfintere del canale stesso, sebbene queste strutture rappresentino anche alcune delle sedi principali di traumi. Le funzioni del canale papillare sono quelle di impedire la fuoriuscita del latte e di ostacolare l’entrata dei patogeni. Rivestito internamente da cheratina e costituito da sostanze ad azione antimicrobica, il canale papillare, una volta che questo strato si sfalda, costituisce un vero e proprio ostacolo meccanico all’ascensione dei patogeni.

Con l’avvento delle macchine mungitrici, la produzione di quantità sempre più elevate di latte, il breve tempo a disposizione dato dalla scarica di ossitocina (circa 5 minuti) e la necessità di ridurre i traumi alla mammella, la selezione dei soggetti sta spingendo verso animali che abbiano con le seguenti caratteristiche:

- capezzoli corti, per un minor rischio di trauma, anche con bovine con mammelle voluminose;

- canale del capezzolo corto;

- capezzoli di diametro elevato, per una mungitura semplice e rapida.

Da queste caratteristiche però si può dedurre facilmente che capezzoli di questo tipo, presentano una minor difesa contro l’introduzione per via ascendente di batteri provenienti dall’ambiente esterno, soprattutto poco dopo la mungitura, quando, con lo sfintere del capezzolo ancora beante, solitamente l’animale va in decubito, venendo così a contatto con la lettiera (Bronzo, 2011).

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Difese naturali del capezzolo

Anche se il capezzolo rappresenta la via principale di entrata dei batteri all’interno della ghiandola mammaria, questi devono superare numerosi sistemi di difesa per infettare l’intera mammella o il singolo quarto. La zona in prossimità del canale del capezzolo, sulla cute, è soggetta al contatto con numerosi batteri, che possono penetrare agevolmente quando facilitati dalla presenza di microlesioni cutanee.

I meccanismi di difesa del capezzolo, in casi di penetrazione da parte di microrganismi estranei, sono (Bronzo, 2011):

1) Difesa di tipo anatomico e chimico-fisico: rappresentata dalla cute. Il tipo di difesa fisico è dato soprattutto dallo sfintere, dove la muscolatura liscia si distribuisce attorno al canale del capezzolo con lo scopo di mantenere chiusa l’intera struttura nell’arco di tempo che

Figura 6: Conformazione e struttura del capezzolo della

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intercorre tra una mungitura e l’altra, diminuendo di conseguenza il rischio di infezione. Come contro possiamo includere il fatto che dopo la mungitura lo sfintere rimane aperto per circa due ore e, inoltre, perde elasticità con il passare dell’età o in seguito ad una mungitura non corretta. Fattore importante per la difesa chimico-fisica è la presenza della cheratina, che forma un rivestimento che impedisce o rallenta il passaggio dei batteri nel canale del capezzolo, bloccandoli ed inibendone la moltiplicazione. Ad ogni mungitura, lo strato di cheratina viene rimosso per circa un terzo e con esso, i microrganismi intrappolati.

2) Difesa di tipo cellulare: una volta che raggiungono la cisterna del capezzolo, i batteri possono ancora essere allontanati nell’arco di tempo che costituisce il periodo di latenza, che anticipa la moltiplicazione attiva e l’invasione generale delle ghiandole mammarie. In questo periodo entrano in azione le difese di tipo cellulare. I primi ad attivarsi contro i microrganismi sono i leucociti, i quali liberano i mediatori chimici del processo infiammatorio, provocando il richiamo per chemiotassi di granulociti polimorfonucleati (neutrofili) del sangue che hanno lo scopo di fagocitare i batteri, i quali verranno prima inglobati e poi lisati enzimaticamente. Le prime difese cellulari si attivano entro qualche ore e una volta giunte nella zona interessata dall’infezione, possono eliminare i batteri e ripristinare la funzionalità normale della ghiandola mammaria. La difesa cellulare è rappresentata da neutrofili, macrofagi e linfociti.

3) Difesa di tipo umorale: rappresentata da lattoferrina, enzimi lisosomiali e proteine basiche. La prima è una sola glicoproteina, saturata in percentuale variabile dal 3 al 33% dallo ione ferro. Il legame con il ferro trivalente causa un’inibizione della crescita batterica, in quanto lo ione ferro è fondamentale per la replicazione degli stessi batteri. Per questo è molto importante ricordare che la lattoferrina sia presente in basse concentrazioni nel colostro bovino, variabile tra i 2 e i 5 mg/ml, e nel latte, con concentrazioni tra 0,1 e 0,5 mg/ml; in elevate concentrazioni è presente invece nel contenuto della mammella bovina durante il periodo di asciutta (da 30 fino a 100 mg/ml). L’attività del lisozima viene esplicata in base alla matrice biologica che trova o tramite attività litica nei confronti degli stessi batteri.

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L’efficienza di tutti questi fattori di difesa dipende ovviamente dallo stato di salute generale della bovina e da come si presenta il tessuto del capezzolo. Un quadro preventivo è dato anche dagli interventi igienici effettuati in stalla, che sono volti a limitare la penetrazione dei microrganismi tramite il canale del capezzolo, e allo stesso tempo a diminuire il trasferimento di patogeni da un animale all’altro, diminuendo così l’esposizione del capezzolo agli agenti mastidogeni (Bronzo, 2011).

Mammogenesi

A livello embrionale si ha l’origine del tessuto ghiandolare mammario. La sua formazione si attua con le stesse fasi di ogni altro mammifero. Inizialmente si ha la formazione di due creste ectodermiche parallele, posizionate lateralmente alla linea mediana ventrale del feto, chiamata linea del latte, le quali nella fase successiva perdono la loro continuità formando una serie di cellule ectodermiche in posizione e numero variabile in base alla specie. La gemma mammaria deriva da questi noduli, inizialmente la forma è lenticolare, poi diventa sferica fino a conica.

Nella specie bovina, la parte terminale che costituisce la gemma, si allunga per formare il cordone mammario primario, il quale successivamente canalizza, fino a che il lume si dilata, formando una piccola cisterna del latte. Una cisterna del capezzolo rudimentale si forma al 4°-5° mese di gravidanza, dalla quale si formano dei cordoni secondari che costituiranno i futuri dotti lattiferi. Il vitello alla nascita presenta una struttura del tutto rudimentale, essendo costituita da capezzoli, dotti papillari, una cisterna del latte con i dotti che sono ancora confinati in una zona limitata (non ancora ben definiti), e qualche alveolo. Mentre l’animale segue il normale andamento di crescita isometrico, anche la mammella si sviluppa in contemporanea fino alla pubertà. Alla nascita lo stroma dei dotti risulta essere completamente sviluppato, e a circa 13 settimane di vita il tessuto dello stroma assume la tipica forma della mammella (Bronzo, 2007).

Durante l’accrescimento allometrico, l’animale inizia l’attività ovarica e la mammella cresce in misura maggiore, rispetto al resto del corpo. Ogni ciclo determina un aumento volumetrico della ghiandola fino ad un periodo massimo di 36 mesi. Un notevole accrescimento si nota durante la gravidanza, dove inizialmente parte in maniera lenta fino ad aumentare in maniera più che esponenziale alla fine del parto, quando l’organo ha piena

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funzionalità ed il cuscinetto adiposo viene riassorbito e sostituito da strutture ghiandolari (Bronzo, 2007).

Gli ormoni che agiscono a livello mammario vengono suddivisi in:

- Masteoplastici: estrogeni, progesterone, prolattina, l’ormone della crescita e il lattogeno placentare.

- Galattopoietici

Questi due raggruppamenti sono nella realtà biologica, indipendenti. Per la crescita ovarica, gli ormoni ovarici, risultano essere indispensabili per l’accrescimento dell’apparato mammario. Gli estrogeni, ad esempio, sembrano indurre un accumulo di recettori per il progesterone e la prolattina, responsabili della moltiplicazione cellulare. Gli ormoni dell’ipofisi anteriore e placentari, se non presenti, fanno perdere efficacia agli ormoni steroidei, di conseguenza si capisce la loro importanza. L’ormone lattogeno PL o Placental Lactogens, viene sintetizzato e secreto dalla placenta; dal punto di vista chimico e biologico risulta simile alla prolattina e all’ormone dell’accrescimento (Bronzo, 2007).

Lattogenesi

La lattogenesi è un processo di differenziazione tramite il quale le cellule alveolari mammarie acquistano la capacità di secernere il latte. La secrezione lattea si suddivide in due stadi: nel primo abbiamo le differenziazioni citologiche ed enzimatiche nella zona del parenchima ghiandolare, mentre nel secondo si ha l’inizio della sintesi vera e propria del secreto mammario.

Il Progesterone o P4 ha lo scopo di inibire la lattogenesi, riducendo la secrezione di prolattina, è per questo motivo che al termine della gravidanza la diminuzione di questo ormone rappresenta uno dei segnali per l’avvio della sintesi del latte. Un’altra funzione del P4 è quella di inibire anche la sintesi della α-lattoalbumine e quindi anche del lattosio, dove in sua assenza viene impedito il passaggio di acqua all’interno della cellula secernente, inibendo la sintesi del latte. Il progesterone non ha un ruolo importante durante la lattazione, questo perché viene in gran parte sequestrato a livello del grasso presente nel latte, mentre il suo ruolo principale si svolge proprio durante la fase della gravidanza, dove alti livelli competono con i corticosteroidei sui siti attivi recettoriali delle cellule secernenti. Durate la lattazione, i recettori mammari vengono occupati principalmente dai

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corticoidi. L’aumento della prolattina in circolo è dovuto agli estrogeni. La prolattina o PRL è una componente importante che ha il compito di indurre la sintesi delle caseine, ed è accompagnata da un accumulo di RNA a livello cellulare e da una accelerazione della trascrizione dei geni corrispondenti. La prolattina è proporzionale alla produzione lattea. Ciò che maggiormente influisce sulla produzione di prolattina è la temperatura, la stagione, il fotoperiodo, e gli stimoli a cui viene sottoposto il capezzolo i quali ne aumentano la secrezione stessa. L’ormone della crescita ha un ruolo molto importante per la lattazione, e la PRL libera non è proporzionale al progredire della lattazione. Per far sì che la prolattina attui la sua azione, deve venire a contatto con i recettori della cellula mammaria (creando così il legame PRL-recettore); il complesso, portandosi all’interno delle cellule, determina una serie di reazioni a cascata tra cui l’incremento dell’RNA ribosomiale che aumenta all’aumentare dell’RNA messaggero delle caseine, riuscendo in questo modo a controllare l’espressione genetica delle proteine del latte. I corticosteroidi e l’insulina ne aumentano gli effetti, mentre il progesterone li inibisce. Un evidente effetto galattopoietico lo effettua l’ormone della crescita, il quale si ritiene che agisca in modo indiretto, mediante le somatomedine o dalla capacità lipolitica dell’ormone, che sembra che provochi un aumento dei precursori del latte in circolo. L’impiego di ormoni esogeni GH e ormoni di sintesi, aumenta il livello produttivo di circa il 20%. Gli ormoni corticosteroidi amplificano, in minor misura rispetto alle altre specie, l’azione della prolattina nella sintesi delle caseine. All’aumentare della produzione lattea diminuisce la produzione di ormoni tiroidei, diminuendo soprattutto la secrezione di t3 e t4, fenomeno conosciuto anche come ipotiroidismo funzionale. Il livello di insulina è inversamente proporzionale alla produzione lattea, considerando che si abbassa durante la prima fase della lattazione mentre aumenta decisamente verso la fine della stessa (Bronzo, 2007).

Eiezione del latte

Il riflesso neuroendocrino è la componente fondamentale per l’allontanamento del latte dalla ghiandola. Alla base del meccanismo troviamo l’arco riflesso in cui la componente afferente è data dagli stimoli nervosi, diversamente da quella efferente che è dovuta all’ossitocina. Dalla suzione o dalle operazioni di mungitura meccanica, durante la quale avviene una deformazione dei meccano-cettori capezzolari, si originano

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degli impulsi nervosi che vengono trasmessi tramite i nervi mammari fino al midollo, attraversando il tronco dorsale spinale, arrivando all’ipotalamo, raggiungendo le cellule neurosecretrici del nucleo sopraottico e paraventricolare responsabile della sintesi dell’ossitocina. In primo luogo si presenta una depolarizzazione delle cellule nervose e successivamente si ha l’emissione dell’ossitocina, il tutto richiede solo circa 1-2 secondi. Tramite il circolo sanguigno l’ormone legato alla neurofisina I, giunge alla ghiandola dopo 19-22 secondi, dove l’ormone, liberato dalla componente proteica, si lega a specifici recettori delle cellule mioepiteliali, provocando così la contrazione. La contrazione, anche se l’aumento della pressione endomammaria è considerevole, non supera la resistenza opposta dallo sfintere del dotto papillare capezzolare. Tramite la suzione, la mungitura meccanica o la compressione manuale del mungitore, in circa 6 secondi si esplica la concentrazione delle cellule mioepiteliali, iniziando a far passare il latte al lume alveolare, riempiendo così i grandi dotti e gli spazi della cisterna (20-30 secondi), arrivando ad una pressione endomammaria di circa 5kPa. L’emivita dell’ossitocina è di 1,5-2 minuti. Successivamente scompare dal circolo sanguigno in maniera molto rapida, con la clearance epatica e renale. Questa condizione può essere rafforzata e condizionata da azioni ripetitive, affiancate alla mungitura, dalla visita del vitello, ai rumori dalla sala di mungitura, ecc. Gli impulsi di origine corticale possono diversamente essere un fattore inibente in conseguenza del fatto che sono legati ai nuclei dell’ipotalamo. L’epinefrina si libera grazie a fattori di stress provocando una riduzione di ossitocina nel sangue, contribuendo ad un minor flusso di emissione del latte. Il blocco della secrezione di ossitocina è correlato all’interruzione dell’eiezione del latte, collocato a livello della porzione posteriore della ghiandola pituitaria, presente nell’animale sottoposto a stress (Bronzo, 2007).

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La mungitura

Anche se è noto quanto la mungitura costituisca una delle operazioni più critiche e importanti nella gestione di un’azienda di bovine da latte, molto spesso non si comprende l’importanza di una corretta routine.

La parola “routine” indica l’esecuzione coerente, da parte del mungitore di una sequenza ben definita di operazioni che hanno lo scopo di:

- aumentare la velocità di emissione e la produzione di latte - migliorare la qualità igienico-sanitaria del latte

- ridurre l’incidenza di nuove infezioni intramammarie e successivamente di mastiti

- aumentare l’efficienza e la produttività del lavoro (Tangorra, 2007).

Tali obbiettivi non possono che derivare da una corretta gestione della stalla, perché se le bovine entrano in sala di mungitura con mammelle e arti puliti, la superficie dei capezzoli risulterà meno contaminati da batteri, permettendo così di ottenere una routine di mungitura maggiore, più efficiente.

La prima cosa da fare quindi per migliorare le condizioni della stalla è quella di garantire agli animali condizioni ambientali adeguate, dando alle bovine aree di stabulazione e di esercizio pulite e asciutte, oltre che assegnare un giusto rapporto capo/mq. La figura del mungitore è molto importante. Deve essere efficiente, saper individuare eventuali anomalie dei capezzoli e della mammella, conoscere bene tutti gli aspetti operativi della mungitura e le caratteristiche tecniche della macchina mungitrice, in modo da ottenere una buona produttività lavorativa, garantire che gli animali siano in salute e di mantenere in buona efficienza tecnica l’impianto di mungitura. Infine, il mungitore dovrebbe possedere una sensibilità verso gli animali in modo da non trasmettere loro qualsiasi forma di nervosismo, gestendoli con calma e gentilezza. Questo concetto, anche se appare astratto, ha lo scopo di non creare un ulteriore stress nell’animale, con conseguente incompleta preparazione della mammella, ritardo nell’attacco dei prendicapezzoli, un maggior dolore da parte del soggetto, paura ecc., ed infine una riduzione della produzione di latte da parte della bovina.

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Per l’esecuzione di una corretta mungitura occorre conoscere e comprendere alcuni principi fondamentali, rispettando allo stesso tempo delle semplici regole (Fig. 7).

La prima regola riguarda la stimolazione della mammella, già accennata in precedenza. Costituisce una pratica importante, alla base del processo di emissione del latte da parte della bovina. All’interno della mammella, circa il 20% del latte risulta essere prontamente disponibile, poiché contenuto nelle cavità cisternali e nei dotti principali, mentre il restante 80% è contenuto all’interno degli alveoli e nei dotti alveolari, e senza un meccanismo neuro-ormonale non può essere rilasciato. Grazie ad una stimolazione tattile del capezzolo, si ha l’invio di un segnale neurale al cervello, il quale viene poi passato alla ghiandola pituitaria, rilasciando l’ormone ossitocina nel sangue. In risposto all’aumento della concentrazione di ossitocina, si ha la contrazione delle cellule mioepiteliali presenti attorno agli alveoli, che comporta l’espulsione del latte alveolare, prima nei dotti principali e successivamente nella cisterna. Tale latte può essere infine espulso facilmente dalla mammella tramite la mungitura. La cisterna può sostare solo un determinato volume di latte alla volta, quindi ogni volta che il latte viene estratto dalla cisterna, questo viene sostituito dal latte che prima presente sostava a livello degli alveoli. Recentemente degli studi hanno dimostrato come con il tempo che intercorre tra due mungiture successive (12 ore circa), la quantità di latte prontamente disponibile aumenti, fino ad un 20% del latte complessivamente contenuto nella mammella (Knight et al., 1994; Pfeilsticker et al., 1996; Bruckmair e

Figura 7: Meccanismi ormonali che regolano l’eiezione del latte

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Hilger, 2001). Questo contenuto, inoltre, risulta aumentare durante il picco di lattazione e diminuire verso la fine della mungitura (Pfeirsticker et al., 1996; Brtuckmaier e Hilger, 2001). Si può quindi dedurre facilmente quanto sia importante rispettare i turni di mungitura per massimizzare la quota di latte prontamente disponibile (Tangorra, 2007).

Per avere un’adeguata secrezione di ossitocina è stato osservato che per la maggior parte delle bovine, è sufficiente effettuare una preparazione della mammella prima della mungitura di 10-20 secondi, questo tempo non è influenzato dallo stadio di lattazione e dal livello produttivo. Tra la stimolazione e l’emissione del latte, invece, l’intervallo di tempo varia da 50-60 secondi fino a 90-120 secondi e varia in funzione dello stadio di lattazione, dal riempimento della mammella e dall’intervallo tra due mungiture successive. Lo step seguente è rappresentato dall’inizio della preparazione della mammella, con la pulizia e l’asciugatura dei capezzoli e l’attacco del gruppo prendicapezzoli, chiamato pre-lag time, con un tempo complessivo di 60-90 secondi (Tab. 1), in modo da poter sfruttare al meglio la scarica di ossitocina e allo stesso tempo di avere un’efficiente emissione ed estrazione del latte dalla mammella (Tangorra, 2007).

È molto importante riuscire a sincronizzare bene i tempi necessari, dall’attacco del gruppo prendicapezzoli al rilascio dell’ossitocina, altrimenti si potrebbe avere un’interruzione temporanea del flusso di latte esponendo i capezzoli ad una sovramungitura. Il capezzolo potrebbe infatti essere gravemente danneggiato, dalla penetrazione del vuoto di mungitura, che ne determina il collasso, intaccando così i tessuti che diventano più vulnerabili

Tabella 1 - Medie relative a sei studi condotti internazionalmente sull’effetto della

stimolazio-ne e della preparaziostimolazio-ne della mammella sulla mungitura (Restimolazio-neau e Chastain, 1995)

Assenza di stimolazione preparazione della Stimolazione e mammella (60s) Produzione media di

latte (kg/mungitura) 10,39 10,80

Flusso medio di latte

(kg/minuti) 1,77 2,13

Tempo medio di

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a successivi attacchi infettivi. Se questa evenienza si verifica più volte, sarà sempre più complicato mungere l’animale e si avrà un aumento di mastiti (Tangorra, 2007).

Effettuando una corretta stimolazione manuale dei capezzoli, sia la produzione che la velocità di emissione del latte ne risentono in maniera positiva, aumentandone di conseguenza l’efficienza con tempi di mungitura inferiori (Tangorra, 2007). L’operatore deve essere consapevole che i tempi da rispettare per ogni fase della mungitura sono necessari per avere un periodo di esecuzione complessivamente inferiore (Fig. 8).

Il secondo punto fondamentale e da tenere bene a mente è la pulizia dei capezzoli e della mammella. Solitamente i batteri presenti sul capezzolo della bovina sono gli stessi presenti a livello della lettiera. La contaminazione può avvenire a partire da diversi tipi di fonte, principalmente può essere dovuta dal contatto con la lettiera sporca e imbrattata di liquami, oppure indirettamente attraverso le zampe, durante l’atto della deambulazione all’interno della corsia di alimentazione o nella zona di esercizio. Il fattore concatenante è la lettiera che deve essere gestita e scelta in maniera accurata, associandola ad un’idonea pulizia dei capezzoli e della mammella prima della mungitura (Tangorra, 2007).

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La scelta della lettiera è un altro parametro importante per la gestione igienica della mammella; viene condizionata da differenti fattori, come ad esempio il tipo di stabulazione, il sistema di gestione dei liquami, la disponibilità aziendale ed i costi. Solitamente i tipi di lettiere organiche, come paglia, segatura e trucioli di legno, posso avere un ruolo come substrato per i microrganismi ambientali, anche se va considerato che la tipologia del materiale e le dimensioni influenzano in modo diverso la crescita batterica. Confrontando la segatura ed i trucioli con la paglia, solo i primi hanno la possibilità di inibire la crescita batterica tramite la resina presente sul legno delle conifere. Le dimensioni del materiale che rappresenta la lettiera è proporzionale alla velocità di crescita batteria, ovvero, più piccole sono le particelle che compongono la lettiera, minor tempo occorrerà ai batteri per svilupparvisi; questo perché vengono attaccati più facilmente e riescono ad assorbire e a trattenere meglio l’acqua. Inoltre, un materiale fine aderisce meglio alla parete del capezzolo, dove con una preparazione non adeguata alla mungitura, rischia di penetrare nei canali dei capezzoli, dando luogo ad un potenziale processo infettivo. La lettiera ed i prodotti legnosi tendono ad incrementare lo sviluppo di batteri Gram negativi, diversamente dalla paglia risulta favorire la proliferazione di streptococchi ambientali (Tangorra, 2007).

Un materiale poco utilizzato è la sabbia, che non costituisce, essendo un materiale inorganico, un substrato di crescita per i microrganismi e, diversamente dai precedenti, non trattiene acqua. Quindi da un punto di vista microbiologico rappresenterebbe il tipo di lettiera ideale. La presenza di streptococchi ambientali e coliformi nella sabbia sono correlati al quantitativo di terra e al livello di contaminazione fecale, e quindi, alla frequenza di sostituzione, stoccaggio e alle condizioni generali di stalla. Un ostacolo molto importante all’utilizzo della sabbia è anche il sistema di gestione dei reflui zootecnici, il quale potrebbe non essere compatibile con la presenza di materiale abrasivo all’interno dei liquami, nonché ai costi di approvvigionamento, che possono essere contenuti con il lavaggio e il riciclo della sabbia stessa. Studi hanno dimostrato che l’uso di sabbia fresca e sabbia riciclata non mostrerebbero alcuna differenza nella conta delle cellule somatiche e indicano come la sabbia riciclata, anche se dotata di una carica batterica maggiore rispetto a quella fresca, si possa impiegare come lettiere senza aumentare l’incidenza di mastiti o il numero di cellule somatiche, a patto che le cuccette siano gestite in maniera opportuna

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(Bernard et al., 2003). Lo scopo generale è quello di contenere il più possibile la carica batterica della lettiera in modo da limitare l’esposizione dei capezzoli ai patogeni ambientali e di conseguenza l’insorgenza di infezioni intramammarie. Ovviamente la presenza del liquame incide positivamente sulla crescita batterica. Per limitarne la presenza occorre (Tangorra, 2007):

- curare la manutenzione della lettiera in modo che resti pulita e asciutta. La frequenza di rinnovo è correlata al tipo di stabulazione e dai materiali impiegati. Con le lettiere organiche è consigliabile aggiungere ogni giorno del materiale fresco e asciutto. Ogni settimana andrebbe ripulito lo stallo rimuovendo la vecchia lettiera prima di aggiungere il nuovo materiale. Nel caso della sabbia, l’aggiunta di nuovo materiale deve avvenire senza alterare gli strati sottostanti in modo da evitare di portare in superficie la sabbia più vecchia contaminata dai liquami, cambiandola ogni settimana;

- evitare accumulo di liquami nelle aree di esercizio, nei corridoi di accesso alle cuccette e nelle zone adiacenti agli abbeveratoi;

- dimensionare cuccette e recinti correttamente;

- evitare sovraffollamenti, che provocano un aumento della quantità di liquame da smaltire, inducendo gli animali a coricarsi nei corridoi di accesso alle cuccette o nelle aree di sevizio, imbrattando così la mammella, gli arti e la coda.

La concentrazione di microrganismi riscontrabili nel latte di massa rappresenta una spia della corretta gestione o meno della lettiera. Cariche elevate, invitano, oltre che ad incrementare l’igiene durante la mungitura, anche ad intervenire sulla gestione della lettiera (Tangorra, 2007).

Una delle regole più importanti per avere una buona gestione della produzione del latte riguarda la pulizia dei capezzoli e della mammella. Questo meccanismo porta con se tre funzioni fondamentali per la mungitura, cioè:

- favorire la stimolazione del latte tramite dei recettori neurali localizzati nell’epidermide dei capezzoli;

- ridurre il numero di batteri presenti sulla cute, riducendo allo stesso tempo, il rischio di mastite;

- impedire allo sporco, al letame e ai batteri di miscelarsi nel latte. La mungitura si articola in diverse fasi fondamentali (Zecconi, 2010):

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1) La prima fase consiste nella preparazione della mammella che comprende la pulizia del capezzolo, lo scarto e l’osservazione dei primi getti di latte nonché la stimolazione della mammella. Essendo le mani del mungitore un importante veicolo di patogeni, per avere una corretta igiene di mungitura è consigliabile l’uso di guanti in gomma o in lattice. I tempi da rispettare sono molto importanti, sia perché esistono precise norme igieniche per prevenire i rischi di contaminazione della mammella, al fine di sfruttare al meglio il processo di eiezione del latte. Il tempo di attesa, che corrisponde all’intervallo di tempo tra la stimolazione e l’inizio della mungitura, non deve essere superiore ai 2 minuti, altrimenti la concentrazione di ossitocina nel sangue diminuisce rapidamente, con l’interruzione del processo di eiezione.

All’interno della prima fase le principali operazioni da svolgere sono quindi:

• Pre-dipping: consiste nel pulire il capezzolo immergendolo per circa 30 secondi in una soluzione detergente germicida contenuta all’interno di un teat dipper, rappresentato da una parte superiore, a forma di bicchiere e da un serbatoio inferiore che contiene la soluzione impiegata. Questa azione è sufficiente ad innescare il meccanismo riflesso che porta alla liberazione di ossitocina. Questa pratica riduce di oltre il 50% il rischio di incidenze di mastiti ambientali;

• Asciugatura del capezzolo mediante carta monouso;

• Forestripping: consiste nell’eliminazione dei primi 3-5 getti di latte osservando contemporaneamente il loro aspetto (coaguli, fiocchi, frustoli, grumi, tracce di sangue, secrezioni acquose) e/o alterazioni dei quarti (ingrossamento, calore, dolore). I vantaggi di questa pratica sono innanzitutto l’allontanamento di una frazione di latte ricca di batteri e cellule somatiche, riuscendo ad evidenziare la presenza di alterazioni del latte e quindi di mastiti cliniche lievi;

• Attacco del gruppo di mungitura.

Tutte e quattro queste fasi devono essere terminate entro 60-90 secondi, in modo da dare il tempo necessario tra stimolazione e arrivo dell’ossitocina in mammella. Sarà quindi il mungitore a regolare la sua velocità in base al numero di animali, in modo avere una corretta routine. I tempi necessari per queste pratiche sono ovviamente condizionati anche dalle caratteristiche

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della sala di mungitura, dalla macchina mungitrice e dall’efficienza del mungitore.

2) Dopo la preparazione, la seconda fase consiste nella mungitura vera e

propria. In questa fase l’importante è posizionare correttamente i

prendicapezzoli in maniera rapida per limitare l’entrata di aria nell’impianto, riducendo il rischio di impatto. Una volta attaccati, i gruppi di mungitura non devono cadere, in tal caso andrebbero lavati prima di essere nuovamente applicati, ma non devono neanche permettere l’entrata di aria. Quest’ultimo fattore può essere facilmente valutato verificando che in sala non ci siano rumori di “soffi” causati proprio dall’entrata di aria nella guaina (devono essere assenti o rari). 3) La terza fase comprende il momento finale della mungitura, durante il

quale si passa da una portata di latte elevata e costante ad una portata inferiore, si può notare una maggiore penetrazione dei capezzoli all’interno della guaina, in tempi più o meno precoci, in base al livello di vuoto, del peso del gruppo e dal corretto rapporto del diametro tra guaine e capezzoli. In passato, si era soliti effettuare una pratica errata, che consisteva nell’appoggiare la mano al collettore, abbassandolo ed esercitando una trazione sulle tettarelle in modo da far defluire il latte presente nella cisterna mammaria. Tuttavia è stato ad oggi riconosciuto che questa manovra non è necessaria in condizioni di normalità, ma anzi è spesso associata ad un significativo aumento del rischio di mastite clinica, determinando una sovramungitura che causa dei traumi al livello del tessuto dei capezzoli.

4) Infine, l’ultima fase comprende il distacco del gruppo di mungitura, che deve avvenire senza ritardi, in modo da evitare una sovramungitura. Per avere un corretto distacco sarebbe meglio avere un flusso di latte di 400g/minuto, con tempi di stacco inferiori a 20 secondi. Prima del distacco deve sempre esserci un’interruzione di vuoto a livello del collettore, in modo da evitare un eventuale “stiramento” dei capezzoli e un forte richiamo di aria nel collettore che può trasportare microrganismi indesiderati. Una volta effettuato lo stacco, il mungitore dovrà applicare un idoneo prodotto disinfettante post-mungitura ai capezzoli (post-dipping). Per limitare la diffusione di batteri da un animale all’altro si può impiegare un sistema automatico di disinfezione chiamato backflushing o lavaggio in controcorrente. Questo metodo però non sostituisce le altre pratiche igieniche e, considerando il suo

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prezzo e l’impatto economico, deve essere attentamente valutato dall’allevatore in base ai costi/benefici.

Una volta terminata la mungitura è importante che le vacche non si corichino per circa 30 minuti in modo da permettere la chiusura del dotto papillare evitando così l’ingresso dei batteri nella mammella. Per facilitare questo meccanismo può essere utile fornire alle bovine alimento fresco al termine di ogni mungitura (Tangorra, 2007).

Il capezzolo rappresenta contemporaneamente una porta d’entrata dei batteri nella mammella e la prima linea di difesa dalle infezioni. Si comprende quindi l’importanza di mantenere il capezzolo ad uno stato ottimale per favorire una corretta difesa immunitaria e poter gestire i rischi di infezione. La pressione di contatto tra macchina mungitrice e tessuto del capezzolo si modifica durante le varie fasi di mungitura, in base alle forze applicate al tessuto stesso. Ciò che dovrebbe essere evitato in qualsiasi caso è la sovramungitura, che si può avere a seguito di una scorretta preparazione della mammella o di un ritardo del distacco del gruppo di mungitura; in questi casi l’apice del capezzolo viene esposto a livello di vuoto molto elevati (> 40kPa). I valori di depressione sono in grado di far accumulare fluidi nel tessuto, provocando quindi un edema e determinando in questo modo una congestione nel giro di soli 10-30 secondi, con un incremento di lesioni quali, eversione, erosione, congestione, edema ed iperplasia dell’epitelio a livello dell’apice del capezzolo. La gravità di queste lesioni possono essere ulteriormente accentuate in base alle caratteristiche delle guaine, come la lunghezza, la tensione, il calibro e le caratteristiche dell’imboccatura. Le condizioni del capezzolo possono variare nel giro di alcuni giorni, sia in presenza o in assenza di situazioni atmosferiche avverse. In assenza di condizioni atmosferiche sfavorevoli le alterazioni dell’apice dei capezzoli, dovuti ad un errata mungitura, si manifestano in un periodo che varia dalle 2 alle 8 settimane. La valutazione dello stato dello sfintere del capezzolo è un metodo veloce ed intuitivo per identificare la presenza di problemi nella mungitrice o durante la mungitura, oppure anche per verificare che gli interventi suggeriti abbiano avuto l’effetto sperato (Zecconi, 2010).

Queste valutazioni possono essere effettuate secondo un metodo basato su di un punteggio attribuito ad una fotografia digitale del capezzolo effettuata dopo la mungitura. Viene attribuito un punteggio da 1 a 4, dove 1 corrisponde alla situazione ottimale e a 4 corrisponde alla situazione

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peggiore secondo uno schema preciso. Tale punteggio scaturisce dal confronto con schede di valutazione prefissate (Fig. 9 e Fig. 10) (Zecconi, 2006). ! 1 2 3 4 1 2 3 4

Figura 9: Valutazione della cute del capezzolo tramite un sistema a

punteggio: 1 per i capezzoli sani fino a 4 per quelli molto alterati (Zec-coni, 2006)

Figura 10: Valutazione dello stato dello sfintere del capezzolo

tramite assegnazione di un punteggio dove 1=sano 4=gravemente malato (Zecconi , 2016).

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Ogni volta che l’animale viene munto, lo stato della cute del capezzolo rimane per lo più stabile, tranne che per un lieve rialzo della frequenza del punteggio di grado 3, dopo i 300 giorni di lattazione, il quale però viene compensato dal rialzo anche del punteggio di grado 1. Diversamente, il deterioramento dell’apice del capezzolo, è molto più evidente, in relazione al progredire del numero di mungiture, osservando un progressivo aumento del punteggio (peggioramento della situazione), con un significativo rialzo dei valori dopo i 300 giorni di lattazione (Zecconi, 2006). Per una corretta valutazione è necessario controllare almeno 30 capezzoli di 15 animali primipari, rappresentati da un capezzolo anteriore e uno posteriore, ed in aggiunta altrettanti capezzoli di animali pluripari. La situazione ideale viene registrata quando l’85% o più dei capezzoli raggiunge un punteggio di 1 o 2 (Zecconi, 2010).

Un altro indice di valutazione dello stato del capezzolo, ritenuto essere maggiormente affidabile, è la valutazione dello spessore della cute, mediante un cutimetro, simile a quello utilizzato per le prove tubercoliniche, avente però una molla più morbida, in grado di valutare le variazioni di spessore prima e dopo la mungitura. Questo metodo è stato sviluppato da Hamann e Mein nel 1990, ed è stato impiegato con successo fino ad oggi in diverse condizioni, dimostrandosi un utile indicatore. Nel caso in cui lo spessore del capezzolo presenti un aumento dello spessore superiore al 5%, oppure una riduzione maggiore del 20%, sta ad indicare un reale rischio di mastite (Zecconi, 2006).

L’uso sempre più frequente di prodotti chimici per la detersione e la disinfezione del capezzolo in fase pre e post-mungitura ha reso attuale l’uso di metodi di misurazione dell’impatto di tali prodotti sulla cute del capezzolo. Secondo uno studio svolto da Zecconi nel 2005, prendendo spunto da alcune ricerche effettuate in campo umano, è stato possibile individuare una procedura di valutazione dello stato di salute della cute del capezzolo basata sulla misurazione del suo pH e del suo stato di idratazione. Osservando i Grafici 1 e 2 si osserva la differenza tra allevamenti che impiegano la stessa sostanza attiva per disinfettare il capezzolo, ma con diversi metodi di preparazione della mammella. Riportando le conclusioni dedotte da Zecconi, tenendo conto che idealmente e teoricamente il pH della cute del capezzolo dovrebbe essere basso ed il suo stato di idratazione elevato, l’analisi dei parametri indicano che la prima azienda considerava degli animali con capezzoli in condizioni migliori rispetto a quelli dagli altri due allevamenti (Zecconi, 2006).

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La disinfezione del capezzolo ha la funzione di eliminare gli eventuali microrganismi patogeni presenti sulla superficie e all’interno del canale del capezzolo. Minore è il periodo che intercorre tra lo stacco del gruppo di mungitura e l’applicazione del disinfettante maggiore è la probabilità di infezione batterica. Un ulteriore scopo è l’effetto emolliente dei prodotti disinfettanti, correlato ad una minore possibilità di aderenza da parte dei batteri sulla superficie della cute stessa, mantenendo a livelli ottimali le difese naturali della cute, quali lo strato corneo, il pH e la presenza di sebo. Il disinfettante ha un azione preventiva che si esplica in un tempo ridotto, con una persistenza stimabile in circa un’ora. Associato alla chiusura dello sfintere del capezzolo, cessando così lo stimolo neuro-ormonale che permette la mungitura. Il trattamento disinfettante potrebbe essere insufficiente nel caso in cui le bovine, una volta terminata la mungitura, si corichino sopra lettiere sporche, umide, o nelle corsie (Zecconi, 2010). Il disinfettante può essere applicato sia mediante nebulizzazione che per immersione. Nel primo caso abbiamo un maggior consumo di prodotto, circa del 50%; possono comunque avere entrambe un’efficacia equivalente se l’applicazione viene fatta correttamente. Ad ogni mungitura è molto importante che il disinfettante venga impiegato. Il disinfettante previene le infezioni mammarie, consentendo di ridurre le cellule somatiche, con un generico effetto positivo sulla mungitura stessa, migliorando l’interazione tra la mungitrice ed il capezzolo. Questo comporta uno stato di salute maggiore per la cute e l’apice del capezzolo, riducendo la frequenza della comparsa di nuove infezioni, aumentando la produzione del latte, mentre i tempi di mungitura si stabilizzando a 5-6 minuti circa (Zecconi, 2010).

0 8 15 23 30 Unità di idratazione Azienda 1 Azienda 2 Azienda 3

Grafico 2- Idratazione della cute del

capezzolo: Maggiore è l’idratazione del capezzolo migliori sono le condi-zioni sanitarie (Zecconi,2006)

0 1,8 3,5 5,3 7 pH Azienda 1 Azienda 2 Azienda 3

Grafico 1- pH della cute del

capezzo-lo: Minore è il valore di pH, più le condizioni sanitarie del capezzolo mi-gliorano. Le aziende usano un disinfet-tante con lo stesso principio attivo ma con diverse modalità di preparazione (Zecconi, 2006)

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Sostanze utilizzate per la disinfezione del capezzolo

All’interno dei prodotti per la disinfezione si può ritrovare una vasta gamma di principi attivi differenti. Alcuni di essi possono essere impiegati per la disinfezione in pre-mungitura. Questa procedura, obbligatoria negli USA, ma non prevista dalla normativa europea, qualora la preparazione della mungitura venga effettuata in maniera corretta, come già descritto, non risulterebbe indispensabile e ha un rapporto costo/beneficio sfavorevole. I prodotti che possono essere impiegati per la disinfezione del capezzolo, devono essere registrati come Presidi Medico Chirurgici o come Biocidi. Questo garantisce sulla costante e corretta concentrazione del principio attivo nel prodotto (Zecconi, 2013).

I detergenti sanitizzanti e/o disinfettanti più conosciuti e utilizzati sono a base di:

1) Cloroderivati: il cloro ed i suoi composti in soluzione acquosa, presentano cloro elementare e acido ipocloroso, che si dissocia in ione ipoclorito. Possono essere organici oppure inorganici. Hanno attività battericida ad ampio spettro ed una minore attività nei confronti di virus e funghi. Non svolgono attività detergente. Sono composti tossici, irritanti, corrosivi, dall’odore penetrante: stabili nelle confezioni originali, ma instabili una volta preparate le soluzioni d’impiego (circa 7 giorni).

2) Sali quaternari di ammonio: si tratta di tensioattivi cationici. Hanno effetto denaturante, complessante e precipitante sulle proteine, effetti sul metabolismo microbico, sulla permeabilità cellulare effetto collassante sulla forza proton motrice. Hanno attività detergente e disinfettante combinata. Sono soprattutto attivi sui germi Gram positivi, poco sui Gram negativi ed i miceti. Sono inodori, incolori ed insapori, non sono caustici, corrosivi, tanto da poter essere impiegati senza particolari precauzioni per le superfici. Possiedono una forte capacità di penetrare a livello della pelle del capezzolo, e a livello delle fessurazioni e rugosità delle superfici trattate. Dopo l’asciugatura, lasciano un sottile film batterio-repellente. La capacità di disinfettare viene inibita dalla presenza di sporcizia, di detergenti anionici o di saponi, dagli ambienti acidi, dall’acqua ad un elevato grado di durezza. Devono essere impiegati in correttamente in modo da non creare fenomeni di resistenza da parte della flora batterica. Sono composti

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ideali per la disinfezione delle sale di mungitura e per il lavaggio delle attrezzature presenti in allevamento al termine di un ciclo produttivo. 3) Iodofori: lo iodio non esiste libero in natura, ma lo si trova come

ioduro o come iodato di calcio. Lo iodio elementare è un alogeno leggermente solubile in acqua. La sua stabilità in acqua è aumentata dall’aggiunta di ioduri alcalini. È noto da oltre un secolo come valido battericida, sporicida e virucida, ma solo se sciolto in alcool. È quindi un ottimo disinfettante, ma è irritante per la pelle ed altri tessuti; ha un odore penetrante; non agiscono in ambienti sporchi; instabili in diluizione d’uso (poche ore); molto impiegati nella disinfezione dei capezzoli nella profilassi delle mastiti; il principio attivo (iodio) viene impiegato in concentrazioni dell’1-2%.

4) Perossidi: il perossido di idrogeno, o acqua ossigenata, è uno sbiancante, considerato un disinfettante efficace e sicuro ma meno efficiente ed elimina meno microrganismi rispetto all’ipoclorito. Tramite l’ossidazione, una sorta di combustione controllata, elimina i microrganismi. L’acqua ossigenata crea perossidi liberi che attaccano le molecole biologiche ossidandole e a contatto con la materia organica, quali microrganismi e proteine, si scinde in ossigeno e acqua. Il pH della soluzione di lavaggio influenza molto la sua efficienza, così come alcune impurità o enzimi che possono essere presenti. Con l’aggiunta di un tensioattivo all’acqua ossigenata ne aumenta le proprietà di penetrare meglio nello sporco e negli interstizi del capezzolo. E’ un disinfettante che non lascia residui perché si trasforma in ossigeno e acqua, quindi non è necessario risciacquare. Il principio attivo può essere disattivato dalla catalasi (enzima contenuto nelle carni e nel fegato) e da metalli in traccia (ferro e rame in particolare). 5) Alcoli: generalmente si fa riferimento all’alcool isopropilico e alcool

etilico. Il primo ha un azione antimicrobica più spiccata in confronto all’etilico, con una concentrazione al 70% è un eccellente ed economica scelta per le superfici di lavoro, la strumentazione e le mani. L’alcool etilico puro è un liquido incolore, volatile, altamente infiammabile, che insieme all’acqua forma una miscela costituita dal 95,57% in peso di alcool e dal 4,43% di acqua. Insieme alla clorexidina, allo iodio e derivati, ne aumenta molto l’attività e la capacità di penetrazione. Possiedono un discreto potere disinfettante se impiegati per immersione, mentre sono completamente inattivati per strofinamento avendo un alta volatilità. Solitamente vengono impiegati

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per disinfettare le mani. Se l’alcool viene miscelato ad una percentuale inferiore al 59% in peso, hanno scarsa efficacia disinfettante. Hanno un alto potere detergente e solvente. Come spettro d’azione sono più efficaci contro i batteri e verso i virus liofili e miceti, mentre contro micobatteri e virus non liofili sono scarsamente efficaci. La presenza di materiale organico riduce l’attività dell’alcool. Con un uso continuo e ripetuto danneggiano la gomma e alcune plastiche. Alcune plastiche, come ad esempio l’HDPE, sono resistenti all’alcool, così come i metalli e il vetro (Poli, 2005).

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La mastite bovina

Definizione e patogenesi

La mastite bovina si definisce come una patologia della ghiandola mammaria, frequentemente causata da un’infezione ad eziologia batterica. Questa determina lo sviluppo di un processo infiammatorio con conseguente alterazione della composizione e della qualità del latte prodotto (Fig. 11).

Sebbene la mastite sia una patologia conosciuta e studiata da molto tempo, esistono diversi tipi di classificazione. Questo ha contribuito a creare non poca confusione sia per l’identificazione delle cause sia nell’applicazione di programmi di controllo razionali ed efficienti (Zecconi, 2016).

A livello internazionale la classificazione delle mastiti si basa sui seguenti parametri:

Figura 11: Consistenze di campioni di latte mastitico; A secrezione viscosa rossa/

marrone associata a mastite gangrenosa; B latte coagulato; C secrezione acquosa marrone, tipica di un’infezione da E. coli; D latte acquoso con alcuni coaguli (Blowey e Edmondson, 2010).

A B

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- rilevamento di eventuali patogeni nel latte; - contenuto in cellule somatiche (SCC) del latte; - presenza di segni clinici.

In base a questi parametri si possono definire le seguenti forme:

1) Infezione latente: infezione rilevabile solo attraverso esami batteriologici, senza alcun tipo di alterazione visibili a livello di secreto e senza alcuna risposta cellulare (SCC<100.000 cellule/ml);

2) Infiammazione: può rappresentare lo stadio iniziale o finale di una forma di mastite clinica o subclinica (SCC comprese tra 100.000 cellule/ml e 200.000 cellule/ml);

3) Mastite subclinica: caratterizzata da un elevato contenuto cellulare (SCC>200.000 cellule/ml), con un esame batteriologico positivo o negativo;

4) Mastite clinica: caratterizzato dalla comparsa di segni clinici, rilevabili visivamente, i quali si manifestano con alterazioni del latte con presenza di fiocchi, frustoli di fibrina e aspetto sieroso, e/o con un aumento del volume della mammella, arrossamento, dolore e secrezione ridotta; in questo caso il contenuto cellulare è molto elevato (SCC>200.000 cellule/ml) e l’esame batteriologico può essere positivo o negativo. In base alla gravità, viene classificata in:

a. LIEVE, quando si rilevano alterazioni solo a livello delle secrezioni, ma il quarto si presenta normale;

b. MODERATA, quando si osserva un’irritazione a livello di un quarto con calore e dolore ed eventuale edema; può succedere che solo il quarto possa essere interessato senza che ci siano manifestazioni a livello di secrezioni;

c. GRAVE, qualora insieme ai sintomi precedenti compaiano anche sintomi generali come febbre, anoressia e calo drastico della produzione, generalmente la comparsa è improvvisa.

5) Mastite cronica: infezione mammaria persistente con un rialzo costante delle cellule somatiche, superiore alle 4 settimane, solitamente associato ad un repentino indurimento e/o presenza di noduli a livello

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del parenchima mammario. Alle volte questa forma può dare luogo a forme cliniche, moderate o lievi.

La conta delle cellule somatiche totali, anche in assenza dell’isolamento dei patogeni, ci può dare un’indicazione utile sullo stato sanitario della mammella. Le cellule somatiche sono elementi cellulari del latte rappresentati per la maggior parte da leucociti di origine ematica (>90%) e da cellule epiteliali di origine mammaria. Spesso capita che le infezioni si realizzino a livello di un singolo quarto, ed è quindi possibile che l’animale sia affetto da mastite subclinica, e presenti, allo stesso tempo, un conteggio cellulare < 100.000 cellule/ml (Tab. 2 e Tab. 3). I motivi di quest’ultimo caso possono essere legati al fatto che i controlli ufficiali riguardano tutto il latte munto e non solo quello ad inizio mungitura, oppure perché un quarto infetto può secernere latte caratterizzato da un’elevata conta in cellule somatiche (400.000 cellule/ml), mentre gli altri un latte caratterizzato da valori nettamente inferiori (10.000 cellule/ml). In questo caso si parla di “effetto diluizione”, che rende difficoltoso valutare in maniera corretta il reale stato sanitario della mammella (Zecconi, 2016).

Tabella 2: Definizione di stato sanitario della mammella (Zecconi,2016)

Definizione SCC Batteriologia Clinica

Quarto sano < 100.000/ml - Assente

Infezione latente < 100.000/ml + Assente

Infiammazione 100.000-200.000/ml - Assente

Mastite sublinica > 200.000/ml +/- Assente

Mastite clinica > 200.000/ml +/- Presente

Mastite cronica > 200.000/ml + (saltuariamente -) Assente (saltuariamente presente)

Tabella 3: Definizione di mastite clinica (Zecconi, 2016)

Definizione Alterazioni latte Alterazioni quarto Sintomatologia generale

Lieve Presenti Assenti Assente

Moderata Presenti (assenti) Presenti Assente

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La causa principale di mastite è prevalentemente rappresentata da batteri Gram positivi, però sono relativamente frequenti anche batteri Gram negativi ed in minor misura da micoplasmi. Recentemente è stata inoltre messa in evidenza la presenza di un nuovo agente mastidogeno, quale

Prototheca spp., un’alga in grado di determinare una forte reazione

infiammatoria; saltuari sono invece i casi di mastiti provocate da lieviti e muffe.

La classificazione delle mastiti in base al serbatoio o reservoir è funzionale agli interventi da applicare per avere un controllo all’interno dell’allevamento. La mammella si infetta quando i batteri penetrano nel canale del capezzolo e si moltiplicano nella ghiandola mammaria, anche se si possono avere delle eccezioni con infezioni sistemiche, come nel caso di listeriosi, salmonellosi e micoplasmosi. Tuttavia in questi casi i problemi da affrontare sono diversi e spesso più importanti di quelli che hanno a livello mammario. Quando i batteri invadono e si moltiplicano all’interno della mammella, si determina una reazione infiammatoria ed immunitaria, con lo scopo di eliminare i patogeni, quindi l’esito dell’infezione sarà data dalla capacità di questi batteri di resistere all’azione difensiva della bovina (Zecconi, 2016).

Considerando le tipologie di trasmissione dell’organismo responsabile di mastite, è possibile classificare le mastiti stesse in AMBIENTALI e CONTAGIOSE.

Ancora più nello specifico, in base all’eziologia e alla modalità di trasmissione, i microrganismi coinvolti possono essere divisi in:

1) Batteri contagiosi; 2) Batteri ambientali; 3) Batteri opportunisti;

4) Patogeni mammari non comuni.

La categoria facente parte dei batteri contagiosi hanno uno spiccato tropismo per il tessuto mammario, però hanno una scarsa capacità di sopravvivere nell’ambiente, per questo motivo si diffondono direttamente da animale malato ad animale sano tramite il contatto diretto con il latte. Il contagio avviene principalmente dall’impianto di mungitura e le mani dei mungitori.

I batteri più importanti facenti parte di questa categoria, sono: - Streptococcus agalactiae,

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- Corynebacterium bovis, - Mycoplasma spp.

I batteri ambientali sono batteri comunemente presenti nell’ambiente in cui vivono le bovine e penetrano nella mammella nel periodo che intercorre tra le due mungiture, nel momento in cui i capezzoli vengono a contatto con le deiezioni o la lettiera.

A questa categoria appartengono i seguenti batteri: - Streptococcus uberis, - Streprococcus dysgalactiae, - Altri streptococchi, - Escherichia coli, - Coliformi, - Actynomices pyogenes

Il terzo gruppo appartiene a batteri opportunisti, che vivono normalmente sull’epidermide degli animali, diventando in alcuni casi microrganismi patogeni in animali soggetti ad abbassamento delle difese immunitarie. I batteri opportunisti sono per la maggior parte stafilococchi coagulasi negativi, quali:

- Staphylococcus epidermidis, - Staphylococcus chromogenes, - Staphylococcus haemolyticus, - Altri stafilococchi.

I batteri mammari non comuni sono rappresentati da un gruppo di batteri che solo saltuariamente possono determinare gravi mastiti ed in genere interessano solo pochi animali della mandria.

Questi patogeni sono:

- Pseudomonas aeruginosa, - Actinomyces piogenes, - Nocardia spp.,

- Micoplasmi spp., - Lieviti e muffe.

Un’ulteriore classificazione divide i microrganismi in patogeni maggiori (tutti i contagiosi, Coliformi, Actinomyces piogenes), indipendenti da fattori

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