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L'approccio di Coase

2.3 La critica ai modelli tradizional

2.3.1 L'approccio di Coase

Superata la fase di grande euforia post bellica e gli effetti benefici prodotti dal ruolo dello Stato in economia, sono cominciate ad emergere

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alcune delle problematiche inerenti la sopravvalutazione delle capacità statuali. Si ritiene infatti che chiunque agisca in nome dello Stato, lo fa secondo lo spirito del benessere della società. Non si teneva in giusta considerazione l‟influenza che molte lobbies avevano nei confronti dei decisori pubblici, credendo che l‟agire dello Stato avesse natura monolitica. Non si valutava che ai diversi livelli della macchina pubblica capitava spesso di prendere decisioni non sempre coerenti. Scelte diverse che non solo si sviluppavano nello spazio ma anche nel tempo, a causa del susseguirsi di gruppi politici più attenti alla scadenza elettorale, piuttosto che una visione di lungo periodo attenta alle esigenze delle generazioni future (v. Tanzi e Shucknecht, 2007, pag. 19).

Fu così che alla fine degli anni sessanta cominciò ad emergere un generale scetticismo sulla capacità dello Stato di intervenire in economia e si rilevarono le difficoltà dei modelli teorici sottostanti alle politiche di ridistribuzione del reddito, di allocazione delle risorse e di stabilizzazione, cominciando a mettere in dubbio l‟utilità delle tecniche di programmazione economica e di bilancio. In questo contesto cominciarono a riaffermarsi le idee dell‟economia classica, attraverso la letteratura sulla “pubblic choice”, e avanzarono le tesi della nuova economia istituzionale, risvegliando il dibattito sulla necessità di imporre nuovi vincoli alle politiche fiscali, proponendo limiti alla quantità di deficit di bilancio e all‟esposizione debitoria dello Stato (v. Tanzi e Shucknecht, 2007, pag. 20).

Nel medesimo periodo in cui il dibattito intorno alle funzioni dello Stato stava apportando a una forte spinta al cambiamento, a livello politico salirono al potere Margaret Thatcher, Primo Ministro del Regno Unito, e Ronald Reagan, Presidente degli Stati Uniti, due forti e chiari oppositori all‟idea di uno Stato “grande”. Dalle rispettive potenti

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posizioni, essi portarono avanti un deciso attacco al sistema pubblico, provando e riuscendo a diminuire il ruolo dello Stato in economia. Nel corso degli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, sempre più numerosi gruppi sociali e politici cominciarono ad attaccare tutto ciò che consideravano un‟eccessiva spesa governativa o un dispendioso welfare

state, e molte riforme vennero promesse e avviate dallo Stato.

Le idee politiche di questi statisti affermavano la necessità di ridurre la spesa pubblica perchè tendenzialmente “improduttiva”. In questa visione, la spesa pubblica potrebbe, nella maggior parte dei casi, essere sostituita dalla spesa privata. La conclusione a cui arriva questa visione è che la spesa pubblica finisce per spiazzare la spesa privata dello stesso ammontare. Questo spiazzamento si concretizza nell‟aumento dei prezzi e presuppone una curva di offerta aggregata rigida al livello di produzione di pieno impiego. In questa visione, quindi, se il pieno impiego non si realizza, la colpa è della spesa pubblica e dei salari troppo alti (v. Hermann, 2011, pag 2-3).

Allo stesso modo le teorie neoliberiste promosse in quegli anni, nel corso del tempo hanno presentato svariate criticità. La realtà che i liberisti negano è che nel sistema capitalistico i fattori di produzione tendono ad essere sottoimpiegati, non per colpa della spesa pubblica e degli elevati costi dei fattori di produzione, ma per una cronica mancanza di domanda aggregata. Fatto sta che la teoria liberista ha spinto affinchè lo Stato fosse meno presente in economia, lasciando spazio alle imprese in termini di produzione e richiedendo meno vincoli sociali per diminuire i costi e aumentare i profitti a vantaggio della crescita (v. Hermann, 2011, pag 2-3).

Anche diminuendo l‟intervento pubblico nell‟economia, non si risolve affatto il problema dei sistemi di produzione. Avere dei salari inferiori ed eventualmente un ambiente più degradato non serve certamente ad

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aumentare la domanda aggregata. Il risultato è che dell‟intervento pubblico, in quanto finanziatore del sistema produttivo, non si è potuto fare a meno: gli Stati hanno finito per incrementare notevolmente il debito pubblico per compensare i costi sociali prodotti dalle imprese. L‟intervento pubblico è andato a crescere, ma non per una sua presunta inefficienza, che comunque esiste, ma soprattutto per mantenere in equilibrio il sistema capitalistico. Tutto questo a prescindere dal sistema internazionale degli scambi perché le esportazioni risultano comunque a somma zero, e se anche un paese ha beneficiato di questo sistema liberista, spesso, l‟ha fatto a scapito di un altro Stato, tanto che si sono determinati gli enormi squilibri a livello planetario. Il sistema ha finito per creare una socializzazione forzata dei costi, come scrive F. Hirsch nei “Limiti sociali

allo sviluppo”. A causa di questo indirizzo, anche i servizi tipici che lo Stato

fornisce, perché hanno un ruolo fondamentale nella formazione del capitale umano, sociale e nello sviluppo economico, (sanità, istruzione, sicurezza, infrastrutture) hanno finito per piegarsi agli interessi economici dei privati, se non addirittura delle caste politiche (v. Hermann, 2011, pag 4-5).

Per queste ragioni è riduttivo pensare alla crisi attuale solo come una crisi finanziaria, dovuta alla spregiudicatezza di alcuni soggetti speculatori. La realtà è più complessa e dipende da una debolezza strutturale del quadro normativo, istituzionale ed economico, in cui queste operazioni si svolgono. In questo senso, questa crisi è da ricercare nella scarsa propensione del sistema economico e sociale nel riconoscere alcune contraddizioni, come quelle per cui se da un lato si incentivano politiche di credito per far spendere di più lavoratori e investitori, dall‟altro si riducono le tutele e le garanzie dei lavoratori per abbassare i prezzi a cui gli stessi devono comprare le merci. Queste contraddizioni si innescano

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con quelli che poi sono i problemi di povertà, sviluppo e degrado ambientale.

A queste contraddizioni, in troppi hanno trovato come unica soluzione il ridurre ancora i costi sociali, fino al punto di creare una forte dicotomia tra l‟idea per cui il mercato è il luogo della produzione della ricchezza, mentre lo Stato rappresenta un soggetto materno e per questo improduttivo. Questa polarizzazione finisce per non tener conto della necessità dell‟intervento pubblico efficiente, in quanto volano per l‟iniziativa del singolo sia in ambito pubblico che privato (v. Hermann, 2011, pag 6-7).

A superare questa dicotomia ha provato Ronal H. Coase, fondatore negli anni ‟30 dell‟approccio neoistituzionalista, interrogandosi sulle ragioni di un intervento normativo dello Stato e criticando il modello di politica economica di Pigou. Coase identifica nella tradizione piguviana l‟idea per cui, quando le condizioni per l‟operare efficiente di un sistema decentrato vengono meno, la migliore soluzione sia l‟intervento pubblico. Da questa tradizione, l‟economista trae una forte insoddisfazione poichè secondo lui l‟intervento pubblico prescinde dalla capacità dei soggetti sociali di interagire per coordinare in qualche modo le loro azioni, affidando le relazioni economiche ad un gestore estraneo al contesto in cui si viene a creare la transazione economica. Del resto, nel criticare l‟intervento pubblico, Coase si distanziava anche dall‟economia classica di Smith, per la quale l‟efficienza allocativa dipendeva esclusivamente dallo spirito economico del singolo, non considerando la capacità dei soggetti di coordinare le proprie scelte, ma limitandosi all‟idea della capacità del mercato di autoregolarsi grazie al sistema dei prezzi. Invocare un soggetto esterno in grado di eterodeterminarle, significa rinunciare a interrogarsi

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sul motivo stesso per cui, quando un risultato collettivamente inefficiente si realizza, i soggetti non siano in grado di evitarlo.

Ronal H. Coase rivolge complessivamente i suoi favori proprio nella direzione di un sistema decentrato, e per avvalorare questo approccio sin dal 1937 con il suo lavoro “La natura dell’impresa” introduce l‟ipotesi che, se tutte le transazioni fossero a costo zero, allora in quel caso ogni relazione sociale avrebbe la natura di una relazione di mercato e non sarebbe necessario avere né organizzazioni, né autorità. E‟ di tutta evidenza che la possibilità di non assistere alla creazione di costi di transazione è pressoché impossibile, per questo si sviluppano istituzioni gerarchizzate atte a minimizzare tali costi, quali le imprese.

Nel 1960, riproponendo la condizione di assenza di costi di transazione nel saggio, “Il problema del costo sociale”, sostiene che se i soggetti sociali avessero capacità illimitata di coordinare le loro azioni, allora qualsiasi effetto esterno associato all‟azione verrebbe completamente internalizzato da un‟opportuna relazione contrattuale tra tutti coloro il cui benessere è influenzato da quella azione e questo indipendentemente da quale soggetto abbia diritto a compiere tale azione (v. Coase, 1995, pag. 17).

La realizzazione di queste condizioni è complessa: i contratti formati al fine di minimizzare i costi sociali tendono a internalizzare il costo esterno generato della transazione, finché questo è maggiore del costo dell‟organizzazione del sistema contrattuale di gestione della risorsa. I costi di gestione contrattuale, del resto, crescono costantemente all‟aumentare dei partecipanti all‟azione. E‟ difficile, perciò, trovare un bisogno umano socialmente rilevante che possa essere soddisfatto gratuitamente e nessuna organizzazione della convivenza umana, il cui scopo sia quello di minimizzare il costo sociale, è a sua volta gratuita: non è così gratuito il sistema di mercato come non lo può essere uno Stato. E‟

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difficile che si possa evitare di avere costi di transazione tali da poter avere un‟allocazione efficiente delle risorse. Del resto è molto semplice incorrere in circostanze dove emergono i limiti alla capacità di coordinamento e conseguenti costi. Generalmente si tratta di quattro tipologie:

 La prima riguarda la disponibilità di informazione privata. Capita che i contraenti pur potendo descrivere le possibili situazioni che si possono creare e le azioni che vi conducono, possono non conoscere tutti la realizzazione di quella situazione o azione;

 In secondo luogo può succedere che alcune persone non siano in grado di descrive ex ante e in maniera esauriente le situazioni possibili;

 Come terza causa, la possibilità che la realizzazione di una determinata situazione e le necessarie azioni non vengano valutate correttamente dai terzi e che questi decidano di sanzionare l‟operato;

 Infine le difficoltà intrinseche al processo di contrattazione.

Queste dinamiche conducono alla creazione di contratti incompleti, in cui avviene sovente che qualche soggetto sia in una posizione dominante su almeno una parte dell‟insieme della scelta dell‟altro. Questo risultato porta ad un fallimento del mercato e all‟esigenza della formazione di organizzazioni e autorità. La compresenza del mercato e delle organizzazioni diventa la formula necessaria per ottenere un‟allocazione ottima della scelta dei soggetti interagenti (v. Coase, 1995, pag. 23-24).

Quello che va evidenziato, al di là di questi limiti, è l‟introduzione da parte di Coase di un nuovo approccio metodologico: il rifiuto di una presunzione di intervento da parte di un soggetto statuale o esterno, prima di aver indagato la possibilità di internalizzare l‟esternalità

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attraverso una transazione tra soggetti sociali coinvolti, e quindi disegnare la forma di intervento a partire dalla specifica natura dei costi di transizione che si manifestano in ciascuna fattispecie, cercando in questo processo di creare istituzioni.

La logica del ragionamento di Coase è che, ponendo come obiettivo per la società di minimizzare i costi di transazione, si potrebbe riuscire a costruire un mercato il cui scopo sarebbe quello di internalizzare in maniera efficiente le esternalità imprescindibili all‟agire sociale. Riusciremo ad avere un mercato totalmente compiuto nel quale sarebbero esplicitati chiaramente diritti e doveri di tutti coloro che vi concludono transazioni. Così il mercato, nella sua forma più concreta, realizza un complesso sistema giuridico, che prevede un mix fra aspetti giuridici dello Stato e in misura maggiore di elementi giuridici di normativa privata tra soggetti che organizzano il mercato.

La soluzione proposta da Coase esalta lo spazio di negoziazione fra portatori di interessi, ad esempio l‟utilizzo di un giacimento di petrolio. Questo sarebbe sovrautilizzato se si determinasse un continuo aumento di trivellazioni e un aumento dei pozzi. In questo caso saremmo in presenza di un beneficio marginale decrescente; una soluzione ottima sarrebbe se tutto il giacimento fosse posseduto da un unico soggetto che ne regoli l‟utilizzo. Diversamente è possibile per più soggetti diversi, aventi il diritto di trivellazione, di mettersi d‟accordo, unificando la produzione e regolare il numero di pozzi da costruire, per rendere più efficiente lo sfruttamento del giacimento. L‟accordo prevederebbe la possibilità attraverso pagamenti e scambi di massimizzare il beneficio di tutti i petrolieri. Questo processo è stato assunto dalla teoria economica come il teorema di Coase (v. Stiglitz, 2003, pag 224)

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3. NUOVI

APPROCCI

PER

LA

GESTIONE

DEI

BENI

COMUNI

Fino ad ora abbiamo fatto una panoramica delle soluzioni che l‟economia ha proposto per superare le difficoltà di determinarne un‟allocazione efficiente sul mercato.

La risposta proveniente dai vari modelli teorici, ci ha proposto meccanismi tendenzialmente semplificati, in grado di spostare i beni e le risorse comuni in ambiti di gestione a prevalenza pubblica piuttosto che privata. L‟approccio matematico a sostegno di questi modelli teorici hanno dimostrato i loro limiti nel descrivere quella realtà composita, rappresentata dalle società umane in cui gli individui non sono perfettamente razionali, né le condizioni di scegliere delle proprie azioni avvengono con un livello di informazione perfetta e completa.

Di fatto oggi emergono anche i limiti del tentativo di Olson di costruire una teoria generale dell‟azione collettiva, fondata su premesse minimaliste. Contrariamente alle sue previsioni, molti lavori scientifici hanno dimostrato che in contesti di azione collettiva, gli individui possono adottare atteggiamenti non auto-interessati e individualisti, ma orientati alla reciprocità e alla cooperazione.

Del resto, anche l‟evoluzione storica delle scienze giuridiche ci dimostra che l‟approccio delle varie culture e società alla regolazione di questi beni quasi mai si è delineato con una struttura binaria fondata sullo Stato e sul mercato, anzi, nel tempo più società hanno proposto soluzioni ibride. Allo stesso tempo, partendo anche dall‟analisi che le scienze delle finanze hanno delle caratteristiche oggettive dei singoli beni, è necessario formulare una definizione il più esaustiva possibile del concetto di beni

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comuni, per poter elaborare soluzioni gestionali più consone ad un‟allocazione efficiente delle risorse. E‟, infatti, dalle caratteristiche dei vari beni che si riscontrano le difficoltà già emerse nei modelli prima descritti, in considerazione dei problemi nel prevedere i comportamenti umani. E sarà Ostrom nei suoi studi a rilevare che nei vari modelli fin qui proposti la grande assente è la società civile e la comunità, realtà che non possiamo definire né Stato, né mercato. Ostrom cerca, così, di confutare nel suo “Governing the common”, l'efficacia di queste teorie come mezzo di risoluzione dei problemi di appropriazione e sovrautilizzazione dei beni comuni (v. Hess - Ostrom, 2007, pag. 11).

Ostrom evidenzia che solo attraverso lo studio della complessità del rapporto fra le persone, i beni comuni e le azioni collettive si potrà elaborare un sistema di regole e istituzioni, ma anche capire come alcuni comportamenti teorici, attribuiti agli individui, basati soltanto sull‟analisi costi benefici porti ad un errore di analisi sulla reale capacità delle persone di cooperare. La realtà, invece, ci racconta di un umanità che sceglie attraverso anche giudizi morali, psicologici e sociologici; vedremo in questo capitolo come questi elementi ci raccontino una storia diversa delle relazioni economiche a partire da qualche esempio di buone pratiche per la gestione collettiva di beni e risorse comuni

In questi ultimi anni si è sempre di più sviluppato un filone di ricerca che ha provato a formalizzare una lettura teorica per il funzionamento delle istituzioni in grado di gestire i beni comuni.

Vedremo in questo capitolo come Elinor Ostrom, premio Nobel per l‟economia nel 2009, ha elaborato uno strumento, l‟ Institutional Analysis and Development, utile per identificare gli elementi e le relazioni fra vari modelli istituzionali e per analizzare le varie forme di azione collettiva relative alla gestione di uno o più beni comuni. Uno strumento in grado di

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fornire attraverso il suo utilizzo un‟interpretazione delle istituzioni per ambiti territoriali con specificità, dimensione e caratteristiche diverse. Oltre a questo, lo studio della Ostrom ha osservato vari ambiti di sviluppo delle istituzioni e prova a formalizzare un insieme di regole utili per il loro buon governo, grazie alle quali possa esserne garantita la continuità nonostante la fluttuazione di alcune loro componenti o dell‟ambiente esterno.

Sarà poi da tener conto come, insieme alle ricerche sulle regole per far funzionare le istituzioni, vi sia la necessità di valutare una struttura di governo ottimale perché queste istituzioni funzioni no efficacemente. In questo ambito ricorderemo il lavoro prodotto da Oliver Williamson, anche lui insignito del Nobel nel 2009, sul tema del governo e dei confini dell‟impresa. L‟autore, partendo dall‟analisi di Coase su costi di transazione, studia i fattori per cui all‟incompletezza contrattuale e alla necessità di investimenti specifici vi è una spinta che porta all‟integrazione fra le imprese e quindi alla formazione di agglomerati più ampi. Nella sua analisi emerge come i beni e le risorse comuni soffrano fortemente di questi due problemi e, perciò, come sia fondamentale per la loro efficace gestione trovare il giusto equilibrio fra la scelta di centralizzare i processi decisionali, utilizzando forme di gestione gerarchica, oppure lasciarli agli accordi volontari fra individui. (v. Borghini, Morroni, cons. 2012, web- paper)