UNIVERSITA‟ DI PISA
FACOLTA DI ECONOMIA
CORSO DI LAUREA IN SVILUPPO E
GESTIONE SOSTENIBILE DEL TERRITORIO
TESI DI LAUREA
FRA PUBBLICO E PRIVATO COME
GESTIRE I BENI COMUNI
Relatore: Tommaso Luzzati
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INDICE
INTRODUZIONE... 1
1.
IL ‘RITORNO’ DEI BENI COMUNI ... 8
1.1 La crisi ambientale 8
1.1.1 Il rapporto economia- ambiente 11 1.1.2 Per un economia orientata all'ambiente 17
1.2 I beni comuni non solo una storia moderna 22
1.3 Cultura e società per il bene comune 29
1.4 La logica dell'azione collettiva 35
2. LE SOLUZIONI TRADIZIONALI ALLA TRAGEDIA
DEI BENI COMUNI ... 40
2.1 Hardin: La tragedia dei beni comuni 40
2.2 I modelli classici 45
2.2.1 La teoria dei giochi e il dilemma del prigioniero 45 2.2.2 Il contratto sociale e l'etica individuale 47
2.3 La critica ai modelli tradizionali 52
2.3.1 L'approccio di Coase 55
3.
NUOVI APPROCCI PER LA GESTIONE DEI BENI
COMUNI ... 63
3.1 Le categorie dei beni comuni 65
3.1.1 Classificazione dei beni comuni secondo la teoria economica 71
3.2 Le motivazioni disinteressate per un approccio cooperativo 79 3.3 Un nuovo modello per gestire i beni comuni 84
3.3.1 L' istitutional analysing and development 89 3.3.2 La proprietà collettiva e i principi progettuali per l’autogoverno 93
3.4 Modelli ibridi per la gestione dei beni comuni e i problemi derivanti
dalla governance 98
3.4.1 Il sistema di governo ottimale definito da Willianson 101 3.4.2 Governance vs government 105
ii
4.
I SERVIZI PUBBLICI: LO SVILUPPO DEL
SETTORE ... 108
4.1 Le privatizzazioni e le liberalizzazioni in Italia 110 4.2 Le riforme e la normativa degli ultimi anni 114 4.3 L‟impresa sociale: istituzioni per i beni comuni 119
4.3.1 Alcune esperienze di impresa sociale, il caso Napoli dalla Arin s.p.a all’azienda speciale ABC 122
5.
Conclusioni ... 127
6.
bibliografia ... 131
1
INTRODUZIONE
L'economia mondiale, ma soprattutto quella dei paesi sviluppati, dal 2008 sta attraversando una profonda crisi economica; identificata da molti come una crisi del modello liberista dominante, più in generale la potremmo inquadrare come la prima crisi dell‟era globale.
Globale perché, in primo luogo, nessuno Paese al mondo può dirsi esentato dal subirne gli influssi negativi, ma soprattutto perché ha posto al centro del dibattito le criticità del funzionamento stesso del sistema di mercato, come luogo della produzione capitalistica. Questi elementi di novità, presenti in questa crisi, sono stati determinanti per produrre un forte incremento nei contributi al dibattito sulla crisi ambientale. Un tema che ha iniziato a svilupparsi sin dagli anni ‟70 e che oggi trova sempre maggior spazio anche nella diffusione mainstream.
Alla luce di questo scenario proverò a presentare un‟analisi delle criticità che investono l‟utilizzo delle risorse naturali e dei beni collettivi da parte dei cittadini e del sistema produttivo, quello che oggi possiamo identificare nel dibattito sui beni comuni. L‟aumento della popolazione e la ricerca di nuovi standard di benessere per un numero sempre maggiore di Paesi determina un aumento della richiesta di risorse naturali, con i conseguenti processi di trasformazione della materia e la produzione di rifiuti inquinanti che aumentano la pressione ambientale. Oltre a questo i processi di privatizzazione avvenuti nei paesi sviluppati, difficilmente si sono dimostrati in grado di mantenere un equa distribuzione dei benefici derivanti dai beni comuni e un ripartizione corretta dei costi di sfruttamento.
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Questi problemi mi hanno stimolato nel riflettere sulla necessità di studiare il complesso panorama dei metodi e quelle forme istituzionali che svolgono la funzione di regolare la gestione dei beni comuni e ricercare quelli che meglio si adattano ad un governo efficiente e efficace delle risorse e dei beni comuni
Nel primo capitolo mi soffermerò sul legame fra la crisi ambientale e quella economica partendo dalla costatazione che la continua ricerca del sistema economico di ridurre i costi con l‟obiettivo di massimizzare il profitto, tende a eludere i costi sociali che derivano dall‟incedere del processo industriale, determinando l‟emersione dei limiti del sistema produttivo come modello lineare con alto fabbisogno di energia, in contrapposizione al modello ciclico tipico delle natura e caratterizzato da tempi più lunghi. La contrapposizione fra il sistema economico e ambientale finisce per incidere sui cittadini in termini di diminuzione del benessere. Del resto il continuo depauperamento ambientale sta già condizionando il funzionamento dei processi economici, rischiando di portare l‟umanità in condizioni di sempre maggior povertà. Sarà necessario, per sanare questa contrapposizione porre in atto strumenti in grado di limitare l‟incidenza dei costi di produzione sull‟ambiente, assumendo come variabile la garanzia per le generazione di mantenere un livello accettabile di benessere.
Tuttavia, sarà spiegato che la comunità per secoli è stata il nucleo principale per la gestione di questi beni e solo negli ultimi due secoli ha perduto la sua centralità. La nascita degli Stati nazionali e l‟affermarsi delle teorie di mercato hanno imposto un modello dualista in cui la gestione dei beni comuni veniva affidata al pubblico, qualora le caratteristiche determinassero il fallimento di mercato, diversamente venivano lasciate alla gestione privata. In entrambi i casi la necessità
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risiedeva nello strutturare intorno ai beni un sistema di diritti in grado di stabilire un equilibrio capace di garantirne la gestione e la produzione. Questi diritti assunti dallo Stato o dal privato si determinavano attraverso un meccanismo decisionale che, partendo dalla logica dell‟individualismo interessato, garantisse la loro gestione solo se il gruppo o il singolo nella gestione del bene traevano più benefici che costi. Si vedrà come nell‟idea di Olson, se il gruppo cresce, e i benefici vanno divisi fra un numero maggiore di individui, facilmente il costo della partecipazione del membro supera i suoi benefici. Per l‟individuo diventa, perciò, conveniente comportarsi da free rider, rifiutandosi di contribuire alla gestione o alla produzione del bene, potendo, nel caso dei beni comuni, usufruirne ugualmente a causa delle caratteristiche del bene.
L‟assunto economicista della trattazione di questi beni e risorse è lo stesso che oggi anche a causa della crisi economica e ambientale, sta mostrando i suoi difetti, facendo emergere movimenti di protesta in tutto il mondo, atti a rivendicare la gestione dei beni e delle risorse comuni più attenta ai bisogni sociali delle comunità e forte di valori etici e morali di cui l‟intervento pubblico dovrebbe essere portatore.
Nel secondo capitolo, quindi, proverò a descrivere, attraverso la teoria dei giochi, i problemi delle soluzioni tradizionali dell‟economia per strutturare modelli possibili in grado di intravedere la possibilità di un comportamento cooperativo. Vedremo come il comportamento individualista sia rappresentato nel “dilemma del prigioniero”, dove benché gli individui siano in condizioni di informazione completa finiscono, nel tentativo di massimizzare il loro risultato, per fare la scelta peggiore per la società. Il motivo di ciò risiede nella difficoltà a vincolarsi reciprocamente per un fine comune.
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Del resto anche nell‟idea di istituire un soggetto statale che si impegni a costruire regole, e a istituire sanzioni per indirizzare i comportamenti dei singoli, tralascia il ruolo della comunità, fino al punto di dimostrare tutti i propri limiti quando si parla di beni che superano i confini statali e riguardano l‟intera umanità. Una possibilità che va a variare i pay-off di un sistema di giochi dove i giocatori hanno interessi egoistici è l‟etica individuale, ma del resto è un sistema fallimentare se quest‟etica non si eleva a sistema di valori condivisi.
L‟altra soluzione che proporremo è quella che trae origine dagli scritti di Ronald Coase. Secondo questo approccio il modo migliore, come vedremo, per regolare l‟utilizzo dei beni e delle risorse comuni è “privatizzarli”, ovvero assegnare dei diritti di proprietà da scambiare a sul mercato, in modo che il pagamento di valori monetari ripaghi i sacrifici di una parte o dell‟altra. Questa impostazione ha delle forti debolezze di fronte alla realtà, in quanto le caratteristiche di molti beni impediscono l‟assegnazione a singoli individui di diritti di proprietà. Al di là di questi limiti può essere riconosciuto a Coase il merito di aver spezzato il legame indissolubile fra il problema dei costi sociali delle esternalità, con la necessità dell‟intervento esterno dello Stato in condizioni di incapacità dei soggetti di farsi carico di qualche forma di contrattualizzazione.
Nel terzo capitolo illustrerò l‟evoluzione dell‟approccio istituzionale, già intrapreso da Coase, attraverso gli studi della Ostrom e di Willianson. Prima però proverò a dare un definizione complessiva dei beni e delle risorse comuni considerando la complessità della compenetrazione fra elementi oggettivi e aspetti soggettivi. I primi individuati dall‟ economia del benessere, in cui l‟approccio individualista, al fine di offrire beni e risorse al minor costo e massimizzare i benefici dei singoli secondo le loro preferenze, evidenzia una suddivisione legata a come reagisce il mercato
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nel funzionare da regolatore. I secondi, connessi ai processi sociali che ruotano intorno alla funzionalità dei beni e delle risorse al fine del benessere della collettività.
Si vedrà come dal rapporto di comunità nascono motivazioni razionali ma basate su criteri diversi da quello del benessere materiale; sono aspetti che riguardano il lato più sentimentale della natura umana come l‟altruismo o, comunque, la percezione di una maggior utilità individuale, se il contesto sociale gode di un maggior benessere per una miglior suddivisione degli oneri e dei profitti.
Questo intreccio di motivazioni nei rapporti di comunità varia molto con la cultura e il periodo del momento, quello che la Ostrom ha ritenuto necessario nei suoi studi è stato costruire uno strumento, l‟ istutional
analysing and development, avere un‟analisi multi livello sulle dimensioni
dell‟utilizzo delle risorse, sui luoghi e sui sistemi di regole che si formano a seconda dei contesti. Con questo strumento e con osservazioni empiriche la studiosa ha potuto valutare i motivi di successo e di insuccesso delle varie forme di governo sviluppatesi sui territori al fine di gestire una risorsa comune.
Da queste osservazioni emergerà la necessità di costruire istituzioni che innanzitutto creino fiducia fra i membri della comunità e che abbiano una natura flessibile e dinamica in grado di assorbire i problemi di incompletezza e disomogeneità delle informazioni, oltre al problema più evidente che riguarda le risorse naturali, per le quali il fallimento del mercato non si scontra tanto con il problema della diffusione dell‟informazione, ma con la mancanza di informazioni che possono riguardare il futuro per una risorsa scarsa. Al termine di queste valutazioni la Ostrom propone dei principi progettuali per strutturare
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delle istituzioni in grado di auto-governare i beni e le risorse comuni che di fatto diventano degli oggetti di proprietà collettiva.
Un ulteriore contributo che si andrà a descrivere è quello dato da Williamson; i suoi studi si concentrano molto sul concetto di costi di transazione, dove il tentativo del loro abbattimento è una delle condizioni per la formazione di forme di organizzazioni. Se il contributo dell‟Ostrom guarda al funzionamento delle istituzioni, Williamson si concentra sulla dimensione e sulla funzionalità delle stesse. Il costo opportunità dell‟istituirle è determinato dalla volontà degli individui di evitare i costi del mercato. L‟istituzione, in questa visione, è un soggetto esogeno al mercato che vi si inserisce al fine di ottimizzare i risultati di un insieme di soggetti ricollegabili a un mercato, i quali, collaborando, possono migliorare la loro condizione. Secondo questo obiettivo le organizzazioni diventano strutture di governo funzionali alla realizzazione di un obiettivo comune.
Oggi che le nostre economie sono investite da una profonda crisi, emerge l‟inefficienza nella gestione dei costi di transazione, le forme di governance aziendele formatesi negli ultimi 30 anni, in corrispondenza della liberalizzazione dei mercati e della privatizzazione delle aziende pubbliche, hanno dimostrato i loro limiti, avendo come obiettivo principale quello di valorizzare il capitale azionario. Le forme di sussidiarietà orizzontali, create alla luce della aziendalizzazione nel gestire beni e servizi pubblici, non sono stati coadiuvate a monte da sistemi di controllo e sanziona mento. Il risultato è che questa operazione che doveva portare a una separazione della gestione amministrativa dal sistema politico, con lo snellimento delle procedure, si è rilevata un distacco dalle istanze partecipative e le esigenze delle comunità.
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Nell‟ultimo capitolo porremmo le teorie descritte nei capitoli precedenti di fronte alla realtà normativa e delle scelte strategiche intraprese negli ultimi anni in Italia. Da un quadro politico che si è evoluto in modo violento nei primi anni ‟90 e ha prodotto la grande stagione delle privatizzazioni; l‟Italia dopo l‟Inghilterra è stato il paese con la più grande operazione di vendita di patrimonio pubblico e smantellamento delle proprie aziende. Possiamo considerare quella fase come il passaggio da una logica di “Stato imprenditore” a quella di “ Stato regolatore”, tuttavia la presenza della mano pubblica è ancora molto presente, spesso privatizzazioni avviate hanno interrotto il loro iter mantenendo un assetto misto, in compenso però la loro gestione spesso persegue logiche total mentente privatistiche. Allo stesso tempo l‟assetto regolatorio è incompleto e manca delle necessarie autority di controllo, in alcuni casi persistono inefficienze e sprechi che mantengono intatte le condizioni di rendita acquisite. La scelta di privatizzare immaginando la possibilità di liberare risorse positive è ben lungi da realizzarsi.
In compenso anche la normativa europea e italiana sui servizi pubblici è molto cambiata rispetto al secolo scorso ed ultimamente in Italia si è avuto un importante referendum per abrogare parti della legge 133 del 2008, che davano una svolta decisiva all‟assetto gestionale dei servizi pubblici. Questa legge, che prevedeva un obbligatorietà nella presenza di un privato nell‟assetto societario dell‟azienda pubblica e la possibilità di inserire in bolletta una quota fino al 7% per la remunerazione del capitale investito, è stata abrogata in quelle sue parti lasciando così la possibilità di ritornare a sistemi aziendali diversi dalle società di diritto comune, con la possibilità di istituire anche aziende speciali, e con la volontà di approntare la gestione ad una platea più ampia di cittadini e associazioni, nel solco dell‟esperienza che viene dai modelli di imprese sociali.
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1.
IL
‘RITORNO’
DEI
BENI
COMUNI
1.1 La crisi ambientale
Un evento segnò la fine degli anni „60 e gli inizi degli anni „70: l‟uomo varcò i confini dello spazio. Gli astronauti dell‟Apollo, immortalando l‟immagine del globo terrestre, imposero all‟umanità la necessità di ripensare la visione di se stessa e del suo rapporto con la natura. Anche visivamente si iniziò a percepire l‟interconnessione del sistema teorizzata dall‟ecologia: la terra è un macro organismo composto da tanti organismi e tutte le parti condividono un medesimo destino. Kenneth Boulding, in un celebre articolo sull‟economia come navicella spaziale, riprende questo angolo di visuale e sottolinea come e fosse ormai giunta a temine l‟epoca delle risorse infinite e come per l‟economia fosse necessario introdurre il concetto di limite. Si era chiusa l‟epopea dell‟ economia del “cowboy”, simbolo delle pianure sterminate, del comportamento instancabile, romantico e allo stesso tempo violento che caratterizza le società aperte. Si era invece aperto il tempo dell‟economia chiusa, di una nuova necessità di gestire, proteggere e rigenerare le risorse necessarie alla vita umana, cercando di basare i sistemi di relazioni umani più sull‟apporto di energia derivante dall‟esterno del sistema pianeta piuttosto che sfruttare le risorse più facilmente reperibili (v. Boulding, 1966, 3-14).
Erano gli inizi degli anni Sessanta, quando la crescita economica di lunga durata e l‟industrializzazione, oltre a produrre numerosi vantaggi cominciava a manifestare con evidenza molti dei suoi dannosi “effetti collaterali”, effetti che, se non irreparabili, producevano costi elevati. Un esempio era l‟inquinamento atmosferico delle grandi metropoli, Londra,
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Tokio, New York, nelle quali, in coincidenza di particolari condizioni climatiche, si ebbero numerosi decessi.
Allo stesso tempo lo sviluppo tecnologico e scientifico è diventato volano di un forte boom demografico, altro elemento che ha comportato notevoli problemi sociali ed economici. Negli ultimi quaranta anni siamo passati da una popolazione di 3,5 miliardi ai 7 miliardi dello scorso ottobre e la necessità per queste masse di accedere, anche loro, a condizioni di vita migliori ha prodotto una corsa all'industrializzazione di molti paesi del terzo mondo. Il ricorso massiccio alle risorse ambientali, per sostenere questa corsa, ha determinato il superamento della soglia oltre la quale il consumo delle risorse naturali oltrepassa il tasso annuale con cui le natura le rigenera. Questo fenomeno, detto overshoot day, si ritiene essersi verificato, per la prima volta, nel 1987. In quell‟anno, il giorno in cui si calcola l‟esaurimento delle risorse annuali, cadde il 19 Dicembre. Da allora, il fenomeno si è manifestato sempre prima e nel 2012 la data è stata fissata il 22 Agosto (v. Arcovio, 2012, articolo-web).
Di questo fenomeno quello che colpisce è l‟accelerazione avvenuta negli ultimi due anni dal 2010 in poi, ed è‟ in questo stesso periodo che costatiamo il sempre maggior susseguirsi di un numero impressionante di eventi estremi. Sebbene questi fenomeni non siano strettamente collegabili, emerge sempre più l‟esigenza di cambiare il modo con cui usiamo queste risorse: il disastro ecologico causato dal pozzo petrolifero della BP nel Golfo del Messico ha mostrato l‟impotenza degli stessi USA a impedire il disastro e anche a valutarne le reali conseguenze. Questo è esattamente il dilemma delle risorse comuni: come stabilire e rendere efficaci norme e regole per l‟uso di queste risorse, fondate su nuove forme di razionalità, regole sociali e di reciprocità. (v. terrafutura.it, cons. 25/09/‟12).
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A sottolineare il dilemma delle risorse comuni e delle problematiche derivanti da un aumento della popolazione è il biologo Garret Hardin in un famoso articolo, “The tragedy of commons”. Hardin esalta le difficoltà nella gestione delle risorse naturali di fronte a un atteggiamento egoistico degli individui e ad una popolazione che, espandendosi, impedisce nei fatti processi di riciclo chimico e biologico naturali. Il problema dell‟inquinamento è quindi anche una conseguenza della popolazione, mentre non era di grande importanza il modo in cui un solitario Americano di frontiera si liberava dei propri scarichi. In una situazione del genere, infatti si dice che “l‟acqua corrente si purifica da sé ogni dieci miglia, e quel mito era abbastanza prossimo alla realtà nei secoli scorsi, dal momento che non c‟era troppa gente”. Col crescere della densità della popolazione diventano, invece, evidenti i problemi su cui l‟economia avrebbe dovuto interrogarsi per tener conto dell‟interazione tra sistema economico e ambiente. (v. Hardin, 1968, pag. 1243-1248).
Divenivano evidenti i problemi su cui l‟economia avrebbe dovuto interrogarsi per tener conto dell‟interazione tra sistema economico e l‟ambiente. Sin dagli anni ‟20 gli economisti, con Pigou, avevano individuato nel concetto di esternalità l‟elemento cardine per trattare il degrado ambientale. Fra questi è possibile ricordare William Kapp, il quale, già nel 1950 con “The Social Cost of Private Enterprise”, mise in evidenza come la competizione costringe le imprese a scaricare sull'esterno i propri costi, trasformando dunque i costi privati in costi sociali. L‟analisi di Kapp, pur prendendo le mosse dalla teoria dei costi esterni di Pigou1 aveva come obiettivo quello di formulare una nuova
1 La soluzione proposta da Pigou era di applicare un imposta, per unità di prodotto, a carico del
soggetto produttore di esternalità. L'aliquota ad esso applicata è determinata dall'ammontare di danno marginale misurato in corrispondenza dell'allocazione socialmente efficiente.
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analisi economica che non si limitasse al mero strumento del mercato per misurare i risultati d‟impresa.
I problemi economici che stiamo vivendo non dipendono soltanto dagli altalenanti andamenti delle borse o dalla lentezza della “ripresa”, ma piuttosto dalla mancanza di segnali tangibili di un‟ inversione di indirizzo nella governance mondiale dell‟economia. Il continuo depauperarsi delle risorse naturali, beni e valori che compongono l‟inestimabile biodiversità naturale, sociale e culturale del pianeta e l‟accentuarsi di una tendenza al consumo senza limiti di queste sono la manifestazione della crisi di cui non riusciamo a vedere la fine.
1.1.1 Il rapporto economia- ambiente
Il perché della crisi ecologica è da ricercare nelle differenze di funzionamento fra il sistema ambientale e quello economico.
Per prima cosa l'ambiente, in un contesto ecologico, funziona con cicli chiusi, in cui la materia e l'energia circolano dagli organismi produttori (vegetali), ai consumatori (animali) e decompositori, che riciclano le scorie e rendono disponibili gli elementi per la prosecuzione della vita, evitando di degradare la materia e di disperdere energia.
Diversamente, l'economia è capace di soddisfare i bisogni umani, di far crescere la ricchezza monetaria producendo merci e oggetti mediante cicli aperti, nel corso dei quali le risorse naturali vengono impoverite, le scorie tornano nella biosfera contaminando e inquinando i corpi riceventi: acqua, aria, mare, suolo, peggiorandone irreversibilmente la qualità e il successivo utilizzo (v. Georgescu-Roegen, 1998).
Per la struttura di questi due sistemi, i tempi con cui un ciclo naturale arriva a termine, sono più lunghi di quelli con cui si esaurisce un ciclo produttivo, quindi, se consideriamo l‟inarrestabile corsa alla produttività
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degli ultimi anni, specie dei Paesi in via di sviluppo, è comprensibile perché i due sistemi abbiano intrapreso strade divergenti.
Il sistema economico e industriale nel suo complesso dipende da un continuo flusso di energia derivante dalle risorse naturali che gli permette di crescere e creare ricchezza. Poiché l‟energia, attraversando un processo economico, pur non cambiando quantità, degrada in qualità, se non viene dato il tempo alla natura di rigenerarsi adeguatamente le crisi ambientali sono inevitabili. Del resto noi uomini non possiamo creare energia e materia, a parte quella dei nostri muscoli, e così per produrre oggetti non possiamo far altro che trasformare ciò che ci dà l'ambiente. Per queste ragioni nel sistema economico, il risultato ottenuto dalla trasformazione della risorsa (input) in un prodotto (output) è da considerarsi un aumento di valore in termini assoluti, mentre nel sistema ambientale quel processo restituisce un risultato solo quantitativo, riducendo a causa degli scarti il valore qualitativo della materia. La spiegazione fisica di tale processo è da ricercare nella seconda legge della termodinamica per cui la materia che entra nel processo economico a bassa entropia ne esce con un livello ad alta entropia.
Apprendendo i meccanismi con cui si svolgono i processi economici si capisce la difficoltà di trovare un equilibrio fra la struttura naturale e quella umana. Tuttavia, un cambiamento di questa condizione di ineluttabilità sarebbe possibile se accettassimo l‟idea per cui i processi economici non devono limitarsi a valorizzare i risultati materiali ma piuttosto quelli immateriali . Sarebbe più efficace se l‟orizzonte del sistema economico tornasse ad essere maggiormente allineato al vero motivo per cui l‟umanità produce beni e servizi, cioè utilizzare le risorse per abbassare la nostra entropia, soddisfare i bisogni più essenziali e garantirci
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la sopravvivenza. Credo che una conversione sociale dell‟economia avrebbe forti benefici ecologici.
Per lo studioso di economia, invece, il punto più importante è che la legge dell'entropia costituisce la radice della scarsità economica. Se non fosse per questa legge potremmo continuare a riutilizzare l'energia di un pezzo di carbone, trasformandola in calore, il calore in lavoro e il lavoro di nuovo in calore. Le macchine non si logorerebbero mai, non ci sarebbero differenze economiche fra i beni materiali e la terra, non esisterebbe una vera scarsità di materie prime e una popolazione dimensionata al nostro mondo potrebbe vivere per sempre, senza avere veri motivi di conflitti.
La teoria economica ha cercato numerose controdeduzioni o soluzioni. Le prime argomentazioni degli economisti tradizionali e dei marxisti riguardano la possibilità che la tecnologia non conosca limiti. Non solo riusciremo sempre a trovare un sostituto per una risorsa diventata scarsa, ma anche ad aumentare la produttività di qualsiasi tipo di energia e di materia prima. Questa deduzione dipende dall'idea che l'uomo, in qualsiasi momento, è in grado di influenzare il progresso e, in secondo luogo, dalla valutazione che sono veramente poche le componenti della terra così specifiche da non poter essere sostituite economicamente (v. Georgescu-Roegen, 1998, pag. 60-61).
Successivamente a queste argomentazioni si affiancò un lavoro capillare di carattere matematico teso a dimostrare la similitudine fra le risorse naturali e tutte le altre merci, che ha finito per trascurare i più elementari concetti epistemologici, perseguendo l‟idea che una risorsa naturale scarsa, a causa all‟ aumento dei prezzi, si sarebbe sostituita con un altro fattore. Raramente, tuttavia, si è considerato che le possibilità di sostituzione sono limitate quando si distingue fra fattori fondo della
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produzione (lavoro e capitale) e i fattori flusso (le risorse naturali) (v. Geurgescu-Roegen, 1998, pag. 162-163)
Queste osservazioni evidenziano un enorme fraintendimento e cioè che il problema in realtà non è tanto il loro consumo e come la tecnologia ne può permettere un utilizzo più efficiente, ma la degradazione stessa della materia e gli scarti che da quell'utilizzo ne derivano. Da questo equivoco nasce l'idea che ecologisti e ambientalisti siano contro lo sviluppo mentre, in genere, è vero esattamente il contrario.
Se l‟establishment economico continua a credere che l‟obiettivo della politica economica sia soltanto la crescita economica allora si continuerà a ignorare le caratteristiche particolari delle risorse naturali proseguendo nel credo che “il mercato la sa sempre più lunga di tutti”. E queste sono alcune delle ragioni per cui al Congresso Mondiale dell‟International Economic Association, a Tokio nel 1977, non fu ammessa alcuna relazione che si occupasse dei limiti delle risorse naturali, sebbene il congresso si intitolasse: “La crescita economica e le risorse”.
La controversia maggiore si sviluppa intorno al principio cardine su cui si basa il funzionamento dell'economia, cioè il consumo pro capite e il suo indicatore cioè il PIL. Secondo questo principio ogni forma di sviluppo della società e dell'umanità è ridotto a sottoinsieme della necessità delle crescita, ma è proprio questo che l'ecologia mette maggiormente in dubbio e il fatto di non considerare che la crescita possa avere un limite superiore (v. Geurgescu-Roegen, 1998, pag.65). Il PIL, come fa notare sempre Boulding, non è in grado di tenere conto della limitatezza delle risorse naturali, dei danni e costi dell‟inquinamento e del degrado ambientale. Affermava in proposito: “Il PIL dovrebbe essere depurato dai costi della produzione di armi e di mantenimento degli eserciti, costi che non hanno niente a che fare con la difesa. Dovrebbe essere depurato anche dai costi
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del pendolarismo e dell‟inquinamento. Quando qualcuno inquina e qualcun altro ripulisce, le spese per la depurazione fanno aumentare il PIL, ma il costo dei danni arrecati dall‟inquinamento non viene sottratto, il che, ovviamente, è ridicolo”(v. Boulding, 1970, p. 157-160).
Invece, poiché, sopratutto a metà del novecento, l'enorme crescita non è stata accompagnata da un aumento del tasso di esaurimento delle risorse, ma è stata accompagnata da un forte sviluppo tecnologico, culturale e sociale, i due concetti sono stati assimilati, non è considerato il fatto che fosse possibile il contrario cioè l‟economia cresca pur non portando con sé nessuno sviluppo, grazie all'aumento della popolazione e al consumo delle risorse (v. Georgescu-Roegen, 1998, pag. 66).
È vero che lo sviluppo tecnologico ha migliorato l'utilizzo degli strumenti esosomatici e ha condotto a una progressiva de materializzazione, sempre però in termini relativi, fino alle metà degli anni '90, con un notevole risparmio energetico, ma nei primi anni del nuovo millennio lo svilupparsi di nuovi bisogni e la maggior domanda di risorse hanno invertito il processo di dematerializzazione e ricondotto a un lento ri-accoppiamento fra la crescita del prodotto in valore e la crescita dei consumi di materie (v. Bresso, 2002,pag 96).
Alla luce di questi eventi, non si può dimostrare che lo sviluppo tecnologico sia uno sviluppo infinito tale da poter ottimizzare l'utilizzo delle materia, e sufficientemente veloce e costante da poter rendere accessibili quei materiali, oggi tecnicamente ed economicamente irraggiungibili, a tal punto da mantenere basso il tasso di esaurimento. Se ciò fosse possibile si avrebbe comunque un aumento dell'inquinamento e un degrado generalizzato dell'ambiente tale da peggiorare inesorabilmente la qualità della vita sulla terra.
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Quello che è necessario per la discussione del rapporto fra ambiente e sistema economico riguarda la gestione delle materie e dei beni naturali, come preservarli dal degrado dei processi economici, attraverso un profondo sviluppo culturale ed etico delle istituzioni e della società. Quest‟ottica si contrappone a un mercato orientato ai consumi e a un sistema economico che non può far a meno della crescita per sopravvivere. I problemi che derivano dalla dicotomia fra economia e ambiente e che devono essere analizzati per intraprendere la via di uno sviluppo sostenibile sono:
a livello microeconomico il tema delle regolamentazione ambientale da un punto di vista di equilibrio parziale, cioè di un singolo mercato: l'internalizzazione dell'esternalità produrrà come effetto una modifica del prezzo e della quantità di equilibrio;
a livello macroeconomico l'introduzione di norme sull'intera economia produrrà un aumento dei costi intermedi che, a meno di innovazioni che riescano ad abbattere i costi di un intervento ambientale ridurrà, la quota di capitale da destinare ai consumi e dovrà aumentare quella destinata all'innovazione.
Un ulteriore elemento riguarda l'esaurimento e l'inquinamento delle risorse energetiche attualmente più utilizzate, che comporta un aumento dei costi di produzione che può essere abbattuto diminuendo il costo unitario dell'energia utilizzata, tenendo conto che ad oggi un‟energia abbondante e facilmente utilizzabile non esiste.
Infine l‟ultimo punto da considerare è il fatto che ci siano risorse, come la terra, l'acqua, le foreste, il cibo che sono limitate e sottoposte a forti tensioni d'uso e a prescindere da possibili innovazioni tecnologiche rappresentano quegli elementi universali a cui ogni individuo ha diretto ad accedere. (v. Bresso, 2002, pag. 89-90)
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1.1.2 Per un economia orientata all'ambiente
E‟ difficile sostenere politiche che vadano a sostegno dei problemi enunciati in un sistema fondato su alle logiche di accumulazione di capitale. In un sistema così concepito la crescita è funzione del consumo di beni e sebbene in passato sia riuscita a diffondere livelli elevati di benessere, pone due ordini di problema (v. Bresso, 2002, pag. 93-94):
al di là di un certo livello di consumi necessari, le persone devono essere incentivate a desiderare un ulteriore aumento dei propri consumi, magari attraverso un meccanismo imitativo degli altri. La società diventa, così, una colonna in marcia dentro la quale la posizione di ognuno resta la stessa, lasciando così sostanzialmente costante la soddisfazione delle persone;
l‟aumento della disponibilità di beni e servizi viene pagata dai consumatori con la perdita di qualità dell'ambiente e molto spesso alcuni servizi che prima l'ambiente offriva gratuitamente oggi sono sostituiti obbligatoriamente con altri acquistati, determinando una diminuzione del livello di benessere.
La questione dei limiti della crescita e la difficoltà di elaborare politiche macro e micro economiche adeguate a un nuovo modello di sviluppo, vanno affrontate creando una nuova sintonia tra la tutela dell‟ambiente e i problemi di carattere sociale. Una riconversione verso forme di stazionarietà delle economie rischia di far perdurare la crisi economia e sociale attualmente in corso, tuttavia possono essere individuati dei percorsi possibili.
Per prima cosa, si dovrebbe frenare la spinta verso la crescita mondiale, indirizzando il sovrappiù verso attività non immediatamente produttive: l'obiettivo è quello di valorizzare tutte quelle attività no profit indirizzate
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al benessere delle comunità, comprese le azioni di risanamento di aree ambientali degradate.
In secondo luogo si può realizzare una crescita solo “immateriale” del prodotto, cioè ridurre il contenuto in materia e in energia per unità di prodotto, aumentandone il contenuto in informazione o in servizi. Questo non implica l'esistenza di una corrispondenza biunivoca fra dematerializzazione e minor degrado degli ecosistemi, anzi, in alcuni casi, può accadere l'esatto contrario; nel caso dei servizi per le attività turistiche si produce una pressione pericolosa su molte città d‟arte e su aree ambientali di pregio. Ciò nonostante, è un obiettivo di minima per cercare di diminuire la quantità di materia prodotta in termini di rifiuti e di consumo di beni ambientali, anche se è alquanto complesso da perseguire, infatti, dopo il decennio degli anni ‟90 dove è avvenuto un disaccoppiamento fra crescita del prodotto e del consumo di materia, i due valori si sono riallineati.
Il terzo obiettivo è quello di indirizzare il sovrappiù verso politiche di aiuto al terzo mondo. Oggi è necessario un intervento sulle linee di sviluppo di questi Paesi, nei quali i livelli medi di inquinamento per unità di prodotto sono fino a 20 volte superiori a quelli occidentali per produzioni analoghe. Sperare in riconversioni rapide e a tecnologie pulite, sulla base delle loro attuali risorse, è del tutto illusorio, allo stesso modo è impensabile che il loro comportamento differisca da quello dei paesi sviluppati, dove la domanda di qualità ambientale si è manifestata una volta raggiunti livelli elevati di reddito pro capite (v. Bresso, 2002, pag. 97) Del resto non è nemmeno possibile imporre a questi paesi dei vincoli esterni tramite accordi internazionali e purtroppo, la necessità per questi di trovare una via d‟ uscita dalla fame, ha finito per peggiorare sempre di
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più le condizioni di tanti a favore di pochi ampliando i processi già avanzati di deforestazione, degrado e sfruttamento delle terre coltivabili.
Nel cercare di formulare una soluzione a questa situazione, sin dalla prima conferenza mondiale sull‟ambiente a Rio de Janeiro nel 1992, si è stimata la necessità di fornire un livello minimo di aiuti dello 0,7% del reddito dei paesi ricchi per reindirizzare questi modelli di sviluppo sbagliati. Ciò nonostante, i paesi occidentali hanno riaffermato che avrebbero comunque dato precedenza alle loro economie in crisi, piuttosto che aiuti necessari a equilibrare i meccanismi distorti di quelle economie in via di sviluppo. Non attribuire questi fondi a quei Paesi, vuol dire non creare la condizioni per cui anche le aziende multinazionali siano costrette a rivedere i loro piani industriali in quei luoghi. Limitarsi a immettere fondi nei paesi già ricchi, vuol dire rilanciare le economie attraverso consumi inutili e dannosi per l'ambiente. La ragione principale è che le nostre industrie sono orientate alla produzione di beni “voluttuari”, riconvertirle verso produzioni di beni di investimento e beni primari sarebbe complicato e costoso.
L'ipotesi di avviare una politica di aiuti per lo sviluppo sostenibile dei paesi poveri e in transizione viene periodicamente riproposta, ma incontra poco successo e viene interpretata come un modo di utilizzo di eccedenze congiunturali. Non si può, però, procedere in questa direzione se vogliamo preservare i nostri ecosistemi e dare un futuro alla nostra stessa specie, è necessario frenare questo treno della crescita e creare condizioni di vita accettabile per l'intera popolazione mondiale. (v. Bresso, 2002, pag 98).
Bisogna che i governi si assumano la responsabilità storica dei processi in atto e si adoperino per raggiungere determinati obiettivi di riduzione dell'impatto ambientale delle attività umane. Per questo è necessario
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provare a costruire un'idea di interesse globale attraverso l‟azione locale dei cittadini e delle comunità, le quali devono avere più spazio per incidere nei processi decisionali. In fondo ogni grande azienda finisce per insediarsi sempre in un territorio.
Ma non basta: al fine di determinare un cambiamento sostanziale nello sfruttamento delle risorse naturali, è essenziale il ruolo che le esternalità, positive e negative , possono avere nei sistemi di produzione. Il concepire la produzione e la riproduzione come processi che si verificano in sistemi chiusi e in qualche misura in grado di autoregolarsi, sta alla base della crisi ambientale attuale.
L‟ efficienza economica valutata secondo i criteri del profitto netto privato e dei costi di impresa, non può fornire risposte adeguate sugli obiettivi e le politiche desiderabili. Un criterio di valutazione del risultato economico non può essere ottenuto partendo dalla realizzabilità tecnica né tanto meno dall‟efficienza economica, ma deve essere realizzato valutando svantaggi e vantaggi ecologici, sociali ed economici che ne derivano per l‟intero sistema. La produzione e il consumo danno luogo a processi complessi , le cui conseguenze negative per l‟ambiente fisico e sociale hanno inevitabilmente un impatto sulla distribuzione del benessere. Gli economisti classici potevano sostenere la tesi per cui il sistema economico era semichiuso poiché ai tempi aria, acqua erano in un certo senso beni liberi, quindi c‟era la convinzione che in sistemi di concorrenza i comportamenti razionali potessero generare solo effetti sociali positivi (v. Kapp, 1991, pag. 9).
Oggi con il costante aumento della popolazione e un sistema economico globalizzato costruito come opportunità di conseguire profitto e produrre ricchezza attraverso gli scambi di mercato e con i costi di inquinamento ampiamente trascurati, si è prodotta una perdita di benessere e una
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ridistribuzione secondaria del reddito reale a sfavore dei soggetti economicamente più deboli della società e delle generazioni future. E‟ per questo che le relazioni tra sistemi produttivi e ambientali non possono limitarsi a una valutazione di costo-beneficio in termini di valori di scambio o di mercato, che finiscono per sollevare soltanto problemi di casualità circolare e cumulativa, ma devono prevedere valutazioni d‟impatto ambientale dei flussi fisici da un punto di vista sociale e politico, e trasformare l‟impatto fisico in scambi politicamente comprensibili e rilevanti. (v. Kapp, 1991, pag. 12)
Se non ci sarà un ripensamento del sistema economico attuale, questi obiettivi si presentano di difficile realizzazione, tuttavia è necessario analizzare più affondo quelle risorse e quei beni comuni forniti dall‟ambiente e organizzati dalla società in servizi, che oggi non trovano ancora una perfetta identificazione e un efficacie modello di gestione al punto che anche l‟assetto giuridico non è all'altezza per la loro completa salvaguardia. Bisognerà individuare solide basi culturali e politiche per mettere in discussione i meccanismi di mercato in modo più profondo di quanto non lo si faccia da parte delle teorie della concorrenza monopolistica o dell‟oligopolio e riconsiderare il ruolo dello Stato nella funzione di soggetto atto a risolvere i fallimenti del mercato, di cui dopo parleremo, specie in considerazione alla gestione delle risorse naturali per le quali c‟è un fallimento ulteriore, ed è la difficoltà a tener conto degli interessi di chi non può accedere al mercato come le generazioni future. Questo per evitare che i costi sociali e ambientali del‟utilizzo delle risorse continuino ad essere esternalizzati a sfavore delle comunità mentre vengono internalizzati i benefici monetari delle varie produzioni. (v. Lucarelli, 2011, pag. 4)
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Ad oggi possiamo affermare che dopo un decennio dall‟inizio del nuovo millennio, l‟esigenza di questa inversione e di questa riconsiderazione della politica economica sta diventando un punto fermo dei movimenti progressisti di tutto il mondo specie in quello occidentale. La società, nel rendersi conto che il mercato, dove si concretizzano le decisioni dell‟economia, è un sottoinsieme del sistema più ampio in cui si verificano gli avvenimenti che influenzano l‟evoluzione dell‟ambiente, si è riappropriata così del dibattito sulle risorse naturali necessarie alla sopravvivenza umana, attraverso, appunto, la battaglie per alcuni beni comuni.
1.2 I beni comuni non solo una storia moderna
Le difficoltà nel rapporto fra il sistema economico e i problemi di tipo ecologico pongono il dubbio se il dibattito sui beni comuni sia da ricondursi esclusivamente al periodo che, dagli anni ‟70, ha sviluppato una importante letteratura riguardo la crisi ambientale e, oggi, sia così in auge a causa della crisi economica che, dopo 30 anni di cultura neoliberista, ha posto dei dubbi sulla sostenibilità dell‟attuale sistema di mercato.
In effetti analizzando i sistemi giuridici della nostra società i beni comuni non hanno ancora un reale riconoscimento giuridico - istituzionale che ne permetta un‟ autentica tutela. Il motivo sta nel fatto che la natura dei nostri ordinamenti, sviluppatesi negli ultimi due secoli, ruota intorno a un'idea antropocentrica del diritto, la quale, nell‟ambito della concezione individualistica, pone sopra ogni cosa la proprietà privata. Ed è per questo che può sembrare che il tema dei beni comuni sia da circoscriversi ad un periodo ristretto e attuale. In realtà questi idea del diritto è da ricondursi
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ad un evoluzione culturale delle società che ha molto cambiato il rapporto fra uomo e natura.
Sarà necessario per avviare un reale processo di cambiamento riavvolgere il nastro della storia e capire come società e cultura passate avevano costruito sistemi giuridici e istituzionale legati a una concezione eco-centrica, che pone in evidenza, non il possesso ed il consumo dei beni, ma il considerare uomini e cose come parti di un tutto: l‟uomo è parte della comunità umana, che a sua volta è parte della comunità biotica. (v. Maddalena, Dicembre 2011, pag. 2). Questo principio, da cui prende forma il dibattito sui beni e sulle risorse comuni, non è un concetto attuale ma discende da una storia lunga centinaia di secoli a partire dalla cultura romana.
Il motivo per cui il diritto romano ha in sé il concetto di beni comuni risiede in quella virtù che fece grande Roma e che consiste nella “solidarietà”, cioè nel sentirsi una sola cosa con tutte le componenti della comunità di cui si è parte. L‟elaborazione che i romani fecero di questa virtù condusse alla creazione di un sistema giuridico che pose sullo stesso piano essere viventi e oggetti inanimati, di modo che persone, cose e azioni fossero parimenti meritevoli di tutela. (Gaio, Inst. 1, 2, “omne autem
ius, quo utimur, vel ad personas pertinet, vel ad res, vel ad actiones”)
Questo sentirsi una cosa sola faceva sì che la distinzione tra “personae” e “res” avesse un carattere elastico, nel senso che sovente lo stesso oggetto potesse esser visto, secondo i casi, o come “persona” o come “res”. In altri termini, per i romani, come si è già accennato, la rilevanza giuridica del soggetto si pone su un piano di parità rispetto alla rilevanza giuridica dell‟oggetto. Inoltre questo modo “elastico” di ragionare può indurre anche a superare, nel contesto in cui viviamo, quella netta opposizione tra soggetto e oggetto, per cui il soggetto è padrone, possiede ed è
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proprietario, e l‟oggetto, il più delle volte considerato semplicemente “merce”, è posseduto ed è la cosa sulla quale insiste il diritto del proprietario, con tutti i suoi poteri, pieni ed assoluti. Quanto ora detto, riguardante il principio “tutto - parte”, spiega perché i giuristi Romani ritenevano che il “territorio” fosse parte integrante della Comunità politica, e perché, ancora oggi, il territorio, insieme con il popolo e l‟ordinamento giuridico, è considerato “elemento costitutivo” dello Stato, o, quanto meno, un suo “presupposto”.
E' quindi interessante notare come i Romani esplicitassero il rapporto tra “personae” e “res” sotto il profilo della natura propria dell‟uomo e delle cose, e cioè, come “iure naturali”. E' in questo contesto che si va così a sviluppare la somma divisio fra res in commercio e res extra commercio, dove si riconosceva l'esistenza di beni che per loro natura interessavano a tutti in quanto necessari a soddisfare gli interessi della presente e delle future generazioni. L'incommerciabilità del resto, fu diretta conseguenza dell'appartenenza di detti beni alla comunità. (v. Maddalena, Dicembre 2011, pag 8-9)
Questa premessa sul diritto Romano ci permette di stabilire un nesso fra i beni comuni e la comunità, collegamento che non è direttamente riproducibile fra i beni comuni e lo Stato moderno, infatti a quest‟ultimo appartengono anche beni normalmente oggetto di proprietà privata. E' per questo che quando si parla di beni comuni non ha senso far riferimento alla dicotomia pubblico-privato, appunto perché nei beni pubblici si ritrova una più ampia platea di beni.
Il motivo per cui si è passati dalla concezione Romana a quella attuale, in cui i beni comuni sono pubblici, perché di proprietà dello Stato, è dovuto a un processo di cambiamento del sistema giuridico attraverso i secoli, prima con il medioevo e poi con la rivoluzione Francese.
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Nel medioevo venne meno la connessione tra sovranità del popolo e la proprietà: la proprietà venne scissa in dominium emines, spettante al sovrano a cui viene trasferito il potere, e dominum utile, spettante a chi aveva l'uso della terra (v. Maddalena, Ottobre 2011, pag 9); comunque non veniva meno la proprietà collettiva di aggregati di persone che si auto organizzavano intorno alla propria comunità. E' infatti il medioevo che, a causa delle innumerevoli difficoltà di spostamento e di collegamento, ha sviluppato nella maniera più convincente un sistema pluralistico, a potere diffuso, in cui si affermarono molte comunità fuori dal rapporti gerarchici. La vita quotidiana delle città e delle campagne era organizzata intorno a rapporti sociali, fondati sullo status piuttosto che sul contratto; l'economia di sussistenza era incompatibile con una costruzione della società fondata sull'individuo. In questo tipo di società e di economia, a differenza del mondo moderno, non poteva esistere un forte distinzione fra l'essere e l'avere: ogni persona era portata a lavorare la terra per il periodo assegnatogli e per avere quanto necessario a sostenere sé e la sua famiglia, il tutto in armonia con il sistema ambientale del quale la comunità faceva parte e nel quale doveva riprodursi.
L'esistenza di questi tre livelli di proprietà si riscontra nella “Magna
Carta” del 1215, alla quale era allegato un documento, “Charter of forest”,
che garantiva i beni comuni di quella parte dei sudditi di sua maestà che non godeva di ricchezza e proprietà, per il resto la Magna Carta riconosceva i un diritti di proprietà ai nobili sulle terre di sua maestà. (v. Mattei, 2011, pag. 25-34)
Ben presto il terzo modello della proprietà svanì ne rimasero per due: quello dello Stato sovrano e quello della proprietà privata. Nella prosecuzione di questo processo di enclosures affiancato da logica assolutista del tardo medioevo, si arriva alla Rivoluzione Francese, che fu
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una rivoluzione borghese. Fu così che pur con l'idea di trasferire l'appartenenza del territorio dal Sovrano alla Nazione, per l'utile di quest'ultima, cioè della collettività, si assistette alla fine del comunitarismo e al trionfo dell'individualismo. Da quel momento in poi tutte le legislazioni e le prime formazioni di Costituzioni nazionali finirono per orientarsi a garantire le proprietà, il tutto coadiuvato dallo sforzo della nuova nazione che per garantirsi il consenso dei classi più ricche, promosse l'idea della proprietà come diritto naturale.
Arrivando alla fase attuale, il nostro codice civile elude completamente il tema della proprietà collettiva e dei beni comuni. Nell'art. 832 si menziona soltanto la proprietà privata; anche se, a differenza dello Statuto Albertino dove si enuncia: “La proprietà privata è sacra, inviolabile, intangibile e solo in casi rarissimi ed eccezionali può essere sacrificata”, la norma del codice civile attuale ha un carattere più dinamico. Tuttavia non si volle parlare di “funzione sociale della proprietà” e ci si limitò a formulare una norma di principio che imponesse al proprietario l'osservanza di eventuali obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico .
Nella Costituzione si apportò una notevole miglioria, non introducendo un esplicito riferimento ma volendo dare un forte impulso al valore delle persona umana, e quindi della solidarietà politica e economica: si posero dei limiti alla proprietà in nome dell'utilità generale e del preminente interesse collettivo (v. Maddalena, Ottobre 2011, pag 11).
In seguito ai dettati Costituzionali non vi è stato nessuno sviluppo in termini di normativa che andasse a esplicitare meglio il ruolo dei beni comuni, le esperienze di proprietà collettive, e le buone pratiche di governo degli stessi. Quello che invece è avvenuto a livello politico è stato un processo opposto, coadiuvato in paesi come l'Italia da uno Stato che non si è dimostrato all'altezza delle prerogative che la storia gli aveva
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attribuito. Si è trattato di un generale processo di rimozione attraversato da due percorsi diversi per le due grandi categorie di beni comuni, quella dei beni comuni naturali, locali e globali, e quella dei beni comuni sociali. Nel primo caso la rimozione è avvenuta poiché nella pratica politica la natura è stata sottovaluta e considerata res nullius, permettendo dunque un utilizzo dissennato delle risorse, riducendo la natura a mero fattore di riproduzione del capitale. Da questo punto di vista Giorgio Nebbia sottolinea che ancora oggi, in Italia e in Europa, la sinistra istituzionale non è in grado di riconoscere che la ricchezza è frutto del lavoro ma anche della natura. Questo, perché sempre secondo Nebbia, per molti anni la sinistra ha creduto che le protesta ecologica verso lo sfruttamento delle risorse fosse da annoverarsi come uno dei capricci di certa borghesia. Era, infatti, sempre negli anni ‟70 che il sistema imprenditoriale andava spiegando che la difesa della natura si sarebbe tradotta in perdita di posti di lavoro, e così facendo trovava alcune sponde nella classe operai contro i movimenti ecologisti (v. Ricoveri, 2005, pag. 2).
Nel caso dei beni comuni sociali, il processo di rimozione è stato determinato dall'errata percezione dei beni comuni come fonte di ridistribuzione del reddito piuttosto che come fattore di coesione sociale, questo ha comportato una scissione tra il cittadino in quanto soggetto portatore di diritto, e l'individuo quale soggetto fiscale, che attraverso il suo contributo partecipa alla riproduzione e al risarcimento del bene comune. La negazione del nesso fiscale, inteso come “contratto” del dare e dell‟avere fra individuo e collettività ha svalorizzato questa classe di beni come patrimonio ereditato dal passato e necessario per il futuro, a favore di bene comune come servizio pubblico erogato in funzione assistenziale di cui si usufruisce con approccio egoistico (v. Donolo, 1997, pag 208).
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Sono servite la crisi ecologica ed economica, ma sopratutto la perdita di molti dei punti di riferimento che la società occidentale aveva consolidato nell'ultimo secolo, a riportare al dibattito pubblico questa storia. Allo stesso tempo, dagli anni '70 fino alle soglie del nuovo millennio, si è sviluppato un cospicuo filone di ricerca che ha prodotto oltre 22000 opere sull'argomento inizialmente legato ai commons tradizionali (agricoltura, pastorizia, aree di pesca), ma che nel tempo si è esteso ai commons urbani (parcheggi,gestione della acque, rifiuti), che costituiscono un ambito di sicuro interesse per le implicazioni empiriche che di policy, e ai global
commons per i quali la mancanza di autorità esterne e l'impossibilità di
privatizzazione spinge alla ricerca di nuovi modelli. In generale si tratta di una ricerca interdisciplinare che smuove ambiti che vanno dall‟ economia ecologia, alla sociologia, al diritto pubblico. (v. Bravo,2001, pag 505-509)
Sempre in percorso di recupero del concetto di bene comune, è certamente da menzionare il lavoro posto in essere dalla commissione Rodotà2, la quale ha redatto un progetto di legge che riportava in primo piano la categoria dei beni comuni, distinguendoli dai beni pubblici e dai beni privati.
Nel testo prodotto si provava a definire i beni comuni come “quelle cose
che esprimono utilità funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”. L'articolato prevede che titolari del bene
possono essere sia soggetti pubblici che privati, purché in ogni caso ne sia garantita la fruizione alla collettività. Si specifica che nel caso questi beni si vengano a trovare nella disponibilità di persone giuridiche pubbliche sarà del soggetto pubblico la responsabilità della gestione e i beni saranno collocati fuori commercio.(v. Commissione Rodotà - giugno 2008)
2 La Commissione sui Beni Pubblici, presieduta da Stefano Rodotà, è stata istituita presso il Ministero della Giustizia, con Decreto del Ministro, il 21 giugno 2007, al fine di elaborare uno schema di legge delega per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici.
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Questo excursus storico mostra quanto articolato e diversificato sia stato nei secoli il rapporto fra l'umanità e i beni comuni, portandoci a prospettare una dipendenza del ruolo e della tutela dei beni comuni dal tipo di società e di cultura nella quale vengono immersi. Le diverse società e culture che si sono susseguite nel tempo e che esistono contemporaneamente in un‟ epoca storica fanno da cornice a un approccio pratico alla gestione dei beni comuni.
1.3 Cultura e società per il bene comune
Cerchiamo ora di approfondire il motivo per cui il valore dei beni comuni ha subito numerose modifiche nel corso della storia e come la cultura pesi sull‟elaborazione del concetto di bene comune in termini di scelte sociali.
La storia dell'umanità è sta percorsa da innumerevoli società e culture che nel corso della storia si sono intrecciate e attraversate in vari modi e con diversi gradi di permeabilità. La conseguenza che si è verificata è che la storia ha sempre viaggiato in senso cumulativo, permettendo all'umanità di acquisire sempre maggiori conoscenze e abilità. Le società si sono lentamente uniformate a seconda dell'area geografica e delle interazioni fra comunità, ognuna al contempo si è specializzata in differenti aspetti della vita umana. Alcune società si sono esaltate nel valorizzare i legami familiari e di parentela, altre nello sviluppo delle discipline spirituali, altre ancora nella cura del corpo e nella medicina. Tuttavia, bisogna riconoscere che pur con percorsi diversi, l'obiettivo di tutte le società è di permettere ai propri membri di avere sempre maggior protezione e possibilmente un allungamento della loro vita.
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Negli ultimi due secoli chi ha meglio perseguito questi due obiettivi è stata la società occidentale, che ha concentrato i suoi sforzi nel mettere a disposizione dell'uomo mezzi meccanici sempre più potenti, tali da accrescere continuamente la quantità di energia disponibile pro-capite e raggiungere il traguardo di un maggior benessere materiale. Questa prospettiva di benessere ha condotto le altre società ad accostare sempre più gli stili di vita del mondo occidentale, riconoscendogli nel tempo una posizione di superiorità e formalizzando, per la prima volta nella storia, la nascita di una “civiltà” mondiale pur con tutte le contraddizioni che ne sono conseguite.
La sproporzione delle forze in campo fra l'occidente e il resto del mondo ha sconvolto il modo tradizionale di esistenza di tutte le società colonizzate e ha distrutto tutte le istituzioni e strutture che reggevano i rapporti fra individui, spesso non sostituendole con altre. Questa dinamica ha permesso a un giocatore (la società occidentale o la classe dominante) di sfruttare gli scarti differenziali con gli altri concorrenti ponendo le basi per il progresso culturale dello stesso, causando un appiattimento delle differenze fra le varie società.
La sfida alla quale le istituzioni internazionali sono chiamate a rispondere è come riuscire a mantenere l‟armonia fra questo processo di omologazione e la pulsione, altrettanto forte, di riaffermare quei valori e quelle tradizioni simbolo della specificità di ogni società. Sebbene questo impegno sia gravoso, è necessario che nessuno dei due elementi prenda il sopravvento e si cerchi di ripristinare e valorizzare le differenze, evitando che il privilegio dell'umanità sia attribuibile ad una sola cultura. Per fare questo bisogna tener presente che il progresso non può essere fatto secondo la comoda immagine della somiglianza migliorata, che produce
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soluzioni insipide del modello dominante, ma intraprendere strade e modelli nuovi nella diversità. (v. Levi-Strauss, 1967)
In questa rappresentazione del cammino delle culture al cospetto dell‟ odierna globalizzazione, sembra che l'auspicio tracciato da Levi Strauss sia stato eluso e tradito. Le rivolte che stanno animando molte comunità per la riappropriazione dei beni comuni rappresentano il fallimento della politica delle gradi istituzioni internazionali, troppo spesso ininfluenti nelle scelte degli Stati sovrani, che avevano ceduto a questi enti parte della loro sovranità formale. Questo fallimento è ancora più lampante se messo a confronto con l‟odierna crisi e con la forza che in molti paesi del mondo hanno assunto quelle grandi società multinazionali private che, cresciute in numero e dimensioni, sono diventate a loro volta produttrici dirette e indirette di diritto. Il tratto distintivo di queste corporation multinazionali che concentrano su di sé un potere economico, capace di trasformarsi in potere politico, non conosce un vero contro-principio. Lo strapotere lentamente ottenuto da questi soggetti giuridici ha assunto dimensioni per le quali i governi hanno cominciato ad accettare supinamente delocalizzazioni attuate e minacciate. Effettivamente non è facile contrastare queste grandi multinazionali, poiché, essendo organizzazioni private sovrannazionali, possono non dover avere alcun sentire sociale nei confronti delle comunità. Questa dinamica è anche più accentuata in quelle realtà dove le strutture statuali più deboli e corrotte, hanno permesso l‟appropriazione delle risorse ambientali del territorio (v. Mattei, 2011, pag. 18).
Tuttavia, sebbene i processi individuati da Levi Strauss non sono stati ad oggi governati e si è accentuato un processo di omologazione culturale spesso verso la povertà, in molte comunità sono nati movimenti culturali nei quali riemergono le specificità delle culture. Ad esempio è da citare la
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protesta dei Campesinos boliviani, oggi costretti a comperare i semi dalla multinazionale Monsanto poichè espropriati dalle loro terre, oppure la protesta dei Sem Terra in Brasile contro il latifondo, degli indios in Bolivia contro la svendita della loro acqua alla multinazionale Bechtel e del loro gas allo Stato della California, del popolo nigeriano contro le multinazionali del petrolio quelle dell'acqua a Cochabamba (v. Ricoveri, 2005). In alcuni casi, è successo che gli Stati fossero stati costretti a riscrivere le loro regole, e non per caso in Bolivia, dove il rapporto culturale con i doni della madre terra è più forte; dalle proteste è nato uno dei più avanzati modelli giuridici di elaborazione dei beni comuni. Si riscoprono così i valori culturali delle comunità nella salvaguardia di se stesse e dei beni che ritengono più essenziali al loro vivere comune per il benessere dei suoi partecipanti e per quelli futuri (v. Mattei, 2011).
Se la cultura occidentale attraverso i suoi strumenti è diventata predominante rispetto allo sfruttamento degli apporti differenziali di ciascuna cultura, è anche vero che la mancanza di tolleranza e di rispetto che ha rivelato verso le altrui culture ha generato conflitti e depauperato tradizioni e risorse. La forza della cultura occidentale, che grazie alla teoria economica così precisa e particolareggiata riesce a spiegare il posto dell'individuo nella società, tiene in minor conto il fatto che certi tipi di esigenze nascono dalla comunità e che probabilmente ogni comunità stabilisce un rapporto con i beni diverso, che non può essere valutato attraverso un riduzionismo teorico che stabilisce i beni privati da fornire attraverso il mercato e individua per riduzione quelli che devono andare a soddisfare gli interessi collettivi (impostazione società occidentale) (v. Douglas, 1994, pag. 46-47).
Società e culture differenti, all'interno del loro dibattito sulle norme e nel percorso che porta a una mediazione fra diverse posizioni, conducono
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a valutazioni diverse sulla natura di un bene. Si evidenzia come la teoria dei beni data dall‟economia attuale, che illustreremo in seguito, non è espressione di un risultato naturale ma di una scelta precisa della nostra cultura, anche perché non è stata naturale la diffusione dei nostri processi economici sul mondo intero, ma è dipesa dalla centralità che l'occidente ha fatto dell'uso della forza per diffondere la sua cultura.
Il rendersi conto di questi risultati ha portato nel tempo allo svilupparsi di un' analisi antropologica sull'impatto delle comunità su come trattare e considerare i beni, sviluppare anche nella società occidentale dei filoni di ricerca che provassero a spostare il dibattito economico su altri sistemi, oltre a quello dello Stato e del mercato.
Dal punto di vista dell'analisi antropologica di Steiner sulle comunità, ogni cosa può essere pubblica non aggrappandosi a qualche caratteristica intrinseca del bene stesso ma alla reazione del pubblico al bene. Per esempio tra molte popolazioni che vivono di caccia, le regole di caccia assicurano che la carne venga distribuita a tutto il villaggio. In questo caso il prodotto caccia che di per sé si prospetta come un bene privato, viene trattato come bene comune. E' così che in questo modello il ruolo dell'individuo è molto meno centrale, mentre diventa centrale il ruolo della comunità e il modo in cui formula le sue regole. (v. Douglas, 1994, pag. 28-29)
Tuttavia non ci sono società dove, attraverso il mercato, si regola qualsiasi forma di rapporto e altre dove tutto è determinato dalla comunità: il tema è quindi il grado di interferenza delle regole comuni. L'individuo razionale non è una creatura che si sviluppa nell'isolamento ma nella vita comunitaria, a seconda che la comunità interpreti l'azione collettiva più meno problematica, più o meno fragile tende a sviluppare un modello economico-sociale piuttosto che un altro, in secondo luogo gli
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individui usano il loro raziocino per vagliare i loro ordinamenti sociali: il risultato di questo dibattito porta a fissare la forma e le istituzioni della loro società.
E' attraverso il confronto fra individui che le istituzioni della comunità diventano patrimonio collettivo ed è da questi processi che si muovono gli assunti delle teorie sulla cultura, non può esistere una società umana svuotata dalla possibilità di decidere sulle sue norme, non si può aggiungere a certi tipi di istituzioni a certi altri, perché sarebbero indifendibili da qualsiasi principio comune. E' così che ogni scelta e azione collettiva deve essere discussa dalla comunità, Douglas propone due diverse modalità a cui si può così arrivare ad un azione collettiva. La prima presuppone presume che un dato gruppo si trovi a discutere per individuare delle categorie concettuali utili a definire e/o raggiungere un obiettivo attraverso la forma del dialogo controllato, identificato da Bruce Anckerman per descrivere il dibattito liberale, ma applicabile a qualsiasi forma di struttura politica. Il dibattito vincolato si basa su tre elementi: razionalità, coerenza e neutralità. La razionalità prevede che ogni rivendicazione sia sostenuta da precise ragioni. La coerenza salvaguardia l' integretità del dialogo richiesta dalla razionalità, infine la neutralità protegge il dibattito contro la possibilità che vi siano dichiarazioni di superiorità. La seconda modalità è quella proposta da Pierre Boridieu basata sul concetto di habitus che definisce il campo sociale dove gli individui competo per la legittimità. La lotta si svolge in larga misura nella forma di una contrapposizione di giudizi estetici e morali, risaltando la tipologia di contesa e le strategie per una possibile soluzione. Non riguarda né la forma della società ne il modo in cui la struttura sociale orienta il dibattito ma soltanto la descrizione dell'atto (v. Douglas, 1994, pag. 34).