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CAPITOLO SECONDO La storia delle affissioni. Borsalino, Dudovich, 1930, Collezione Salce

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Academic year: 2022

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Borsalino, Dudovich, 1930, Collezione Salce

E questa inquietudine è il terreno fertile in cui vengono gettati i semi di nuovi consumi legati all'immagine: cosmetici, abiti continuamente alla moda, parruc- chieri. Pian piano gli individui perdono la loro identità, come nel manifesto di Dudovich, per divenire una sorta di "mannequin". Anche il volto, grazie al truc- co, perde le proprie particolarità e viene "ridisegnato" secondo i canoni e i mo- delli trasmessi dai manifesti.

Ma la standardizzazione dell'individuo non si ferma all'aspetto fisico e al modo di vestire; riguarda invece tutti i consumi, dalle vacanze al tempo libero, dalla radio all'automobile. Ed è proprio quest'ultima che nel dopoguerra inizia a dif- fondersi rapidamente comportando un sensibile mutamento nelle abitudini e nella geografia. L'importazione delle tecniche di produzione in scala dall'Ame-

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rica consente infatti di ridurre i prezzi delle automobili e di renderle accessibili ad un numero sempre maggiore di persone. Contemporaneamente il fatto di possedere l'automobile origina negli individui il bisogno di lasciare il centro della città, caotico e fumoso, per stabilirsi in periferia. Così, ora che le distanze sono diventate un limite facilmente superabile, inizia a svilupparsi la dimensio- ne periferica della città e si costruiscono strade idonee a sostenere il traffico pendolare. E proprio la realizzazione di una ragnatela sempre più fitta di strade tende ad influire sulla geografia delle diverse nazioni: nascono nuovi centri a- bitati, si intensificano gli scambi, inizia un lento processo di globalizzazione che attraverso i decenni arriverà fino ai giorni nostri.

Ma l'automobile non è il solo mezzo di trasporto a conoscere una sensibile dif- fusione. Trapiantata dagli sviluppi ottenuti in campo militare, nasce infatti l'a- viazione civile. L'aereo è l'altro grande mezzo di trasporto che consente di ri- durre le distanze e che spinge le persone ad adottare una visione globale del mondo. In questi anni, comunque, lo sviluppo e la produzione degli aerei resta ancora molto legata all'industria militare, anche perché i segni di un'imminente conflitto si fanno sempre più evidenti, sicché l'aviazione civile è ad appannag- gio di solo pochi facoltosi; ben più diffuso è invece l'uso dei «postali» che con- sentono di ridurre sensibilmente i tempi della corrispondenza. Ma la vera inco- ronazione dell'aereo, purtroppo, non arriverà che con i bombardamenti a Guer- nica nel 1937.

Ala Littoria, 1935, Collezione Salce

Il dopoguerra è però anche il periodo di espansione del mondo di celluloide del

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cinema. Le sale cinematografiche contribuiscono alla uni- formazione degli individui proponendo i modelli degli at- tori americani: Clark Gable, Gary Cooper, Marlene Die- trich, Greta Garbo. Danno voce ai sogni e alle illusioni de- gli individui materializzando quel mondo immaginario che prima si presentava solo ammiccante ai manifesti.

Ma il cinema si fa anche voce delle tensioni e delle ango- sce emergenti. Due opere, in particolare, sembrano antici- pare quanto da lì a poco sconvolgerà la vita della società civile: si tratta di Das Cabinet des Dr. Caligari («Il gabi- netto del Dottor Caligari») di Robert Wiene e Metropolis di Fritz Lang. Già dalle locandine dei due film, ben diverse e per certi versi più inquietanti di quelle dei film prove- nienti da oltreoceano, si può intuire l'atmosfera claustrofo- bica e paranoica che domina i due film e che, pochi anni più tardi dominerà buona parte dell'Europa.

Mentre il mondo dei consumi e dei divertimenti addor- menta gli animi e la scena politica è dominata dalla con- trapposizione tra socialdemocratici e comunisti, in Germa- nia e in Italia vanno affermandosi il movimento nazista e quello fascista. Cultori di una politica di immagine senza precedenti, i due movimenti hanno gioco facile a nel gua- dagnare sempre maggiori consensi e ad affrancarsi una

Das Cabinet des Dr C a l i g a r i , 1 9 2 0 , Collezione privata

Metropolis, 1926, New York, Museum of Mod- ern Art

Manifesti pubblicitari dei servizi aerei passe- gferi e postali,1935- 1936

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Manifesti di propaganda, 1930-1937

fetta via via più ampia di potere. In questo gioco propagan- distico proprio i manifesti hanno un ruolo fondamentale a sostegno dell'immagine forte e seducente dei due movi- menti.

Di contro i tentativi di contrapposizione messi in campo dalle forze di sinistra sono troppo deboli e distaccati dai sentimenti delle persone. Alla «Cruzada» spagnola si op- pone l'immagine di uno dei tanti bambini morti nei bom- bardamenti a Guernica e Barcellona; all'immagine virile del soldato tedesco si oppone quella ancora più perversamente seducente (almeno per gli uomini) di una donna in lacrime che lucida gli stivali ad un ufficiale nel tentativo di suscita- re una reazione da parte dell'elettorato femminile.

Ma la contrapposizione, come si è detto, risulta eccess i- vamente debole, perché in Europa il comunismo di matrice sovietica è visto come una minaccia per i tanti borghesi ca- pitalisti e anche perché socialdemocratici e comunisti sono

Manifesti di propa- ganda nazi-fascista, 1932-1934

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troppo impegnati a combattersi fra loro per individuare u- na strategia comune contro il comune nemico emergente, così come testimonia il manifesto della CGTU., il movi- mento operaio francese di matrice comunista, in cui si può vedere il capo del sindacato rivale, la CGT., mentre brandisce un pugnale contro il lavoratore che cerca la propria affrancazione.

La situazione è poi complicata dalla crisi economica che dal 1929 si è propagata dall'America all'Europa. Mentre infatti fascismo e nazismo cavalcano l'insoddisfazione diffusasi con la crisi, promettendo un nuova dorata epoca coloniale, le opposizioni puntano su di uno sterile tentati- vo di demonizzazione del nazismo senza però fornire ri- sposte concrete a quanti vedono minacciata la loro so- pravvivenza. Il tutto è poi complicato dalla presenza dei sindacati che, non accettando alcun compromesso che possa danneggiare la posizione raggiunta dai lavoratori, fanno sì che sia impossibile attivare le misure che aveva- no permesso all'America di uscire dalla crisi.

E così sia il nazismo che il fascismo sembrano avere la strada spianata per una completa affermazione. A partire dagli anni Trenta sia Hitler che Mussolini vengono rap- presentati come comandanti, come coloro che si assumo- no il gravoso compito di guidare il paese verso una rina- scita; alla popolazione non resta che dire «Ja», «Sì». È questo il punto di forza della comunicazione nazi-fascista degli anni Trenta: l'esaltazione di un solo uomo alla guida della nazione, l'inquadramento degli individui per mazzo della scuola, delle associazioni sportive, dell'accademia militare; la spersonalizzazione dell'individuo e la promo- zione della cieca obbedienza; la contrapposizione del nuovo, del giovane, a quel vecchio che ha portato la na-

1er Mai!, 1936, Parigi, bibliothèque Nationale

Kämpft für die Sovjet- union, 1930, Stoccarda, Staatsgalerie

Adolf der Übermensh, 1932, Collezione priva- ta

Dein Ja dem Fürer, 1938, Collezione Salce

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zione alla crisi sociale ed economica. Si esaltano quindi la giovinezza atletica, le parate militari, le uniformi ed i canti:

è una propaganda a trecentosessanta gradi che impiega tutti i mezzi allora disponibili.

Con i bombardamenti in Spagna del 1937 inizia la guerra vera e propria. Una guerra diversa da quella precedente poiché i progressi nelle armi e nei mezzi militari fanno sì che non si possa più parlare di «fronte»: gli aerei hanno raggiunto un raggio d'azione di oltre duemila chilometri, e ciò significa che ogni città può essere attaccata e bombar- data. Siamo di fronte alla guerra totale. E così com'è cam- biata la guerra, cambia anche la comunicazione. Le imma- gini delle città bombardate non fanno più parte dei manife- sti antipropagandistici; visto che la guerra arriva a bussare ad ogni porta l'immagine di Londra in fiamme non è più or- rore, ma segno di superiorità bellica e allo stesso tempo minaccia di quanto potrebbe accadere se non si possiede la determinazione e la forza per realizzare una tale impresa.

E assieme alle immagini cambiano anche i miti della guer- ra. Dato il largo uso che viene fatto di mezzi meccanici, dagli aerei ai mezzi cingolati, l'eroe non può più essere l'a- viatore o il sommergibilista: l'opinione pubblica si è ormai abituata a questi personaggi svuotandoli della loro valenza epica e cavalleresca. Tornano allora in voga le immagini di coloro che affrontano la battaglia a "petto nudo": i fanti, i paracadutisti e, soprattutto, i partigiani. Spetta a loro, in questa nuova guerra, il compito di farsi portatori dei valori del coraggio e della virilità: sono eroi che si lanciano tra le fila nemiche con solo un fucile mitragliatore, oppure donne che si inerpicano tra le aspre montagne della Grecia per ri- fornire di munizioni i propri compagni impegnati a tenere il nemico lontano dalla patria.

Reichssporttag, 1939, Collezione Salce

Manifesti di guerra, 1940-1942

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Ma così com'era avvenuto nel conflitto precedente, la guer- ra non chiede solo uomini e vite, ma anche e soprattutto manodopera, denaro e materiali come il ferro o, addirittura, ossa. Capita allora di vedere comparire manifesti che chie- dono alle donne di lavorare perché «Victory is in your hands!», oppure altri che offrono sapone o liscivia in cam- bio di ossa.

La Germania, in particolare, visto l'ingente schieramento di uomini impiegato sui diversi scenari di battaglia, si trova costretta ad arruolare lavoratori nei paesi alleati come l'Italia, ed in quelli occupati come la Francia. Ma proprio con le immagini del soldato tedesco amico che tende la mano, nelle frasi «La grande Germania vi proteggerà» e nell'ufficiale che dà da mangiare ai bambini affamati il nazismo imprime un andamento fortemente discendente al proprio consenso nei paesi alleati. L'immagine razzista e superba della Germania offende le popolazioni dei paesi schierati dalla sua parte ed alimenta quel bacino di resistenza che si fa via via più ampio.

Ma non è solo il calo del consenso a determinare la diffusione dei movimenti partigiani. Lo sbarco degli Americani in Normandia accende nuove speranze e piega gli indecisi: il ricordo che in Europa si ha degli Stati Uniti è quello di un paese ricco, moderno e onnipotente. La sua scesa in campo contro la Germania è quindi per molti il prologo della disfatta del nazismo. A ciò va poi aggiunto che proprio la campagna di reclutamento di lavoratori nei paesi obbligatori, divenuto ben presto coercitivo, ha costretto molti a rifugiarsi sulle montagne divenendo disertori e ad abbracciare la causa della resistenza. Questi fattori, assieme all'accordo tra Inghilterra e Russia e alle trasmissioni di Radio Londra e Radio Mosca, sono

Le eroine del 1940, B r u x e l l e s , M u s é e Royale de l’Armée et d’Histoire Militaire

Back Them up!, 1942- 1943, Milano, Museo del Risorgimento

Victory is in your Hands!, 1943, Milano, Museo del Risorgi- mento

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Manifesti di guerra, 1940-1944

all'origine di un'intensa campagna propagandistica in favore della resistenza e delle alleanze tra gli stati.

«Insieme» per combattere il nemico tedesco, è questa la parola d'ordine che corre tra il 1944 e il 1945.

A questa dura opposizione la Germania, sempre più sola e stremata da battaglie come quella in Russia, tenta di rispondere attraverso la demonizzazione degli avversari e, in particolare, dei sovietici e degli americani. Per riaccendere la paura e la diffidenza nelle popolazioni una volta alleate, si mostra un grasso ebreo nascosto dietro le bandiere delle due superpotenze, oppure uno scimmiesco afroamericano che svende beffardo per due dollari la Venere di Milo. Si vuole alimentare l'idea di un mercimonio tra le grandi potenze dei territori europei, delle loro ricchezze e delle loro popolazioni. Il nazismo cerca di riciclarsi come difensore dei valori della società europea.

Sono però i continui e ripetuti massacri come quello di Praga a vanificare lo sforzo propagandistico contro l'America e la Russia. I linciaggi di migliaia di persone a risarcimento dell'assassinio di qualche ufficiale tedesco trasmettono perfettamente l'arroganza e l'egocentrismo di un esercito che continua a considerare le altre popolazioni inferiori, tanto che si ritiene legittimato a uccidere migliaia di innocenti in risposta all'assassinio di uno dei suoi

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graduati.

Ma ormai la strada è tracciata e nel 1945 il nemico tedesco è strangolato dalle mani dei suoi nemici. Da lì a poco, all'ombra dei due funghi atomici, anche il Giappone si vede costretto a deporre le armi: è la fine della guerra... ma non l'inizio della pace!

La fine della Guerra nei manifesti, 1945

Troppe cose sono cambiate con questo conflitto. La nascita delle due superpotenze contrapposte, USA e Russia, e la rivelata potenza distruttiva delle armi atomiche dà il via ad un periodo di tensione continua che non consente un completo abbandono e rilassamento: è la Guerra Fredda. Già con la ricostruzione i due paesi si sono spartiti i territori europei creando gli opposti schieramenti della NATO e dell'URSS. Ma al di là delle tensioni politiche la vita nelle città riprende i suoi ritmi e, una volta terminata la ricostruzione, si avvia ad un periodo di prosperità consumistica.

Manifesti di propaganda antiamericana, 1943

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2.6. 1950-1970

Dopo i massacri e gli stravolgimenti degli anni di guerra, sembra che il mondo possa finalmente tornare alla pace. Ci si accorge però ben presto che si tratta solo di un'utopia: durante il conflitto si sono infatti verificati eventi importanti, come i bombardamenti di Nagasaki e Hiroshima, che non consentono uno spen- sierato ritorno alla realtà quotidiana.

Per anni si era confidato nel progresso per migliorare la vita della società ma poi, proprio con la guerra, si è scoperto che un uso distorto dello stesso progres- so porta con sé l'ombra della morte. Così proprio il fungo nucleare, simbolo del- l'apice della ricerca scientifica, incorona un mondo dominato dal ghigno beffar- do della Morte. La paura nei confronti del progresso è un tema già visto nel se- colo precedente, ma mentre prima si trattava solo di una forma di diffidenza di fronte all'ignoto, ora è timore di una minaccia reale e concreta, di cui già il po- polo nipponico ha pagato lo scotto.

La paura degli effetti nocivi del progresso nei manifesti degli anni Sessanta

Ma la pace, reale o fittizia che sia, è comunque un buon terreno per lo sviluppo della civiltà del consumo: una civiltà che tende a rifiutare la paura latente che tormenta la società e che con i propri colori e con le proprie immagini seducenti cerca di dirottare l'attenzione dai neri e tetri manifesti allarmistici. Vengono allo- ra buttate le basi per quel consumismo estremo che nel futuro contraddistinguerà le popolazioni della parte ricca del mondo.

I primi oggetti di culto a invadere le città sono la televisione, la radio e gli elet- trodomestici. Sono infatti questi i mezzi che compongono l'«avanguardia tec-

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nologica» incaricata di spiazzare la diffidenza nel progresso e di spianare la strada all'espansione dei consumi. La radio e la televisione consentono infatti u- na maggiore penetrazione dei messaggi pubblicitari, mentre gli elettrodomestici, prolungando i tempi di conservazione del cibo, come nel caso del frigorifero, e liberando in generale la donna da tutta una serie di mansioni domestiche, con- sentono un'espansione sia dei consumi alimentari, sia di quelli rivolti alla cura dell'immagine femminile. La casalinga non è più un grigio personaggio nascosto tra le mura domestiche, ma bensì una figura allegra e solare, con un sorriso da pin-up, che ha conquistato le strade e l'immaginario collettivo. E sicuramente nello sforzo di comprendere questa nuova visione non mancheranno di tornarci alla memoria le casalinghe cotonate e perfettamente truccate impersonate da Do- ris Day nei tanti film sulla american way of life.

E quando l'oggetto non è sufficiente a catturare l'attenzione del lettore, si fa allo- ra ricorso all'erotismo: non si tratta più, però, della rappresentazione del corpo umano di stampo «classico», riferita cioè ai nudi delle sculture greche, ma bensì di un erotismo allusivo e ammiccante. La fotografia permette di ritrarre la vera nudità del corpo uscendo, per certi versi, da quella che era la dimensione onirica e immaginaria del messaggio pubblicitario. E anche quando si rinuncia al reali- smo fotografico, le immagini conturbanti delle pin-up rivelano forme e pose che hanno ben poco a che spartire con i manifesti del XIX secolo.

Ma a dominare sono soprattutto gli oggetti e, in particolare, il mito dell'automo- bile. Sfumati gli entusiasmi dell'anteguerra, però, ora il mezzo inizia ad affianca- re all'immagine di libertà e potenza anche connotazioni negative come l'indivi- dualismo e la morte. Sono infatti in molti in questi anni ad evidenziare l'effetto alienante della diffusione dell'automobile: chiusi in tante scatole come alici gli individui restano bloccati nel traffico, fianco a fianco, senza aver modo di socia- lizzare. E assieme al numero dei veicoli in circolazioni si moltiplica anche quello degli incidenti mortali. Alle stragi dei fine settimana sulle direttrici per le località di svago e di soggiorno turistico, si aggiungono quelle che in città vedo- no gli ignari pedoni travolti dalla frenetica ricerca dell'alta velocità. Ed ecco tor- nare la Morte che stende la sua mano anche sul dorato mondo dei consumi. Si cerca allora di sensibilizzare l'opinione pubblica con campagne contro l'alta ve- locità e la guida spericolata, ma i messaggi pubblicitari risultano spesso poco ef-

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ficaci perché non sembrano comprendere le motivazioni che sottostanno a que- sta violenza selvaggia che serpeggia lungo le strade. L'automobile è potenza e forza virile e correre a tutta velocità, superare le auto incolonnate costringere i passanti a scansarsi sono le manifestazioni di questo

straordinario potere. È dunque intuitivo che una ri- sposta a questo impulso selvaggio, che è arcaico, con manifesti che presentano un bambino che scappa spaventato da un a ruota che lo insegue minacciosa, possa sortire un effetto contrario a quello desiderato:

la paura del bambino, del passante, è un riconosci- mento al potere fornito dall'automobile ancora più che un monito all'autista spericolato.

Ma benché il proliferare degli oggetti e l'espansione dei consumi inducano un processo di conformazione negli individui, gli anni Sessanta passeranno alla sto- ria soprattutto per i movimenti giovanili di protesta. E all'origine delle proteste e delle pulsioni rivoluzionarie c'è proprio il rifiuto di una società che sempre più adombra l'individuo in favore dell'oggetto.

Le prime avvisaglie di quanto accadrà poi nel '68 si hanno con la presa di coscienza delle prime conseguenze del progresso e dell'urbanizzazione. Il tema della morte, tanto usato in questi anni, si ripete nelle immagini che accusano l'inquinamento dei mari, delle falde acquifere, dell'aria e dei cibi. La civiltà motorizzata del XX secolo dipende da quello stesso petrolio che uccide gli uccelli marini; l'industrializzazione e l'agricoltura intensiva disperdono sostanze che contaminano l'acqua e l'aria rendendole mortali per l'uomo; l'alienazione sociale porta la diffusione delle droghe. Aumentano di conseguenza i consumi di viaggi, visti come fuga dalle città alla ricerca di un ritorno alla natura incontaminata e si diffondono le prime campagne di comunicazione sociale contro il fumo e contro l'uso delle droghe.

C'è poi chi denuncia la disparità tra le società industrializzate e quelle che, al contrario, soffrono per la fame e per epidemie, ma sono denunce deboli e sotto- messe perché non vi è una vera volontà di perequazione sociale. I tempi non so- no ancora maturi per le grandi campagne di solidarietà, e così i pochi manifesti che denunciano le ingiustizie del mondo si perdono circondati dai mille e mille

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che presentano quei prodotti e quella way of life che ha eletto il consumo a pro- pria guida.

Ma le generazioni giovani non accettano questo compromesso che si limita a ri- conoscere che c'è chi muore di fame ma che poi, in realtà, distoglie l'attenzione quando è ora di impegnarsi concretamente. Queste generazioni, infatti, non han- no avuto modo di conoscere la realtà dura dei tempi di guerra, fatta di rinunce e sacrifici, sicché non riconoscono agli oggetti quella valenza di conquista e di ricchezza che invece assumono per la maggioranza della comunità. La loro at- tenzione viene allora catturata dai lati oscuri della prosperità: l'inquinamento, la distruzione dell'ambiente, la disparità fra Occidente industrializzato e Terzo Mondo. La loro visione è poi aggravata dalla guerra in Vietnam: una guerra che vede opposti la ricca America ed un povero staterello dell'Indocina.

Nascono così i movimenti hippy: l'alito dello Zio Sam puzza di morte e di violenza perciò si auspica un mondo in cui i marines americani sbarcati nell'isola di Iwo Ji- ma, anziché la bandiera a stelle e strisce, piantano una rosa. Queste idee infiammano i giovani americani che cercano di sottrarsi alla coscrizione, e tutta l'angoscia e la repulsione per la guerra in atto viene rinchiusa nel- l'immagine di una madre che, disperata fugge, nel ten- tativo di mettere in salvo il proprio bambino.

E mentre le società capitalistiche vengono sempre più aspramente contestate, ad Oriente la rivoluzione cinese e quella cubana accendono nuove speranze e ali- mentano un vento di rinnovamento. I giovani si recano in "pellegrinaggio" nel- l'estremo Oriente; Katmandu diviene simbolo della ricerca di una dimensione civile più giusta e rispettosa nei confronti dell'individuo. Il cinema,la letteratura e la musica creano nuovi miti di libertà e trasgressione come l'on the road di Ke- rouac o il Rock & Roll. Mao Tse-Tung, Castro e Che Guevara divengono i sim- boli di una voglia di rivoluzione, di riaffermazione dell'uomo, che si fa sempre più concreta.

Queste pulsioni rivoluzionarie e anticonformiste rivestono però una minaccia per il mondo consumista e, pertanto, si rende necessario "ricondurle all'ovile", sicché lo «stile Mao» e l'immagine di Che Guevara diventano essi stessi prodotti

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da vendere e da pubblicizzare. Così com'era già stato ai tempi della Rivoluzione Francese, i simboli della rivolta vengono fagocitati e asserviti agli interessi eco- nomici. Il movimento hippy non viene contrastato, ma semplicemente conside- rato come un target a cui bisogna imparare a vendere. I colori sgargianti ed i ri- chiami alla natura vergine e incontaminata sono i contesti attraverso i quali ven- gono veicolati i messaggi pubblicitari rivolti a questo nuovo segmento di con- sumo; e, una volta capito come formulare il messaggio, ad essere pubblicizzati sono i più comuni oggetti d'uso della società dei consumi, dalle bibite agli abiti alla moda.

Così, all'alba degli anni Settanta, un'ampia fetta della parte giovane della società rifiuta l'«integrazione» e inneggia: «immaginazione al potere». Sono quegli stu- denti scesi in piazza nel 1968 e che, nonostante l'impegno della pubblicità, si oppongono ad essere "derubati" della propria personalità e a divenire vuote ma- rionette in mano alle aziende e ai politici. Il ventennio si chiude allora con un ritorno alla parola: le immagini pubblicitarie vengono sfregiate da scritte che ne stravolgono il contenuto e nelle università circolano volantini di protesta compo- sti dal solo testo scritto. Sono immagini che si erano già viste alla fine del XVIII secolo... chissà se anche questa volta porteranno alla stessa conclusione del 1789?!

2.7. 1970...

Siamo così giunti all'ultima tappa del nostro viaggio, quella che ci riporta a "ca- sa": ai giorni nostri. Ma proprio quest'ultima tappa sembra essere la più difficile:

perché gli ultimi trent'anni hanno visto molti cambiamenti importanti sia nella vita sociale che nella comunicazione; perché ci sono state molte contraddizioni sia a livello morale che a livello storico; e, soprattutto, perché non ci è permesso di sottrarci dal dare un giudizio di sintesi su quanto abbiamo visto nell'arco di tutto il nostro percorso. In questo paragrafo però ci limiteremo a trattare l'ultimo trentennio, rimandando al paragrafo successivo i nostri «appunti di viaggio».

Abbiamo lasciato il periodo precedente con un interrogativo: ci chiedevamo se i movimenti giovanili del 1968 avrebbero portato ad uno sconvolgimento della società cosi come era avvenuto in Francia alla fine del XVIII secolo o in Cina e

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a Cuba negli anni Sessanta. Abbiamo lasciato l'interrogativo così come lo aveva lasciato la storia. Se ne andava una decade che aveva acceso molte speranze, e spettava ora agli anni Settanta renderle concrete oppure distruggerle... e così è stato!

Agli inizi dell'ottavo decennio del XX secolo i movimenti studenteschi, sebbene con voce sempre più fievole, continuano a gridare il proprio disdegno contro i precetti capitalistici della società occidentale. La guerra in Vietnam non è ancora finita e l'enorme spiegamento di forze da parte degli Stati Uniti per contrastare un nemico che spesso ricorre ancora a trappole di stampo primitivo viene letta da molti come una frenesia imperialistica che ha perso ogni contatto con la ra- gione. Le campagne in favore della popolazione del Vietnam segnata dalle bar- barie americane si moltiplicano in tutto il mondo occidentale.

I temi della protesta sono l'«anticapitalismo» e l'«antimperialismo» come rispo- sta alla politica di sottomissione messa in atto dagli USA. I giovani non voglio- no un "padrone" che dica loro chi essere e come comportarsi, e guardano con ammirazione alle rivoluzioni del decennio precedente e ai loro eroi. Le speranze di soverchiare il sistema capitalistico vengono poi attizzate da eventi come il ri- tiro delle forze statunitensi dal Vietnam e dall'elezione di Salvador Allende alla presidenza del Cile. A differenza del passato, però, non sussistono le condizioni per un'insurrezione proletaria, soprattutto perché la società ha già adottato una svolta in favore del settore terziario, indebolendo così i movimenti operai. Ci si accontenta allora dell'illusione che i tempi siano maturi per una svolta radicale nella vita politica e sociale

Contestualmente, però, la politica imperialista dell'Occidente segna un'inversio- ne di marcia con l'abbandono dei territori africani e delle colonie sudamericane spuntando così le frecce dei movimenti «anticolonialisti» ed «antimperialisti»:

viene concessa ai popoli per anni sottomessi quella libertà che i giovani invoca- vano o, piuttosto, si può dire che d'un tratto questi paesi vengono lasciati a sé stessi, privi di un'organizzazione politica ed economica stabile.

Così, con la fine della dominazione politica dell'Occidente, tramontano anche le più ardenti passioni rivoluzionarie. Ma, in effetti, l'imperialismo occidentale permane nella vita militare e, soprattutto, in quella economica. E mentre la crisi

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petrolifera mette in ginocchio le economie industrializzate, tornano a pesare i conflitti etnici all'interno delle nazioni e la minaccia del riarmo nucleare.

E per fuggire all'angoscia ci si rifugia ancora una volta nei consumi. La moda e la comunicazione rispecchiano i nuovi desideri di libertà e di ritorno alla natura della società. La Place de la Concorde viene improvvisamente trasformata in un parco dove i giovani si abbandonano giocando, parlando, amandosi... il tutto con la benedizione della griffe.

Di contro è la vita politica ad entrare in crisi. I partiti, rimasti legati alle idee e alle strutture del dopoguerra, si trovano improvvisamente incapaci di rispondere alle nuove esigenze e alle nuove richieste della società. L'URRS di Sol_enicyn si apre al dialogo con l'Occidente segnando la crisi dei partiti comunisti e, per tutti, si avvia il declino del militantismo.

Di fronte alla crisi dei governi e dei sistemi politici, negli anni Ottanta nasce Amnesty International allo scopo di difendere i diritti delle minoranze, dei pri- gionieri politici e, in generale, di tutti gli uomini che vivono in situazioni di violenza, sottomissione e oppressione. Sul fronte parallelo si organizzano i mo- vimenti contro il nucleare, contro il razzismo e contro i soprusi perpetuati nei confronti delle nazioni più deboli, così come avviene quando l'URSS tenta l'in- vasione dell'Afghanistan.

Di contro, però, le società nascondono sempre più la testa nei consumi. Si cerca il «piacere» a tutti i costi: il piacere del possesso; il piacere del consumismo; il piacere dell'opulenza; e il piacere erotico e sessuale delle immagini che si fanno sempre più ardite ed esplicite.

Cambia il modo di comunicare. La televisione si è ormai aggiudicata il dominio stabile del mercato della comunicazione lasciando agli altri media un ruolo mar- ginale. La propaganda è ora demandata ai telegiornali e agli spot elettorali; i prodotti diventano protagonisti di cortometraggi in continuo perfezionamento. I manifesti, di contro, vengono emarginati come forma di comunicazione "resi- duale" adatta per chi ha pochi soldi o per chi ha poco da dire. I muri allora ven- gono dominati dalle campagne sociali e da quelle che promuovono l'associazio- nismo politico.

Gli anni Novanta e l'inizio del XXI secolo rivelano poi nuove tendenze. Il crollo dell'URSS ha messo la parola «fine» al duopolio politico, incoronando l'America

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come unica guida politica, economica e morale del mondo. L'american way of life diviene allora la norma per tutto l'Occidente industrializzato e l'aspirazione per tutti le New Industrial Countries. Si diffondono i valori sempre più vacui del capitalismo e del consumismo, e nasce nel contempo l'idea del "buon occiden- tale" portatore di valori di giustizia e solidarietà. La propaganda ruggisce attra- verso gli schermi televisivi puntando il dito contro il "cattivo" di turno e, per contro, esaltando le barbarie umanitarie liberamente perpetuate dalle truppe oc- cidentali.

Le lobby governano il mondo attraverso i governanti e, per mezzo dei media, o- rientano l'opinione pubblica. Ci si indigna per i bambini morti o mutilati a causa delle mine antiuomo e si inorridisce per gli straordinari armamenti in mano all'I- raq, ai separatisti ceceni o ai terroristi talebani, stando però bene attenti a non indicare mai chi è che fabbrica e commercia quegli stessi strumenti di morte. Si investono migliaia di miliardi in tutto il mondo per le campagne contro la droga e la diffusione dell'uso di sostanze stupefacenti ma, anche qui, senza rivelare quelli che sono gli interessi economici che ne governano il mercato. Come Pon- zio Pilato la società si lava le mani nelle campagne sociali e poi lascia la gente libera di morire in nome di una contorta forma di garanzia di libertà.

Ciò che veramente conta è vendere, e si vende di tutto: oggetti come persone.

L'affollamento degli spazi televisivi ha portato ad un ritorno dell'affissione commerciale, favorita anche da strumenti di forte impatto ed elevata efficacia comunicativa come i 6x3 e le maxiaffissioni. Anche Internet fa ricorso al media più antico ed in risposta all'alienazione sociale si pubblicizzano le chat line e il sesso virtuale.

È questo lo scenario in cui viviamo e il mondo che sembriamo desiderare. Natu- ralmente, di fronte alla storia, anche questo non è che un "periodo" come i tanti che abbiamo esaminato in questi paragrafi. Domani le generazioni future ci giu- dicheranno così come noi oggi giudichiamo il passato; a noi, per il momento, non resta che prendere atto della situazione ed esprimere quelle che possono es- sere le nostre aspettative per il futuro.

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2.8. APPUNTI DI VIAGGIO

Siamo partiti nei giorni caldi del 1789, quando un'intera popolazione si solleva- va contro le ingiustizie ed i soprusi di una società élitaria e, dopo un percorso di più di due secoli, siamo arrivati ad oggi, anno 2002, in un mondo élitario in cui un'intera popolazione non ha la forza per sollevarsi.

Lungo tutto questo percorso evolutivo i manifesti sono stati più volte protagoni- sti, sia nel bene così come nel male. Li abbiamo visti accendere passioni rivolu- zionare, sostenere conflitti, diffondere i consumi e condizionare il costume.

Prima dell'avvento delle immagini televisive hanno rappresentato il principale mezzo pubblicitario di massa ed hanno visto nascere la moda, l'automobile e, in generale, i principali settori di consumo odierni. Con la seconda metà del XX secolo, però, in molti paesi la loro importanza è andata via via sciamando in re- lazione al crescente successo del media televisivo. È il caso, ad esempio, dell'I- talia, dove la televisione domina nettamente il mercato pubblicitario e le affis- sioni sono relegate ad una quota inferiore al 25%. Si tratta, comunque, di ten- denze più culturali che strutturali e, pertanto, difficilmente reversibili. È comun- que da evidenziarsi una tendenza, soprattutto in Europa, ad un ritorno sul mezzo, grazie alla diffusione dei gruppi internazionali; tendenza che fatica a mettere ra- dici in Italia data la situazione del mercato delle affissioni che si presenta alta- mente frammentato.

Più complesso è invece il discorso se guardiamo a quella che è stata l'evoluzione del linguaggio e dell'iconografia del manifesto. Come abbiamo detto all'inizio del nostro excursus storico, i manifesti altro non sono che l'emanazione di una società in continuo mutamento. Abbiamo visto, a tal proposito, come le innova- zioni tecniche, il cambiamento delle abitudini ed i sentimenti repressi abbiano sempre impiegato le affiche come mezzo per attirare l'attenzione e diffondere il proprio messaggio; di conseguenza analizzare il messaggio significherebbe ese- guire un'analisi della società che l'ha prodotto, ovvero addentrarci in un ambito che non appartiene allo scopo di questa trattazione. Non spetta quindi a noi giu- dicare i messaggi che attraverso i decenni si sono alternati sui muri, anche se sa- rebbe auspicabile che questi fossero ispirati da una ricerca di un miglioramento della dimensione sociale e morale della società, e non da meri interessi econo-

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mici. Ed è proprio a questo proposito che ci è sembrato di notare, nel corso del nostro viaggio, l'affermazione di una «inciviltà del consumo» concentrata sul profitto e sul possesso, a scapito di quelli che sono i valori sociali, civili e mora- li. Il verbo è «Vendere»… a qualsiasi costo! Così non ci resta che concentrarci sul nostro "campo" sperando che nessuno venga mai per portarcelo via.

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I primi

cartellonisti

francesi

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JULES CHÉRET

Solitamente gli storici dell’arte nel presentare Jules Chéret tendono a raffron- tarlo al contemporaneo Toulouse-Lautrec e, rispetto a questi, a porlo in un ruolo di secondo piano. In diversi testi, quindi, si trova rappresentato il primo come un autore qualsiasi che dal secondo ha preso ispirazione per realizzare le proprie o- pere.

A riabilitare la figura di Chéret ed il suo ruolo nei confronti della storia dell’affiche ci pensa Arturo Carlo Quintavalle nel libro Manifesti – Storie da in- collare dove, al detto autore, viene riconosciuta l’importanza che gli spetta so- prattutto per il fatto di aver introdotto la tecnica della cromolitografia.

Jules Chéret nasce nel 1836 a Parigi e all’età di tredici anni già lavora come ap- prendista litografo. A diciassette anni trova impiego presso l’editore Bonasse- Labelle come illustratore di immagini religiose. Quindi si reca a Londra dove lavora per il catalogo Maple Forniture Company. Dopo essere tornato per qual- che tempo a Parigi dove vende il manifesto Orphée aux enfers, ancora a Londra, diviene illustratore di copertine di libri per la casa editrice Cramer. La sua espe- rienza inglese si conclude con il ritorno a Parigi dove lavora per la fabbrica di profumi Eugène Rimmel prima e dunque, nel 1866, apre una propria stamperia.

Ed è proprio da questo momento che inizia a produrre quei manifesti che entre- ranno nella storia dell’affiche e che per certi aspetti segneranno un’innovazione di fondamentale importanza.

Ed è proprio un’affiche del 1866, Cerva nel bosco, il primo manifesto ad essere stampato a colori. Il colore: è questa l’innovazione più importante delle prime produzioni di Chéret, innovazione che lo porterà ad essere identificato come chi ha portato il colore nelle grigie strade parigine.

In questa prima serie di produzioni, che va dalla fine degli anni Sessanta agli i- nizi degli anni Settanta, sono identificabili diversi tratti ricorrenti che richiama- no all'accademismo: l'utilizzo dei contorni neri, tipici della stampa xilografica; la costruzione basata su di un personaggio principale di rilievo con valenza simbo- lica; la rappresentazione di scene dello spettacolo, così come avveniva per l'illu- strazione dei romanzi. Emerge già in questo periodo la versatilità dell'autore:

capace di spaziare dallo stile beffardo utilizzato per Le château à Toto (1868),

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La grande duchesse de Gerolstein (1869), La princesse di Trebizonde (1869) e Le petit Faust (1869), allo stile più austero e simbolico di Les Turcs (1869).

Con i manifesti del 1874, Les Almées e Folies Bergère. Travaux de voltige, bal- let, pantomimes, opérettes, inizia la serie di affiche per gli spettacoli delle Folies Beérger, alla quale si dedicherà fino alla fine degli anni Settanta. Nelle opere che Chéret realizza fino al 1876 e che, oltre ai già citati Les Almées e Folies Bergère. Travaux de voltige, ballet, pantomimes, opérettes, comprendono La charmeuse de serpents (1875), nonchè una rivisitazione del 1876 dello stesso Folies Bergère. Travaux de voltige, ballet, pantomimes, opérettes, le influenze dominanti sono quella accademica e quella del manierismo italiano. Nei manife- sti invece degli anni '77-'78, Les Girards (1877), Miss Leona Dare (1877), La nouveau Guillaume Tell (1877), Les Hanlon-Lees (1878) Le spectre de Paganini (1878) e Dr. Carver (1878), si alternano modelli preraffaeliti oppure ispirati alla tradizione dell'illustrazione dei romanzi. Dal confronto di altri due manifesti de- gli anni '70, Tous les soir Théâtre historique. Les Muscardins (1875) e Théâtre de la gaité. Le chat botté (1878), emerge l'alternanza tra i modelli accademici e dell'illustrazione e quelli settecenteschi: proprio questa capacità di scegliere lo stile in relazione al contenuto dello spettacolo è uno dei tratti caratteristici delle produzioni di Chéret.

Nel corso degli anni Ottanta, si dedica alla realizzazione di affiche per la promo- zione di libri. La precedente tradizione in questo campo era solita presentare immagini molto diverse ma tutte, comunque, ricollegabili allo stile personale dell'autore. Chéret, al contrario, nelle sue affiche interpreta il contenuto del ro- manzo attraverso la scelta dello stile, di modo che lo stile diviene funzionale al contenuto del romanzo. Esempi evidenti di questa particolarità sono il manifesto per il libro David Copperfield (1884), quello per Oeuvre de Rabelais (1885) e la trilogia per Les Mystères de Paris (1885).Chéret non adotta uno stile proprio, ma mette la pittura al servizio del contenuto del romanzo utilizzando la scelta dello stile per comunicare al lettore quella che è l'atmosfera del libro. Così, nei mani- festi La juive du Château (1887), Les trois mousquetaires (1887), Les premières civilisation (1887) e La Terre (1889), già osservando l'immagine possiamo risa- lire allo stile narrativo del romanzo.

Questa particolarità si prolunga nelle produzioni a cavallo tra la fine degli anni

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Ottanta e gli anni Novanta, dominate dalle influenze di Renoir, Degas e Toulouse-Lautrec. Da rilevare, in questo periodo, le innovazioni che Chéret apporta nel processo di stampa litografica: anzitutto la soppressione dell'abitudine a marcare in nero i contorni delle figure e l'impiego delle teorie impressioniste e divisioniste; quindi l'eliminazione della carta colorata, utilizzata per gli sfondi; in fine la stampa dei colori a partire dal rosso per arrivare quindi al giallo e al blu, dedicando l'ultimo passaggio al torchio litografico alle tinte trasparenti.

E' questo il periodo dei manifesti dai tratti impressionisti e postimpressionisti che, tornando a narrare la vita della Parigi dei teatri e dei cafés chantants, presentano una visione allegra e spensierata della vita parigina e della Belle Epoque. E' il momento di manifesti come Mouline Rouge (1890), Théâtrophone (1890), Casino de Paris, tous les soirs Kanjarowa (1891), Olympia anciennes Montagnes Russess (1892), Folies Bergère, La Loïe Fuller (1893), Folies Bergère, Fleur de Lotus (1893), Palais de Glace, Champs Elysées (1893 e 1894), Yvette Guilbert au concert parisien (1896) e Camille Stefani (1896). Da ricordare inoltre Théâtre de l'Opéra, Carnaval (1894) e la serie di Saxoléine (versioni 1891-92-94-95 e 1900). Quasi a conclusione della sua produzione il manifesto Théâtre de Fantoches (1900) che riprende e riassume personaggi ed influenze dei vari stili adottati a partire dalle affiche degli anni Settanta.

Jules Chéret muore cieco a Nizza nel 1932. Si spegne così la vita di un personaggio troppo spesso relegato tra le seconde file all'interno di una cultura del manifesto contemporaneo di cui, invece, è stato protagonista e precursore.

Alcuni manifesti di Chéret, tratti da A.C. Quintavalle, Manifesti – Storie da incollare, op. cit.

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HENRY de TOULOUSE-LAUTREC

Toulouse-Lautrec viene solitamente identificato dagli storici dell'arte come l'in- ventore del manifesto moderno. In realtà ciò è solo in parte vero, in quanto non si può dimenticare l'apporto innovativo di Jules Cherét, contemporaneo e pre- cursore nel mondo dell'affiche.

Henry de Toulouse-Lautrec nasce ad Albi nel 1864. Di nobili origini, nel 1872 si trasferisce a Parigi. Nel 1878 e nel 1879 due fratture alle gambe gli provocano problemi nello sviluppo degli arti inferiori: deformazione che, accompagnata al nanismo ereditario, segneranno la sua immagine di personaggio. La sua forma- zione artistica si svolge soprattutto negli atelier: da quello di René Princetau a Parigi a quello di Léon Bonnart (1882) a Fernand Cormon, finché nel 1866 non apre un proprio atelier.

Gli anni Ottanta lo vedono impegnato soprattutto come pittore e, nelle sue opere, iniziano ad emergere le influenze di Degas, Monet, Renoir, Van Gogh e Gau- guin.

Il suo ingresso nel mondo dei manifesti è comunque piuttosto tardivo e risale al 1891 quando realizza l'affiche Moulin Rouge, concert bal, tous les soir, la Gou- lue.

Il Toulouse-Lautrec autore di manifesti, comunque, è un personaggio decisa- mente singolare facilmente, ed erroneamente, accostabile agli artisti "maledetti".

Pur essendo infatti ricco e nobile, e nonostante che il successo gli sia giunto fin dal dall'affiche del 1891, egli disdegna gli ambienti artistici, ai quali preferisce il mondo proletario e piccolo-borghese dei protagonisti dei teatri e dei cafés- chantant. Questa sua scelta di vita, secondo la critica, gli viene dai dettami di Emile Zola circa le tecniche del romanzo realista: così Lautrec si immergerebbe nel mondo degli attori e delle ballerine per poterne cogliere l'aspetto reale e per poterlo così rappresentare nelle sue affiche. L'artista viene così considerato un narratore impegnato ad illustrare il dorato mondo del palcoscenico, fatto di luci e musiche, attraverso i volti che si nascondono sotto il trucco ed evidenziando le ombre che i riflettori non riescono a mascherare. Questa ricerca artistica e que- sto punto di vista nichilistico è ben ravvisabile nelle sue affiche e nei personaggi ai quali si dedica, da Yvette Guilbert a Jane Avril, da May Belfort all'amica May

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Milton, da Cardieux ad Aristide Bruant: sono questi i veri volti della Belle Epoque, i volti tristi e scarni che sui muri di Parigi si contrappongono alle gioio- se figure di Chéret.

Il primo personaggio che rappresentato in un manifesto di Lautrec è La Goulue, che troviamo nel manifesto del 1891 e in un altro del 1894, La Goulue, valse pur piano; in entrambe le affiche, a fianco della ballerina di Can can, compare la fi- gura del ballerino Jacques Renaudin.

Nel 1892 inizia la serie per Aristide Bruant: Ambassadeurs, Aristide Bruant dans son cabaret (1892), Eldorado, Aristide Bruant dans son cabaret (1892) e Aristide Bruant dans son cabaret (1893).

Nel 1893 Toulouse-Lautrec inizia a realizzare i manifesti per Jane Avril, balleri- na già protagonista dei suoi dipinti. La serie è inaugurata dall'affiche Jane Avril, Jardin de Paris (1893) quindi prosegue col famosissimo Divan Japonais (1893) e con l'ultimo manifesto dell'artista realizzato nel 1899.

Ma uno dei personaggi più interessanti delle affiche di Lautrec è senzaltro Yvette Guilbert: la cantante dai lunghi guanti neri che ritroviamo in Divan Ja- ponais (1893) e in un affiche del 1894 (Colombine à Pierrot, réponse créee par Yvette Guilbert aux Ammbassadeurs) nonchè in diverse stampe litografiche e in un volume illustrato a lei interamente dedicato.

Oltre a quelli citati, sono da annoverare tra i più importanti manifesti di Lautrec Reine de Joie (1892) con la cocotte Hélène Roland, Caudieux (1893), Le Matin, au pied de l'Echafaud (1893), Babylone d'Allemagne, mœurs berlinoises (1894), L'artisan moderne, objet d'art, meubles, ensembles décoratifs (1894), 9. Place Pigalle, P. Sescau Photographe (1894), May Milton (1895), La revue blanche (1895), Salon des Cent, Exposition internationale de l'affiche (1896), Troupe de M.lle Eglantine (1896) e La Gitane (1899).

La singolarità di questi personaggi, comunque, è rappresentata dal modo con il quale vengono rappresentati. Toulouse-Lautrec si ispira alle xilografie giappo- nesi concentrando l'attenzione sui volti e lasciando incomplete le altre parti della figura. Osservando le sue produzioni emerge così una galleria di volti inquietan- ti, scarni e sofferenti: ballerine come vecchie prostitute, impresari come anziani seduttori, attori come sciantose.

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Lautrec, non può essere comunque considerato come il vero ed unico rivoluzio- nario dell'affiche. Prima di lui Chéret aveva già introdotto sia la cromolitografia che i canoni postimpressionisti; del resto, quando Lautrec si avvicina a questo mondo, Chéret è già all'ultimo decennio delle sue produzioni. Gli si può quindi attribuire una certa rilevanza nel processo di innovazione nel linguaggio, ma non può certo essere identificato come il solo e unico rappresentante del nuovo.

Nel 1901, infine, Henry de Toulouse-Lautrec muore a soli trentacinque anni al- colizzato e sifilico concludendo nel modo più opportuno la sua vita spesa tra bordelli e ballerine.

Alcuni manifesti di Toulouse-Lautrec, tratti da A.C. Quintavalle, Manifesti – Storie da incollare, op. cit.

ALPHONSE MUCHA

A chiunque abbia mai provato la curiosità di interessarsi ai manifesti “d’epoca”

non sarà certo passato inosservato lo stile ed il tratto inconfondibile di Alphonse Mucha ed i suoi celebri manifesti per Sarah Bernhardt o per Job.

Mucha nasce nel 1860 a Ivan_ice, in Moravia, in un contesto in cui la cultura e l’identità nazionale tendono a scomparire all’interno dei confini dell’Impero Au- stro-Ungarico. Una situazione molto diversa da quella nella quale si sono for- mati gli autori francesi e, dunque, uno dei principali fattori che determineranno il suo distacco da quelli che sono i canoni del manifesto contemporaneo dettati, proprio in quegli stessi anni, da Chéret, Toulouse-Lautrec e dall’Art Nouveau.

La sua formazione artistica inizia nel 1879 all’Accademia di Vienna. Dopo aver affrescato la sala da pranzo del Castello di Emmahof per il Conte Karl Khuen, con l’aiuto finanziario di questi riesce a frequentare per due anni l’Accademia di

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Monaco e, quindi, si trasferisce a Parigi (1887) dove frequenta l’Academie Ju- lian e l’Accademia Colarossi. Nel 1889, il Conte decide di sospendere i finan- ziamenti all’artista e Mucha, costretto a far fronte autonomamente alle proprie e- sigenze, si vede costretto a trovare impiego come illustratore.

Sono questi i passaggi fondamentali della vita dell’artista che, come si nota, non nasce come autore di manifesti ma che, al contrario, passa attraverso diverse fasi artistiche.

Il suo primo progetto, nato con la decorazione della sala da pranzo del Castello di Emmahof, è quello di narratore sui muri: prima come pittore e poi come auto- re di manifesti. In questa sua prima opera, comunque, lo stile è ancora quello ac- cademico e risente fortemente dell’influenza di artisti come Tiepolo, Watteau, Fragonard e Piranesi.

Successivamente, spinto dalla necessità, si specializza come illustratore ma, an- che qui, è ancora ravvisabile una forte influenza accademica e neosettecentesca, anche se inizia ad emergere una particolare attenzione ai particolari propria del realismo.

La vera affermazione di quello che sarà lo stile di Mu- cha avviene con la realizzazione dei primi manifesti per Sarah Bernhardt. Il fatto singolare è proprio il modo con cui Mucha si “improvvisa” autore di manifesti.

Nel 1894 Mucha lavora presso lo stampatore Lemercier sotto le dirette dipendenze del manager De Brunoff. Il 27 dicembre, alla vigilia delle vacanze per il Capodan- no, arriva un ordine da parte del Théatre de la Rénais- sance per un manifesto per lo spettacolo di Sarah Ber- nhardht: il manifesto deve essere pronto per il primo dell’anno. Poiché in quel periodo dell’anno trovare un autore disponibile all’istante è particolarmente difficile, De Brunoff chiede a Mucha se è in grado di svolgere un tale compito e questi accetta l’incarico. Dopo un so- pralluogo al teatro per realizzare alcuni schizzi dei co- stumi e della scena – lo spettacolo è la Gismonda di

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Sardou – si incontra con De Brunoff in un caffè e sul tavolo di marmo esegue già un primo schizzo del manifesto. Il giorno dopo la versione definitiva del ma- nifesto, già colorata, viene presentata a Lemercier il quale non si dimostra soddi- sfatto ma, poiché è in partenza per le vacanze, lascia l’ultima parola ai responsa- bili del teatro ai quali viene inviato. Lo stesso giorno il teatro comunica la sua approvazione e da ordine di procedere. Dato il poco tempo Mucha decide di re- alizzare il manifesto usando due pietre litografiche e di disegnare la seconda mentre la prima è in fase di stampa: questo accorgimento lo si può notare in un certo “sbilanciamento” dell’immagine. Nonostante l’astuzia, comunque, i tempi non bastano e così la parte inferiore deve essere messa in stampa incompleta dei fregi decorativi caratteristici dello stile dell’artista e presenti, invece, nella parte superiore. Il manifesto è comunque pronto per la data fissata: De Brunoff si mo- stra visibilmente insoddisfatto del lavoro, ma ormai non vi è altra soluzione che inviarlo al teatro e prepararsi alla reazione della Bernhardt. Così Mucha viene subito convocato al Théatre de la Rénaissance e fatto accomodare nel salottino di Sarah Bernhardt: il suo manifesto è appeso alla parete e l’attrice è di fronte ad esso in contemplazione. L’incontro si conclude con un abbraccio che segna l’inizio di un periodo di sei anni durante i quali Mucha diventa l’illustratore per- sonale della Bernhardt, finché questa nel 1901 non lascia l’America per Parigi.

Questa storia, che ci viene raccontata dallo stesso artista non senza l’aggiunta di qualche ritocco romanzato, è certo un simpatico aneddoto che mostra come Mu- cha si sia ritrovato da un momento all’altro ad essere uno dei più importanti au- tori di affiche. E’ comunque molto importante, a questo punto, concentrarsi su questo primo manifesto, Gismonda, in modo da trarne le indicazioni sugli ele- menti caratterizzanti lo stile dell’artista.

Già ad una prima occhiata possiamo notare alcune influenze e, in particolare, quella Romanica e quella Bizantina dei mosaici ravennati. Oltre a queste, co- munque, risulta evidente il richiamo alla cultura medievale ed ai codici miniati di quel tempo. Mucha, infatti, rifiuta l’illustrazione del manifesto contempora- neo, così come compare nella produzione di Chéret, ed inventa un proprio stile molto più simile a quello degli illustratori inglesi come Will Morris, Walter Crane e Aubrey Beardsley. Ed è proprio in questo particolare richiamo storico che torniamo ai natali dell’artista: il medioevo è il periodo in cui trionfano le

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culture nazionali e si contrappone nettamente a periodi come il Rinascimento, il Barocco e il Neoclassico che, al contrario, uniscono tutte le nazioni in un movi- mento internazionale che tende ad “allineare” le identità nazionali attorno ad un medesimo stile. Il richiamo al medioevo è dunque un richiamo alle origini: un modo per affermare l’identità della propria cultura in un periodo storico in cui l’Impero Austro-Ungarico impone ai paesi conquistati gli stili e le tradizioni au- striache ed ungheresi.

I manifesti di Mucha si arricchiscono così di fregi e decorazioni che ritroviamo anche nei manifesti di Aubrey Beardsley. Ciò che differenzia però nettamente l’artista ceco dai contemporanei inglesi è la maggiore attenzione ai particolari nella definizione della figura ed il maggior realismo, reso ancor più evidente dalla disinvoltura con cui è impiegata la tecnica del chiaro-scuro.

Altro tratto caratteristico di Mucha è la dimensione del manifesto: usando due pietre litografiche, l’affiche risulta “allungata” rispetto a quelle dei contempora- nei. Un tale formato, oltre ad adattarsi alle “guardie” dei teatri, permette di rap- presentare un solo personaggio, il protagonista, come richiamo per lo spettacolo.

La serie per Sarah Bernhardt, dopo Gismonda continua con La Dame aux Ca- mélias (1896), La Samaritaine (1897), Médée (1898), Hamlet (1899) e Tosca (1899). In questi manifesti emergono chiaramente alcune influenze come quella di Gauguin e Strindberg ed alcuni riferimenti cari all’artista come quello alla Primavera di Botticelli che troviamo ne La Samaritaine e che rincontreremo poi nel manifesto Cycles Perfecta realizzato nello stesso anno.

Ma oltre alle affiche per gli spettacoli teatrali, Alphonse Mucha realizza anche manifesti pubblicitari per diversi prodotti sempre distinguendosi nettamente dai suoi contemporanei.

Una prima serie di affiche pubblicitarie si caratterizza per il tipo di personaggio rappresentato: non è il personaggio comune, “di strada”, come quello usato da Chéret, ma una sorta di “mito” etereo , ripreso di scorcio dal basso, che osserva il consumatore con una certa aria distaccata di superiorità. Rientrano fra questi Flirt biscuits Lefévre-Utile (1895), J o b (1896),

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Bénédictine (1896), La Trappistine (1897), Champagne Ruinart père et fils, Reims (1897), Job (1898), Moët e Chandon, Champagne White Star (1899) e Moët e Chandon, Dry Impérial (1899).

In altre affiche, invece, le protagoniste sembrano rivolgersi direttamente al con- sumatore con un’aria confidenziale e ammiccante: facciamo riferimento a Bières de la Meuse (1897), con evidenti richiami al Bacco di Caravaggio, ed il già ci- tato Cycles Perfecta (1897) di stampo botticelliano.

Col sopraggiungere del nuovo secolo Mucha si dedica alla realizzazione di pan- nelli decorativi da interni ed all’illustrazione dei libri facendo perdere le tracce come autore di manifesti.

Questa dunque la breve biografia di un artista unico la cui maggiore innovazione è stata la riscoperta del passato laddove altri cercavano di affermare il nuovo. Ed è forse proprio per questo che i manifesti di Mucha, rispetto a quelli di Chéret e di Lautrec, sono capaci di evocare sensazioni ed atmosfere particolarmente in- tense e coinvolgenti.

Alcuni manifesti di Mucha, tratti da A.C. Quintavalle, Manifesti – Storie da incollare, op. cit.

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L’aspetto

normativo

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er quanto riguarda il profilo giuridico e normativo collegato alle affissio- ni, possiamo individuare due livelli regolamentari: uno ad ambito gene- rale che trova manifestazione nelle leggi nazionali, ed un altro, a contenuto spe- cifico o, se vogliamo, periferico che attiene ai regolamenti emanati da ogni Co- mune. Nel corso della nostra analisi, dopo un breve inquadramento storico, ve- dremo anzitutto, e tenteremo di commentare, le due leggi che fanno da cornice in materia di pubblicità e pubbliche affissioni:

ÿ il Decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507: «Revisione ed armonizza- zione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche af- fissioni»;

ÿ il Decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446: «Istituzione dell’imposta re- gionale sulle attività produttive, revisione degli scaglioni, delle aliquote e delle detrazioni dell’Irpef e istituzione di una addizionale regionale a tale imposta, nonché riordino della disciplina dei tributi locali».

Nel corso della trattazione si farà poi riferimento a scopo di integrazione o di comparazione a diverse altre leggi, in particolare all’abrogato D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 639, intitolato «Imposta comunale sulla pubblicità e diritti sulle pubbli- che affissioni», e ad alcune sentenze emanate dalla Corte di Cassazione, dal Consiglio di Stato e da alcuni Tar.

Nella terza parte, poi, passeremo ad analizzare il regolamento comunale del Comune di Parma, emanato in ottemperanza all’articolo 3 della legge 507/1993, per vedere nel concreto come si realizzano le indicazioni della normativa nazio- nale.

Ci sembra doveroso premettere, soprattutto in riferimento alla prima parte di questa analisi normativa, che il testo cui faremo riferimento, ovvero «La pubbli- cità e le pubbliche affissioni» di Pietro Bonanni, pur essendo il più recente di cui abbiamo avuto notizia di pubblicazione (anche attraverso siti Internet specializ- zati in norme giuridiche), è stato pubblicato nel 1998 e, dunque, non considera eventuali modificazioni intervenute negli anni successivi. Purtroppo non ci è dato modo di approfondire questa eventualità vista, appunto, l’assenza di mate- riale letterario di pubblicazione successiva. Ci scusiamo quindi fin da ora con il lettore qualora regolamenti successivi avessero modificato alcuni degli aspetti illustrati di seguito, ci sembra comunque lecito supporre che lo scheletro essen-

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ziale della normativa così come tracciato dalle due leggi citate in precedenza non abbia subito rilevanti rivisitazioni visto che, consultando il motore di ricerca del Parlamento, non vengono indicati altri provvedimenti normativi intitolati specificatamente alla materia in esame. Ad un’apposita appendice normativa sa- rà poi destinato il compito di riportare il testo delle principali norme a cui verrà fatto riferimento, nonché l’elenco delle diverse leggi riferibili alla pubblicità e alle pubbliche affissioni.

1. CENNI STORICI

Prima di addentrarci nell’esame dell’attuale normativa in materia di imposta sulla pubblicità e diritto sulle pubbliche affissioni, ci sembra doverosa una pano- ramica su quelli che, da dopo l’unità d’Italia nel 1861, sono stati i principali provvedimenti in materia. Lo scopo di questa digressione non è tanto una forma di pedanteria, quanto piuttosto il fatto che la legge attuale altro non è che il ri- sultato di un lungo processo di rielaborazione dei medesimi orientamenti in ma- teria, già espressi a partire dalla legge 1961/1874.

Occorre premettere che quello che è l’orientamento di fondo del sistema italiano in materia di pubblicità e pubbliche affissioni è emerso fin dal primo provvedi- mento del 1874. In Italia, diversamente che nelle altre nazioni, le manifestazioni pubblicitarie sono state sempre viste come una sorta di «lusso» e, pertanto, sono state ritenute assoggettabile ad una tassazione in favore della Pubblica Ammini- strazione. In effetti non è mai esistito all’interno del sistema codicistico italiano un diretto riconoscimento dell’attività pubblicitaria come attività di impresa e, proprio per questo, per lungo tempo non si è ritenuto che l’imprenditore pubbli- citario potesse rientrare nelle definizioni di imprenditore commerciale. Pertanto l’attività pubblicitaria, eseguita attraverso i manifesti o le insegne, veniva vista come un’attività “facoltativa” finalizzata a realizzare un sovrapprofitto rispetto alla normale attività d’impresa. In secondo luogo, poi, l’esposizione di manifesti è sempre stata considerata una forma di uso di uno spazio, quello pubblico, ap- partenente alla Pubblica Amministrazione e, di conseguenza, si è ritenuto lecito riscuotere un «gabella» a titolo di canone d’affitto dello spazio. Queste preroga-

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tive, introdotte con la legge del 1874, si sono mantenute attraverso le varie epo- che e le varie legislature fino a ricomparire nella normativa attuale in materia di imposta sulla pubblicità e sulle pubbliche affissioni, nonché nell’imposizione di un canone o di una tassa per l’occupazione di spazi e di aree pubbliche.

Ma andiamo per ordine e iniziamo a vedere come è nato il provvedimento del 1874. L’Unità d’Italia, proclamata nel 1861, era in realtà solo il primo passo per un’effettiva unificazione del paese. Infatti all’interno del nuovo Regno perma- nevano forti differenze sia culturali sia legislative. Le uniche due strade che si presentavano alla famiglia regnante dei Savoia erano la costituzione di stati fe- derali oppure la predisposizione di un nuovo sistema di leggi capace di riequili- brare le differenze tra Nord e Sud della penisola. Da questa esigenza è scaturito il provvedimento n. 1961 del 14 giugno 1874, finalizzato al riordino della finan- za locale. E proprio all’interno di tale legge erano inserite le prime norme ri- guardanti le affissioni in «strictu sensu, vale a dire ogni sorta di avviso o indiriz- zo relativo all’esercizio di professioni, industrie o commerci che venisse esposto in uno spazio pubblico»1.

Le disposizioni contenute in detta legge in materia di affissioni riguardavano principalmente l’istituzione della facoltà, per le Amministrazioni locali, di as- soggettare a tassazione tali forme di comunicazione. La misura della «gabella»

veniva determinata in relazione al numero delle lettere o dei simboli costituenti il messaggio, come chiara espressione dell’idea che il manufatto andasse ad oc- cupare uno spazio pubblico e che, quindi, andava tassato in relazione alle di- mensioni dell’area occupata.

Particolarmente interessante era poi la disposizione che raddoppiava la misura della tassa per gli affissi in lingua straniera; una scelta, questa, che nasceva dalle passioni nazionaliste dell’epoca ma che, anche se con motivazioni diverse, si è conservata fino a tempi molto recenti.

Il passo successivo si è compiuto con la legge 29 marzo 1903, n. 103, intitolata

«L’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei comuni», e con il regola- mento di attuazione di quest’ultima contenuto nel R.D. 10 marzo 1904, n. 108. E tra i servizi delegati alle Amministrazioni locali c’era anche quello delle pubbli-

1 AA.VV., La pubblicità esterna, Lupetti Editori, Milano 1995.

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che affissioni in senso generale. La normativa, in particolare, disponeva in favo- re dei Comuni la totale assunzione della gestione del servizio, con diritto di pri- vativa, attraverso la costituzione di un’azienda speciale. Uniche eccezioni erano rappresentate dai manifesti elettorali e dalle comunicazioni istituzionali. Si rea- lizzava così una situazione di monopolio perfetto in favore della pubblica Am- ministrazione, la quale, discrezionalmente, poteva optare per la forma di gestio- ne in concessione attraverso la delega del servizio ad un’impresa privata.

I successivi provvedimenti legislativi risalgono agli anni Venti e rientrano nelle disposizioni messe in atto dalla propaganda fascista. Come vedremo, comunque, il sistema rimarrà fondamentalmente quello delineatosi alla fine del XIX secolo, come del resto è facile intuire visto come la stessa normativa attuale ricalca i medesimi precetti. Il tratto identificativo dell’attività legislativa del periodo fa- scista è rappresentato dalla tendenza a realizzare un marcato accentramento dei poteri in capo al governo centrale: tendenza che ha un’origine fisiologica nella natura stessa del regime dittatoriale. Le due leggi emanate in materia di pubbli- che affissioni nel 1874 e nel 1903 erano però di per sé già fortemente accentra- trici e, pertanto, da parte del regime non vi fu altra necessità che riaffermarle ap- portando solo leggeri adeguamenti.

Il provvedimento n. 352/1923 riguardava esclusivamente le insegne anche se, torniamo a precisare, fino al R.D. 1399/1928 alle affissioni venivano spesso ap- plicate per estensione le norme emanate proprio in materia di insegne. Le novità introdotte da tale provvedimento riguardavano soprattutto la distinzione dei co- muni in diverse classi di importanza in base al numero degli abitanti, nonché l’assunzione di tali classi a indicazione della misura della tassa da pagare.

L’assunto di base era quello secondo cui le città più popolate erano anche quelle in cui la comunicazione “pubblicitaria” (ricordiamo che però ancora il legislato- re non riconosceva la pubblicità come attività d’impresa) consentiva maggiori ritorni in termini di profitto; ciò giustificava quindi una maggiore imposta. Era poi disposto anche affinché le località riconosciute come turistiche e di soggior- no venissero automaticamente inserite nella prima classe d’imposizione, consi- derato il maggior ritorno legato, per l’appunto, ai flussi turistici.

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Per il resto la gabella continuava ad essere commisurata al numero ed alle di- mensioni dei caratteri impiegati, che restavano così una valida approssimazione dello spazio occupato.

Concludeva poi il provvedimento la previsione di una tassa quadrupla rispetto al normale per le insegne in lingua straniera. La giustificazione però, questa volta, non risiedeva più nei sentimenti nazionalistici, quanto piuttosto in una esigenza di limitare eventuali messaggi sovversivi scritti in modo che non fossero com- prensibili ai più.

Il successivo R.D. 3047/1923, intitolato «Riforma della legge n. 1023/1903» era poi una mera trascrizione della normativa emanata in età liberale e pertanto no- nostante le promesse innovative del titolo, ripeteva pari pari quanto già disposto nella legge oggetto di revisione.

La maggiore imposizione, che si è detto gravante sulle affissioni in località turi- stiche, era stata poi successivamente ripresa e rivista dal R.D.L. 765/1926, il quale si faceva carico di individuare le località riconosciute come luogo «di cu- ra, di soggiorno o di turismo», richiamando per queste la maggiore tassazione di cui si è già parlato.

Particolarmente interessante è invece il R.D. 14 giugno 1928, n. 1399. Con esso veniva infatti introdotta la distinzione tra affissione ed occupazione di suolo pubblico, nonché la diversificazione della natura dell’imposta con riferimento alle due fattispecie. Veniva così riconosciuta, anche se non formalmente, la dif- ferenza tra la pubblicità e le altre forme di comunicazione dell’impresa. La nor- mativa introduceva infatti a tal proposito la distinzione tra le affissioni e le inse- gne, facendo rientrare nelle prime qualsiasi forma affissa di comunicazione di impresa non situata nei pressi dei locali di esercizio della stessa.

Ma oltre a ciò, il provvedimento in esame provvedeva anche ad un ulteriore ac- centramento della gestione delle affissioni. Dando infatti una definizione dello strumento, si affermava che poteva essere considerato “affissione”«ogni sorta di ostentazione tale da essere permanente o totalmente visibile dalle strade o piazze pubbliche». Si nota allora come tale disposizione limitasse drasticamente l’autonomia dei privati, assoggettando di fatto al regime predisposto per le affis- sioni ogni forma di comunicazione resa pubblica a causa della visibilità dalle zone urbane. Sempre in materia di accentramento, poi, veniva disposta la neces-

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