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L'impatto del Private Equity sul governo dell'azienda

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Academic year: 2021

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INDICE

Capitolo 1

Il mercato italiano del Private Equity ... 7

1.1 Aspetti definitori ... 7

1.2 L’evoluzione recente del mercato del Private Equity in Italia .. 10

1.3 Le principali tipologie di investimento ... 16

1.3.1 Il finanziamento dell’avvio ... 17

1.3.2 Il finanziamento dello sviluppo ... 19

1.3.3 Il finanziamento del cambiamento... 20

1.4 I soggetti coinvolti ... 22

1.5 Il ciclo di vita del fondo ... 31

1.5.1 La raccolta ... 31

1.5.2 L’investimento ... 33

1.5.3 La gestione dell’investimento ... 36

1.5.4

Il disinvestimento ... 39

Capitolo 2

Il Private Equity come motore di sviluppo ... 47

2.1 I servizi finanziari ... 48

2.2 Il profilo imprenditoriale ... 50

2.3 L’impatto strategico ... 52

2.4 L’aspetto manageriale e quello organizzativo ... 54

2.5 L’importanza di un nuovo network di contatti ... 56

2.6 La creazione di valore nelle operazioni di Private Equity: un

modello teorico ... 58

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2.6.1 Leve di value capturing ... 60

2.6.2 Leve di value creation ... 62

2.7 L’investitore istituzionale nel processo di quotazione in Borsa 65

Capitolo 3

Il caso Kedrion Spa ... 71

3.1 L’Azienda ... 71

3.1.1 La storia del Gruppo ... 72

3.1.2 Attività e prodotti ... 73

3.1.3 Mercati e posizionamento competitivo ... 75

3.1.4 Fattori critici di successo ... 79

3.2 Investitori Associati IV ... 80

3.3 L’impatto del Private Equity sul governo del Gruppo Kedrion 82

3.4 Investitori Associati nel processo di quotazione ... 90

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INTRODUZIONE

L’obiettivo principale del presente lavoro è quello di analizzare l’impatto determinato dall’ingresso di un fondo di Private Equity sul governo dell’azienda. Si parte dall’analisi del mercato italiano del capitale di rischio per poi passare alla descrizione di quelle che sono le leve a disposizione del venture capitalist per la creazione di valore, cercando infine di capire come tali leve sono state mosse all’interno di un caso reale.

La nascita del mercato italiano del private equity è fatta risalire convenzionalmente al 1986, anno in cui viene costituita l’AIFI (Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital) che definisce l’attività di private equity come “attività di investimento nel capitale di rischio di imprese non quotate, con l’obiettivo della valorizzazione dell’impresa oggetto dell’investimento ai fini della sua dismissione entro un periodo di medio-lungo termine”. Il mercato italiano del private equity è stato caratterizzato, negli ultimi anni, da profondi mutamenti sia sotto il profilo qualitativo che sotto quello quantitativo, in conseguenza della necessità, per gli imprenditori, di aprire il capitale della propria impresa a nuovi partners che potessero apportare valore aggiunto sotto l’aspetto del know how manageriale e dello sviluppo di business. L’ostacolo principale che si pone tra domanda e offerta è di tipo conoscitivo: l’imprenditore ha poche informazioni sulle potenzialità reali del mercato del capitale di rischio. E’ importante sottolineare che esistono diverse tipologie di investimento sulla base delle diverse fasi di sviluppo dell’impresa oggetto dell’intervento. Ognuna di queste fasi è caratterizzata da esigenze diverse e, proprio per tale ragione, anche l’operatore di private equity deve avere requisiti in linea con le esigenze stesse dell’impresa. Infatti ogni stadio del ciclo di vita dell’impresa assumerà connotati specifici in termini di dimensioni, esigenze e prospettive; ciò significa che l’intervento dell’investitore istituzionale dovrà essere diverso sia per quanto riguarda l’apporto di risorse finanziarie che per ciò

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che concerne le esperienze e le competenze richieste. Spostando il focus sul ciclo di vita di un fondo di private equity, si possono individuare quattro differenti fasi: la raccolta delle risorse finanziarie, l’investimento delle stesse in aziende opportunamente selezionate, la gestione dell’investimento e il disinvestimento. Nella descrizione delle diverse modalità di disinvestimento mi sono soffermato sulla quotazione in Borsa dell’impresa target, che rappresenta una scelta strategica di particolare rilevanza meritevole di un’attenta valutazione circa l’impatto sull’attività aziendale.

Il secondo capitolo si sofferma sul ruolo attivo dell’investitore nella gestione dell’impresa partecipata, non limitando la propria attività al mero apporto di risorse finanziarie. L’obiettivo principale di un fondo di private equity è quello di realizzare un capital gain. Ecco perché la sfera finanziaria riveste un ruolo predominante. In realtà, l’analisi non si esaurisce al mero apporto delle risorse finanziarie. Infatti l’investitore istituzionale è in grado di muovere diverse leve che vanno a toccare la sfera imprenditoriale, manageriale, strategica, organizzativa, operativa ed industriale, garantendo all’impresa partecipata di poter entrare in una nuova rete di contatti che l’investitore stesso è riuscito a costruire intorno a se nelle precedenti operazioni. Fondamentale risulta il ruolo giocato dall’investitore nel processo di quotazione in borsa, che rappresenta la

way out più diffusa, nonché quella inizialmente prevista nel caso reale oggetto di

analisi nell’ultimo capitolo del presente lavoro.

Il caso Kedrion Spa si presenta particolarmente interessante sia per la storia del Gruppo che per la presenza di uno dei fondi di private equity maggiormente attivi in Italia: Investitori Associati. Kedrion è un’azienda biofarmaceutica specializzata nello sviluppo, produzione, commercializzazione e distribuzione di farmaci plasma derivati. L’ingresso del venture capitalist risale al dicembre del 2006, quando Sestant e Investitori Associati hanno sottoscritto un contratto per l’acquisto del 100% di Kedrion attraverso una società di nuova costituzione, Augeo Due. Questa società è controllata al 60% dalla stessa famiglia Marcucci (attraverso la società Sestant) e al 40% da Investitori Associati attraverso il fondo di Private Equity Investitori Associati IV. Tale operazione avrà un impatto

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importante nel percorso di sviluppo del Gruppo soprattutto al di fuori delle mura domestiche.

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Capitolo 1

Il mercato italiano del Private Equity

1.1 Aspetti definitori

La nascita del mercato italiano del private equity è fatta risalire convenzionalmente al 1986, anno in cui viene costituita l’AIFI (Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital). I protagonisti di tale iniziativa sono state alcune finanziarie private e di emanazione bancaria, allo scopo di dare una voce istituzionale alla volontà comune di costituire e sviluppare un mercato italiano del capitale di rischio1.

L’AIFI stessa definisce l’attività di private equity come “attività di investimento nel capitale di rischio di imprese non quotate, con l’obiettivo della valorizzazione dell’impresa oggetto dell’investimento ai fini della sua dismissione entro un periodo di medio-lungo termine”2.

Tale definizione incorpora in se anche l’attività di venture capital che, dunque, non si presenta come diversa e distinta dal private equity. Infatti l’attività di venture capital riguarda gli investimenti posti in essere nelle fasi iniziali della vita di un’impresa, fasi che si presentano particolarmente delicate e avventurose (da qui, la definizione, appunto, di capitale di ventura).

Gli operatori che agiscono nel mercato del private equity vengono definiti, in modo generico, venture capitalists, prescindendo dalla tipologia delle operazioni che pongono in essere.

1 Per approfondimenti si veda “Gli Operatori in Italia”, AIFI, Capitali per lo Sviluppo. Sesto Rapporto

Biennale 1997-1998, Guerini e Associati, Milano 1997.

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In un Paese, l’Italia, in cui troppo spesso le aziende mancano di una cultura manageriale ed in cui il sistema bancario stenta a soddisfare le esigenze di una moltitudine di imprese prive dei mezzi per la realizzazione di piani di sviluppo ed espansione, l’attività degli operatori di private equity va ben oltre il mero conferimento di capitali, comprendendo un costante affiancamento, l’apporto di competenze professionali e l’introduzione della stessa partecipata in una rete di contatti fondamentali per la sua crescita3.

E’ opportuno, in prima battuta, indagare l’evoluzione dell’aspetto finanziario4 conseguente l’ingresso di un fondo di private equity nel capitale di rischio di un’impresa. Quest’ultima avrà a disposizione nuovi capitali che potranno essere utilizzati per lo sviluppo di nuovi prodotti e nuove tecnologie, per espandere il circolante, per finanziare acquisizioni, per rafforzare la struttura finanziaria della società.

Sarebbe riduttivo limitare l’analisi al contributo finanziario. Infatti ulteriori vantaggi derivano dalla disponibilità di know how strategico, manageriale ed organizzativo5 che l’investitore mette a disposizione dell’impresa per il raggiungimento dei suoi obiettivi di sviluppo.

L’aspetto strategico è legato alle notevoli abilità imprenditoriali di cui dispone l’operatore di private equity. Tali abilità permettono una corretta valutazione e gestione dei rischi connessi all’esercizio di un’impresa e alla capacità della stessa di produrre elevati redditi in futuro.

Il contributo manageriale riguarda da un lato l’ingresso di nuove figure professionali in azienda e , dall’altro, una precisa attribuzione di responsabilità ai diversi livelli aziendali.

Per quanto concerne il profilo organizzativo, l’operatore di private equity mette a disposizione dell’impresa conoscenze e competenze che le possono permettere di ridefinire in modo ottimale l’assetto organizzativo, di dotarsi di un adeguato

3 Si veda, a tal proposito, “I Fondi di Private Equity”, Amministrazione & Finanza Oro n.6/2003. 4

Il contributo finanziario ha particolare rilevanza in paesi come l’Italia, caratterizzati dalla presenza di un grande patrimonio di piccole e medie imprese chiamate a far fronte all’accresciuta competizione

internazionale.

5 Per approfondimenti si veda AIFI, Quaderni sull’investimento nel capitale di rischio, Il Private Equity

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sistema di controllo interno, individuando gli obiettivi da perseguire, verificando il grado del loro raggiungimento e procedendo ad una analisi degli scostamenti in modo tale da intraprendere eventuali azioni correttive in tempi utili. In tal modo l’investitore contribuisce all’abbandono della gestione improvvisata delle risorse. Il venture capitalist è in grado di mettere a disposizione dell’impresa un insieme di relazioni e di contatti. La creazione di un network6 di relazioni risulta decisiva per lo sviluppo dell’impresa stessa.

Altro aspetto da sottolineare riguarda il fatto che la presenza dell’operatore di private equity sia un fattore determinante per il miglioramento della reputazione e della credibilità dell’azienda sul mercato. A titolo di esempio, si pensi alla possibilità che le istituzioni finanziarie rivedano la loro politica creditizia nei confronti dell’impresa.

Oltre agli aspetti fino al momento esaminati, bisogna dare rilievo ad ulteriori peculiarità proprie di un investimento di private equity.

Si tratta di un investimento che riguarda il medio-lungo termine7 e programmato per la dismissione, in quanto la remunerazione non è contrattualmente stabilita al momento dell’ingresso del fondo ma è legata alle modalità e ai tempi della dismissione stessa.

L’investimento si caratterizza, poi, per il rischio elevato e l’alta redditività potenziale. Infatti, nella maggior parte dei casi, questi nuovi capitali vengono investiti in prodotti innovativi, in nuove tecnologie; l’impresa partecipata può presentare un management inesperto o può ambire ad entrare in mercati inesplorati e , quindi, fino al momento sconosciuti.

Tutti questi fattori giustificano un elevato rendimento atteso8.

Appare sensato, quindi, concludere che l’attività di investimento nel capitale di rischio possa essere il motore di sviluppo dell’economia di un Paese, selezionando le imprese a rapido tasso di crescita e fornendo loro il capitale

6 In sostanza, il network può essere di due tipi: finanziario e/o reale. Il network finanziario riguarda

relazioni e contatti con banche e investitori istituzionali; il network reale è legato ai rapporti con altre imprese partecipate dallo stesso investitore, stimolando una collaborazione capace di sviluppare sinergie in grado di tradursi in aumento di valore.

7 A tal proposito si veda Private Equity e Venture Capital, Guerini Studio, cap.4 a cura di Fabio Sattin. 8 Per approfondimenti si veda Relazione rischio rendimento nel mercato del Private Equity e Venture

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necessario per svilupparsi e poter dare concreta azione ai propri piani di espansione.

Il potenziamento di tale attività diviene un valido strumento politico per il sostegno delle economie locali9.

1.2 L’evoluzione recente del mercato del Private Equity in Italia

Il mercato italiano del private equity è stato caratterizzato, negli ultimi anni, da profondi mutamenti sia sotto il profilo qualitativo che sotto quello quantitativo. Oggi il settore presenta un’offerta sempre più specializzata, garantita da un numero di investitori stabilmente presenti nel nostro paese pari a 14010, in crescita costante dopo il rallentamento fatto registrare a cavallo tra il 2003 e il 2004, in cui gli operatori sono passati da 108 a 97.

Figura 1.1: Evoluzione degli operatori presenti in Italia

108 97 110 132 140 2003 2004 2005 2006 2007 FONTE: AIFI - PWC

9 Da una ricerca a cura di COOPERS & LYBRAND e dell’EVCA (European Private Equity and Venture

Capital Association), relativa al periodo 1991-1995, condotta su un campione di 2190 imprese venture

backed in 12 paesi europei, emerge che il venture capital riveste un ruolo importantissimo nel processo di

crescita e sviluppo delle imprese finanziate. In sintesi, la ricerca dimostra che le imprese venture backed: - hanno fatto registrare una crescita media dei ricavi annui del 35%;

- hanno creato nuovi posti di lavoro;

- hanno effettuato maggiori investimenti in impianti, in terreni e in beni capitali. Anche gli investimenti nella ricerca e sviluppo sono stati caratterizzati da elevati tassi di crescita; - hanno aumentato le esportazioni, in media, del 30%.

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I 140 operatori di private equity attivi oggi in Italia possono essere così suddivisi: abbiamo 44 SGR (Società di Gestione del Risparmio)11, 35 fondi pan-europei, 25 Country fund, 15 fondi regionali/pubblici, 11 banche italiane e 10 fondi di early stage.

Bisogna sottolineare che dal 2003 al 2007 vi è stato un incremento notevole che ha riguardato da un lato le SGR e Country fund, con il passaggio da 47 a 69 unità e un aumento del 47%, e, dall’altro, i fondi pan-europei che sono passati da 22 a 35 unità con un aumento del 59%12.

Focalizziamo, innanzitutto, la nostra attenzione sulla raccolta dei capitali da investire nel mercato del capitale di rischio.

Il processo di raccolta riguarda il reperimento, da parte dell’operatore di private equity, dei capitali necessari per effettuare le proprie scelte di investimento. Tale processo scaturisce da una strategia ben precisa, alla base del successo dell’intera attività dell’investitore. E’ logico che tale strategia sia diretta conseguenza delle competenze e delle esperienze maturate dall’operatore di private equity. Si passa, quindi, alla raccolta vera e propria, che prende il nome di fund raising e che ha una durata che va da un minimo di sei mesi al massimo di un anno.

Per quanto riguarda il 2007, ci sono tre aspetti da considerare13:

 La raccolta ha superato i 3 miliardi di euro

 Oltre la metà dei capitali raccolti sul mercato è di matrice internazionale

 È in crescita l’interesse di assicurazioni e fondazioni italiane

Il primo aspetto assume particolare rilevanza se si prende in considerazione il fatto che, proprio nell’anno preso in esame, le risorse complessivamente raccolte dagli operatori presenti in Italia ha superato la cifra record dei capitali raccolti nel

11 Secondo recenti studi effettuati da AIFI e PWC, emerge che le SGR hanno realizzato nel 2007 circa un

terzo delle operazioni del mercato del capitale di rischio in Italia.

12 Tali dati sono forniti da AIFI, sul sito internet www.aifi.it, nella sezione statistiche e dati di mercato. 13 Maggiori informazioni relative a dati e statistiche sono presenti sul sito internet dell’AIFI, dove è

possibile scaricare, in formato pdf, le ANALISI RELATIVE AL MERCATO ITALIANO DEL PRIVATE EQUITY E DEL VENTURE CAPITAL a partire dal 1997 fino al 2007.

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2000 (2,9 miliardi di euro), ed ha evidenziato un miglioramento del 33% rispetto allo stesso dato relativo al 2006.

Come riportato precedentemente (e come viene mostrato nella figura 1.3) oltre la metà dei capitali raccolti ha origini che superano le mura domestiche.

Figura 1.2: Evoluzione dell'origine geografica dei capitali raccolti sul mercato 49% 62% 39% 50% 57% 51% 38% 61% 50% 43% 2003 2004 2005 2006 2007 Estero Italia FONTE: AIFI - PWC

I protagonisti della raccolta sono, ancora una volta, i fondi di fondi14 e le banche. Altro aspetto assai rilevante riguarda la crescita delle risorse fornite dal comparto assicurativo15 (+265% rispetto al 2006, per il 69% di origine italiana) e delle fondazioni bancarie e accademiche (+399% rispetto al 2006, per il 68% di matrice nazionale)16.

Per quanto riguarda l’attività di investimento, bisogna sottolineare che, nel corso del 2007, le risorse investite dagli operatori di private equity attivi in Italia hanno fatto registrare il valore più alto mai rilevato sul mercato nazionale. Infatti, per la prima volta dopo il 2003, il numero degli investimenti è tornato a superare quota

14

AIFI definisce il fondo di fondi:”Rappresenta un fondo che investe in altri fondi. In questo modo, scegliendo fondi differenti ed in Paesi differenti, si ha la possibilità di ridurre il rischio di portafoglio”. A tale beneficio si contrappongono svantaggi che possono essere connessi ai maggiori costi per le

commissioni di gestione e alla financial disclosure.

15

“In America i fondi pensione e quelli assicurativi investono nel private equity e venture capital grazie ad una apposita legge”, IL MONDO, 3 novembre 2006. Si tratta di una legge del 1978, denominata ERISA (Employee Retirement Income Security Act). L’articolo suggerisce al legislatore italiano di trattare il ruolo del capitale di rischio nei portafogli dei fondi pensionistici e assicurativi.

16

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300, mentre l’ammontare complessivamente investito ha superato i 4 miliardi di euro17.

La maggior parte delle risorse è stata investita in operazioni di buy out18(3,3 miliardi di euro, in crescita del 35% rispetto al 2006) anche se, in termini di numero, si rileva una prevalenza di operazioni di expansion (113 investimenti) .

Figura 1.3: Evoluzione dell'attività di investimento.

336266 248208 281241 292245 302251 3034 1480 3065 3731 4197 2003 2004 2005 2006 2007

numero società ammontare investito (Euro mln)

FONTE: AIFI - PWC

Gli investimenti si sono concentrati su piccole e medie imprese. Basti pensare che l’80% delle operazioni poste in essere durante il 2007 ha interessato aziende con meno di 250 dipendenti19. Un’analisi più dettagliata mostra che il numero medio di dipendenti delle società oggetto di investimento nella fase di avvio, nel corso del 2007, sia stato pari a 6.

Le operazioni di expansion hanno invece riguardato imprese con un numero di dipendenti mediamente pari a 64.

17 I dati sono relativi al Convegno Annuale AIFI 2008, “Il mercato italiano del Private Equity e del

Venture Capital nel 2007”, Anna Gervasoni, Direttore Generale AIFI, 31 marzo 2008, Milano.

18

Le operazioni di investimento nel capitale di rischio possono essere suddivise in finanziamento dell’avvio (early stage), della crescita (expansion) e buy out. L’argomento viene affrontato nel paragrafo 1.3 del presente lavoro.

19 Tutti i dati relativi al numero di dipendenti sono forniti nella sezione “Statistiche e dati di mercato” del

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Se, invece, prendiamo in considerazione le operazioni di buy out, riferite sempre allo stesso periodo, il numero medio di dipendenti delle società oggetto dell’investimento sale a 12020.

Considerazioni importanti possono essere effettuate anche per ciò che riguarda i disinvestimenti21.

Figura 4: Evoluzione dei disinvestimenti.

222194 137110 150131 181151 207184 868 647 906 1763 2633 2003 2004 2005 2006 2007

numero società ammontare disinvestito

FONTE 1: AIFI - PWC

Le cifre mostrano che il trend positivo, riguardante l’ammontare disinvestito, continua e, nel dettaglio, nel 2007 sono stati disinvestiti 2,6 miliardi di euro22 (+49% rispetto al 2006).

Altro valore record riguarda il numero di disinvestimenti che, dopo diversi anni, è tornato a superare la soglia delle 200 operazioni.

I trade sale23, cioè le cessioni a partner industriali tramite trattativa privata, rappresentano la way out più utilizzata. Tale canale di disinvestimento è leader sia in termini di numero (51% del totale) che di ammontare (40% del totale).

20 Tale dato non prende in considerazione le operazioni di buy out interessate da investimenti di grandi

dimensioni, cioè quelli con equity investito superiore a 150 milioni di euro.

21 L’argomento viene approfondito nel paragrafo 1.5 del presente lavoro, quando si affronta l’argomento

riguardante il ciclo di vita di un fondo di private equity.

22 Ammontare disinvestito calcolato al costo d’acquisto, quindi al netto dei capital gain. 23

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Interessanti sono anche le cifre che riguardano le altre modalità di disinvestimento: le vendite ad altri investitori hanno superato il miliardo di euro mentre sono diminuite di 5 punti percentuali (dal 13% all’8%) i disinvestimenti attraverso la quotazione in borsa dell’impresa partecipata.

Altro fattore fondamentale riguarda la riduzione dei write offs, che si verifica con l’azzeramento della partecipazione in seguito a fallimento. Questa modalità di disinvestimento, al pari di quelle illustrate in precedenza, deve essere presa in considerazione dall’operatore di private equity nel momento in cui egli decide di entrare nel mercato del capitale di rischio.

In Italia il private equity sta seguendo linee abbastanza simili a quelle adottate dai mercati anglosassone e americano24, anche se la differente struttura industriale del nostro paese porta alla nascita di alcune peculiarità che riguardano lo stesso mercato del capitale di rischio. Pensiamo, ad esempio, all’importanza che il private equity può avere nell’affrontare il problema del ricambio generazionale legato alla conduzione di un’impresa.

L’operatore di un’impresa riesce ad attrarre persone e manager dotati di grande talento. Le famiglie molto spesso non riescono a farlo. “Il private equity funziona quando c’è condivisione di intenti tra investitore e famiglia. E quando il management è forte”25.

Si deve perciò evitare che l’effetto positivo dell’investitore sull’impresa possa risentire di limiti legati a vincoli decisionali e resistenze al cambiamento.

I dati fatti registrare nel 2007 confermano che le operazioni di private equity hanno performance nettamente superiori rispetto a quelle delle altre società26, lasciando intravedere possibilità di sviluppo future per il tessuto industriale italiano. Tale tesi può essere approfondita attraverso un’analisi della domanda e dell’offerta nel mercato del capitale di rischio. Per quanto riguarda l’offerta, i dati AIFI confermano le prospettive di crescita del mercato: il numero degli operatori nel triennio 2005-2007 è cresciuto del 30% e sono presenti sul mercato

24

BANCAFINANZA, Giugno 2007. Sattin sottolinea che “è anche vero che il nostro paese ha struttura industriale diversa, con le imprese familiari che rappresentano la maggioranza del mondo delle aziende”.

25 Corriereconomia, 26 Febbraio 2006.

26 Per approfondimenti, L’impatto economico del Private Equity e del Venture Capital in Italia, PWC,

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più di 6 miliardi di euro di liquidità da poter investire. Dal lato della domanda, recenti studi27 mostrano l’esistenza di condizioni strutturali favorevoli per lo sviluppo del private equity nel middle market italiano. I dati mostrano che nei prossimi dieci anni una percentuale compresa tra il 25% e il 40% delle società italiane subirà un passaggio generazionale. Ciò porta alla conclusione che vi è la necessità per gli imprenditori di aprire il capitale della propria impresa a nuovi partners che portino valore aggiunto sotto l’aspetto del know how manageriale e dello sviluppo di business. Per permettere l’incontro tra domanda e offerta c’è bisogno di colmare il gap conoscitivo esistente, in modo tale che gli imprenditori riescano a capire quelle che sono le potenzialità reali del mercato del capitale di rischio.

1.3 Le principali tipologie di investimento

La letteratura classica suddivide le diverse tipologie di investimento nel capitale di rischio sulla base delle diverse fasi di sviluppo dell’impresa oggetto dell’intervento.

Ognuna di queste fasi è caratterizzata da esigenze diverse e, proprio per tale ragione, anche l’operatore di private equity deve avere requisiti in linea con le esigenze stesse dell’impresa.

Infatti ogni stadio del ciclo di vita dell’impresa assumerà connotati specifici in termini di dimensioni, esigenze e prospettive; ciò significa che l’intervento dell’investitore istituzionale dovrà essere diverso sia per quanto riguarda l’apporto di risorse finanziarie che per ciò che concerne le esperienze e le competenze richieste.

Alla luce di tutto ciò, gli investimenti nel capitale di rischio possono essere classificati sulla base delle tre seguenti principali categorie28:

27 Studi condotti da Asam su un panel di 1600 imprenditori italiani.

28 Tale classificazione viene riportata nel testo “Private Equity e Venture Capital”, a cura di Anna

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• Finanziamento dell’avvio

• Finanziamento dello sviluppo

• Finanziamento del cambiamento/ripensamento

Generalmente, alla prima tipologia viene ricondotta l’attività più propriamente detta di venture capital, mentre la seconda e la terza rientrano nelle attività tipiche del private equity.

Bisogna chiarire che i confini tra queste attività non sempre sono nettamente marcati, lasciando a volte spazio ad aree di sovrapposizione.

1.3.1 Il finanziamento dell’avvio

Nelle operazioni di avvio di nuove imprese o di finanziamento di giovani imprese non ancora consolidate, “l’apporto finanziario dell’investitore istituzionale è inizialmente relativamente modesto, mentre il supporto all’imprenditore nelle sue scelte strategiche diventa fenomeno distintivo di tali operazioni”29.

L’obiettivo principale di questa tipologia di operazioni è quello di supportare la nascita di una nuova iniziativa imprenditoriale. Molto spesso, infatti, il prodotto non esiste ancora. Il punto di partenza risulta essere un’idea dell’imprenditore. Quest’ultimo, ancor prima di dar vita al processo produttivo vero e proprio e alla commercializzazione del prodotto, ha bisogno di sostenere investimenti onerosi relativi a ricerche di mercato e allo sviluppo della propria idea. In aggiunta, ha bisogno di competenze e conoscenze manageriali e strategiche, alla base del successo della propria iniziativa30. Quindi, nelle operazioni prese in

complessità dei settori merceologici e delle peculiari problematiche di questi” insieme alla situazione per cui “gli operatori nel capitale di rischio sviluppano di continuo avanzati strumenti di ingegneria

finanziaria, sempre più complessi e sofisticati”, rende necessaria “una più corretta classificazione, basata sulla micro-ripartizione tra le diverse esigenze strategiche dell’impresa, le problematiche a esse

riconducibili e gli obiettivi di soddisfacimento di queste che l’investitore si pone”.

29 Capitale di rischio e sviluppo dell’impresa, EGEA, Alberto Dessy e Jody Vender, pp.97 e sgg. 30 Come primo passo, l’imprenditore presenta un business plan a uno o più investitori istituzionali. Parte

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considerazione, l’impresa “necessita spesso, più che di un mero contributo in termini di capitali, di un aiuto nella definizione della formula imprenditoriale31 e nella riflessione sulla propria posizione competitiva”32.

L’investitore, a sua volta, deve dimostrare di credere fermamente sia nella nuova iniziativa imprenditoriale che nelle persone che lo affiancheranno nella nuova avventura.

Ruolo centrale nella fase di avvio viene assunto dal concetto di innovazione33. Infatti, se l’idea imprenditoriale riguarda un nuovo prodotto e /o un nuovo servizio o prodotti/servizi non nuovi ma realizzati con processi innovativi, l’apporto richiesto all’operatore di private equity deve essere più forte, nel senso che il contributo finanziario deve essere accompagnato da una maggiore spinta che dovrà interessare l’aspetto strategico e quello manageriale.

Inoltre, bisogna sottolineare che le operazioni di early stage34( fase di avvio) riguardano, nella maggior parte dei casi, prodotti ad elevato contenuto tecnologico35.

business all’investitore, interessato anche al profilo finanziario dell’operazione in essere. Di solito, in tale fase, l’avvio, il cash flow si presenta negativo e nessun altro investitore al di fuori del venture capitalist sarà disposto ad investire.

31 Per approfondimenti si veda Strategia e politica aziendale, Cap. 4, McGraw-Hill, a cura di Giorgio

Invernizzi e Introduzione all’analisi strategica dell’azienda, Cap. 5, Silvio Bianchi Martini, Edizioni Il Borghetto, Pisa.

32 Fonte Private Equity e Venture Capital, pp. 32 e sgg., di Anna Gervasoni, Guerini Studio.

33

L’innovazione viene definita da Schumpeter come l’introduzione di nuove combinazioni economiche all’interno del sistema che può avere luogo in uno dei seguenti casi:

1. produzione di un nuovo bene o di una sua nuova qualità; 2. introduzione di un nuovo metodo di produzione; 3. apertura di un nuovo mercato;

4. conquista di una nuova fonte di approvvigionamento di materie prime e di semilavorati;

5. riorganizzazione di una qualsiasi industria (come la creazione di un monopolio o la sua distruzione)

34 La fase di avvio può essere suddivisa in tre tipologie di operazioni:

1. seed money, in cui il prodotto non esiste ancora, c’è solamente l’idea imprenditoriale. Non esiste alcun Business Plan. I fondi che investono in tali operazioni hanno, molto spesso, esperienze maturate in settori limitrofi a quelli di intervento. Il rischio principale è di tipo tecnologico, legato al funzionamento del prodotto.

2. start-up financing, in cui nascono sia il prodotto che il ciclo produttivo. Qui sono richieste all’investitore elevate competenze tecniche, mentre il rischio principale è di tipo commerciale.

3. first stage financing: ci investe nel lancio del prodotto, anche se la validità di questo non è stata ancora sperimentata.

35 I maggiori investimenti si stanno spingendo verso l’idrogeno e le nanotecnologie. Queste ultime

comprendono l’insieme di metodi e tecniche che consentono di osservare, misurare e manipolare le materie su scala atomica e molecolare.

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Questi business richiedono conoscenze e competenze di tipo specialistico, giustificate dal fatto che tali mercati si caratterizzano per l’elevata obsolescenza di prodotti e processi.

I fattori sin qui descritti, insieme alle difficoltà legate al processo di disinvestimento, rendono le operazioni di finanziamento dell’avvio molto rischiose. A conferma di ciò, le statistiche AIFI mostrano che queste presentano “i maggiori tassi di insuccesso in virtù delle maggiori probabilità di fallimento dell’iniziativa”36.

1.3.2 Il finanziamento dello sviluppo

Tale tipologia di operazioni, che sono le più frequenti in Italia37, vanno ad interessare imprese già consolidate che necessitano di capitali che permettano loro di fare un salto di qualità. Tale salto può concretizzarsi in una crescita per vie interne, per vie esterne o in quello che viene definito “sviluppo a rete”38. Lo sviluppo per vie interne riguarda l’espansione o la diversificazione diretta della capacità produttiva. Il contributo finanziario ha un ruolo centrale ma, soprattutto per le scelte di diversificazione, vengono richieste all’investitore competenze organizzative, strategiche e manageriali. Pensiamo alla possibilità che l’impresa entri in nuovi mercati o sviluppi nuove tecnologie.

L’impresa che vuol crescere per vie esterne, attraverso l’acquisizione di altre aziende o rami d’azienda, ha bisogno di entrare in una nuova rete di contatti e relazioni. L’operatore di private equity è ideale per raggiungere tale obiettivo, soprattutto nel caso in cui egli abbia maturato una notevole esperienza internazionale.

36

Si veda Private equity e Venture Capital, Cap. 1, a cura di Anna Gervasoni.

37 I dati AIFI confermano ciò anche per il 2007, dove le operazioni di expansion sono prevalenti, in

termini di numero, con 113 investimenti. I dati dell’EVCA dimostrano che anche in Europa esiste tale prevalenza, poiché le operazioni oggetto di descrizione rappresentano più del 40% del totale.

38

(20)

L’ipotesi dello sviluppo a rete prevede l’integrazione di diverse società indipendenti che, in tal modo, potranno godere di vantaggi di tipo sinergico. Infatti si tratta di imprese caratterizzate da parallelismi in termini di prodotto, mercato e tecnologie, possedute da una holding dove la maggioranza è detenuta da una o più società di investimento.

In generale, le imprese oggetto di investimenti di expansion, sono di medie dimensioni ma con potenzialità di crescita. A tal fine, queste imprese hanno bisogno di nuovi capitali per potersi riposizionare nell’arena competitiva e poter affrontare la concorrenza fuori dalle mura domestiche.

Le criticità principali del finanziamento dello sviluppo sono legate alla eterogeneità degli operatori coinvolti39 e all’analisi dell’impresa target che possiede un profilo storico ben preciso.

Il profilo di rischio è più ridotto rispetto alle operazioni che interessano la fase di avvio.

1.3.3 Il finanziamento del cambiamento

Queste operazioni, a differenza delle precedenti, non sono connesse ad una peculiare fase del ciclo di vita dell’impresa ma vengono poste in essere nel momento in cui vi è la necessità di ricambio generazionale, in fasi di “stallo” strategico e patrimoniale, in particolari situazioni negative.

Il cambiamento può essere spinto dalla volontà di alcuni soci di minoranza non più interessati a strategie di lungo termine e che, pertanto, decidono di uscire dalla compagine azionaria cedendo la propria partecipazione con l’obiettivo di realizzare un guadagno.

Diverso è il discorso che riguarda l’uscita di un socio di maggioranza. Le motivazioni legate a tale scelta possono essere diverse anche se quelle principali

39 Fondi chiusi, banche italiane e internazionali, operatori pubblici sono molto attivi nel finanziamento

(21)

si riferiscono a problemi connessi con il ricambio generazionale (manca il successore) o a processi di privatizzazione.

Tali operazioni, definite in generale di buy out40, comprendono diverse sottospecie: si parla di management buy out se il controllo viene assunto dal management interno all’azienda; il management buy in riguarda invece il caso in cui la partecipazione di maggioranza viene rilevata da manager esterni mentre si parla di workers buy out qualora il nuovo assetto proprietario veda il coinvolgimento diretto dei dipendenti dell’impresa stessa.

All’interno di tale tipologia di investimenti focalizziamo la nostra attenzione sugli special purpose investing, cioè operazioni che hanno obiettivi ben precisi e differenti:

 Delisting, in cui l’operatore di private equity lancia un’offerta pubblica di

acquisto su una società quotata su un mercato regolamentato con l’obiettivo di una successiva uscita dal listino. Ciò accade perché l’investitore ritiene che l’azienda non sia adeguatamente apprezzata dal mercato borsistico.

 Turnaround financing, in cui l’operatore di private equity decide di

investire in situazioni di crisi aziendale, più o meno grave, con l’obiettivo di risanare l’azienda stessa41.

In generale, uno strumento fondamentale a disposizione dell’operatore di private equity, legato alla tipologia di operazioni di buy out, è rappresentato dall’utilizzo della leva finanziaria attraverso operazioni di leveraged buy out42.

40 Tale tipologia di operazioni hanno l’obiettivo di supportare finanziariamente il cambiamento

dell’assetto proprietario, sostenendo il nuovo gruppo imprenditoriale nell’acquisizione dell’attività ceduta.

41 L’esperienza mostra che le operazioni di turnaround financing, al pari di quelle di early stage,

presentano un profilo di rischio assai elevato. Anna Gervasoni afferma che “in questi casi, l’investitore finanziario specializzato rappresenta spesso un efficace, se non l’unico, rimedio a situazioni che altrimenti sarebbero destinate a conclusioni gravose e dolorose sia economicamente che socialmente”.

42

Appare utile, a parer di chi scrive, una descrizione dell’operazione di leveraged buyout. La società oggetto dell’operazione viene definita target. Inizialmente viene costituita una società, chiamata newco, nella quale alcuni imprenditori o manager versano una certa somma a titolo di capitale proprio. Tale somma rappresenta solo una piccola parte dell’ammontare necessario per l’acquisizione della target. Ecco allora che una o più società finanziarie concedono un finanziamento alla newco in modo tale da poter acquisire la target. Tale finanziamento viene effettuato sulla base di scarse (se non nulle) garanzie reali. Dopo l’acquisto la newco che possiede tra le sue attività le azioni della target, si fonde con questa. Adesso il finanziamento di cui sopra viene a far parte delle passività di una società operativa e potrà quindi

(22)

Per LBO si intende “una qualsiasi acquisizione di società o di beni aziendali effettuata ricorrendo in misura prevalente a capitale di terzi (in genere, istituti bancari) e limitando l’investimento finanziario del compratore, in termini di capitale di rischio, solamente a una parte circoscritta del prezzo. I capitali presi a prestito, a loro volta, dovranno essere rimborsati attraverso i flussi di cassa attivi prodotti dall’attività operativa della società stessa o attraverso la cessione di parte dei beni acquisiti”.

1.4 I soggetti coinvolti

Il mercato italiano del capitale di rischio è caratterizzato attualmente da una grande vivacità riguardante la nascita di nuovi operatori e la molteplicità delle interrelazioni che vengono in essere nel loro ambito di attività.

Le principali categorie di investitori professionali coinvolti nell’attività di investimento nel capitale di rischio43 possono essere classificati in:

• Banche e divisioni di banche

• Fondi chiusi a carattere sovranazionale/internazionale

• Fondi chiusi a carattere locale/regionale

• Finanziarie di partecipazione di emanazione privata o industriale

• Operatori pubblici

Lo strumento principale delle operazioni di private equity resta quello del fondo chiuso. Per tale ragione, a parer di chi scrive, è utile una breve descrizione della struttura di tale tipologia di fondo.

Secondo la normativa italiana44 i fondi chiusi di investimento rientrano nella macro categoria dei fondi comuni di investimento. Si tratta di intermediari

godere di garanzie reali. La conseguenza dell’intera operazione è che l’indebitamento della target sarà più elevato.

43

Tale classificazione viene realizzata basandosi principalmente sulle caratteristiche operative dei soggetti considerati piuttosto che sulla loro struttura giuridica o organizzativa.

44 I fondi chiusi di investimento, già presenti da alcuni decenni in ambito internazionale, sono stati

introdotti nel nostro ordinamento solo nel 1993 con la legge n. 344, oggi sostituita dalle disposizioni relative alla gestione collettiva del risparmio contenute nel TUIF ( Testo Unico delle disposizioni in materia di Intermediazione Finanziaria). Il TUIF ha abrogato la legge 344/93 e, nell’ambito di un processo di progressiva delegificazione, ha demandato alla normativa secondaria il compito di disciplinare nel dettaglio la materia.

(23)

finanziari che, mediante l’emissione di quote di partecipazione, raccolgono capitali presso investitori istituzionali (prevalentemente assicurazioni, banche e fondi pensione) e presso privati per investirli e gestirli in comune. Il fondo chiuso, data la stabilità della raccolta, può investire con un’ottica di medio-lungo termine, in valori mobiliari di non immediata liquidabilità, come i titoli di società non quotate. Esso è quindi , per sua configurazione, un veicolo idoneo a svolgere attività di investimento istituzionale nel capitale di rischio.

Il fondo chiuso, come si è detto, rappresenta una soluzione ottimale come “veicolo di investimento”, per alcune sue caratteristiche45:

I. Vi è separazione tra fondo e società di gestione. Il fondo investe capitali di terzi; ciò consente al management team di agire autonomamente nella selezione delle migliori opportunità di investimento, accelerando i tempi legati al processo di investimento. Nell’ambito della struttura organizzativa del fondo i manager perseguono, quale obiettivo prioritario, l’ottimizzazione della combinazione rischio/rendimento. Ciò è facilitato dal fatto che esistono dei meccanismi di incentivazione che attribuiscono un carattere imprenditoriale al ruolo svolto dai gestori.

II. La vita limitata. Il fondo ha una scadenza ed il suo ciclo di vita è destinato a concludersi al momento della liquidazione delle quote; ciò consente agli investitori di vedere concretizzato l’esito delle operazioni, sottoforma di rendimento realizzato, entro un preciso arco temporale.

III. La flessibilità. La stessa società di gestione può lanciare più fondi, ognuno con una dotazione differente e definita di capitale. Ogni fondo può avere un suo team. Si possono dunque articolare prodotti differenti, con obiettivi strategici distinti e scadenze temporali specifiche.

La struttura di un fondo mobiliare chiuso è caratterizzata dalla presenza di diversi soggetti (rappresentati in figura 5) che, a vario titolo, sono coinvolti nel suo funzionamento.

45 Tali caratteristiche vengono elencate e descritte in Capitale di rischio e sviluppo dell’impresa, a cura di

(24)

Figura 5: Struttura generale di un fondo chiuso

FONTE: A. Gervasoni, I fondi mobiliari chiusi, Il Sole 24 Ore, Milano 2000

Alla Società di Gestione del Risparmio (SGR)46 viene affidata la gestione professionale e trasparente del fondo comune. Ad essa spetta la definizione delle strategie e delle politiche di investimento dei capitali raccolti presso gli investitori. Per l’esercizio di tale funzione sono previste, in favore della società di gestione, diverse tipologie di retribuzione:

 Management fee, una commissione annuale compresa tra l’1,5 e il 2% del

capitale investito.

46 La società di gestione, per poter esercitare la propria attività, è sottoposta a regime autorizzativo da

parte di Banca D’Italia e Consob cui spettano il compito di verificare il rispetto dei requisiti richiesti dalla normativa vigente. Per ottenere l’autorizzazione le SGR devono rispettare i seguenti requisiti:

• essere costituite in forma di società per azioni ed avere la sede amministrativa in Italia • avere un capitale sociale non inferiore a 1 milione di euro o al maggior importo stabilito dalla

Banca D’Italia in relazione alla natura e tipologia dell’attività svolta, nonché dall’ammontare dei fondi gestiti.

• Presentare unitamente allo statuto un programma relativo all’attività iniziale e una relazione in merito alla struttura organizzativa della SGR.

• Posseder requisiti di onorabilità e professionalità per i soggetti che svolgono compiti di gestione, rappresentanza e controllo.

• Dimostrare che i partecipanti al capitale abbiano i necessari requisiti di onorabilità e che la struttura del gruppo di appartenenza non sia tale da pregiudicare l’effettivo esercizio della vigilanza.

Una volta ottenuta l’autorizzazione le SGR sono iscritte in un apposito albo tenuto da Banca D’Italia e di cui viene data comunicazione alla Consob.

Soci promotori Società Di Gestione FONDO Imprese partecipate sottoscrittori

(25)

 Transaction fee, commissione legata alle singole operazioni fino all’1%

dell’importo dell’operazione stessa.

 CARRIED INTEREST, cioè una quota parte del capital gain (20%) che

viene corrisposto dopo aver pagato agli investitori una somma pari al loro capitale investito più un rendimento minimo, chiamato hurdle rate, di circa 6-8%.

Quest’ultimo si presenta particolarmente interessante proprio perché riesce a legare buona parte della retribuzione della società di gestione al successo delle operazioni effettuate e quindi ai guadagni procurati agli investitori.

I soci promotori sono presenti solo nel caso di fondi indipendenti47, con il compito di sollecitare la sottoscrizione delle quote. Questi al fine di dare maggiore credibilità alla promozione del fondo si impegnano, spesso, a sottoscrivere una quota considerevole dello stesso.

I sottoscrittori sono coloro che conferiscono le risorse finanziarie destinate ad essere investite nella specifica operazione. Tale categoria di soggetti può essere suddivisa tra investitori istituzionali e investitori privati “consapevoli”, cioè dotati di un patrimonio personale consistente e di competenze in materia.

L’ultimo soggetto che fa parte della struttura del fondo è rappresentato dalle imprese partecipate, alle quali sono destinati i capitali raccolti nel fondo. Si tratta di piccole e medie imprese non quotate, con elevate prospettive di sviluppo, guidate da un buon imprenditore e con un management valido48.

47 La distinzione tra fondi indipendenti e fondi captive viene chiarita nel prosieguo del lavoro. 48

L’Aifi ha condotto una ricerca riguardante l’incontro tra domanda e offerta di capitale di rischio. I risultati della ricerca sono stati resi noti al Convegno Annuale AIFI, a Milano, il 29 marzo 2004.

L’obiettivo della ricerca era quello di analizzare la notorietà e l’immagine dell’attività di investimento nel capitale di rischio, per mettere in luce le principali problematiche rispetto all’apertura del capitale da parte delle medie imprese italiane. Il campione oggetto d’indagine è rappresentato da società di media dimensione, con buone opportunità di crescita e un management particolarmente sensibile agli aspetti finanziari. Sono state analizzate imprese prevalentemente localizzate nel nord Italia, operative sul mercato nazionale ed internazionale ed operanti nei settori più tradizionali. Tali imprese hanno un fatturato medio nel 2003 di circa 40 milioni di euro, con un tasso di crescita medio annuo dell’ultimo triennio pari a circa il 12%. Quasi la totalità delle imprese ha effettuato investimenti significativi negli ultimi tre anni. Nel 65% dei casi la proprietà è riconducibile ad un’unica famiglia.

E’ stato chiesto agli imprenditori di esprimere le proprie considerazioni circa alcuni aspetti dell’attività di private equity. Dalle risposte è emerso che:

 In media, un terzo degli intervistati non ha sensibilità circa gli aspetti oggetto di approfondimento.

 Per il restante 65% non sembrano emergere particolari problemi circa: - il rendimento atteso dell’operatore;

(26)

Dopo aver illustrato la struttura generale di un fondo chiuso, è possibile evidenziare alcune differenze fondamentali riguardanti l’attività delle principali categorie di investitori professionali elencati all’inizio del presente paragrafo. In prima battuta, viene condotta un’analisi sui diversi approcci riscontrabili tra i fondi chiusi e gli altri investitori. Nel caso del fondo chiuso, i soggetti che apportano le risorse finanziarie hanno un rapporto di fiducia molto forte nei confronti dello specifico team. In tal modo vi sarà una maggiore responsabilizzazione per il management del fondo nell’attività di gestione. Questo può essere ricondotto alle diverse formule retributive che, nel caso dei fondi chiusi, sono basate prevalentemente sul meccanismo del carried interest, mentre nel caso delle finanziarie bancarie risulta improntato sul concetto di “stipendio”49, al quale sommare eventuali bonus dell’attività svolta. Il rapporto di fiducia che si instaura tra fornitori di capitale e gestori, garantisce al management del fondo chiuso una maggiore autonomia decisionale sulle scelte di investimento perché vi è la consapevolezza di poter contare sugli stessi investitori anche per le iniziative che verranno prese in futuro.

Altro elemento fondamentale dell’analisi in essere riguarda il fatto che il fondo chiuso si contraddistingue per una precisa pianificazione dei tempi e delle modalità di disinvestimento dei singoli deals. In tal senso, gli altri operatori possono godere di maggiore flessibilità strategica, potendo, ad esempio, rimandare il processo di dismissione al momento in cui l’azienda partecipata acquisisce maggior valore.

Caratteristiche diverse vengono riscontrate nell’attività dei fondi a carattere internazionale e fondi a carattere locale. I primi hanno un orizzonte geografico continentale e mondiale. Operano attraverso una serie di advisors locali che vengono messi in concorrenza tra loro; questi, infatti, non dispongono di risorse

- il livello di trasparenza richiesto;

- le ripercussioni strategiche ed operative conseguenti all’ingresso dell’investitore.

 Alcune preoccupazioni sembrano invece emergere con riferimento a: - i tempi di permanenza dell’investitore all’interno della compagine azionaria;

- il reale interesse dell’investitore nello sviluppo dell’attività di impresa e la sua conoscenza delle dinamiche dell’impresa.

49

(27)

finanziarie predefinite, ma la possibilità di attingere risorse dal patrimonio del fondo si lega alla capacità di individuare buone opportunità di investimento e alle performance realizzate. Appare logico che chi gestisce i fondi internazionali tende ad orientarsi verso investimenti di dimensioni maggiori rispetto a quelli dei fondi locali per poter usufruire dei vantaggi derivanti dall’ottenimento di economie di scala.

Focalizzando l’attenzione sui fondi regionali, bisogna fare una distinzione che riguarda il processo di raccolta dei capitali. Alcuni fondi si rivolgono in maniera esclusiva a investitori istituzionali mentre altri fondi reperiscono le risorse finanziarie rivolgendosi direttamente al pubblico risparmio. I primi, tendenzialmente, effettuano operazioni con un profilo di rischio più elevato. Tale scelta è giustificata da due fattori principali: la professionalità di chi fornisce il capitale e un rapporto di fiducia diretto e consolidato tra fornitori di capitale e gestori dello stesso. Nel secondo caso, invece, questo rapporto diretto e consolidato non esiste. Per tale motivo, il management del fondo sarà orientato verso investimenti con rischio minore50 in quanto risentirà di un vincolo di responsabilità nei confronti dei sottoscrittori.

Con riferimento agli operatori di natura privata bisogna distinguere tra operatori

captive e operatori indipendenti. La distinzione si basa sulle modalità di raccolta

dei capitali ma subisce riflessi rilevanti anche sul fronte operativo.

Gli operatori captive sono di emanazione diretta di istituzioni finanziarie o industriali. La raccolta delle risorse finanziarie avviene principalmente presso la società capogruppo o altre imprese affiliate con la possibilità di ricorrere, in via secondaria, al mercato dei capitali51. Gli operatori indipendenti, al contrario, si pongono come intermediari verso una pluralità di investitori, sollecitandone la sottoscrizione di quote della società di investimento o del fondo chiuso da essi gestito. La realtà empirica ha dimostrato che gli operatori captive sono

50 Appare ovvio che tali investimenti caratterizzati da un minore profilo di rischio avranno prospettive

minori anche per quanto riguarda i rendimenti attesi. Quando il fondo si rivolge al pubblico risparmio è consapevole che i sottoscrittori non hanno le stesse conoscenze e competenze di cui dispongono gli investitori istituzionali.

51 L’esempio principale di operatore captive è quello delle merchant bank, divisioni delle banche

(28)

maggiormente presenti nei paesi banco centrici, cioè quei paesi in cui il sistema bancario ha avuto un ruolo predominante all’interno del mercato finanziario. Altro aspetto di fondamentale importanza è la convivenza, all’interno di un singolo paese, di fondi internazionali e fondi locali. I primi permettono alle imprese di inserirsi in un mercato più ampio, che può essere continentale o mondiale; i secondi fungono da interlocutori delle imprese, in quanto hanno una profonda conoscenza delle problematiche e delle peculiarità del sistema economico in cui si trovano ad operare.

Infine, tra gli operatori oggetto di descrizione, abbiamo quelli di emanazione pubblica. Questi rivestono un ruolo particolare nel mercato del capitale di rischio. Infatti vengono utilizzati come strumento che si pone come sostegno economico e occupazionale di un paese, cercando di favorire la crescita di quelle aree che presentano un tessuto industriale sottosviluppato. Per questi motivi, l’attività degli operatori pubblici di private equity segue logiche di natura politica che vanno a limitare l’autonomia strategica di queste stesse realtà. Appare evidente, dunque, che stiamo parlando di una categoria di investitori professionali in cui il raggiungimento di elevati tassi di IRR non risulta essere tra le principali priorità. Alla luce di tutto ciò, l’attività degli operatori pubblici diventa complementare a quella degli operatori privati. I primi, infatti, intervengono in quelle aree in cui si registra una scarsa presenza dell’operatore privato. Attualmente in Italia, ad esempio, si può notare una non eccessiva attenzione degli operatori privati verso le imprese che si trovano nella fase di start up, così come poco attrattive sono risultate le operazioni che hanno interessato imprese che sono localizzate nel sud della penisola. Entrambi i segmenti sono stati per lo più coperti da interventi di natura pubblica, inizialmente di mera natura assistenziale ma, di recente, maggiormente improntati su logiche di mercato.

Alla di tutto ciò, nei principali paesi dell’Europa continentale si assiste all’introduzione di strumenti che hanno lo scopo di favorire la cooperazione tra capitali pubblici e risorse finanziarie private52.

52 La necessità di offrire supporto pubblico associato all’attività dei privati è una delle priorità individuate

dall’EVCA. Tale associazione ha l’obiettivo di cercare di ridurre quegli interventi pubblici “a pioggia”, o mal indirizzati, che rappresentano la causa principale del ritardo dello sviluppo di un paese.

(29)

Il pensiero prevalente afferma che gli interventi che interessano le fasi più avanzate del ciclo di vita delle imprese, richiedono agli operatori minori competenze di tipo aziendale e industriale. Tenendo presente le diverse tipologie di investimento descritte in precedenza (finanziamento dell’avvio, dello sviluppo e del cambiamento), l’AIFI si è chiesta se tale ragionamento fosse valido anche per il mercato del capitale di rischio. A tale scopo, l’Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital ha condotto uno studio53 basato su un campione composto dai trenta principali operatori attivi da più di cinque anni sul mercato italiano del capitale di rischio.

Innanzitutto, sono state individuate le aree di provenienza dei diversi manager con riferimento alle esperienze maturate prima dell’ingresso degli stessi nell’attività di investimento nel capitale di rischio. Le macro-categorie di provenienza emerse sono banca, consulenza, industria. La loro ripartizione è illustrata nella tabella che segue:

Tabella 1: Provenienza prevalente dei primi trenta investitori italiani

Background Banca Consulenza Industria Totale Numero di operatori % 18 60% 4 13,3% 8 26,7% 30 100% FONTE:AIFI

Appare evidente che la maggioranza assoluta dei manager abbia provenienza bancaria. Successivamente sono state analizzate le tipologie di investimento poste in essere dai suddetti operatori. I risultati di questa ricerca possono essere riassunti come segue:

Tabella 2: Tipologia prevalente di operazioni dei primi trenta investitori italiani

Operazioni prevalenti

Avvio Sviluppo Cambiamento Totale

53 Si tratta di uno studio effettuato nel settembre 1999. Lo studio non è stato pubblicato ma i risultati dello

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Numero di operatori % 5 16,7% 14 46,7% 11 36,6% 30 100% FONTE 2: AIFI

Bisogna specificare che molti operatori non limitano il proprio intervento ad uno solo dei tre segmenti. Comunque, la maggior parte delle operazioni riguarda il finanziamento dello sviluppo, quindi abbiamo l’area del cambiamento ed infine quella dell’avvio.

Incrociando i dati emerge che le operazioni riguardanti il finanziamento dell’avvio hanno riguardato esclusivamente soggetti provenienti dal mondo dell’industria. Coloro che investono nello sviluppo sono per il 79% provenienti dall’area finanziaria e per il restante 21% dal mondo industriale. Infine, il finanziamento del cambiamento è caratterizzato per il 64% da manager di provenienza bancaria e per il 36% da manager con esperienze passate nel mondo della consulenza.

In sintesi, i risultati dello studio vanno a confermare la tesi esposta in precedenza, secondo la quale gli interventi realizzati nelle fasi più avanzate del ciclo di vita delle imprese richiedono meno competenze industriali rispetto a quelli che caratterizzano la fase di start up. Dunque, l’esperienza diretta nell’industria rappresenta il vero “valore aggiunto” per gli investimenti nelle fasi iniziali della vita delle imprese, mentre passando attraverso lo sviluppo e il cambiamento, ai manager viene richiesta la conoscenza di strumenti finanziari sempre più complessi. A conferma di ciò, dallo studio condotto emerge che la totalità degli investitori provenienti prevalentemente dalla consulenza ha operato nelle fasi di ristrutturazione aziendale le quali necessitano di elevate competenze di natura finanziaria.

(31)

1.5 Il ciclo di vita del fondo

Il ciclo di vita di un fondo di private equity può essere scomposto in quattro differenti fasi: la raccolta delle risorse finanziarie, l’investimento delle stesse in aziende opportunamente selezionate, la gestione dell’investimento e il disinvestimento. Tutte queste attività necessitano dell’implementazione di strategie che consentano il raggiungimento dell’obiettivo istituzionale del fondo, ossia il massimo rendimento entro un predefinito arco temporale che coincide con la durata del fondo stesso.

Perché il fondo possa iniziare la propria attività, dovrà essere costituita e autorizzata dalla Banca d’Italia la società di gestione, nonché essere definito il team di gestione, essere approntato e autorizzato il regolamento del fondo ed essere completato il processo di raccolta dei capitali, chiamato fund raising. Successivamente il fondo potrà intraprendere il processo di investimento, individuando le imprese target, con particolare attenzione alle loro prospettive economico-finanziarie e, quindi, acquisendone quota del loro capitale.

Esaurita la fase di investimento vera e propria, il fondo seguirà costantemente l’andamento delle società partecipate, attraverso un accurato monitoraggio ed una gestione attiva delle stesse.

Infine, una volta raggiunti gli obiettivi di creazione di valore all’interno delle imprese partecipate, il fondo procederà al disinvestimento delle partecipazioni, cercando di massimizzare la propria plusvalenza.

1.5.1 La raccolta

Il processo di raccolta permette al fondo di reperire le risorse necessarie per poter porre in essere i propri investimenti. Tale processo deve essere guidato da una strategia ben precisa. Quest’ultima si presenta di fondamentale importanza per il successo dell’intera operazione ed è strettamente collegata alle competenze e alle esperienze che l’investitore ha maturato nelle precedenti operazioni. In primis,

(32)

chi gestisce il fondo deve decidere di avvalersi o meno, nel processo di fund

raising, di un network di advisors locali. L’ausilio di tali soggetti è utile nel

momento in cui il fondo presenta dimensioni elevate o quando il management ha difficoltà ad allacciare strette relazioni con gli investitori istituzionali presso i quali può essere raccolto capitale.

Il processo di raccolta, che ha una durata di circa un anno, può essere ripartito in sette differenti fasi54:

1. identificazione del mercato obiettivo; 2. pre-marketing;

3. strutturazione del fondo;

4. preparazione e distribuzione del materiale di marketing; 5. incontri con i potenziali investitori;

6. preparazione della documentazione legale; 7. chiusura dell’accordo.

Nella prima fase l’operatore identifica quelli che sono i mercati strategicamente più appetibili per la raccolta. Inizialmente, l’operatore si rivolge al proprio mercato nazionale in modo da poter acquisire stima e una buona reputazione da poter spendere a livello internazionale. In tal senso, è fondamentale il coinvolgimento dei gatekeepers, cioè interlocutori internazionali che permettono l’accesso ad ampi bacini di capitale e costituiscono una garanzia per i nuovi potenziali investitori.

Nella fase di pre-marketing vi è un primo contatto con i potenziali investitori, interessati ad avere maggiori informazioni possibili circa l’attività del fondo. Queste prime due fasi hanno una durata di circa due mesi.

La strutturazione del fondo implica una chiara definizione degli obiettivi del fondo in termini di rendimento con attenzione agli aspetti tecnici, legali e fiscali. A questo punto si cerca l’impegno formale degli investitori attraverso un documento che prende il nome di placement memorandum. Questo documento, che si compone di circa 150-200 pagine, presenta due sezioni principali. La sezione in cui vengono descritti i termini e le condizioni riguardanti la

54

(33)

dimensione del fondo55 e delle quote di partecipazione, la durata e le politiche di distribuzione dei proventi, i reports e le informazioni previste verso gli investitori. La seconda sezione vi è la descrizione delle performance passate ottenute da chi gestisce il fondo: tipologia,periodo, costo e rendimento di ogni investimento precedente, modalità di disinvestimento, particolari esperienze maturate su determinati settori/aree geografiche/tipologie di investimento.

Segue, dunque, l’incontro con i potenziali investitori, durante il quale essi valutano se proseguire i contatti o se interromperli. I punti critici di tale incontro sono molteplici: l’esperienza passata del team di gestione del fondo, l’affiatamento delle persone che lo compongono, le strategie di investimento, i meccanismi di incentivazione del management, l’esistenza di possibili conflitti di interesse interni al team di gestione, le politiche di distribuzione dei proventi ed, infine, la struttura fiscale trasparente ed efficiente.

La scelta dell’investitore56 è ormai fatta. Si passa alla preparazione della documentazione legale, rappresentata da tutti gli atti e i contratti necessari per la conclusione dell’investimento.

Il processo di raccolta termina con la chiusura dell’accordo con gli investitori. Il fondo dispone delle risorse finanziarie per poter porre in essere le proprie strategie di investimento.

1.5.2 L’investimento

Il processo di investimento può presentare caratteristiche diverse in base alla tipologia di operazione posta in essere: un intervento che vede l’operatore di private equity entrare in un’impresa in una posizione di maggioranza e di controllo sarà diverso da quello volto, ad esempio, ad accompagnare una società

55 Una regola empirica attesta le dimensioni del fondo intorno alle 12-18 partecipazioni.

56 Il panorama dei soggetti che “forniscono” risorse finanziarie si presenta ampio e articolato. Tra questi,

AIFI individua innanzitutto gli investitori istituzionali. Si tratta di fondi pensione, assicurazioni, fondazioni e istituzioni bancarie, che hanno un’ottica di medio e lungo termine e sono interessati a diversificare i propri investimenti. Da tenere in considerazione è il ruolo dei funds of funds, fondi lanciati da banche di investimento che impiegano le risorse finanziarie raccolte per investire a loro volta in fondi di private equity e venture capital.

Figura

Figura 1.1: Evoluzione degli operatori presenti in Italia
Figura  1.2:  Evoluzione  dell'origine  geografica  dei  capitali  raccolti  sul  mercato  49% 62% 39% 50% 57%51%38%61%50%43% 2003 2004 2005 2006 2007EsteroItalia FONTE: AIFI - PWC
Figura 1.3: Evoluzione dell'attività di investimento.
Figura 4: Evoluzione dei disinvestimenti.
+7

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