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Eutanasia: uno sguardo attraverso il diritto comparato

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Academic year: 2021

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Eutanasia: uno sguardo attraverso il

diritto comparato.

Contents

1. L'Eutanasia in Italia. Introduzione ... 5

1. Inquadramento del diritto italiano. ... 8

1.2. Testamento biologico e dichiarazioni anticipate di trattamento. ... 13

1.3. Le proposte di legge più recenti... 15

1.4 Profili giuridici del caso Englaro ... 21

1.5 Il caso di Piergiorgio Welby. ... 30

1.7 Dottrina cattolica e funerali religiosi: il caso Welby. ... 41

2. L'eutanasia in America. ... 47

2.1 Introduzione sui profili etici e filosofici dell'Eutanasia. ... 47

2.2 Quadro normativo dell'eutanasia negli USA. Ottenuta la legalità in 2 Stati su 50 in settant'anni. ... 50

2.3 Due tra le più importanti e tormentate vicende giudiziarie. ... 55

2.3 Le prime importanti decisioni in tema di eutanasia. ... 58

2. 4 Il caso Terry Schiavo e l'intervento del governo federale della Florida. ... 61

2.5 Il caso Brittany Maynard. ... 68

2.6 La situazione in California. Il caso Betsy Davis. ... 70

3. L'eutanasia in Danimarca,Olanda e Belgio. ... 73

3.1 Uno sguardo d'insieme. Danimarca e Olanda. ... 73

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3.3 Il primo caso di eutanasia su un ragazzo. ... 90 3.4 L' eutanasia in Francia: il caso Vincent Lambert ... 93 3.5 La decisione del Conseil d'Etàt. ... 95

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La presente trattazione ha come scopo quello di illustrare la situazione normativa sviluppatasi in vari paesi del mondo, intorno ad un tema che, oltre ad aver scosso le coscienze della società, se non del mondo intero, è stata caratterizzata, fin dagli esordi, da continui scontri e battaglie dal punto di vista politico e legislativo. Si tratta del tema dell'eutanasia, e di tutti gli aspetti ad essa collegati, tra i quali, i più rilevanti, ovvero il testamento biologico, le direttive anticipate di trattamento, ed il suicidio assistito.

Come illustrato nel seguente lavoro, tale tematica ha interessato la storia del nostro e di altri paesi del mondo fin dalla metà del secolo scorso, sviluppandosi, con continui cambiamenti fino ai nostri giorni. Il lavoro ha inizio con una breve introduzione sul significato etimologico della parola "eutanasia" e con una breve ma dettagliata descrizione delle varie pratiche alle quali essa viene ricollegata.

Dopo un breve excursus sulle origini storiche, religiose e filosofiche di tale pratica, il lavoro prosegue trattando della situazione legislativa sul tema per quanto riguarda il nostro paese. Il punto di partenza, per la trattazione, lo si è identificato nei principi fondamentali contenuti nella Costituzione, arrivando, poi, ad approfondire i vari interventi legislativi susseguitisi in materia, di cui il più importante, il d.d.l Calabrò, mai giunto al compimento del procedimento legislativo. Da questa base, si è giunti e trattare in maniera approfondita i due casi più importanti registratisi nel nostro paese, i quali scatenarono una vasta eco mediatica, con riflessi importanti anche dal punto di vista politico: si tratta dei casi di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro.

La trattazione prosegue con l'analisi dei profili legislativi e politici di tale tema negli Stati Uniti d'America, con particolare riguardo, in prima battuta, ai profili etici e filosofici sottesi alla materia, per poi proseguire con la trattazione dei vari casi verificatisi negli anni all'interno di questo stato, a partire dai primissimi in materia, ovvero i casi Quinlan e Cruzan. Attraverso l'analisi degli sviluppi normativi in materia verificatisi all'interno di ogni singolo stato appartenente agli U.s.a, vengono, in seguito, esposti i singoli casi di eutanasia verificatisi a partire dal caso Therry Schiavo e la legge

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cambiare paese per vedere esauditi i suoi desideri di una morte indolore, ed infine il caso californiano che vide coinvolta la giovane Betsy Davis.

Il lavoro prosegue con la trattazione degli aspetti della materia nel paese in cui ha avuto maggiore eco e sviluppo, il Belgio. Partendo da un'inquadramento generale riguardante il paese in oggetto, insieme a Danimarca ed Olanda, si arriva ad esporre un caso verificatosi in questi ultimi giorni, che ha portato alla esecuzione della pratica dell'eutanasia su di un ragazzo minorenne, di cui ovviamente, rimangono sconosciuti i dati anagrafici.

Dopo l'analisi di questo eclatante caso, che ha scosso il mondo intero, sopratutto per la delicatezza legata alla giovane età del soggetto interessato, viene esposto un breve riferimento ad un' importante caso verificatosi in Francia, dal quale ne conseguì un'importante e storica pronuncia da pare del Conseil d'Etat: il famoso caso di Vincent Lambert, il quale, al contrario degli altri episodi qui analizzati, ha registrato una parziale inversione di tendenza su tale pratica medica.

Lo scopo del lavoro è quello di offrire una visione generale, di carattere comparativo sul tema dell'eutanasia e sulle reazioni che si sono avute nei singoli paesi qui presi in considerazione.

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1. L'Eutanasia in Italia. Introduzione

Il termine "eutanasia" deriva dalle parole greche "eu" buona e "thanatos" morte ed individua una o più modalità, che permettono di giungere ad una morte non dolorosa, anche detta "dolce morte", al fine di evitare, o quantomeno ridurre al minimo, le sofferenze dovute a particolari malattie terminali.

Trattando di eutanasia, essa assume diverse forme, a seconda dello scopo perseguito: Eutanasia eugenica: soppressione indolore dei deformi, allo scopo di migliorare la specie;

Eutanasia collettivista:

- economica utilitaristica: eliminazione di invalidi, vecchi e infermi; - criminologica: eliminazione di persone socialmente pericolose; - sperimentale: eliminazione a scopo scientifico;

- solidaristica: eliminazione per salvare altre vite;

Eutanasia individualistica/ pietosa: rappresenta il tema principale della seguente trattazione.

Le pratiche che possono essere ricondotte all'eutanasia sono certamente varie e si distinguono anche da un punto di vista morale e giuridico, ma le forme principali sono l'eutanasia attiva e passiva. La prima consiste nell’azione che procura direttamente la morte del malato, con intento dichiaratamente caritatevole (mercy- killing), ad esempio, attraverso la somministrazione di sostanze venefiche o il soffocamento e, perciò, molti approcci (giuridici, morali, religiosi) negano che la si possa distinguere in modo sostanziale dall'omicidio. Anche dal punto di vista della deontologia medica, qualche

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ai concetti fondanti di medicina, diagnosi e terapia, quali enunciati anche nel Giuramento di Ippocrate. Nell'eutanasia passiva, invece, si sospendono tutti gli interventi di sostegno alla vita del soggetto (trattamenti terapeutici o nutrimento), provocandone la morte. Questa forma si rivela sostanzialmente diversa dall'eutanasia attiva, in quanto la morte sovviene in modo "naturale"(letting- die). Alla base dell'eutanasia passiva vi è la volontà da parte del medico curante di rispettare e onorare la volontà del paziente di non essere sottoposto ad un determinato trattamento. La terza forma è quella del cosiddetto "suicidio assistito", che consiste nel fornire a una persona i mezzi per togliersi la vita in modo poco doloroso. A differenza dell'eutanasia passiva, la morte, quindi, non è naturale, ma a differenza dell'eutanasia attiva, colui che assiste al suicidio non partecipa direttamente alle azioni che portano alla morte del paziente. Di immediata evidenza risulta la delicatezza dell'argomento e del dibattito che coinvolge gli ambiti morale, religioso, legislativo, scientifico, filosofico e politico. Da una analisi storica, è possibile individuare già nell'Antico Testamento la tematica del "suicidio assistito" nell'episodio di Saul, che chiede ad un soldato di essere ucciso per alleviare le sue sofferenze: il milite esaudisce la richiesta, ma sarà poi condannato dal re Davide per omicidio ed a nulla varrà il dichiarare di aver eseguito un ordine "umanitario"1. Il Codice di Hammurabi, invece, riportava previsioni normative che consideravano con rispetto l'assistenza al suicidio e anche gli antichi Greci nutrivano un profondo rispetto nei confronti del suicidio, ma lo sviluppo della professione medica e il consolidamento di norme etiche e deontologiche portarono già Ippocrate, nel 430 a.C. circa, a prevedere nel suo giuramento l'impegno a non somministrare, neppure se richiesto, un farmaco mortale né suggerire di assumerlo: " Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio"2.

1

http://www.settemuse.it/costume/costume_eutanasia.htm

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Tra 400 e 500, Tommaso Moro,umanista, scrittore e politico cattolico inglese, venerato come santo dalla Chiesa cattolica e canonizzato come martire da Pio XI nel 1935, uomo di legge, scrittore e politico inglese, santo della Chiesa cattolica, nel suo Utopia3scrive: «Nella migliore forma di repubblica i malati incurabili sono assistiti nel miglior modo possibile. Ma se il male non solo è inguaribile, ma dà al paziente continue sofferenze, allora sacerdoti e magistrati, visto che il malato è inetto a qualsiasi compito, molesto agli altri, gravoso a sé stesso, sopravvive insomma alla propria morte, lo esortano a morire liberandosi lui stesso da quella vita amara, ovvero consenta di sua volontà a farsene strappare dagli altri…sarebbe un atto religioso e santo». Bisogna, però, arrivare all'inizio del XVII secolo per trovare l'uso del termine eutanasia da parte del filosofo Francesco Bacone, il quale fu un filosofo, politico, giurista e saggista inglese vissuto alla corte inglese, sotto il regno di Elisabetta I Tudor e di Giacomo I Stuart. Formatosi con studi in legge e giurisprudenza, divenne un sostenitore e strenuo difensore della rivoluzione scientifica sostenendo il metodo induttivo fondato sull'esperienza. Nella sua opera sul Progresso della conoscenza, il "Novum Organum" (1605), egli invita i medici a non abbandonare i malati inguaribili e ad aiutarli a soffrire il meno possibile. Non vi era, però, nell'idea di Bacone, il concetto esplicito di dare la morte, poiché, secondo il filosofo, lo scopo del medico doveva essere solo quello di far sì che la morte, comunque naturale, non fosse dolorosa. L'intervento diretto ed attivo del personale medico per procurare la morte iniziò a delinearsi solo verso la fine del XIX secolo, quando emerse l'idea "dell'uccisione per pietà" o "omicidio del consenziente" come pratica accettabile e, anzi, da ricercare e promuovere.

Oggi, il panorama normativo a livello internazionale si presenta altamente variegato.

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1.1 Inquadramento del diritto italiano.

Ad oggi, in Italia, secondo gli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione , ogni individuo ha due diritti fondamentali: quello all'auto determinazione e quello alla salute, " in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto"4. Tutto ciò muove dal diritto alla libertà personale, sancito dall'articolo 32 della Costituzione, secondo il quale nessun individuo può essere costretto a subire trattamenti sanitari fortemente invasivi. Esiste, infatti, un diritto sociale ad essere curati, ma anche a rifiutare le cure oppure interromperle, una volta che siano state poste in essere. Dal canto suo, anche il medico è tenuto a rispettare la volontà del paziente, secondo l'art 53 del Nuovo Codice italiano di deontologia medica, che sancisce: "Quando una persona rifiuta volontariamente di nutrirsi, il medico ha il dovere di informarla sulle gravi conseguenze (...). Se la persona è consapevole delle possibili conseguenze della propria decisione, il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale nei confronti della medesima, pur continuando ad assisterla"5. Oltre agli articoli 13 e 32, la nostra Costituzione contiene un altro importante articolo, il secondo, che tutela e promuove i diritti fondamentali, primo tra tutti il diritto alla vita. Ai sensi di tale articolo, un trattamento terapeutico, seppur invasivo, ma necessario per la sopravvivenza del paziente, non è solo permesso, ma dovuto, poiché frutto del dovere di solidarietà, sancito dall'articolo in questione. Mettendo in evidenza il contenuto di tale articolo, alla base della nostra Costituzione, si nota chiaramente come esso sia in netto contrasto con gli articoli 13 e 32 sopra citati. Alla base della discussione intorno al tema

4

Eutanasia e diritto. Confronto tra discipline. A cura di Stefano Canestrari, Giovanni Cimbalo e Giuseppe Pappalardo. G. Giappichelli Editore, Torino

5

Diritto di morire, decisioni senza legge, leggi senza decisione. Profili giuridici del caso Englaro. A cura di Salvatore Boccagna, Dike Giuridica Editrice, S.r.l Roma, 2014

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dell'eutanasia, sta proprio questo contrasto riguardante i principi fondamentali della nostra Costituzione, che, da una parte, porterebbero ad un totale consenso nei confronti di questa pratica, dall'altra, ad un suo netto rifiuto. L’eutanasia attiva non è assolutamente normata dai codici del nostro Paese, perciò essa è assimilabile all’omicidio volontario (articolo 575 del codice penale). Anche nel caso in cui si riesca a dimostrare il consenso da parte del malato, le pene, previste dall’articolo 579 (omicidio del consenziente) comportano la reclusione dai sei ai quindici anni. Anche il suicidio assistito è considerato un reato, ai sensi dell’articolo 580, mentre nel caso di eutanasia passiva, pur essendo anch’essa proibita, la difficoltà nel dimostrare la colpevolezza la rende più sfuggente a eventuali denunce.

Il dibattito sul tema eutanasia in Italia vive di alti e bassi, con climax raggiunti per taluni casi specifici (si pensi ad Eluana Englaro o a Piergiorgio Welby, di cui tratteremo nei prossimi paragrafi), capaci di infiammare e spaccare l’opinione pubblica. Proprio nei casi appena citati, si è mascherata col termine eutanasia una legittima richiesta di sospensione di trattamenti, e, questo, proprio nel momento in cui in Parlamento prendeva forma il ddl Calabrò, contenente "Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento”, e, primo tra tutti il principio del "Divieto di accanimento terapeutico"6. L'articolo 1 lettera f) del citato decreto garantisce che, “in caso di pazienti in stato di fine vita o in condizione di morte prevista come imminente, il medico debba astenersi da trattamenti sanitari straordinari, non proporzionati, non efficaci o non tecnicamente adeguati rispetto alle condizioni cliniche del paziente od agli obiettivi di cura."7 Sembra, quindi, assodato che il tema del divieto di accanimento terapeutico sia estraneo a quello delle

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Eutanasia: se l'opzione scriminante riconosce un nuovo diritto. Articolo, 06/10/2014. Di Emanuele

Telesca. Pubblicato il 26/11/2014.

http://www.altalex.com/documents/news/2014/11/26/eutanasia-se-l-opzione-scriminante-riconosce-un-nuovo-diritto#_ftn22

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dichiarazioni anticipate di trattamento, le quali devono “essere conformi a quanto prescritto dalla legge e dal Codice di Deontologia medica” (art. 3 comma 2) e, quindi, non possono contrastare con il divieto stesso. Il verbo “garantire” e la natura oggettiva del divieto comporta la possibilità di un controllo giudiziale sulle terapie erogate al paziente: quest’ultimo potrà agire in ragione del suo diritto a non essere sottoposto a terapie integranti accanimento terapeutico, chiedendo che le stesse cessino. Analoga azione poteva essere promossa dai tutori degli interdetti, dai genitori dei minori, dagli amministratori di sostegno, dai fiduciari di coloro che hanno sottoscritto dichiarazioni anticipate di trattamento (articolo 5 comma 4). D'altro canto, un medico o una Direzione Sanitaria potevano rifiutarsi di procedere a determinati trattamenti sanitari richiesti dal paziente o dai suoi familiari, se avessero ritenuto che si trattasse di un'integrazione all' accanimento terapeutico.8 I medici, quindi, sarebbero stati posti sotto controllo e continuamente a rischio di azione giudiziale e di responsabilità disciplinare nel caso, ad esempio, avessero posto in essere terapie senza il consenso del paziente, nell’ambito di un ospedale.

Questo sistema, però, presentava criticità, quale ad esempio l'intenzione di voler estendere il concetto di accanimento terapeutico, e, conseguentemente, il controllo giudiziale sull’operato del medico anche alla condizione di morte non prevista come imminente o inevitabile. Tale ddl prendeva, appunto, le mosse da uno dei più risonanti casi di eutanasia del nostro paese, il caso Englaro, verificatosi nel 2007. Esso aveva l'intento di permettere che, su richiesta dei tutori dei malati, si potessero interrompere le cure nei confronti degli stessi. Proprio con questo disegno di legge, veniva sconfessata parte della pronuncia della Corte di Cassazione riguardante appunto il caso Englaro, quando i supremi giudici dichiararono che, in assenza di una prova dell’irreversibilità della perdita della coscienza e della prova della volontà presunta del paziente di morire, “deve essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal

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grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato”. In seguito, la Corte d’Appello di Milano sottolineava che, al contrario, nulla impediva di ritenere che il tutore potesse adire l’Autorità Giudiziaria quando riusciva a dimostrare che il (diverso) trattamento medico in concreto erogato fosse oggettivamente contrario alla dignità di qualunque uomo e, quindi, anche di qualunque malato incapace. Altro importante principio, contenuto all'interno del ddl in analisi, era il principio del "consenso informato": L'art 1 lettera c) garantiva che "nessun trattamento sanitario può essere attivato a prescindere dall’espressione del consenso informato nei termini di cui all’art. 2 della presente legge…” , mentre il primo comma dell’art. 2 ribadiva il principio: “Salvo i casi previsti dalla legge, ogni trattamento sanitario è attivato previo consenso informato, esplicito ed attuale del paziente prestato in modo libero e consapevole”. Il terzo comma descriveva, inoltre, le informazioni che il medico avrebbe dovuto fornire al paziente, il quale doveva esprimere il suo consenso o rifiuto. Si arrivava, quindi, a concludere, all'interno del seguente ddl, che il consenso doveva essere espresso in precedenza (“previo consenso …”) e, inoltre, essere esplicito ed in nessun caso presunto. Infine, doveva essere espresso in forma scritta: l’art. 2 comma 3, infatti, affermava che “l’alleanza terapeutica…si esplicita in un documento di consenso, firmato dal paziente, che diventa parte integrante della cartella clinica”. Perciò, un consenso prestato oralmente non è valido e non può essere in alcun modo dimostrato a posteriori in mancanza del documento firmato. Anche la volontà del paziente di non essere informato deve essere espressa per iscritto (articolo 2 comma 4), mentre niente era previsto per la revoca, anche parziale, la quale era sempre possibile (art. 2 comma 5).

Gli scopi e gli effetti della regolamentazione erano diversi: per quanto riguardava lo scopo fondamentale della legge – introdurre l’eutanasia dei malati incoscienti – il medico era, sostanzialmente, messo da parte, poiché , se il consenso non era stato previamente prestato, egli non aveva alcun obbligo nei confronti del paziente, ma addirittura un divieto di agire. In nessun caso, quindi, si sarebbe potuto ipotizzare una

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perché veniva meno l’obbligo di attivarsi. Da quanto analizzato, si può notare che la portata del principio del "consenso anticipato" risultava molto ampia, poiché si prevedeva la possibilità di revocare il consenso anche parzialmente (articolo 2 comma V), e pare che ciò legittimasse, se non addirittura imponesse, la cessazione delle terapie, anche se salvavita. Non era prevista alcuna inefficacia nei confronti della revoca del consenso che interrompesse una terapia salvavita. Nel caso di Piergiorgio Welby, il quale revocò il consenso al trattamento del respiratore artificiale che gli permetteva di rimanere in vita, il G.I.P., che prosciolse il medico Mario Riccio, sostenne che dal principio del consenso informato discende anche l’obbligo di interrompere le terapie già iniziate per le quali il paziente ha revocato il consenso. Era, inoltre, previsto che il consenso fosse prestato anche per terapie salvavita o d’urgenza. Infatti, l’art. 2 comma 8 prevedeva, come ipotesi eccezionale, che “Qualora il soggetto fosse minore o legalmente incapace di intendere e di volere e l’urgenza della situazione non consentisse di acquisire il consenso informato così come indicato nei commi precedenti, il medico agiva in scienza e coscienza, conformemente ai principi della deontologia medica nonché della presente legge” .

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1.2. Testamento biologico e dichiarazioni anticipate di trattamento.

Il testamento biologico (detto anche: testamento di vita o dichiarazione anticipata di trattamento) è l'espressione della volontà da parte di una persona, fornita di condizioni di lucidità mentale, in merito alle terapie che intende o non intende accettare, nell'eventualità in cui dovesse trovarsi nella condizione di incapacità di esprimere il proprio diritto di acconsentire o non acconsentire alle cure proposte (cosiddetto "consenso informato") per malattie o lesioni traumatiche cerebrali irreversibili o invalidanti, malattie che costringano a trattamenti permanenti con macchine o sistemi artificiali che impediscano una normale vita di relazione.

La parola "testamento" viene presa in prestito dal linguaggio giuridico, con ciò riferendosi ai testamenti tradizionali all'interno dei quali si lasciano scritte le volontà di divisione dei beni materiali per gli eredi o beneficiari. Nel mondo anglosassone lo stesso documento viene anche chiamato "Living Will" (impropriamente tradotto come "volontà del vivente"). Attraverso la normativa sul testamento biologico, si prevede inoltre che la volontà sulla sorte della persona passi ai congiunti di primo grado, qualora la persona stessa non sia più in grado di intendere e di volere per motivi biologici. Il testamento biologico era stato descritto all'interno del ddl Calabrò in tutta la sua ampiezza; esso prevedeva la possibilità per il soggetto di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario, sulla base di una valutazione soggettiva in base alla quale le eventuali terapie potessero apparire “di carattere sproporzionato o sperimentale” (art. 3 comma III). In questa proposta di legge, le dichiarazioni anticipate di trattamento presentavano alcuni limiti, come ad esempio, il fatto che il soggetto non potesse inserire indicazioni che integrassero le fattispecie di cui agli artt. 575, 579, 580 del codice penale, ovvero, non potesse chiedere di essere ucciso direttamente dal medico, nemmeno attraverso l'utilizzo di appositi medicinali (ad esempio: una dose massiccia di sedativi). Veniva previsto, inoltre, che l’alimentazione e l’idratazione artificiale non potessero formare oggetto delle dichiarazioni anticipate (art. 3 comma V). Quello che ci si domandava e che

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anticipate fossero o meno vincolanti per il medico. Si prevedeva, infatti, che le dichiarazioni anticipate di trattamento non vincolassero il singolo medico, ma, allo stesso tempo, si prevedeva la sostituzione del medico che non ottemperasse a tali dichiarazioni. In questo modo il problema era semplicemente spostato, ma rimaneva irrisolto. La soluzione si trovò, allora, prevedendo l’inefficacia di determinate dichiarazioni anticipate di trattamento e la conseguente punibilità del medico che le ponesse in essere, evitando, così, che, mediante il testamento biologico, si potesse introdurre il principio della disponibilità della vita. In realtà, l’inefficacia era prevista solo per le “indicazioni orientate a cagionare la morte del paziente” (art. 7 comma II: cioè che “integrino le fattispecie di cui agli artt. 575, 579 e 580 del codice penale”, art. 3 comma IV) e per la rinuncia all’alimentazione e idratazione (art. 3 comma V): tutte le altre indicazioni erano considerate valide ed efficaci.9

In realtà, quello che sembrava proposto all'interno di questo progetto era uno svuotamento dall’interno delle norme sull’omicidio del consenziente: il rifiuto di terapie sottoscritto in vista di una situazione futura incerta, ma reso, comunque, in una

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Da una lettura approfondita del disegno di legge si potevano notare, inoltre, le diverse espressioni

utilizzate dall’art. 3: ai primi due commi si parlava di “orientamento in merito ai trattamenti sanitari”, quindi con un termine che sembrerebbe indicare la non vincolatività; ma all’art. 3 comma III si passava improvvisamente ad una previsione palesemente vincolante: “Nella dichiarazione anticipata di trattamento può essere esplicitata la rinuncia da parte del soggetto ad ogni o ad alcune forme particolari di trattamenti sanitari in quanto di carattere sproporzionato o sperimentale”. Si trattava dell’applicazione del principio del consenso informato, espresso tramite il termine diretto di rinuncia: il medico, di fronte a questa rinuncia, sarebbe stato costretto a desistere e, d’altro canto, sarebbe stato spinto a desistere dal tentare di curare l’incapace perché avrebbe avuto garanzia di impunità. La mancata erogazione di terapie salvavita, rinunciate dal soggetto nelle Dichiarazioni anticipate, non sarebbe stato a lui attribuibile. Da quanto emerso, risultava che il testamento biologico era l’esatto opposto del consenso informato, nonostante la legge prevedasse che esse avrebbero dovuto essere redatte dal soggetto “in stato di piena capacità di intendere e di volere e in situazione di compiuta informazione medico-clinica”, da soggetto maggiorenne, “dopo una compiuta e puntuale informazione medico clinica” e “in piena libertà e consapevolezza”, in realtà non era previsto alcun controllo su queste condizioni. Paradossalmente, il soggetto avrebbe potuto essere ingannato oppure minacciato, costretto a firmare e ciò nonostante le dichiarazioni sarebbero state efficaci. Il fatto che a raccogliere le dichiarazioni potesse essere esclusivamente un medico di medicina generale, da una parte, non dava alcuna garanzia della libertà effettiva di chi avrebbe stilato le dichiarazioni, dall’altra faceva sorgere seri dubbi sulla effettiva informazione clinica.

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condizione di piena salute, in realtà diventava, in tal modo, una vera e propria richiesta di morte.

1.3. Le proposte di legge più recenti.

Dopo il ddl Calabrò, che aprì la strada ad un possibile dibattito su un tema divenuto per la nostra società così importante, vi furono altri due disegni di legge. Il primo fu il ddl 1088/2013 di iniziativa dei senatori Manconi, Lo Giugice, Palermo e Pezzopane contenente "norme per la legalizzazione dell'eutanasia".10Esso, composto da un solo fondamentale articolo, riportava tale normativa: "1. Non costituisce reato la condotta del medico o del personale sanitario consistente nella pratica di trattamenti eutanasici che cagionino la morte del paziente qualora ricorrano le seguenti condizioni:

a) la pratica sia stata espressamente richiesta dal paziente; b) il paziente sia maggiorenne;

c) il paziente non si trovi in stato, neppure temporaneo, di incapacità di intendere e di volere, salvo quanto previsto dal comma 2;

d) i parenti entro il secondo grado e il coniuge con il consenso del paziente siano stati informati della richiesta e, con il consenso del paziente, abbiano avuto modo di colloquiare con lo stesso;

e) la richiesta sia motivata dal fatto che il paziente è affetto da una malattia produttiva di gravi sofferenze, inguaribile o con prognosi infausta inferiore a diciotto mesi;

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Openparlamento testo ddl 1088 http://parlamento17.openpolis.it/atto/documento/id/28508

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f) il paziente sia stato congruamente ed adeguatamente informato delle sue condizioni, di tutte le possibili alternative terapeutiche, dei prevedibili sviluppi clinici ed abbia discusso di ciò con il medico;

g) il medico e la struttura sanitaria ove sia stato effettuato il trattamento si siano attenuti all'impegno, assunto con propria dichiarazione resa congiuntamente e per iscritto, a realizzare pratiche rispettose della dignità del paziente e inidonee ad arrecare allo stesso sofferenze fisiche ulteriori rispetto a quelle indotte dalla patologia di cui alla lettera e). A tale primo articolo si susseguivano i seguenti:

2. Ogni persona maggiorenne, capace di intendere e di volere e di dichiarare la propria volontà può richiedere, con atto scritto autenticato dall'ufficiale di stato civile del comune di residenza o di domicilio, che le siano applicati trattamenti eutanasici nel caso in cui venga a trovarsi nelle condizioni di cui al comma 1, lettera e). Con il medesimo atto, l'interessato nomina un fiduciario, perché confermi la richiesta, ricorrendone le condizioni.

3. La richiesta di applicazione dell'eutanasia deve essere chiara e inequivoca, non può essere soggetta a condizioni ed è sempre revocabile da parte del richiedente. Essa deve essere accompagnata, a pena di inammissibilità, da un'autodichiarazione, con la quale il richiedente, ovvero il fiduciario nei casi di cui al comma 2, attesti di essersi adeguatamente documentato in ordine ai profili sanitari, etici e umani a essa relativi. 4. Con decreto del Ministro della salute, di natura non regolamentare e da emanarsi entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, su parere del garante per la protezione dei dati personali, sono previste le modalità di conservazione dei dati relativi alle pratiche eutanasiche effettuate, al fine di garantire la non diretta identificabilità dell'interessato anche da parte dei soggetti legittimati ad accedere ai suddetti."

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materia di liceità dell'eutanasia. Come in quella proposta, anche nel disegno di legge di cui trattasi, si optò per una esenzione di responsabilità penale nei confronti del personale medico e sanitario che provveda ai trattamenti eutanasici su «chiara e inequivoca» richiesta dell'interessato, debitamente informato «in ordine ai profili sanitari, etici e umani a essa relativi». La liceità dell'eutanasia veniva subordinata, oltre che alla chiara manifestazione di volontà dell'interessato successiva a un'adeguata informazione da parte del medico, al concorrere di altre condizioni, enumerate nelle lettere di cui all'articolo 1, comma 1, della proposta: la maggiore età dell'interessato; la sua capacità di intendere e di volere (salvo i casi di preventiva nomina di un fiduciario, ai sensi del comma 2); la preventiva informazione dei parenti più stretti; la condizione di infermità produttiva di gravi sofferenze, inguaribile o a prognosi infausta inferiore ai diciotto mesi; il pieno rispetto della dignità del paziente e la non inflizione di sofferenze fisiche nel corso del trattamento eutanasico. Si credeva che, in presenza di tali puntuali e qualificanti condizioni, fosse possibile definire legislativamente una esimente di responsabilità per medici e sanitari che avessero applicato trattamenti attivi di fine-vita legalizzando conseguentemente la scelta di una «buona morte».

Questo ddl approcciava il tema dell’eutanasia sul versante unicamente penalistico: in un unico articolo si andava a discriminare, come previsto al primo comma, “la condotta del medico o del personale sanitario consistente nella pratica di trattamenti eutanasici che cagionino la morte del paziente” la pratica sia stata richiesta espressamente da paziente maggiorenne, capace e “affetto da una malattia produttiva di gravi sofferenze, inguaribile o con prognosi infausta inferiore a diciotto mesi”11. Al secondo , in forma scritta, autenticata dall’ civile del comune di residenza, nel caso in cui ci si trovasse nelle condizioni patologiche .

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Del ddl Manconi era certamente apprezzabile la chiarezza d’intenti, riassunti in una , data anche la ristrettezza del testo di tale ddl, erano state tralasciate alcune questioni non affatto secondarie: era, infatti, assente la definizione di eutanasia e e sofferenza venivano messi del tutto in secondo piano. Inoltre, non era chiaro chi fosse il medico che concretamente avrebbe effettuato l’eutanasia e le dichiarazioni anticipate riconosciute erano esclusivamente quelle redatte in forma scritta ed autenticate.

L'altro importante ddl presentato solo un anno dopo, nel 2014, fu il ddl 2218/2014, la cui prima firmataria fu l'onorevole Titti Di Salvo ed il cui titolo riportava "norme in materia di eutanasia". Tale ddl veniva presentato con l'intento necessario di avviare, in Parlamento e in Italia, un serio confronto, privo di pregiudizi ideologici, su un tema "tanto delicato, quale quello relativo all'affermazione del diritto a una morte dignitosa", cioè del diritto di ciascun individuo di scegliere le modalità di interruzione della propria vita, nel caso di patologie non curabili e in fase terminale. 12Nel caso di un individuo affetto da patologie non curabili e pervenute alla fase terminale non appariva insensato, ma anzi diventava, secondo l'idea di chi propose tale progetto, un dovere giuridico e morale, attribuirgli la facoltà di scegliere la modalità della propria esistenza, con la conseguente necessità di stabilire una normativa che impedisse abusi e tenesse conto dell'effettiva volontà della persona malata. L'ottica nella quale si poneva la presente proposta di legge era quella del riconoscimento della possibilità di scegliere la modalità della fine della propria esistenza, nel caso di patologie non curabili e in fase terminale, quale aspetto del diritto a non essere sottoposti a trattamenti sanitari senza il proprio consenso, sancito dall'articolo 32 della Costituzione, dal codice di deontologia medica e dalla Convenzione del Consiglio d'Europa per la protezione dei diritti dell'uomo e della dignità dell'essere umano riguardo all'applicazione della biologia e della medicina, fatta a Oviedo il 4 aprile 1997, resa esecutiva dalla legge 28 marzo 2001, n. 145. La

12

(19)

Convenzione prevedeva il diritto di ciascun individuo di scegliere di interrompere la propria sopravvivenza nel caso di malattie con prognosi infausta e in fase terminale, mediante un'apposita dichiarazione di volontà, revocabile e modificabile in qualunque momento. Ne conseguiva, secondo i principi di tale convenzione, che il medico che praticava l'eutanasia non era punibile se rispettava le condizioni e le procedure indicate dalla legge e, in particolare, se aveva preventivamente accertato l'esistenza delle condizioni indicate.13

L'eutanasia poteva essere anche praticata nei confronti di persone affette da patologia grave e incurabile, che non fossero state più in grado di intendere e di volere (e non avrebbero potuto quindi effettuare una valida richiesta di eutanasia), qualora queste avessero sottoscritto la cosiddetta «dichiarazione anticipata», entro i cinque anni immediatamente precedenti la situazione che rendesse impossibile la manifestazione cosciente della propria volontà. Era inoltre prevista l'istituzione di una Commissione nazionale ( capo V, art 5 ddl 2218), incaricata di verificare se l'eutanasia fosse stata effettuata secondo le condizioni e le procedure previste. La presentazione di tale progetto si concludeva con le seguenti parole dell'onorevole Di Salvo, atte a sottolineare quale fosse il preciso intento di una normativa, la quale, proprio per tale motivo, si presentava molto più completa ed esaustiva rispetto alla precedente del 2013: " La presente proposta di legge, è opportuno ripeterlo, ha lo scopo di aprire un dibattito in Parlamento che possa, nel rispetto delle opinioni di tutti, portare una risposta il più possibile condivisa non solo rispetto a scelte, certo non facili, che molti – medici, malati e loro familiari – si trovano quotidianamente a dover fare, ma anche rispetto a un tema su cui il dibattito e il confronto nel Paese sono sempre più attuali." Tale ddl,

13

a) il paziente è maggiorenne, capace di intendere e di volere al momento della richiesta;

b) la richiesta di eutanasia è stata formulata volontariamente, è stata ben ponderata e ripetuta e non è il risultato di una pressione esterna;

c) il paziente è affetto da una malattia con prognosi infausta e in fase terminale, senza alcuna prospettiva di sopravvivenza e le sue sofferenze fisiche o psichiche sono costanti e insopportabili e tali da non poter essere eliminate con trattamenti farmacologici, a causa di lesioni psico-fisiche o di una malattia grave e incurabile.

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contrariamente a quello precedente, conteneva nella sua apertura la definizione etimologica del termine "eutanasia". Inoltre, presentava due importanti novità, comparse per la prima volta proprio grazie a tale progetto: la prima, già analizzata, riguarda l'istituzione della Commissione Nazionale di Controllo e Valutazione, composta da sedici membri, designati sulla base delle loro conoscenze e della loro esperienza nelle materie di competenza della stessa Commissione.14

Essa avrebbe dovuto avere il compito specifico di vigilare alla corretta attuazione della legge in esame. Altra importante novità, strettamente collegata all'istituzione di questa nuova Commissione Nazionale, riguardò l'istituto della Registrazione, previsto al capo IV, Art 4 del ddl: "Ogni atto medico finalizzato a praticare l'eutanasia deve essere registrato ai sensi di quanto disposto dal capo V. A tale fine, il medico curante consegna, entro quattro giorni lavorativi, la documentazione prevista dall'articolo 6, debitamente compilata, alla Commissione nazionale di controllo e valutazione di cui all'articolo 5."

Nonostante la portata di tali disegni di legge, purtroppo essi non andarono mai in porto, non essendo, il ddl 1088, nemmeno stato completamente esaminato. Il ddl 2218/2014 non riuscì a dare una soluzione al problema, cosi come il ddl Manconi: la previsione del medico curante non trovò una collocazione chiara all'interno del nostro codice penale.

14

così individuati: otto medici, dei quali almeno quattro professori universitari; quattro professori universitari di materie giuridiche o avvocati; quattro rappresentanti delle associazioni e degli enti che si occupano delle problematiche relative alle persone affette da malattie con prognosi infausta, irreversibili e incurabili.

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1.4 Profili giuridici del caso Englaro

Nella notte del 18 gennaio 1992, una giovane ragazza di 21 anni, Eluana Englaro, perse il controllo della propria automobile, andando a sbattere contro un palo. L'incidente provocò un trauma cranico-encefalico, che le causò uno stato di coma profondo ed, in seguito, un persistente stato vegetativo con tetraparesi spastica e perdita di ogni facoltà psichica superiore. La ragazza perse, così, ogni funzione percettiva e cognitiva e non fu più in grado di avere contatti con l'ambiente esterno.

Dopo circa quattro anni, dal momento che lo stato psico- fisico della ragazza non presentava alcun cambiamento, il Tribunale di Lecco dichiarò Eluana interdetta e nominò suo tutore il padre Beppino Englaro.

A sette anni da quel tragico incidente, prese avvio una lunga vicenda giudiziaria, durante la quale il padre/ tutore chiese, a più riprese, l'interruzione della terapia di sostegno vitale, data l'impossibilità da parte della figlia di riprendere coscienza e sopratutto a causa dell'irreversibilità della sua patologia. Inoltre, a conferma della sua richiesta, il signor Beppino Englaro dichiarò come lo stile di vita, la personalità ed i convincimenti della figlia fossero del tutto incompatibili con la condizione di stato vegetativo, in cui si trovava.

La vicenda giudiziaria ebbe una prima battuta d'arresto con il procedimento del 19 gennaio 1999, instaurato con ricorso ex art. 732 c.p.c, nel quale il Tribunale di Lecco dichiarò inammissibile l'istanza del tutore, poiché ritenuta incompatibile con l'art 2 della

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Costituzione15. Tale provvedimento venne confermato in sede di reclamo dalla Corte d'Appello di Milano, la quale denunciava una situazione di incertezza normativa sulla materia in questione. Il secondo procedimento prese avvio il 26 febbraio 2002 e la medesima istanza venne disattesa dal Tribunale di Lecco attraverso il decreto del 20 luglio 2002, che ribadiva "il principio di necessaria ed inderogabile prevalenza della vita umana anche dinanzi a qualunque condizione patologica e a qualunque contraria espressione di volontà del malato".16 Il provvedimento, confermato anche in sede di appello, venne impugnato dal tutore con ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost., il quale venne dichiarato inammissibile con ordinanza 20 aprile 2005, n. 8291 ( in Foro it., 2005, I, 2539, con nota di De Marzo, e in Corr. giur., 2005, 788, con nota di Calò), per difetto di partecipazione al procedimento del curatore speciale dell'incapace da nominarsi ai sensi dell'art 78 c.p.c.

Nel 2005, il signor Englaro fece un terzo tentativo, nominando un curatore speciale, come precedentemente stabilito dal provvedimento emesso nei suoi confronti, ma il Tribunale con decreto 2 febbraio 200617, dichiarò nuovamente inammissibile il ricorso. Il tribunale sostenne che "né il tutore né il curatore speciale potevano ritenersi investiti della rappresentanza sostanziale, e quindi processuale, dell'interdetta con riferimento alla situazione dedotta in giudizio, involgendo essa la sfera dei diritti personalissimi, per i quali il nostro ordinamento giuridico non ammette la rappresentanza, se non in ipotesi tassative previste dalla legge, nella specie non ricorrenti"18. Anche nel caso in cui il tutore o il curatore avessero potuto ritenersi investiti di tale potere, il Tribunale,

15

Cfr. pag. 3-5

16

Diritto di morire, decisioni senza legge, leggi senza decisione. Profili giuridici del caso Englaro, cit., pag. 2

17

in Nuova giur. Civ., 2006,470, con nota di Santosuosso- Turri

18

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comunque, non avrebbe dovuto accettare la richiesta del signor Englaro, sempre in base agli articoli 2 e 32 della Costituzione.19

Il padre di Eluana, nonostante tutto, non si arrese e propose nuovamente reclamo davanti alla Corte d'Appello di Milano, la quale mutò solo parzialmente la decisione presa in precedenza, giudicando il ricorso ammissibile, ma rigettandolo nel merito attraverso il decreto 16 dicembre 200620. Durante l'istruttoria, dalle deposizioni di tre amiche di Eluana emerse che, in seguito ad un incidente d'auto nel quale era rimasto coinvolto un loro amico, entrato in seguito in coma, Eluana espresse una chiara posizione in merito alla condizione di coma irreversibile. Ella, all'epoca, sostenne che, nella medesima situazione, avrebbe preferito morire sul colpo. I giudici del reclamo dichiararono, però, non attendibile tale dichiarazione, in quanto pronunciata dalla ragazza in un momento di forte emotività e, inoltre, in uno stato di benessere fisico e non nell'attualità della malattia. Essi sostenevano anche che la ragazza, data la giovane età, fosse ancora priva di maturità certa rispetto alle tematiche della vita e della morte, non potendo ella nemmeno immaginare di potersi trovare in una simile situazione. Anche contro tale decreto il padre di Eluana ed il suo curatore speciale, avv. Franca Alessio, proposero ricorso per Cassazione ai sensi dell'art 111 Cost., la quale con sentenza 16 ottobre 2007, n. 2174821, accolse il ricorso, affermando, dopo un attento ed approfondito esame dei principi enunciati in Costituzione, ma, sopratutto analizzando i principi contenuti in convenzioni internazionali preponderanti per il nostro paese, come la Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina ( ai tempi peraltro non ancora ratificata dall'Italia), i seguenti importanti principi:

19 Cfr. pag. 3-5 20 in Foro it. , 2007, I 571 21

(24)

• il consenso informato costituisce legittimazione e fondamento del trattamento sanitario, poiché rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell'individuo; per questo motivo, senza di esso, l'intervento del medico è sicuramente illecito anche quando sia nell'interesse del paziente;

• Dal consenso informato consegue la facoltà non solo di scegliere tra i possibili trattamenti medici, ma anche quella di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche quella terminale;

• Con riguardo all'ipotesi in cui il soggetto si trovi nell'incapacità di intendere e di volere, e perciò non sia in grado di esprimere la propria volontà e non abbia, precedentemente a tale condizione, espresso con un apposita dichiarazione anticipata di trattamento, quale tipo di cura avrebbe desiderato ricevere e quale no, nel caso in cui fosse venuto a trovarsi in uno stato di incoscienza, "l'istanza personalistica posta a base del principio del consenso informato ed il principio di parità di trattamento tra gli individui, a prescindere dal loro stato di capacità, impongono di ricreare il dualismo dei soggetti nel processo di elaborazione della decisione medica, attribuendo al legale rappresentante la decisione se accettare o rifiutare, in nome del rappresentato, i trattamenti prospettati dai sanitari".22

• La funzionalizzazione del potere di rappresentanza consente di giungere ad una interruzione delle cure solo in casi estremi ed in presenza di specifici presupposti: 1. Che la condizione di stato vegetativo sia irreversibile e non ci sia alcun fondamento medico che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di recupero della percezione del mondo esterno; 2. Che l'istanza volta ad ottenere l'interruzione del trattamento sanitario possa ritenersi realmente espressiva, in base a chiari ed inequivocabili elementi di prova, della voce del rappresentato.

22

Diritto di morire, decisioni senza legge, leggi senza decisione. Profili giuridici del caso Englaro, cit., pag. 4

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Proprio quest'ultimo punto suscitò forti reazioni da parte del padre della ragazza e del suo curatore speciale, in merito alle prove ed alle dichiarazioni da loro ed altri testimoni rese, le quali avevano fatto emergere chiaramente la personalità della ragazza e, ancora di più, la sua posizione in merito a ciò che le stava in quel momento accadendo.

Per questo motivo ci si rivolse ad un'altra sezione della Corte d'Appello di Milano, la quale, con decreto 9 Luglio 200823, si espresse affermando che sulla prima delle condizioni indicate dalla S.C, ovvero l'irreversibilità dello stato vegetativo, si era già formato un giudicato interno, il quale precludeva qualsiasi altro accertamento. Essa, inoltre, aggiunse che non sussistevano plausibili dubbi di legittimità costituzionale del principio di diritto enunciato dalla S.C.

Eclatante fu l'ultimo punto di tale decreto, nel quale si stabilì che la ricostruzione effettuata dal padre/tutore con riguardo alla presunta volontà della figlia Eluana dovesse considerarsi attendibile, risultando d'altra parte confermata anche dagli elementi conoscitivi emersi dall'istruttoria.

Fu la prima volta in cui si ebbe una vera e propria autorizzazione per l'interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale.

Nel frattempo, all'interno della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, si discuteva per sollevare un conflitto di attribuzione dinnanzi alla Corte Costituzionale, sostenendo che tanto la sentenza 21748/07 della S.C. quanto il successivo decreto 9 luglio 2008 della Corte d'Appello di Milano avrebbero creato una disciplina innovativa sul tema del trattamento di sostegno vitale artificiale, fondata, però, su presupposti non ricavabili dall'ordinamento vigente, invadendo, così, l'area del legislatore. Tale istanza

23

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venne dichiarata inammissibile dalla Corte Costituzionale con ordinanza 13 novembre 2008 n. 334.24

Conclusasi la tortuosa vicenda giudiziaria ed ottenuta da parte di Beppino Englaro l'autorizzazione tanto desiderata, il 19 agosto 2009 egli chiese all'amministrazione regionale della Lombardia di indicare la struttura sanitaria regionale presso la quale si sarebbe potuti procedere all'esecuzione del trattamento. Ma per il signor Englaro la battaglia non era ancora finita, poiché con provvedimento del 3 settembre 2008, la Direzione generale della sanità della Regione Lombardia rigettò la richiesta, " negando che il personale del Servizio sanitario regionale possa procedere in una delle sue strutture alla sospensione del sostegno vitale di cui goda un ammalato in stato vegetativo permanente il quale, tramite manifestazione di volontà del tutore ed autorizzazione del giudice tutelare, intenda rifiutare tale trattamento, ed affermando anzi che, ponendo in essere una simile condotta, il personale verrebbe meno ai propri obblighi professionali e di servizio, anche in considerazione del fatto che il provvedimento giurisdizionale, di cui si chiede l'esecuzione, non contiene un obbligo formale a carico di soggetti o enti individuati"25

Dopo vari ricorsi e sotto la forte spinta del padre di Eluana, che lottò fino all'ultimo per vedere realizzata la volontà della figlia, il 3 febbraio 2009 Eluana venne trasferita presso la residenza sanitaria assistenziale "la Quiete" di Udine, unica struttura resasi disponibile a dare attuazione al provvedimento della Corte d'Appello di Milano.

Solo tre giorni dopo, i sanitari annunciarono l'avvio della progressiva riduzione dell'alimentazione artificiale, mentre nelle solite ore il Consiglio dei ministri approvò un decreto legge, nel quale si prevedeva che: "in attesa dell'approvazione di una completa

24

in Giur. Cost., 2008,3713, con nota di Gemma, e in foro it., 2009,I, con nota di Romboli

25

Diritto di morire, decisioni senza legge, leggi senza decisione. Profili giuridici del caso

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e organica disciplina legislativa in materia di fine vita, l'alimentazione e l'idratazione, in quanto forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze, non possono in alcun caso essere rifiutate dai soggetti interessati o sospese da chi assiste soggetti non in grado di provvedere a se stessi".26

Dopo gli ultimi avvenimenti, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, una volta espressi i suoi dubbi riguardo al sopracitato decreto, si rifiutò di emanarlo, avendo riguardo a ciò che in precedenza venne stabilito dalla Suprema Corte, ma soprattutto rimanendo fermamente legato ai principi vigenti nel nostro ordinamento. Dopo il rifiuto da parte del Capo dello Stato, il Consiglio dei ministri, in sessione straordinaria, approvò la sera stessa un disegno di legge, con lo stesso contenuto del d.d.l. Durante la discussione in Senato, il lunedì successivo, sopravveniva la notizia della morte di Eluana.

Sono molti ed importanti i segni che questo caso ha lasciato nel nostro panorama giuridico, soprattutto per quanto riguarda il campo del diritto civile. In un convegno tenutosi poco dopo il secondo anniversario della morte di Eluana, il noto civilista Carmine Dionisi ha efficientemente riassunto in pochi punti fondamentali i principi emersi da questo straziante caso umano.

Anzitutto, emerge chiaramente il rilievo decisivo attribuito al diritto fondamentale di ciascun individuo all'autodeterminazione in merito ai trattamenti sanitari, che lo riguardano. Tale diritto comporta, in questo campo, la possibilità di esprimere il consenso libero, informato e consapevole ai trattamenti sanitari e, ovviamente, il diritto a rifiutare o rinunciare agli stessi. Indissolubilmente legata a tale diritto è la situazione in merito ad esso delle persone incapaci di intendere e volere (cc.dd. incompetenti) e la conseguente legittimazione dei rappresentanti legali all'esercizio del diritto all'autodeterminazione, spettante a tali soggetti. Come emerge chiaramente dagli articoli

26 Ibidem

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357 e 424 cod. Civ ("il tutore ha cura della persona del minore, lo rappresenta in tutti gli atti civili e ne amministra i beni"), si ha una depatrimonializzazione di tale diritto, con la conferma che spetta proprio a tali soggetti la legittimazione ad esercitarlo in nome e per conto della persona incapace.

Da questa affermazione deriva il problema cardine relativo all'ambito di operatività di tale legittimazione, che è possibile riassumere nel seguente quesito: è il legale rappresentante legittimato ad esercitare il diritto di autodeterminazione circa i trattamenti sanitari concernenti il suo assistito in entrambe le sue estrinsecazioni ( consenso e rifiuto) oppure gli deve essere impedito per ciò che riguarda gli atti di rifiuto o rinunzia ai suddetti trattamenti? A tale quesito il supremo Collegio, con il caso Englaro, ha dato una risposta in senso "liberale", basato sulla presenza di un duplice presupposto: "che il paziente si trovi in una situazione cronica di oggettiva irreversibilità del quadro clinico di perdita (...) assoluta di coscienza" , "tipica dello stato vegetativo permanente"; inoltre, che si pervenga sulla scorta di "chiari, univoci e convincenti elementi di prova" alla ricostruzione della "presumibile volontà" dell'incapace circa il ripudio di una sopravvivenza " in una condizione priva della percezione del mondo esterno"27

Il caso Englaro è stato, inoltre, stimolo per l'analisi e l'approfondimento di vari problemi rientranti nell'area del Biodiritto civile; primo fra tutti quello concernente il concetto di "accanimento (o ostinazione o eccesso) terapeutico". Il supremo Collegio ha sottolineato, in varie occasioni, come la procedura che suole indicarsi con l'espressione "Nutrizione ed Idratazione Artificiale" o N.I.A, pur non essendo una forma di accanimento terapeutico, poichè presidio rivolto al mantenimento in vita, possa divenire tale quando, nell'imminenza della morte, l'organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze fornite. Da ciò consegue, inoltre, che, essendo la N.I.A appartenente al

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Diritto di morire, decisioni senza legge, leggi senza decisione. Profili giuridici del caso Englaro, cit., pag. 60

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novero dei trattamenti sanitari, essa debba rientrare pienamente all'interno del principio di autodeterminazione del soggetto. Tale posizione è stata nettamente disattesa dalla Suprema Corte, la quale asserisce che "al giudice non può essere richiesto di ordinare il distacco del sondino naso-gastrico"28

Possiamo concludere l'analisi di questa importante vicenda, che ha segnato nel profondo il nostro paese su un tema che ancora oggi rimane privo di una specifica ed efficace disciplina, affermando che, se sul piano del diritto non sussiste il "dovere di vivere", non ha neppure cittadinanza nel nostro ordinamento l'opposto "right to die". Piuttosto, merita di essere attuato e rispettato il diritto a vivere anche le ultime fasi della vita con dignità, assicurando alle persone in stato di malattia terminale idonea assistenza medica, ma anche e soprattutto psicologica, con riguardo anche alle persone che vivono ogni giorno al loro fianco. Questo ci porta a riflettere ancora più profondamente su un concetto cardine della nostra Costituzione e dell'intero ordinamento, ossia quello di dignità, che ancora oggi costituisce un "labirinto" 29concettuale, all'interno del quale risulta arduo orientarsi con un sufficiente margine di sicurezza.

28

Pronunzia del Bundesgerichtshof, ove si qualifica giuridicamente irrilevante la natura commissiva od omissiva del comportamento del sanitario diretto ad interrompere la N.I.A

29

L'allegoria del labirinto è evocata da Carlo Casonato nel suo volume Introduzione al biodiritto, II ed., Torino, 2009, p. 32 ss.

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1.5 Il caso di Piergiorgio Welby.

Piergiorgio Welby (Roma, 26 dicembre 1945 – Roma, 20 dicembre 2006) è stato un attivista, giornalista, politico, poeta e pittore italiano, impegnato per il riconoscimento legale del diritto al rifiuto dell'accanimento terapeutico in Italia e per il diritto all'eutanasia, nonché co-presidente dell'Associazione Luca Coscioni.30

Militante del Partito Radicale, Welby divenne protagonista delle cronache negli ultimi anni di vita quando, gravemente ammalato, nei suoi scritti chiese ripetutamente che venissero interrotte le cure che lo tenevano in vita. All'età di 16 anni, venne affetto da distrofia muscolare in forma progressiva, si parlò di distrofia muscolare di Becker, o distrofia di Duchenne, ma la diagnosi ufficiale era distrofia facio-scapolo-omerale, nonostante i primi sintomi della malattia risalivano a 10-12 anni. La malattia lo costrinse a lasciare la scuola, non gli consentì più di camminare e infine di parlare, di compiere movimenti. Fino ad arrivare, nello stadio finale, a stare immobile su un letto, sempre a mente lucida. Egli stesso raccontò la sua storia nel libro "Lasciatemi morire".31 Durante gli anni sessanta e settanta trovò parziale sollievo dalle sofferenze facendo uso di droghe, dipingendo e scrivendo, tant'è che il New York Times poco dopo parlava di lui come di un "poeta". Sempre in quegli anni incontrò a Roma colei che sarebbe poi divenuta sua moglie, l'altoatesina Wilhelmine Schett, oggi conosciuta come Mina Welby. Negli anni ottanta le sue condizioni peggiorarono ulteriormente, tanto da

30

L’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, è un’associazione no profit di

promozione sociale e soggetto costituente il Partito Radicale. Luca Coscioni, leader Radicale e docente universitario, malato di sclerosi laterale amiotrofica, nel 2002 ne è il fondatore; lo scopo dell’associazione è promuovere la libertà di cura e di ricerca scientifica, l'assistenza personale autogestita e affermare i diritti umani, civili e politici delle persone malate e disabili anche nelle scelte di fine vita.

31

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necessitare una disintossicazione dalle droghe assunte. Per questo fece uso di metadone, che sortì l'effetto desiderato, ma nel frattempo la malattia lo costrinse definitivamente a rinunciare all'uso delle gambe.

Fu sua moglie che nel luglio 1997, chiamò i soccorsi in seguito ad una crisi respiratoria di Welby, dovuta al decorso della sua distrofia ( nonostante la preghiera più volta rivoltale dal marito, di non chiamare mai, in nessun caso i soccorsi). Egli venne ricoverato in stato di incoscienza nell'ospedale del Santo Spirito di Roma e, da quel giorno, per sopravvivere, fu costretto ad essere attaccato ad un respiratore automatico (nonostante il suo rifiuto, più e più volte dimostrato anche di fronte ai medici ). Successivamente, col suo permesso, una volta uscito dal coma, venne sottoposto ad una tracheotomia. Fu proprio questa condizione che lo spinse a chiedere più volte che gli venisse «staccata la spina», ma la sua richiesta venne subito rifiutata in quanto pareva contrastante con le leggi in vigore.

A fronte del rifiuto , opposto dalla struttura ospedaliera e dal medico dai quali Welbi veniva assistito, alla richiesta di non essere ulteriormente sottoposto a tali trattamenti di sostegno vitale, dopo essere stato perfettamente informato del proprio stato clinico e delle prospettive per la sua guarigione, Welby decise di intraprendere un'azione legale davanti al Tribunale ordinario di Roma per ottenere un'ordinanza ex artt. 699 ter. e 700 c.p.c., per far si che venisse imposto ai terapeuti che lo avevano in cura di procedere all'immediato distacco del ventilatore artificiale, sotto sedazione terminale.

Con ordinanza n.15 del 16.12.2006, il Tribunale respinse la richiesta, poichè la malattia di Piergiorgio venne considerata dal Consiglio Superiore della Sanità non ancora in fase terminale. Il Giudice, pur riconoscendo che “il principio dell'autodeterminazione e del consenso informato è una grande conquista civile delle società culturalmente evolute” e che esso permette alla persona, “di decidere autonomamente e consapevolmente se effettuare o meno un determinato trattamento sanitario e di riappropriarsi della

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decisione sul se ed a quali cure sottoporsi”32 stabilì che non può essere un giudice a decidere se sia legittimo staccare le macchine che tengono in vita una persona, sopratutto in assenza di una previsione normativa che delimiti chiaramente il confine del cosiddetto “accanimento terapeutico”. Venne evidenziato che il principio dell'autodeterminazione individuale e consapevole in ordine ai trattamenti sanitari, costituendo condizione indispensabile per la validità del consenso presentava aspetti problematici in termini di concretezza ed effettività rispetto all' altro delicato aspetto della libera e autonoma determinazione individuale sul rifiuto o l'interruzione delle terapie salvavita nella fase terminale della vita umana. L’Ordinanza in discorso, dopo aver delineato il principio di autodeterminazione e del consenso informato, ritenendoli principi costituzionali di tutela della persona (artt. 2, 13 e 32), si soffermava sul concetto di accanimento terapeutico ed in particolare sul fatto che nel nostro ordinamento mancasse una definizione condivisa ed accettata di concetti quali la futilità del trattamento, l'insistere con trattamenti di sostegno vitale come atto ingiustificato o sproporzionato, ecc.

Il giudice chiamato a decidere la delicata questione, occupò per giorni le pagine dei giornali, ed in uno dei suoi interventi sostenne come il divieto di accanimento terapeutico fosse un principio solido, basato sui principi costituzionali di tutela della dignità della persona, previsto nel codice deontologico medico, dal Comitato nazionale per la Bioetica, dai trattati internazionali, in particolare dalla Convenzione Europea, ma, purtroppo, per nessun aspetto regolato normativamente all'interno del nostro ordinamento. Quindi, appurato che l’istituto del consenso informato ha sostanzialmente spostato il potere di decisione dal medico al paziente, mutando profondamente il modo di intendere il rapporto tra questi due soggetti, sul piano pratico, per un'evidente lacuna giuridica, non è sancito alcun diritto del paziente ad esigere e a pretendere che sia

32

http://www.altalex.com/documents/news/2007/01/15/caso-welby-consenso-informato-accanimento-terapeutico-e-lacuna-normativa

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cessata una determinata attività medica di mantenimento in vita. In base a tale decreto rimaneva, quindi, completamente nelle mani della figura del medico la decisione sul come e quanto prolungare il mantenimento in vita del paziente.

L'ordinanza del Tribunale evidenziava inoltre, come anche il codice deontologico medico all'articolo 16 vietasse l'accanimento diagnostico terapeutico, prevedendo che: " espresse dal paziente o dal suo rappresentante legale insiste in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati, dai quali non ci si possa fondatamente attendere un effet della vita. Il controllo efficace del dolore si configura, in ogni condizione clinica, come trattamento appropriato e proporzionato. Il medico che si astiene da trattamenti non proporzionati non pone in essere in alcun caso un comportamento finalizzato a provocare la morte."33 Tale articolo, andrebbe letto contestualmente all'articolo 39 del medesimo codice, nel caso in cui il medico si trovi a dover praticare terapie salvavita nella fase terminale della vita umana; tale articolo recita che " Il medico non abbandona il paziente con prognosi infausta o con definitiva compromissione dello stato di coscienza, ma continua ad assisterlo e, se in condizioni terminali impronta la propria opera alla sedazione del della vita. Il medico, in caso di definitiva compromissione dello stato di coscienza del paziente, prosegue nella terapia del dolore e nelle cure palliative, attuando trattamenti ritenuti proporzionati, tenendo conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento.34

33

http://www.unipd.it/sites/unipd.it/files/CODICE%20DEONTOLOGIA%20MEDICA%202014.pdf

34

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Grazie a questa analisi, il giudice concluse ritenendo sussistente il diritto del ricorrente di richiedere la interruzione della respirazione assistita ed il distacco del respiratore artificiale, previa somministrazione della sedazione terminale, ma di non poter accogliere la richiesta perché si trattava di un diritto non concretamente tutelato dall'ordinamento. In altri termini, veniva stabilito che, in assenza di una previsione normativa concreta ed esaustiva sugli elementi concreti, e su ciò che deve essere considerato concretamente l' accanimento terapeutico, va esclusa la sussistenza di una forma di tutela tipica dell'azione da far valere nel giudizio di merito, e di conseguenza, ciò comportava la inammissibilità dell'azione cautelare, attesa la sua finalità strumentale ed anticipatoria degli effetti del futuro giudizio di merito.

Successivamente al deposito dell'ordinanza, dalla quale scaturì, in sintesi, la presenza di una lacuna giuridica all'interno del nostro ordinamento, la Procura della Repubblica di Roma, titolare di azione diretta nel procedimento civile instaurato da piergiorgio Welby, proponeva reclamo avverso la decisione del Tribunale civile di Roma perché affetta da una palese contraddizione; Ed invero, secondo la Procura "il vizio logico dell'ordinanza" consisteva nel fatto che il giudice, dalla premessa secondo cui nel nostro ordinamento esiste un divieto di accanimento terapeutico ed un correlativo diritto di pretenderne la cessazione, perviene a una conclusione ( secondo la Procura del tutto erronea) per cui questo diritto non può essere tutelato a causa della mancata definizione, in sede normativa, delle sue modalità attuative. Essa sottolineava, infatti, "il diritto soggettivo o esiste o non esiste: se esiste, non potrà non essere tutelato, incorrendo altrimenti l'organo di giustizia in un inammissibile non liquet, con effetto di lasciar senza risposta una pretesa, giuridicamente riconosciuta alla stregua di fondamentali principi indicati dallo stesso Giudice nel provvedimento impugnato".35

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http://www.associazionelucacoscioni.it/il-caso-giuridico-di-piergiorgio-welby. Il "caso giuridico di Piergiorgio Welby"

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