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L'ente intermedio: la riforma delle Province tra legislatore, Corte Costituzionale e referendum

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DI PISA

Facoltà di Giurisprudenza

Corso di laurea in Giurisprudenza

L’ente intermedio: la riforma delle Province tra legislatore, Corte

Costituzionale e Referendum Costituzionale

Il Candidato

Il Relatore

Roberto Lombardi

Chiarissimo prof. Andrea Pertici

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Indice

INTRODUZIONE... 3

1 ORIGINE STORICA E EVOLUZIONE DELLE PROVINCE NELL’ORDINAMENTO ITALIANO ... 8

1.1 L'ordinamento nel periodo statutario ... 8

1.1.1 L'ordinamento pre-unitario ... 8

1.1.2 La questione amministrativa: dal Regno di Sardegna al Regno d’Italia ... 11

1.1.3 La riforma del Testo Unico del 1889 e le riforme Giolitti ... 25

1.1.4 Il ventennio fascista ... 30

1.2 Dalla Costituente ai tentativi di riforma dei governi laici ... 36

1.2.1 Il periodo costituente ... 36

1.2.2 La discussione nella Commissione dei 75 e in Assemblea Costituente ... 37

1.2.3 L’inizio della lunga stagione delle riforme... 43

1.3 Dal nuovo ordinamento delle Autonomie Locali alla riforma del Titolo V della Costituzione ... 46

1.3.1 Legge 8 Giugno 1990 n. 142 “Nuovo ordinamento delle autonomie locali” ... 46

1.3.2 Dalla commissione bicamerale De Mita – Iotti al Comitato Speroni ... 50

1.3.3 Dal cosiddetto federalismo a Costituzione invariata alla riforma del titolo V della Costituzione ... 55

2 GLI INTERVENTI DEGLI ANNI 2011 – 2013 ... 63

2.1 Le ragioni della riforma, l’evoluzione della spesa pubblica e l’incidenza della spesa delle Province ... 63

2.2 L’art. 23 del D.L. n. 201/11 convertito in L. n. 214/11 ... 74

2.3 Dal D.L. n. 95/2012 convertito in L. n. 135/2012, al D.L. n. 188 del 2012 non convertito, alla L. 147/2013. ... 83

2.4 I ricorsi alla Corte Costituzionale da parte delle Regioni e la Sentenza n. 220/2013 ... 94

3 GLI INTERVENTI DEGLI ANNI 2014-2017...103

3.1 La Legge 7 Aprile 2014, n. 56 “Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”...103

3.2 Il profilo funzionale dell’ente di area vasta provinciale...109

3.3 Potenzialità e criticità sul riordino delle funzioni...120

3.4 La Sentenza n. 50/2015 Corte Costituzionale del 24 Marzo 2015 ...128

3.5 L’attuazione regionale: il caso della Regione Toscana...132

3.6 La riforma costituzionale ed il referendum del 4 Dicembre 2016 ...137

CONCLUSIONI ...145

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INTRODUZIONE

Una sorta di "questione province" è sempre stata viva nel nostro paese, fin dalle origini dello stato unitario, come si descrive nel primo capitolo.

Nel dibattito costituzionale, infatti, la questione dell’Ente Provincia fu oggetto di ampio confronto e venne da più parti messa in discussione soprattutto a causa dell’introduzione delle Regioni nell’ordinamento repubblicano. Si dubitava dell’opportunità del mantenimento di un “Ente intermedio” ritenendosi sufficienti due soggetti di decentramento e di autonomia: Regioni e Comuni. Solo dopo ampio dibattito i Padri Costituenti decisero per il mantenimento nell’ordinamento costituzionale anche dell’Ente Provincia.

La messa in dubbio del ruolo e delle funzioni dell'Ente intermedio, tuttavia, è divenuta sempre più pressante nel momento in cui si sono prima creati, poi rafforzati gli ordinamenti regionali, andandosi così a generare contrasti di competenze, duplicazioni di ruoli, aumento della spesa pubblica nel suo complesso, piuttosto che un circuito virtuoso di programmazione a cascata e di coordinamento delle politiche regionali sul territorio.

Il dibattito sull’utilità delle province, almeno come disegnate nell’allora ordinamento, non fu mai sopito tanto che a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, praticamente tutte le forze politiche presenti in Parlamento presentarono dei loro disegni di legge di riforma, o superamento, o abolizione delle province.

Nessuno di questi disegni di Legge arrivò a definitiva approvazione, ma tentativi di riforma - sia pure a Costituzione invariata – furono fatti in ambito regionale. In modo particolare si può citare l’esempio della Regione Toscana, che tentò il superamento dell’Ente Provincia - già messo pesantemente in crisi in quegli anni dalla riforma del Servizio Sanitario Nazionale, che le privò di molte competenze - con l’istituzione delle associazioni intercomunali (istituite con LRT 17 agosto 1979 n. 37), cui la Regione Toscana attribuì numerose

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competenze amministrative (ambiente, formazione professionale, trasporti, etc.) “snobbando” l’Ente Provincia.

Alla fine degli anni Novanta del Novecento, a seguito delle cd. Riforme Bassanini1, l’Ente Provincia si ritrovò, questa volta in senso positivo dal punto

di vista dell’Ente, al centro dell’opinione pubblica, e divenne soggetto di numerose competenze amministrative. In quegli anni erano in voga in Italia i concetti di decentramento, autonomia, federalismo, sussidiarietà verticale ed orizzontale, ed era giunto ormai il momento per l’ordinamento italiano di confrontarsi con il tema dell’introduzione ed operatività di un nuovo livello di governo a livello sovra-statale: il livello europeo di governo. Di fatto i livelli di governo erano passati da 4 (Stato, Regioni, Province e Comuni) a 5 (Unione Europea, Stato, Regioni, Province e Comuni). La matrice della Legge n. 59/1997 è europea, quindi sovranazionale, in quanto originata da spinte all'armonizzazione ed unificazione amministrativa degli apparati dei diversi Paesi membri dell'Unione europea. Si è configurata come una legge delega, finalizzata essenzialmente a dare al Governo il potere di emanare decreti delegati al fine di sviluppare una vastissima attività di innovazione e riforma dell'intero sistema amministrativo italiano, e per incidere, tra l’altro sulle modalità di collegamento tra Stato, Regioni e sistema delle autonomie locali.

E’ quindi del 2000 il Decreto Legislativo 18 Agosto 2000, n. 267, conosciuto e definito anche Testo Unico delle Leggi sull'ordinamento degli Enti Locali (abbreviato in TUEL), che disciplinava funzioni, compiti e organi delle province a seguito delle riforme Bassanini.

Questa virata del Legislatore fu seguita solo a macchia di leopardo dalle Regioni, tra le quali si distinse la stessa Regione Toscana che non soltanto con la leggi regionali 2 dicembre 1991, n. 58 e 30 aprile 1992, n. 18 dispose lo scioglimento delle associazioni intercomunali, facendo confluire le loro risorse economiche, umane e materiali, nonché tutte le competenze regionali

1 Con una serie di provvedimenti normativi che prendono in nome dall’allora Ministro della Funzione

pubblica Franco Bassanini, si intervenne attuando il federalismo amministrativo, cioè il perseguimento del massimo decentramento realizzabile con legge ordinaria, senza modifiche costituzionali. Le cd. Leggi Bassanini sono quattro: 1: Legge 15 Marzo 1997, n. 59; 2: Legge 15 Maggio 1997, n.127 (Bassanini bis); 3: Legge 16 Giugno 1998, n.191 (Bassanini ter); 4: Legge 8 Marzo 1999, n.50 (Bassanini quater).

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già attribuite, alle province, ma soprattutto, a seguito dell’entrata in vigore delle riforme Bassanini, con l’attribuzione alle province di tutte le funzioni amministrative regionali che la Regione stessa non avesse espressamente attribuito a Comuni, Regione, o altri soggetti istituzionali (Leggi Regionali 42/98 e 88/98).

Per circa quindici anni successivi, l’assetto istituzionale delle province sul territorio nazionale si presentava “a macchia di Leopardo” in quanto, oltre alle funzioni espressamente attribuite dal legislatore statale, convivevano realtà quali quella Toscana, la Regione ampiamente delegava, o quella Lombarda, dove la Regione stessa manteneva in capo a sé una serie di funzioni.

Sulla spinta del federalismo amministrativo, l’Ente Provincia continuava ad incontrare i favori almeno dei politici locali, che nel corso degli anni Novanta ed i primi anni Duemila, provvedevano all’istituzione di nuove amministrazioni provinciali sulla scia dell’allora imperante “autonomismo”, con risultati spesso non immediatamente comprensibili all’opinione pubblica quali ad esempio il raddoppio delle province sarde portate da 4 ad 8 o l’istituzione di nuove province con numero di abitanti o comuni estremamente ridotti (es. Monza-Brianza, Fermo, Biella, Verbania-Cusio-Ossola, Barletta-Andria-Trani e Vibo Valentia).

A seguito dell’esplodere della crisi economico-finanziaria del 2008, particolarmente accentuatasi per l’Italia nel 2011, l’attenzione dell’opinione pubblica si spostava progressivamente sempre più sui temi economico-finanziari, con particolare attenzione ai cosiddetti “costi della politica” e “sprechi della burocrazia”.

Nel 2012 La Legge Costituzionale 20 Aprile 2012, n. 1, le cui disposizioni si applicarono a decorrere dall’esercizio finanziario relativo all’anno 2014, modificava l’art. 119 della Costituzione introducendo il principio del pareggio di bilancio per gli Enti Locali, rendendo maggiormente cogenti i vincoli derivanti dall’Unione europea: “I Comuni, le Province, le Città

metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare

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l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea”.

Nel 2011, perveniva direttamente dagli organi politici di Bruxelles al Governo italiano, una comunicazione contenente una serie di adempimenti tra cui quello dell’abolizione di ogni passaggio intermedio non ritenuto indispensabile nei rapporti tra amministrazione pubblica e cittadino.

Queste le ragioni, ampiamente illustrate nel secondo capitolo, che hanno portato alla soluzione contenuta nell'art. 23 del cd. Decreto Salva-Italia, D.L. 211/11 convertito in Legge 214/11 in cui si è immaginato lo svuotamento delle province, sia sul piano delle funzioni che degli organi di governo, come premessa di fatto per una loro abolizione o trasformazione radicale da Enti autonomi di governo territoriale in soggetti istituzionali del tutto evanescenti e strumentali dei Comuni o delle Regioni.

La norma ha incontrato non solo la forte opposizione da parte delle province ma anche una notevole perplessità sul piano costituzionale. Ben sette Regioni hanno presentato ricorso di incostituzionalità contro l'art. 23 davanti alla Corte costituzionale, che comunque, con una serie di argomentazioni che saranno descritte nel terzo capitolo, rigettava i ricorsi senza entrare nel merito ma affermando il principio che la riforma ordinamentale delle province non poteva essere disciplinata con lo strumento del Decreto Legge.

Conseguentemente il Legislatore cercava di rimediare a quanto rilevato dalla Corte e con la Legge n. 56 del 2014 (cd. Legge Delrio) introduceva una prima riforma ordinamentale delle Città Metropolitane e delle Province, sia pure a Costituzione invariata, e “nelle more della riforma del Titolo V della Costituzione”.

Anche contro tale Legge alcune Regioni presentarono ricorso alla Corte costituzionale, che comunque, questa volta entrando nel merito, li rigettava con la Sentenza n. 50/2015.

La questione, nelle intenzioni del Governo, avrebbe dovuto trovare la propria naturale conclusione con l’approvazione della riforma costituzionale

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che avrebbe cancellato le Province dalla Costituzione. Il Parlamento ha, infatti, approvato la proposta di legge costituzionale concernente “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione” (pubblicato nella G.U. n. 88 del 15 Aprile 2016).

Tuttavia, la proposta di riforma costituzionale è stata sottoposta a referendum confermativo il 4 Dicembre 2016, ed è stata rigettata dal corpo elettorale, lasciando sostanzialmente vive e vegete le province nella Costituzione italiana, cristallizzando quanto definito dalla Legge Delrio.

Come si preciserà nelle conclusioni, ad oggi rimane, quindi, incompiuto il disegno di riforma avviato nel Dicembre 2014 dal Governo Monti con il Decreto Salva-Italia, ed attuato – a Costituzione invariata - con la Legge Delrio e resta ancora completamente aperta la “questione province”.

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1 ORIGINE STORICA E EVOLUZIONE DELLE PROVINCE

NELL’ORDINAMENTO ITALIANO

1.1 L'ordinamento nel periodo statutario

1.1.1 L'ordinamento pre-unitario

Per una completa valutazione e comprensione dell’ente autonomo Provincia nell’ordinamento della Repubblica Italiana, può risultare interessante e utile svolgere un breve esame dell’origine ed evoluzione storica, da cui è possibile ricavare utili elementi di analisi per comprendere come e perché sia questo ente da numerosi anni al centro del dibattito politico e dottrinale in merito alla sua utilità di esistere.

Una ricerca storica sull’istituzione Provincia senza alcun limite temporale ci porterebbe a risalire indietro nei secoli, fino all’Impero Romano; in questo il termine Pro victae indicava i territori che essendo stati conquistati precedentemente non godevano degli stessi diritti di chi aveva la cittadinanza romana.

Ma nell’ottica della ricerca qui finalizzata all’analisi dell’ente Provincia, è possibile limitare la ricostruzione storica prendendo le mosse dal periodo di poco precedente la proclamazione del Regno d’Italia.

E’ infatti nel Regno di Sardegna con la sua organizzazione amministrativa che si individua la prima tappa del processo evolutivo dell’istituto Provincia.

Lo Statuto concesso da Carlo Alberto nel 1848, non faceva alcun riferimento agli enti territoriali per la cui disciplina si limitava a rinviare alla legge ordinaria. Tale previsione rese non più rinviabile che anche in questa materia trovasse espressione la nuova impostazione costituzionale sancita dallo Statuto2, e il giorno 7 Ottobre del 1848 il Governo Alfieri approvò così

una Legge proposta dal Ministro degli interni Pinelli3, che prevedeva per

2 Cfr. Statuto Albertino - art. 74. - Le istituzioni comunali e provinciali, e la circoscrizione dei comuni e

delle provincie sono regolati dalla legge.

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ciascuno dei tre livelli di governo territoriale (Divisioni, Province, Comuni) un organo collegiale di natura elettiva (Consiglio) affiancato da un organo monocratico (intendente generale, intendente provinciale, Sindaco) di designazione statale. La normativa rispondeva alla duplice esigenza avvertita al tempo di far fronte da un lato alle istanze partecipative e autonomistiche della borghesia dall’altro di mantenere un controllo governativo sugli enti locali4.

Infatti il Sindaco rivestiva la duplice qualità di Ufficiale di governo e di vertice dell’amministrazione comunale, così come l’intendente era a capo della provincia e rappresentante statale, e tanto il Consiglio Divisionale che quello Provinciale, si sceglievano un proprio Presidente, ma gli intendenti potevano intervenire con voto consultivo e deliberativo.

Il tentativo di contemperare la logica del parlamentarismo di derivazione inglese con il centralismo di derivazione francese generò fin da subito vive voci di critica, espresse solo per citare i più importanti da Silvio Spaventa che lo definì “una discordanza tra il nuovo diritto pubblico liberale e le abitudini assolutistiche” a Jacini e Minghetti parlarono di un “mostruoso connubio”5 .

L’architettura sopra descritta non fu il risultato di un’opera innovativa ma si inseriva in un percorso evolutivo che trovava la sua ispirazione ed elemento di riferimento nel modello Napoleonico, che aveva posto termine alle innovazioni realizzate durante il periodo della Rivoluzione francese in materia di rapporti fra il centro e la periferia dello Stato; strutturando una macchina burocratica, il cui schema organizzativo era quello rigidamente piramidale.

Esempio di questa architettura istituzionale fu la Legge del 28 piovoso dell’anno VIII (17 Febbraio 1800) che stabiliva che in ciascun Dipartimento era posto un prefetto, un Consiglio generale dipartimentale e un Consiglio di prefettura; che in ciascun Distretto era posto un sottoprefetto coadiuvato da un Consiglio distrettuale e a capo di ciascun Comune il Sindaco insieme ad un Consiglio municipale. Il Sindaco e soprattutto il prefetto assunsero quel ruolo

4 Cfr. GHISALBERTI C., Storia costituzionale d’Italia 1848/1948, Laterza, Bari, 1974, p. 116

5 Cfr. PAVONE C., Amministrazione centrale e amministrazione periferica da Rattazzi a Ricasoli

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che caratterizzerà queste figure in senso fortemente accentratore; risulteranno infatti essere questi il vertice dell’ente e contemporaneamente delegati dal Governo che così manteneva un forte controllo sugli atti e sugli organi degli enti territoriali.

L’esercito Napoleonico, con le sue campagne militari, esportò nei territori conquistati i modelli giuridici della Francia napoleonica; nel 1802 anche il piccolo regno del Piemonte venne inglobato nell’impero francese, assumendo in pratica una identica forma di amministrazione territoriale ( con la divisione in Dipartimenti, Distretti, Cantoni e Comuni) e una struttura organizzativa accentratrice; caratterizzata dal meccanismo delle nomine dall’alto e dai controlli gerarchici sugli atti, sugli organi e sui bilanci degli enti locali.

Con la fine dell’Impero Napoleonico, e nonostante a seguito del Congresso di Vienna il prevalere delle posizioni reazionarie e di avversione ai principi napoleonici, non venne abbandonata la struttura organizzativa costruita da Bonaparte; le sue caratteristiche centralistiche e gerarchiche, risultarono funzionali al controllo e alla stabilizzazione politica e sociale perseguito dalla politica della “reazione” nei vari regni europei.

Anche il Regno di Sardegna non fece eccezione a questo processo, inizialmente si ripristinò il sistema risalente all’età dell’assolutismo illuminato, per poi lentamente innestarvi principi direttamente derivati dall’esperienza napoleonica. Questo avvenne soprattutto con Carlo Alberto, tra il 1836 e il 1842 con una serie di riforme furono istituiti i consigli d’intendenza e la riforma dell’ordinamento provinciale. Si tornò così al Sindaco non più eletto ma nominato dal Governo e alla suddivisione del territorio in Divisioni, Province, Mandamenti e Comuni, mentre prima la suddivisione territoriale era ridotta a due soli enti: Province e Comuni. Questo assetto rimase invariato fino al 1848 con la concessione dello statuto albertino, e rappresentò la base delle future province dell’Italia unita ( che sorsero dalle divisioni) e del principale soggetto del futuro ordinamento amministrativo: il prefetto.

Prima conclusione a cui si giunge da questa ricostruzione storica relativa al periodo preunitario, è che l’ente provincia si caratterizza per avere

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una presenza nell’ordinamento degli enti locali molto antica ma anche per la sua origine come strumento funzionale al Governo centrale e in particolare mezzo di esercizio delle sue esigenze di controllo e stabilizzazione politica e sociale.

1.1.2 La questione amministrativa: dal Regno di Sardegna al Regno d’Italia

L’assetto amministrativo delineato dal decreto Pinelli, venne ad essere incrinato dagli accadimenti storici che portarono nell’arco di un decennio alla formazione del Regno d’Italia.

La seconda guerra d’indipendenza con la vittoria e la conseguente annessione al Regno di Sardegna della Lombardia pose sul tavolo della politica e della pubblicistica del tempo il tema che fu denominato come la “questione amministrativa”. Si trattava di capire se la disciplina del Regno di Sardegna (modello franco-piemontese) fosse o meno applicabile alla nuova dimensione geografica, tanto più che questo modello avrebbe dovuto calarsi in una regione che vantava una tradizione di organizzazione amministrativa territoriale ben radicata e strutturata nel modello assolutistico illuminato delineato da Teresa d’Austria.

Il punto di maggior distanza fra i due modelli sopra detti, era costituito dalla classificazione degli enti territoriali:

- nel modello franco – sabaudo vigeva il principio di uniformità nella classificazione degli enti;

- nel modello lombardo – austriaco era la mancanza di uniformità nella classificazione che faceva si che si distinguessero i comuni a secondo della loro importanza; (vi erano quindi comuni definiti come minori, che erano amministrati da un “convocato generale degli estimati” cioè da un’assemblea di possidenti che eleggeva una deputazione di tre membri ; questi deliberavano in presenza di un commissario distrettuale).

La presenza dei “convocati” assunse immediatamente una valenza antisabauda, era questo considerato un forte elemento di partecipazione da conservare come elemento di autonomia rispetto al nuovo Governo

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piemontese. La divisione fra i due schiarimenti, uno filo sabaudo e l’altro filo lombardo si ricreò anche all’interno della Commissione Giulini. Questo organo speciale creato su richiesta di Cavour per progettare un nuovo ordinamento amministrativo si riunì dal 10 al 26 Maggio 1859 in ben 18 sedute e dopo un vivace dibattito interno, produsse un documento redatto da Achille Mauri in cui veniva ribadita l’esigenza di salvaguardare una speciale autonomia per le comunità locali della Lombardia. Per questa regione fu riconosciuto con il decreto dell’ 8 Giugno 1859 un ordinamento transitorio, ancor prima dell’armistizio di Villafranca. Il compromesso che ne scaturì vide a livello comunale mantenere il sistema teresiano, mentre a livello provinciale si introdussero gli intendenti generali di ascendenza franco-piemontese. Questa condizione temporanea ebbe, però, una brevissima durata e già nell’inverno dello stesso anno (in virtù dei poteri speciali riconosciuti per lo stato di guerra) – dopo la conferenza di pace di Zurigo che sanciva il definitivo passaggio della Lombardia al Piemonte – la nuova Legge Rattazzi sull’ordinamento comunale e provinciale venne estesa ai territori lombardi; superando l’idea fino ad allora circolante di un ordinamento provvisorio per il territorio da poco annesso.

La Legge Rattazzi, rappresentava la conclusione delle riflessioni e di lavori preparatori che si erano svolti dal 1854, e che sempre erano stati respinti dal Parlamento; questa legge come subito precisava il Rattazzi nella sua relazione era una soluzione provvisoria e che presto il Parlamento sarebbe stato chiamato a “perfezionare il lavoro” e che era “la più liberale delle leggi che fossero mai state sottoposte alla sanzione del re”.

L’accentramento politico che si delineava con questa legge venne giustificato dal ministro per la maggiore efficienza e vicinanza alla popolazione di autorità come Governatori, Intendenti e degli altri pubblici Ufficiali, che costituivano il perno su cui si reggeva la costruzione della “nuova macchina amministrativa”; infine, che avevano desistito dall’assumere il modello lombardo-austriaco delle libertà comunali certo che anche il modello napoleonico apparteneva alle popolazioni lombarde.

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La relazione del Rattazzi6 proseguiva in merito alle Province

affermando che “l’istituzione provinciale non si può oggi invero legittimare che mutandone, come si fa per la proposta di riforma, il fine originale” ed infatti la Provincia diventava “una grande associazione di comuni destinata a provvedere alla tutela dei diritti di ciascuno di essi, ed alla gestione degli interessi morali e materiali che hanno collettivamente tra loro7”.

E alla deputazione provinciale, organo esecutivo dell’ente provincia venne assegnato il compito di esercitare la funzione di tutela sui comuni. Il decreto del 23 Ottobre 1859 si inserì in una linea di continuità con l’impostazione franco- sabauda che aveva la legge del 1848. Il testo si apriva con un titolo dedicato alle “autorità governative”, evidente che l’ordinamento locale veniva concepito con un processo che muove dall’alto verso il basso, articolando la suddivisione del territorio in 3 enti, Comuni, Circondari, Province.

Al Governatore posto a capo della Provincia, che nel 1861 verrà attribuito il nome di Prefetto, veniva aumentata la sua autorità e ribadita la sua qualità di “rappresentante del potere esecutivo in tutta la Provincia" (art. 3);

questa sua qualità appare ben radicata, osservando in maggior dettaglio le

attribuzioni di funzioni assegnate al governatore: era responsabile della pubblica sicurezza, disponeva delle forze armate nell’ambito della Provincia e vigilava sull’andamento di tutte le pubbliche amministrazioni. Era posto inoltre a capo di tutti gli impiegati di segreteria utilizzati negli uffici d’intendenza, nei Consigli provinciali e nelle Deputazioni provinciali, e a lui spettavano le attribuzioni “determinate dalla legge”; con questa previsione finale si lasciava un ampio margine al potere centrale per poter ampliare ulteriormente i poteri secondo necessità.

Per quanto sopra detto era evidente come il Governatore fosse dunque rappresentante periferico dell’amministrazione statale, ma altresì era posto a capo della Giunta esecutiva dell’ente autonomo provinciale.

6 Cfr. PETRACCHI A., Lo origini dell’ordinamento provinciale e comunale, Neri Pozza, Vicenza, 1962,

pp. 183 e ss.

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Convivevano quindi nella sua figura istituti di decentramento con istituti di rappresentanza; al Governatore spettava infatti la funzione di presiedere e convocare la Deputazione Provinciale, (organo esecutivo della provincia) a sua volta eletto annualmente all’interno del Consiglio Provinciale (i cui membri erano eletti per mandamento e che “rappresentavano l’intera Provincia”).

Il decreto Rattazzi quindi non innovò rispetto alla normativa previgente, ma un’importante tema di dibattito e riflessione viene già a delinearsi nella relazione del Rattazzi, la dimensione territoriale e del numero delle province. In un passaggio della relazione si affermava che “le nuove province erano costituite sopra basi abbastanza larghe, racchiudevano popolazioni ed interessi economici e morali abbastanza considerevoli ed omogenei e che tuttavia ad esse si sarebbe potuto dare una maggiore estensione territoriale”. Questo passaggio in cui alcuni intravedono un’apertura nei confronti delle regioni è in dottrina controverso; ma ciò che è indiscutibile è come il problema che si ripresenterà varie volte fino ai nostri giorni dell’estensione territoriale e del numero delle province avesse già destato l’interesse nel decennio dal 1848 – 1859.

Questo tema la cui rilevanza aveva inizialmente una dimensione “Piemontese”, divenne a seguito dell’annessione della Lombardia e poi degli altri stati dell’Italia centrale assolutamente preponderante, assumendo un valore di carattere nazionale.

Era evidente già al tempo che centinaia di piccole province avrebbero reso difficoltoso un governo efficiente del Regno, tanto più adesso che questo andava ad assumere dimensioni “nazionali”; è in questo quadro storico che si inserisce quindi la riflessione del Rattazzi di cui sopra, il quale nutriva dubbi consistenti sull’adeguatezza della dimensione provinciale alla nuova situazione statale e avanzava nella Sua relazione la necessità di porvi rimedio “Le provincie cui si potrà dare, quando non vi contrastino più le condizioni politiche interne ed esterne, una maggior estensione territoriale…”

D’altro lato è in concomitanza del biennio 1860-1861, anni in cui il processo di unificazione subisce un’accelerazione e il tema del nuovo assetto di governo da dare allo stato a seguito dell’ampliamento tanto rilevante dei

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suoi confini assume rilevanza preponderante, che si assiste anche al massimo sviluppo dell’elaborazione del pensiero autonomista.

Il processo storico che portò alla nascita del Regno d’Italia, vide Cavour e i suoi collaboratori pienamente coscienti della necessità di procedere con un progetto di un nuovo ordinamento del regno con norme nuove e uniformi e che in qualche misura tenessero in considerazione delle situazioni preunitarie. Prova di questo è che provvisoriamente durante l’annessione dei territori dell’Italia centrale venne applicata la legge sarda per far fronte alle esigenze momentanee, e in via eccezionale alla Toscana venne riconosciuto il diritto di mantenere un ordinamento diverso in attesa di un riordino complessivo della materia.

Si decise così di dar vita ad una commissione temporanea di legislazione presso il Consiglio di Stato all’interno della quale spiccarono per le loro qualità e contributo il Farini prima e il Minghetti poi. Il 13 Agosto del 1860, il giorno dell’inaugurazione dei lavori della commissione, il Ministro degli Interni Luigi Carlo Farini fece pervenire a tutti i componenti una Nota in cui indicava gli obiettivi di alcune riforme amministrative da perseguire. In particolare, prefigurava la creazione delle regioni come circoscrizioni amministrative senza rappresentanza elettiva, formate da delegati provinciali e poste sotto il comando di un governatore. Durante i lavori della commissione prevalse, però, una proposta di legge ancor più avanzata che indicava nella regione un vero e proprio “corpo morale” con al vertice un governatore che sarebbe stato un autentico rappresentante dello Stato.

Nel lavoro della commissione di cui sotto si riportano i punti salienti e più interessanti, si trovano spunti in ordine alle funzioni delle province, del prefetto, ai consorzi di comuni e province a cui affidare materie perché maggiormente adeguati a realizzare una gestione maggiormente efficace ed economica; alla previsione di un nuovo ente le Regioni, qui pensate in termini embrionali per la prima volta.

Fu il Farini nell’aprire i lavori della commissione ad accennare alla possibilità di prevedere la formazione di regioni, ricordava come erano sempre esistiti storicamente degli enti intermedi tra le province e lo stato, e chiariva

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come queste avrebbero dovuto considerarsi come semplici circoscrizioni amministrative, senza rappresentanza elettiva diretta e senza competenze sue proprie. Il Farini delineava quindi un ‘ente regione con caratteri molto deboli, e questo gli venne rimproverato, ma ciò che rileva fu l’apertura innovativa realizzata dal Farini, e che permise al suo successore di proseguire con maggior forza e determinazione nel delineare l’ente regione.

Al termine dei lavori della commissione, che aveva formulato, esaminato e discusso diverse soluzioni, il ministro Minghetti annunciò che le proposte di legge sull’ordinamento amministrativo che avrebbe presentato al Parlamento avrebbero in parte recepito i suggerimenti emersi duranti i lavori della commissione e in parte se ne sarebbero da questi distaccati.

E interessante è il discorso che tenne il Minghetti il 13 Marzo 1861 alla Camera8 in occasione della presentazione di 4 disegni di legge relativi a:

ripartizione del Regno e sulle autorità governative; Amministrazione comunale e provinciale; Consorzi; Amministrazione regionale.

Il Minghetti ammetteva che la varietà “notevolissima e secolare” delle leggi, delle tradizioni e delle abitudini che avevano regnato nella penisola sino a quel momento rendeva arduo il passaggio alla unificazione civile e legislativa; il problema era di “accordare alle varie parti del regno le massime franchigie possibili” garantendo al contempo l’integrità e consolidando l’unità nazionale. Inoltre il Minghetti riteneva che il decentramento amministrativo poteva realizzarsi in due modi, “dando cioè ai comuni e alle provincie maggiori attribuzioni e maggiore libertà di azione di quello che ebbero sinora, ovvero delegando alle autorità governative locali molte facoltà che sogliono serbarsi dal Governo centrale” e prosegue il Minghetti “i disegni di legge che ho l’onore di proporvi hanno l’uno e l’altro di questi intendimenti”.

Venendo a trattare del tema delle province, che qui in particolare interessa egli affermava “La provincia in Italia ha antiche origini ed ha per avventura una personalità più spiccata che in alcun’altra parte d’Europa. Essa risale in molte parti della penisola a quell’epoca nella quale ferveva la lotta tra

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l’elemento democratico delle città e l’elemento feudale della campagna. Quando la città, trionfando, smantellò i castelli dei baroni, e questi costrinse a venire ad abitare entro le sue mura, quando accolse sotto la sua protezione i borghi minori, la città si formò intorno un contado, o un territorio col quale strinse vincoli intimi di interesse e di affetto”. Storia comune, dunque, e comune origine erano alla base della formazione delle diverse province; e questo era il motivo per il quale, nella proposta di legge presentata, esse non si configuravano come un’associazione fittizia, bensì come “un’associazione naturale, fondata sopra interessi comuni, sopra tradizioni e sentimenti che non si possono offendere senza pericolo”.

Di conseguenza, massima era l’avversione del ministro Minghetti nei confronti della formazione di province artificiali più o meno grandi “create secondo le convenienze politiche e i calcoli dell’opportunità”. Ciò precisato, egli proseguiva affermando che la libertà provinciale era assieme a quella comunale, la “vera salvaguardia del regime costituzionale” e che, per tale ragioni, la Costituzione della provincia rappresentava l’idea capitale del suo progetto. Rispetto alla normativa vigente, egli prevedeva un notevole incremento delle attribuzioni provinciali: “la maggior parte delle strade, la difesa dei fiumi minori e dei torrenti, l’istruzione secondaria, la sanità e le terme, le discipline per la conservazione dei boschi e per gli usi agrari, la conservazione dei monumenti avrebbe dovuto passare alla competenza di tale ente. La provincia da lui immaginata avrebbe dovuto avere un’amministrazione propria, totalmente indipendente, e al prefetto rappresentante del potere esecutivo centrale, sarebbe rimasta la vigilanza solamente su due fronti; il primo è che le leggi siano osservate e nella sostanza e nella forma, e che comuni e province siano mantenuti nel limite delle loro competenze, il secondo controllo avrebbe dovuto riguardare invece l’approvazione dei soli atti della provincia comportanti vincoli per l’avvenire.

Giunto a questo punto dell'esposizione, Minghetti faceva fare, però, un salto in avanti al suo ragionamento, introducendo il concetto di “consorzio”. I consorzi – osservava – erano organizzazioni che esistevano sin dai tempi antichi e che provvedono a molti interessi rilevanti, specialmente in materia di

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acque e strade. Si domandava allora Minghetti: “non potrebbero i consorzi ravvivarsi, retti da nuove leggi e ben accomodate, svolgersi ed estendersi ancora a maggiori uffici? Perché, per esempio, certi istituti ai quali un comune o una provincia non basterebbero da se soli, non potrebbero essere affidati a consorzi o facoltativi o obbligatori?”

Veniva in questo modo introdotta l’idea di regione che, a suo parere, altro non era che “un consorzio permanente di province” che avrebbe dovuto occuparsi dell’istruzione superiore, delle accademie di belle arti, degli archivi storici e di quei lavori pubblici non retti dallo Stato, né propri di consorzi facoltativi o delle singole province. Minghetti si diceva convinto che il decentramento amministrativo, inteso nel senso liberale di accordare le massime libertà ai comuni, alle province ed alle loro associazioni, sarebbe stato in tal modo portato al più alto grado e che, allo stesso tempo, ciò non avrebbe potuto mettere a repentaglio l’unità politica appena raggiunta. Tornando poi a parlare di autorità governativa, il ministro ribadiva che il prefetto sarebbe stato il rappresentante del Governo nelle province e, per questo suo ruolo, egli avrebbe dovuto avere ampie facoltà, che gli consentissero di occuparsi in via definitiva di molti aspetti, senza il necessario passaggio ministeriale. Veniva dunque proposto di lasciare la parte regolamentare dell’applicazione delle leggi alle singole province, ma veniva altresì affrontato il problema della competenza giurisdizionale in caso di ricorso avverso tali atti, poiché non era pensabile - sosteneva Minghetti - che si venissero a creare una molteplicità di giurisprudenza amministrative. La soluzione prospettata era semplice e richiamava in causa le regioni: “Poiché abbiamo costituito un consorzio di provincie, e ne abbiamo formato una regione, perché non potrebbe in quella risiedere un’autorità governativa, alla quale i ricorsi fossero portati contro il prefetto, che decidesse delle questioni che hanno attinenza con più provincie, che approvasse i regolamenti di esse, che avendo il pensiero del ministro, esercitasse in quelle province collegate una comune vigilanza? Il governatore sarebbe, secondo questo concetto il rappresentante dell’autorità centrale nella regione, e in lui si compirebbe il massimo discentra mento (sic) amministrativo per via di delegazione”.

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La regione veniva dunque vista in questi progetti di legge come un consorzio obbligatorio di province. E se il consorzio era un ente morale, anche la regione deduceva – Minghetti – doveva essere un ente morale; se il consorzio aveva una rappresentanza delegata dai suoi mandanti, cioè dalle province che la componevano. E tuttavia, per evitare che ciò comportasse la creazione di piccoli parlamenti regionali e la rinascita degli stati unitari, la potestà esecutiva avrebbe dovuto essere affidata ai rappresentanti governativi.

Tutti questi accorgimenti, materie di competenza precise e limitate, rappresentanza di secondo grado e delegata, potere esecutivo alla rappresentanza governativa, scongiuravano i pericoli indicati dagli antiregionalisti secondo il parere di Minghetti.

Un passaggio successivo del Minghetti ci è utile per inquadrare il tema della “sussidiarietà” così come la si intendeva nel pensiero liberale di metà ottocento; (ovviamente senza mai utilizzare tale termine); “io credo che in generale lo Stato debba lasciare il più che sia possibile alla iniziativa dei privati, dei comuni, delle provincie e delle associazioni; credo che il proprio e perenne suo ufficio sia il mantenimento della giustizia e la tutela dei diritti; ma credo ancora che in certi tempi e in certe opere esso abbia un dovere di integrazione; che a lui spetti di compiere, di supplire a quelle parti nelle quali i comuni, le provincie e le regioni per se sole non bastassero”. Il riferimento era chiaramente a quelle zone appena conquistate che “per malignità dei governi passati, o per infelicità di fortuna, o per difetto di naturale chiarezza“ si trovavano in una situazione di palese inferiorità rispetto alle altre e nei confronti delle quali lo Stato unitario aveva, secondo Minghetti, l’obbligo di intervenire per ridurre le sperequazioni. Proprio l’annessione di quelle zone, però, segnò il definitivo affossamento dei progetti regionalisti. Ancora una volta fu infatti un fattore di politica “estera” a determinare lo sviluppo della legislazione in materia di ordinamento amministrativo. L’avanzata garibaldina con la conquista del sud dell’Italia, in cui l’arretratezza sociale ed economica, unite alla debolezza e scarsa affidabilità della classe borghese meridionale spinse i governanti sabaudi a considerare assolutamente non compatibili con questi

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territori la creazione di forti autonomie regionali e con un autentico decentramento, in quanto avrebbe avuto il solo effetto di mettere in pericolo l’unitarietà e la stabilità del nuovo Stato Italiano.

Come la dottrina ha messo bene in luce, quella verso l’accentramento fu dunque una sorta di scelta obbligata, dettata da quello che potremmo definire il “vento del Sud”9.

Con i Decreti Ricasoli (succeduto al Cavour) dell’Ottobre 1861 si affermò, dunque, un sistema amministrativo accentrato a cui mancava, però, un’autentica formalizzazione legislativa. Sarà questa un’opera che impegnerà la politica nazionale nei tre anni successivi, attraverso un percorso parlamentare che si intreccerà con lo sviluppo delle vicende politiche nazionali e che produrrà, soltanto nel 1865, la legge di unificazione amministrativa del Regno d’Italia. I decreti con i quali si abolirono il regime delle luogotenenze istituite a Firenze, a Napoli e a Palermo, e venne estesa a tutto il Regno la legge del 1859; contestualmente a questo il Minghetti ritirò le sue proposte di legge “regionaliste”.

Unico elemento di novità fu la presentazione al Parlamento nei mesi successivi di un disegno di legge dell’allora ministro dell’interno Peruzzi, con il quale si separava la figura del prefetto dalla presidenza della Giunta provinciale. L’esame di questo testo fu però interrotto quando, con la Convenzione di Settembre10 venne posto ai voti del Parlamento il trasferimento

della capitale a Firenze. La camera approvò in quell’occasione un ordine del giorno che impegnava il Governo “a presentare un progetto di legge che provvedesse alla più pronta unificazione legislativa e amministrativa del regno, in quanto urgentemente richiesto dal trasporto della capitale”11. Il ministro

dell’interno Lanza, con una procedura che fu contestata da più parti, presentò allora sei nuove leggi come allegati ad una legge molto breve che il Parlamento

9 Cfr. AIMO P., Stato e poteri locali in Italia. 1848-1995, Nis, Roma, 1997, p. 36.

10 Parigi, 15 Settembre 1864: i negoziati tra il Governo Minghetti e l'imperatore Napoleone III per risolvere

la Questione romana furono avviati nel Giugno 1864, in seguito alla notizia di un peggioramento nelle condizioni di salute di papa Pio IX e di una possibile vacanza del seggio apostolico. La Convenzione fu firmata dai ministri plenipotenziari Costantino Nigra e Gioacchino Pepoli e dal ministro degli Esteri francese Édouard Drouyn de Lhuys.

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avrebbe dovuto approvare o respingere in blocco, senza la possibilità di discussione e di voto articolo per articolo, si realizzò con l’approvazione di questo pacchetto di provvedimenti di un “codice di diritto pubblico”12 che

rappresentò la chiusura dell’iter formale dell’unificazione amministrativa. Con questi provvedimenti si sanciva, in definitiva, l’esistenza di un sistema amministrativo accentrato di chiara derivazione franco-piemontese, che si era potuto affermare sulla base di un’amplissima e controversa delega concessa dal Parlamento all’Esecutivo.

La Legge per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia del 20 Marzo 1865 n. 2248, all’allegato A, definiva la ripartizione politica e territoriale degli enti locali del Regno, riprendendo con poche variazioni il decreto Rattazzi del ’59 apportandovi poche modifiche. Il Regno d’Italia, pertanto, continuò ad essere suddiviso in quattro livelli amministrativi gerarchici: province, circondari, mandamenti e comuni. Dei sei allegati, quello in questione fu il più contestato; perché manteneva il “decentramento napoleonico” e per l’eccessivo “principio di autorità” a cui la legge si ispirava. Nella sostanza il carattere scarsamente innovatore delle norme approvate era a tutti chiaro e da molti non gradito.

Per quanto riguarda le Province, il testo indicava quali fossero gli organismi e le strutture amministrative che le caratterizzavano. Al centro, era collocato il prefetto la cui nomina aveva carattere altamente discrezionale. Egli, coadiuvato da un Consiglio di prefettura costituito da non più di tre

consiglieri, era il più alto rappresentante del potere esecutivo

nell’amministrazione delle Province ed infatti veniva nominato dal Re, dopo una delibera formale del Consiglio dei Ministri su indicazione dal Ministro dell’Interno. Il prefetto pubblicava e metteva in atto la legge e vigilava sulla pubblica amministrazione; sui rappresentanti a livello locale ed esecutori dei suoi ordini erano i sottoprefetti, posti a capo di ogni circondario. Accanto al prefetto vi era un Consiglio provinciale eletto su base mandamentale, la consistenza numerica dei consiglieri provinciali veniva fissata sulla base della

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popolazione 60 consiglieri per le province con un numero di abitanti superiori a 600.00) e nei diversi comuni si eleggevano un numero di consiglieri pari a quello previsto per il mandamento. Risultava eletto il candidato che avesse ottenuto il maggior numero di voti nel totale di tutti i comuni mandamento in cui si presentava.

All'interno del Consiglio veniva eletta a maggioranza assoluta di voti la Deputazione provinciale. Ai Comuni di ogni mandamento era demandato di stilare le liste degli aventi diritto al voto nelle elezioni amministrative.

Era poi la Deputazione provinciale a revisionare e convalidare le liste, i cui criteri di compilazione erano indicati nella legge del 1865: per l’esercizio del diritto elettorale amministrativo era necessario possedere tutti i requisiti chiamati generali ( essere di sesso maschile, maggiore età, cittadinanza italiana, godimento dei diritti civili nel Regno, saper leggere e scrivere) e uno almeno di quelli speciali (per censo o per qualità). L'elettorato per censo era attribuito a chi pagava annualmente nel Comune una contribuzione diretta di qualsiasi natura non minore di 5 o 25 lire, secondo la popolazione dei Comuni. Con questo si stabiliva inoltre che il contribuente potesse votare in ciascun comune nel quale versasse la tassazione necessaria. Gli elettori per qualità erano invece i laureati, gli impiegati pubblici, i membri di talune accademie. Anche in presenza di questi requisiti, però, non era concesso il diritto elettorale ai falliti e a quelli che avessero subito alcune condanne, per lo più di carattere infamante, né avevano capacità elettorale coloro che fossero a carico degli istituti di beneficenza e i condannati per reati elettorali. Erano sospesi temporaneamente dal voto le persone appartenenti a corpi organizzati per servizi dello Stato, delle Province e dei Comuni, compresi i sottoufficiali e i soldati.

Con la Legge di unificazione del 1865 si ebbe dunque quella che viene definita la “piemontesizazzione” del sistema13, data non solo dall’estensione

del diritto sabaudo all’intero territorio nazionale, ma anche dal fatto che, quanto meno agli inizi, i “controllori” degli enti locali, dunque in primo luogo i prefetti,

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furono principalmente di origine piemontese. Nel 1861 quando il numero delle Province era di 59, i prefetti provenienti dall’attività politica sarda erano 39, 13 quelli provenienti dalla burocrazia dello stato sabaudo; le restanti unità appartenevano agli stati preunitari.14

La figura del prefetto si caratterizzò per la completa assenza di separazione tra politica e amministrazione: moltissimi furono i prefetti che videro coronare la loro carriera con la nomina a Senatore, e d’altro lato molti furono i deputati e anche gli ex – ministri che lasciarono il loro incarico perché destinati al governo di una provincia. E’ chiaro che nel sistema così delineato il prefetto interpretava il suo ruolo in chiave squisitamente politica. Va detto però che il prefetto non aveva poteri su tutte le amministrazioni centrali, perché in taluni casi quali l’istruzione, la finanza o i lavori pubblici, esistevano strutture gerarchiche che autonomamente raggiungevano dal centro la periferia. È questa una delle principali differenze con il sistema francese, ovvero la mancata unità interministeriale dell’amministrazione, per cui le periferie italiane dialogavano in alcuni casi direttamente con il centro senza passare dalle prefetture.

E nella figura del Prefetto, si trova esplicitata una caratteristica dell’organizzazione amministrativa dello Stato nascente, il prefetto faceva parte della catena di comando che dal vertice andava verso la base, e dall’altro era lo strumento di trasmissione delle istanze del basso verso l’alto; in una situazione in cui peraltro i meccanismi del controllo non avevano una forza imperativa certa e però la periferia dipendeva fortemente dal centro soprattutto per le finanze, il deputato locale acquisiva il ruolo di mediatore e di scambio grazie al quale, appoggiando il Governo in carica, otteneva vantaggi per il proprio “feudo”.

Il prefetto, naturalmente, assumeva a questo fine un ruolo insostituibile. La richiesta del Governo, spesso esplicita, di sostenere il candidato “gradito”, non poteva essere disattesa da chi, nominato dall’esecutivo, da questo poteva

14 I dati sono citati in ROTELLI E., Costituzione e amministrazione dell'Italia unita, Il Mulino, Bologna,

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essere revocato in qualsiasi momento. L’uso, a volte anche spregiudicato, dell’apparato amministrativo da parte della politica andò incrementandosi proprio nel decennio successivo all’entrata in vigore della Legge sull’unificazione, fino a raggiungere l’apice con la “rivoluzione parlamentare” del 1876 e con i governi della Sinistra storica.

Lo stesso Depretis, nel discorso elettorale di Stradella, aveva individuato nella “questione amministrativa” uno dei nodi su cui intervenire, senza però riuscire a tradurre poi in concreta azione di governo questa esigenza. Una volta giunti al potere, gli esponenti della Sinistra lasciarono sostanzialmente inalterato il sistema vigente.

Appare quindi delinearsi in questo passaggio il problema della scarsa definizione delle funzioni attribuite alla provincia, e dall’altro dell’instaurarsi di quel circolo vizioso tra sistema politico e apparati amministrativi, che nei decenni successivi assumerà dimensioni inimmaginabili

Agostino Depretis nel suo discorso alla Camera, riprendendo alcuni passaggi pronunciati a Stradella, aveva infatti affermato: “[…] primo e supremo compito nostro sarà quello di rimuovere ogni dubbio più lontano intorno alla sincera leale e piena attuazione delle istituzioni rappresentative. A quest’uopo noi studieremo quanto più presto ci sarà concesso una proposta di riformare la legge elettorale politica, la quale uscì dai pieni poteri nel 1860, e che ora, a nostro parere, vuole essere riveduta. […]]. Ma per assicurare, o signori, la sincera espressione e lo spontaneo atteggiarsi, dirò così, della pubblica opinione, […] converrà sfrondare le inutili ingerenze del Governo centrale nelle istituzioni d’interesse locale, e converrà alleggerire la responsabilità degli alti dicasteri dichiarando che tutti gli ufficiali pubblici debbono rispondere avanti alla giustizia nazionale di ogni violazione della legge”.

Riforma elettorale e riforma dell’ordinamento comunale e provinciale erano dunque nel programma di Depretis collegate, d’altro canto durante il Governo della Destra i rappresentanti del Governo e i rappresentanti dell’area riformista avevano condannato gli abusi del potere centrale, nonché il “caotico” processo di unificazione amministrativa che aveva “soffocato” le

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libertà locali15 e pertanto sembrava normale che questo del maggiore

autonomismo fosse uno dei punti qualificanti il loro programma di governo. Una volta ottenuta la gestione del potere la Sinistra abbandonò le posizioni più avanzate e lasciò inalterato il sistema di accentramento voluto dalla Destra e questo anche in ragione del fatto che, come ha giustamente sottolineato la dottrina più attenta, anche le forze più autonomistiche, quando giungono al potere tendono a sfumare a scolorire le loro opzioni più ideologiche e preferiscono continuare ad utilizzare degli schemi collaudati del modello amministrativo accentrato.

Anzi fu proprio con la Sinistra al potere che si accentuò addirittura l’uso dell’apparato amministrativo in particolare nella persona dei prefetti, in funzione di controllo dal centro, soprattutto nei periodi di consultazioni elettorali.

Paradigma di questa discrasia tra teoria e prassi, si può leggere il comportamento di un esponente rilevante della sinistra storica, Giovanni Nicotera, il quale, nel 1876, fu promotore di una proposta di riforma che non ebbe seguito, che prevedeva l’abolizione delle sottoprefetture, la riduzione dell’ingerenza prefettizia e l’estensione dell’elettorato; tutto questo in qualità di ministro dell’Interno del Governo Depretis non gli impedì in occasione delle elezioni dell’Ottobre del 1876 di estendere all’eccesso i poteri governativi di controllo sulle amministrazioni, sfruttando al massimo gli strumenti a sua disposizione per orientare le consultazioni. Per i primi 10 anni di governo della sinistra a prevalere fu dunque, il senso pratico della sinistra che non apportò alcuna modifica al sistema amministrativo messo in atto dalla Destra.

1.1.3 La riforma del Testo Unico del 1889 e le riforme Giolitti

Per avere una riforma del modello amministrativo tanto a livello centrale che locale si dovrà attendere il Governo autoritario di Crispi, che aveva assunto a suo modello il Governo bismarckiano, in cui l’esecutivo svolge un ruolo forte e prevalente sul Parlamento, e che dal centro e dall’alto detta le linee guida per il Paese.

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I due punti fondamentali su cui si mosse l’azione riformatrice furono da un lato la continuità sostanziale rispetto alle scelte dell’unificazione amministrativa, dall’altro, però il perfezionamento del quadro legislativo del 1865 e la riorganizzazione degli assetti amministrativi.

E’ quindi con la Legge n. 5865 del 30 Dicembre 1888, confluita poi nel T.U. 10 Febbraio 1889, n. 5921 che bisogna prendere le mosse per analizzare le modifiche realizzate al testo del 1865 e in che modo queste innovarono il sistema delle autonomie locali, riforme che in base ad un giudizio storiografico consolidato vennero definite come una vera e propria “seconda unificazione amministrativa”.

Primo elemento di novità fu rappresentato dall’attribuzione alla magistratura della presidenza degli uffici elettorali, inoltre si stabilivano le modalità di scioglimento dei consigli provinciali sia per gravi motivi di ordine pubblico sia per inadempienza da parte degli stessi obblighi loro imposti per legge e decretava in queste eventualità la gestione commissariale delle province. Ulteriore elementi di novità della legge in questione e di maggior rilevanza furono inerenti al tema della rappresentanza e dei controlli: la riforma crispina prevedeva infatti che i comuni di provincia e di circondario (ovvero con più di 10000 abitanti) potessero eleggere il proprio Sindaco e che le Deputazioni provinciali potessero nominare al loro interno il Sindaco, inoltre parificava in via definitiva l’elettorato amministrativo a quello politico.

Le aperture sul lato dell’autogoverno vennero bilanciate con una modifica sensibile nel sistema dei controlli, dove pur restando il controllo di legittimità spettante al prefetto, la legge stabiliva che la tutela delle province non era più affidata alla Deputazione provinciale, ma ad un organo ad hoc di nuova istituzione mutuata dal modello prussiano, la Giunta provinciale amministrativa, (GPA), composta dal prefetto, dal Sindaco, da due consiglieri di prefettura e da quattro membri effettivi ( più due supplenti) nominati dal Consiglio provinciale fuori dal suo seno. Da un lato dunque veniva stabilita l’elettività della Deputazione, eliminando quella doppiezza nel ruolo del prefetto che sino a quel momento aveva caratterizzato il sistema, dall’altro la Deputazione perdeva il suo compito principale di controllo. L’organo che

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surrogava le sue funzioni, se sulla carta vedeva una prevalenza di membri elettivi, di fatto era pienamente gestito e controllato dal prefetto, alla cui figura Crispi dedicò particolare attenzione, modificando il suo status giuridico, in modo da renderlo maggiormente dipendente dal Governo centrale. La nuova normativa si occupò infatti di riformare anche il collocamento a riposo, in disponibilità o in aspettativa per motivi di servizio e abolì l’incompatibilità tra mandato parlamentare e carica prefettizia16.

Ma l’ordinamento italiano pur ispirandosi come sopra detto al sistema della Francia Napoleonica non giunse mai a recepire pienamente l’impostazione Francese che faceva del prefetto un “re del suo dipartimento”, e sempre più si stava sviluppando un sistema di amministrazioni periferiche che dialogavano direttamente con il centro, senza l’intermediazione delle prefetture; primo esempio di questo fu rappresentato dall’istituzione in ciascuna provincia dell’Intendenza di Finanza, direttamente dipendente dal Ministero della Finanza, a questa seguirono i Provveditorati agli Studi e gli uffici del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio.

Maggior risultati ottenne Crispi nel campo della giustizia amministrativa, alle neo costituite Giunte Provinciali Amministrative vennero affidate alcune funzioni di giustizia amministrativa in modo da spostare anche a livello locale la tutela degli amministrati, come a compensare la scarsa partecipazione dei cittadini al momento decisionale con una maggiore tutela degli stessi ex post. Ma gli ultimi anni dell’Ottocento furono anche quelli in cui si cominciò ad abbandonare il modello unitario nella gestione del territori; il divario che caratterizzava le regioni del Nord da quelle del Sud, infatti durante i primi anni di unità del paese invece di attenuarsi si accentuò e ben presto si ritenne necessario intervenire in talune zone con leggi speciali; nel 1885 venne emanata la legge speciale per Napoli, nel 1895 quella per la Sicilia, nel 1897 per la Sardegna, nel 1904 per la Basilicata, tutti interventi normativi che

16L’incompatibilità era stata prevista da una legge del 1877. Con l’abolizione, la posizione dei

deputati, che nel momento della nomina a prefetto automaticamente vedevano decaduto il loro mandato parlamentare, veniva ad uniformarsi a quella dei senatori.

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portarono alla Costituzione di organi speciali, (l’Alto Commissario per Napoli ad esempi, o il Commissario civile per la Basilicata) e che ruppero l’uniformità di trattamento portando una differenziazione tra le zone.

Altro capitolo importante di analisi, che evidenzia un problema che si trascinerà nel tempo fino ai nostri giorni, e che consente di comprendere l’evoluzione dell’amministrazione locale è dato dalla lettura dei bilanci relativamente alle spese comunali e provinciali . I numeri vedono tra il 1866 e il 1876 un aumento del 50%, nei successivi anni fino al 1885 aumentarono del

40% per passare al 183% nel trentennio successivo17, evidente è quindi che

agli enti locali furono attribuiti maggiori compiti. Sul complesso delle uscite statali, le spese per province e comuni si attestarono nel periodo dell’unità alla Prima guerra mondiale su una percentuale del 30% e comprendevano in buona parte spese di carattere obbligatorio che lo Stato addossava agli enti locali. Una buona fetta delle risorse, poi, doveva servire a far funzionare la macchina burocratica tra il 1872 e il 1900, la retribuzione del personale locale assorbiva il 30-35% dei bilanci comunali e la spiegazione (ieri come oggi) di questo fenomeno è da ricercare in motivazioni di tipo clientelare; e spesso le risorse locali non erano sufficienti a far fronte ad un tale sforzo, conseguentemente fecero ricorso a mutui per risanare le loro casse e alla fine del 1873 l’indebitamento complessivo dei Comuni ammontava a più di 500.000.000 lire, che al valore di oggi sono pari a circa 1,7 miliardi di euro.

I primi del novecento fino alla Prima guerra mondiale fu caratterizzato dalla figura di Giovanni Giolitti, è questo il periodo che venne definito come “l’età d’oro del prefetto”, è proprio con Giolitti che il ruolo del prefetto viene esaltato, soprattutto nella sua funzione amministrativa; ma rimane chiaro come funzione rilevante del prefetto per l’esecutivo continuava ad essere la gestione del momento elettorale.

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Ma l’età di Giolitti è anche quella che vide un grande sviluppo delle competenze comunali e Provinciali, fin dal 1889 i comuni che potevano eleggere il proprio Sindaco e questo aveva portato ad un incremento delle giunte guidate da cattolici e socialisti, che fin da subito si resero particolarmente attive ed “autonome”, soprattutto in tema di edilizia, mercati generali, macelli pubblici, assistenza alle persone anziane e servizi pubblici; e approfittando nei limiti dell’autonomia consentita dall’ordinamento vigente agli enti locali, i comuni e in parte anche le province ampliarono molto il loro campo d’azione, e di questa evoluzione si prese atto nella Legge del 1903 (cosiddetta municipalizzazione) dove si trascrisse in termini di diritto positivo quanto si era già affermato nella prassi. Lo stesso Giolitti giustificò con il progressivo ingrandimento delle città e il conseguente incremento dei bisogni delle comunità l’adozione della Legge sulla municipalizzazione. Sempre in questi primi anni del novecento nacque l’associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI) e nel 1908 vide la luce l’UPI (unione delle province italiane), entrambi organismi che intendevano farsi portavoce degli interessi locali presso gli uffici dello Stato.

Corrispondentemente a queste aperture persistettero e si

intensificarono i controlli, come sta a dimostrare, ad esempio, la procedura particolarmente complessa che dovevano seguire i comuni per assumere un pubblico servizio: la deliberazione, infatti doveva essere sottoposta al parere della GPA, del prefetto e della “commissione reale pel credito comunale e provinciale” che era stata istituita nel 1900.

Pur con le riforme sopra descritte il rapporto tra Stato ed enti locali era sempre improntato ad un’ottica gerarchica di emanazione del potere dall’alto verso il basso, e di assunzione delle decisioni dal centro verso la periferia. I poteri di cui godevano province e comuni non erano poteri propri, ma poteri delegati e gli enti locali cominciarono ad essere definiti non tanto come enti “autonomi” ma piuttosto come enti “autarchici”, e l’introduzione del termine autarchia venne a sottolineare come le amministrazioni locali non fossero titolari di alcuna autonomia di indirizzo politico, alternativo o contrapposto allo Stato; ad ulteriore riconferma di questo la stessa definizione di “enti autarchici”

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veniva attribuita anche a tutti gli enti pubblici cioè quelle cosiddette amministrazioni parallele di cui lo Stato si serviva per soddisfare i crescenti bisogni dei cittadini.

Dunque al pari delle altre amministrazioni pubbliche, anche comuni e province altro non erano che una delle possibili forme organizzative del potere centrale e la stessa elettività dei loro organi non era considerata in quest’ottica

elemento discriminante, ma semplice carattere accidentale18.

1.1.4 Il ventennio fascista

L’avvento del fascismo con il suo carattere antidemocratico vide interrompere il processo di espansione che aveva interessato gli enti locali nel primo ventennio del Novecento, d’altro lato la presenza all’interno delle giunte di esponenti cattolici e socialisti non poteva non attirare l’attenzione del fascismo, che individuava in questi elementi pericolosi di dissenso.

Già prima della presa ufficiale del potere, gli squadristi avevano rivolto la loro attenzione sui sindaci, giunte e consigli non graditi, e successivamente quando Mussolini fu alla guida del paese, la spinta autoritaria venne estesa dal centro alla periferia e gli strumenti utilizzati furono quelli già presenti nell’ordinamento: gli interventi dei prefetti, le censure delle GPA, gli scioglimenti dei consigli comunali e provinciali, la revoca dei sindaci e la nomina dei commissari straordinari.

Ma ad una prima fase in cui ci si limitò ad usare i mezzi a disposizione per imporsi sulle periferie, presto giunse il momento di intervenire anche con norme che dettassero la linea e così anche per quel che concerne i rapporti tra il centro e la periferia, l’anno vero della svolta per il fascismo può essere individuato nel 1926.

Con la riforma approvata con Legge 4 Febbraio 1926 n.237 che cancellò i tre organi fondamentali del comune (Consiglio, Giunta e Sindaco) eliminando qualsiasi principio di elettività e di rappresentanza, il potere

18Cfr. CIANFEROTTI G., La nozione di autarchia nella storia della dottrina amministrativistica

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passava completamente nelle mani di un podestà, nominato con decreto reale, affiancato da una Consulta con mere funzioni consultive.

In quanto alle province, la loro sorte non fu da subito chiara infatti i primi provvedimenti che vennero adottati sembrarono andare in direzioni talvolta contraddittorie. Nel 1923 era stata eliminata la figura del Sindaco del Consiglio provinciale e l’intenzione sembrava essere quella di giungere all’eliminazione dell’ente stesso, ritenuto da più parti inutile. Nel 1925 le funzioni ispettive affidate alla GPA vennero ampliate, tanto che sembrò che lo stesso Mussolini intendesse fare delle province la base dello Stato fascista (soprattutto in funzione anti-regionalistica), ma dall’altro lato le numerosi organizzazioni di cui si dotò il regime fascista per controllare l’intera società, es. l’Onmi (opera nazionale maternità e infanzia), l’Ass (Azienda autonoma delle strade statali), i Consorzi, i Consigli provinciali dell’economia ecc. assottigliarono il numero delle competenze e delle funzioni amministrative direttamente attribuite al’ente provincia e indeboliva tanto l’organo quanto il suo vertice, cioè il prefetto, tutto questo in contraddizione con quanto previsto oltre che dalle disposizione di legge, nella quale Mussolini volle definire con chiarezza che il ruolo del prefetto era quello di massima autorità dello Stato nella provincia e di fedele esecutore della volontà politica proveniente dal centro.

Nei fatti, quando nel 1927 si procedette al riordino delle circoscrizioni, il numero delle province salì da 76 a 92 e per la prima volta tale aumento non era dovuto all’annessione di nuovi territori19

. La motivazione venne chiaramente illustrata in un discorso tenuto da Mussolini alla Camera dei Deputati il 26 Maggio; la ragione giustificatrice addotta da Mussolini è della necessità di “meglio ripartire la popolazione”20

e di frenare l’esodo dalle campagne e dai piccoli centri verso le grandi città.

La sorte definitiva delle province fu infine decisa con il nuovo ordinamento, approvato con la Legge del 27 Dicembre 1928 n. 2962, che si limitò ad allineare anche la provincia alla riforma podestarile che aveva

19 Le province di nuova istituzione furono: Aosta, Bolzano, Brindisi, Castrogiovanni (Enna), Frosinone,

Gorizia, Matera, Nuoro, Pescara, Pistoia, Ragusa, Rieti, Savona, Terni, Varese, Vercelli, Viterbo.

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