DANNO PSICOLOGICO E DANNO ESISTENZIALE
Avv. Salvatore Bono∗
L’esigenza, avvertita già subito dopo gli anni cinquanta dalla scuola romana di medicina legale (Gerin), di valutare opportunamente, ai fini risarcitori, il pregiudizio alla “validità psicofisica” dell’individuo, al di là ed al di fuori delle preclusioni legislative, costituite dalla interpretazione esclusivamente
“patrimoniale” dell’art. 2043 cod. civ. e dalla specifica condizione (il “fatto - reato”) posta dall’art. 2059 stesso codice, trova il suo riconoscimento giurisprudenziale, attraverso un cammino iniziato dai giudici genovesi intorno alla metà degli anni settanta e concluso dalla Corte costituzione con la sentenza n°184 del 14 luglio 1986, nella introduzione dell’istituto del “danno biologico”, che, in quanto strutturato sui principi generali della carta costituzionale, consente di eludere la limitazione imposta dalla condizione di cui all’art. 2059 cod. civ. ed, al tempo stesso, di legittimare la indennizzabilità di un danno non patrimoniale, perché non reddituale né economico, alla stregua della previsione normativa dell’art. 2043 del codice civile.
La strada, aperta dal riconoscimento dell’istituto del “danno biologico”, va sempre più snodantesi, sotto la spinta incessante sia della dottrina e sia della giurisprudenza, verso la realizzazione di un diritto al risarcimento integrale del danno alla persona, senza alcuna distinzione in merito alla natura di tale danno, e cioè se patrimoniale o non patrimoniale, ed, essenzialmente, senza alcuna limitazione di tutela, e, quindi, indipendentemente dal presupposto di derivare da un “fatto - reato”.
Lungo tale cammino il “danno biologico”, che sempre più spesso viene indicato come “danno alla salute” o, come assunto dalla Corte Costituzionale, “lesione alla salute”, da menomazione dell’integrità biopsichica si evolve, ampliandosi
∗Avvocato del Foro di Palermo
sempre più, fino a divenire lesione di tutte le attività realizzatrici della persona umana, diverse da quelle meramente lucrative ed integranti quei “diritti inviolabili dell’uomo” costituzionalmente garantiti. Entrano così a far parte del
“danno biologico” i danni alla vita di relazione ed i danni estetici, in quanto non incidenti gli uni e gli altri sulla capacità reddituale, la compromissione della sfera sessuale, le limitazioni alle attività del tempo libero.
I diritti risarcitori, assoggettati alla disciplina generale della responsabilità civile, ad un dato tratto del cammino anzidetto, vengono enucleati in riferimento: ai
“danni patrimoniali”, di rilevanza esclusivamente pecuniaria sotto il duplice profilo del “danno emergente” del “lucro cessante”, ai “danni morali”, tradizionalmente individuati quale “turbamento d’animo transeunte”
determinato dalle sofferenze subite per le lesioni alla propria personalità od a persone legate, attraverso un vincolo di parentela o di convivenza, a tale soggetto, ed alle “lesioni alla salute”, integranti menomazioni psico-somatiche valutate o in sé e per sé o quali compromissioni delle normali componenti del vivere umano, siano esse personali o interpersonali.
Subordinata la risarcibilità delle “lesioni alla salute” alla prova specifica della ricorrenza di una lesione psico-somatica, oggettivamente rilevabile attraverso l’indagine medico – legale, la dottrina prima e la giurisprudenza poi riscontrano l’esistenza in concreto di fattispecie nelle quali, pur sussistendo la compromissione delle normali componenti del vivere umano, non si era tuttavia realizzata la lesione psico-somatica, integrante la condizione sine qua non per l’attribuzione del risarcimento.
Per ovviare a tale irrisarcibilità di un danno concretamente esistente, sono state prospettate più soluzioni, tra le quali una si incentra nel tentativo di sganciare dall’art. 2059 cod. civ. il risarcimento del danno morale.
Al detto fine è stato rilevato (Toscano, Danno Biologico e Morale) che, in base alla concezione unitaria del danno alla persona, non soltanto la lesione dell’integrità psicofisica ma altresì il danno morale connesso hanno tutela di rango costituzionale negli artt. 32 e 2 della Costituzione, tutela che si realizza con l’utilizzazione della disposizione di cui all’art. 2043 cod. civ.
Tale costruzione, in realtà, non risolve il problema, che si incentra nella finalità di risarcire il danno morale non connesso alla lesione psicofisica.
Altra soluzione prospettata è quella di ritenere il danno morale risarcibile in tutte le ipotesi in cui questo derivi dalla lesione di un diritto inviolabile costituzionalmente garantito.
La dottrina (Cricenti, Il danno non patrimoniale) ha posto in luce che, pur movendo dalla premessa che il danno morale non va identificato con il danno biologico, non può tuttavia trascurarsi che il detto danno trova tutela costituzionale anche al di fuori dell’art. 32 e, specificamente, nell’art. 2 della carta fondamentale, che promuove e garantisce lo sviluppo della persona umana.
Anche la Cassazione (Cass. 7 giungo 2000, n° 7713), come la giurisprudenza di merito (ex plurimis Trib. Milano, Sez. VII, 20 ottobre 1997), è pervenuto al riconoscimento della risarcibilità, alla stregua della previsione normativa di cui all’art. 2043 cod. civ., di “tutti i danni che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana”, specificamente riconosciute e garantite dagli articoli 2 e seguenti della Costituzione.
La soluzione, che, però, ha trovato le maggiori adesioni sia in dottrina che in giurisprudenza, è quella che attraverso la introduzione della nuova categoria del
“danno esistenziale”, inteso quale “modificazione peggiorativa del tipo di vita condotto dalla vittima precedentemente all’evento lesivo”, sottrae il “pretium doloris” alle limitazioni di cui all’art. 2059 cod. civ., riconducendone la risarcibilità alla norma generale dell’art. 2043 stesso codice, ed, al tempo stesso, legittima la risarcibilità delle compromissioni delle normali componenti del vivere umano, pur in ipotesi di mancata instaurazione di una lesione psico-somatica.
Al pari di quella afferente al danno esistenziale, in quest’ ultimo periodo è stata affrontata dalle corti, sia di merito che di legittimità, la disamina della problematica relativa al risarcimento del “danno psichico” o “danno biologico di natura psichica” o “danno psicologico”.
Anche il “danno biologico di natura psichica”, quale lesione del diritto alla salute, trae origine dalla decisione della Corte costituzionale n° 184 del 1986.
Dal punto di vista scientifico, il danno psichico riguarda “il funzionamento della
psiche e le alterazioni di determinati processi mentali rispetto ad una condizione precedente” (Brondolo e Marigliano, Danno psichico).
La Corte costituzionale, con la sentenza n° 372 del 1994, opera la distinzione tra
“danno psichico” e “danno morale” in funzione del fatto che il secondo si esaurisce “in un patema d’animo o in uno stato di angoscia transeunte”, laddove il primo è “il momento terminale di un processo patogeno originato dal medesimo turbamento dell’equilibrio psichico che si sostanzia nel danno morale soggettivo”, che si evolve peggiorativamente in un “trauma fisico o psichico”.
Anche in relazione al danno psichico, la giurisprudenza (Trib. Torino 16 novembre 1999 e Trib. Torino 3 dicembre 1999) ammette la distinzione tra
“danno biologico di natura psichica temporaneo” e “danno psichico permanente”, richiedendosi, in ogni caso, per il risarcimento di tale titolo di danno, la ricorrenza di una “patologia suscettibile di apprezzamento a livello medico-legale”.
Sotto il rilievo del nesso di causalità, l’attribuzione del danno psichico va subordinata alla ricorrenza sia di un “rapporto cronologico” tra malattia e fatto illecito e sia di un “rapporto di adeguatezza qualitativa e quantitativa”, potendo il fatto illecito essere la causa necessaria e sufficiente del verificarsi della lesione o soltanto un elemento scatenante, in quanto si inserisce in una situazione preesistente.
Molto più complessa e meritevole di un maggiore approfondimento risulta, però, la problematica che investe il danno esistenziale.
In diretto riferimento al detto danno, deve porsi in chiara luce che tale nuovo istituto è teleologicamente strutturato per la realizzazione di un sistema risarcitorio che tuteli integralmente la persona dal pregiudizio determinato dalla
modificazione peggiorativa delle sue condizioni esistenziali.
Il danno esistenziale si inserisce nell’ambito di quel “tertium genus”, ideato per il danno biologico o alla salute, di natura non patrimoniale, ma ciò nonostante indennizzabile in base all’art. 2043 cod. civ., e cioè al di là ed al di fuori della limitazione conseguente alla condizione posta dall’art. 2059 stesso codice.
In vero, il danno esistenziale è strutturato sullo stesso paradigma logico e
giuridico, in base al quale venne introdotto e giustificato il danno biologico.
Allora, il danno biologico superò i limiti posti dalla condizione dettata dall’art.
2059 cod. civ. ed approdò alla risarcibilità, sancita dalla norma generale dell’art.
2043 stesso codice, attraverso la lettura di quest’ultima norma in chiave costituzionale, e cioè attraverso il ricorso alla formula “art. 2043 cod. civ. + art.
32 Costituzione”; allo stesso modo, sostituendo, nella formula suddetta, l’art. 32 Costituzione con l’art. 2 della stessa Costituzione, il risarcimento del danno esistenziale viene ad essere ancorato all’art. 2043 del codice civile.
La giurisprudenza di merito, in termini assolutamente lapidari, ha indicato che “la tutela costituzionale del diritto al danno esistenziale va individuata nell’art. 2 della Costituzione, che tutela i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” (Trib. Milano 21 ottobre 1999).
Anche la Corte di Cassazione è pervenuta al riconoscimento del danno esistenziale, rilevando che “la vigente costituzione, garantendo principalmente e primariamente valori personali, impone una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2043 cod. civ. (che non si sottrarrebbe altrimenti ad esiti di incostituzionalità) in correlazione agli articoli della Carta che tutela i predetti valori” (Cass. 7 giugno 2000, n° 7713).
La figura del danno esistenziale è stata, però, sottoposta a severa, puntuale e motivata critica da una parte sia della dottrina (V.M. Rossetti, Il danno esistenziale tra l’art. 2043 e l’art. 2049 cod. civ., in Resp. civ. prev. 2001, 809 e segg.) e sia della giurisprudenza (Trib. Roma 7 marzo 2002).
Il Tribunale romano, reiterando le critiche articolate dalla dottrina, censura, innanzitutto, la risarcibilità del danno esistenziale, in quanto questa si giustificherebbe in base alla figura del “danno - evento”, che la Corte Costituzionale, dopo averla accolta con la sentenza n° 184 del 14 luglio 1986, ha chiaramente abbandonato, affermando, con la sentenza n° 372 del 27 ottobre 1994, che l’”oggetto del risarcimento …. non può consistere se non in una perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva”,
escludendo, per ciò stesso, che la lesione di un diritto costituzionalmente protetto sia risarcibile di per sé.
Inoltre, il Tribunale romano, richiamato che il concetto di colpa civile poggia sul presupposto della concreta prevedibilità ed evitabilità dell’evento, rileva criticamente che, ove si volesse configurare il danno esistenziale come “danno – evento”, verrebbe meno, in relazione alla molteplicità ed eccessiva varietà delle attività esistenziali astrattamene compromettibili, il presupposto della prevedibilità e prevenibilità dell’evento di danno, mentre, nel caso in cui il danno esistenziale dovesse essere configurato come “danno – conseguenza”, la prevedibilità dell’evento di danno dovrebbe necessariamente riguardare una lesione ontologicamente diversa dalla perdita dell’attività esistenziale, e, cioè, pur sempre “una lesione o biologica o patrimoniale o morale”.
Il giudice romano rileva, altresì, che “sul piano del contenuto”, in considerazione della configurabilità di “gesti” del vivere quotidiano assolutamente insignificanti, deve ammettersi che “una qualsiasi perdita esistenziale possa costituire un danno risarcibile”, con la ineliminabile conseguenza di dover individuare l’attività esistenziale meritevole di tutela attraverso il relativo aggancio ad una norma costituzionale o ad una norma di legge, il che rende superfluo la introduzione nel sistema vigente della nuova figura.
Infine e soprattutto la sentenza del Tribunale romano osserva criticamente che “il concreto pregiudizio che si intende contestare come danno esistenziale non riesce a distinguersi in nulla dal danno morale”, in base al rilievo essenziale, tra gli altri, che, in quanto il danno morale deriva anch’esso dalla lesione di diritti costituzionalmente tutelati, “il risarcimento di un danno esistenziale per la perdita di un’attività oggetto di tutela costituzionale” è lo stesso identico
“risarcimento di un danno morale per sofferenza causata da quella rinuncia”.
Il contrasto, sia dottrinale e sia giurisprudenziale, che ancora si agita intorno alla figura del danno esistenziale, affonda le sue radici nella esigenza di certezza che è propria del diritto e, quindi, dell’istituto giuridico del risarcimento del danno da
fatto illecito.
Non si può certo dubitare che la costruzione, accolta dalla Consulta nella sentenza n° 184 del 1986, la quale sancisce la rilevanza generale dei principi affermati in tema di lesione alla salute, continua a reggere, esplicando la sua validità, pur dopo il superamento della teoria del danno evento.
Ricordato, da un lato, che le preclusioni, derivanti dalla condizione posta dall’art.
2059 cod. civ., al risarcimento del danno biologico vennero superate con il ricorso, sul piano logico – giuridico, allo schema “art. 2043 + art. 32 Costituzione”, e, rilevato, dall’altro lato, che il valore salute, contemplato dall’art. 32 della Carta Costituzionale, non è il solo ad essere tutelato e garantito costituzionalmente, risulta di tutta evidenza che, al di là di una inspiegabile quanto ingiustificata e meramente arbitraria discriminazione tra valori allo stesso modo tutelati dalla Costituzione, il danno esistenziale ottiene il suo riconoscimento - così come a suo tempo il danno biologico - sostituendo, nello schema ricordato, all’art. 32 Costituzione l’art. 2 Costituzione, o, in riferimento agli altri valori tutelati, le altre norme costituzionali.
Attribuito riconoscimento giuridico alla nuova figura del danno esistenziale, l’esigenza di certezza, poc’anzi rilevata, impone una netta presa di posizione in riferimento al duplice presupposto del positivo accertamento in concreto della lesione del bene costituzionalmente garantito e del correlativo onere probatorio.
Sotto il rilievo dell’onere della prova, superata, in base tanto al principio di comune esperienza che qualsiasi danno è la conseguenza di un evento antecedente, che ne costituisce la causa, per cui non esiste nella realtà fenomenica un’entità che assommi in sé entrambi gli elementi essenziali della causalità, e cioè la “causa” e “l’effetto”, quanto all’affermazione, espressa dalla Consulta nella sentenza n° 372 del 1994 ed in base alla quale il “risarcimento … non può consistere se non in una perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva”, la costruzione del “danno - evento”, deve senz’altro ritenersi che, alla stregua della disciplina generale dettata dall’art. 2043 cod. civ., in tema di responsabilità civile, anche in riferimento al danno esistenziale incombe al danneggiato l’onere di provare, oltre alla responsabilità, al di là dei
pochi e determinati casi di responsabilità presunta, la sussistenza del danno, per il risarcimento del quale agisce un giudizio, e “detta prova costituisce il presupposto indispensabile anche per poter procedere a liquidazioni di tipo equitativo” (Cass. 24 maggio 2001, n° 7093), ed, altresì, il nesso di causalità tra il danno, del quale domanda la riparazione, ed il comportamento che assume averlo cagionato, “perché il rapporto di causalità costituisce fatto costitutivo del diritto al risarcimento e, pertanto, ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., l’onere della relativa prova incombe sull’attore” (Cass. 23 maggio 2001, n°7026).
E’, poi, intuitivo che tale prova può essere data con ogni mezzo e, quindi, anche attraverso presunzioni, che debbono, in ogni caso, fondarsi, alla stregua della previsione di cui all’art. 2729 cod. civ., su circostanze gravi, precise e concordanti, e non certo sulla mera quanto vaga “ragionevolezza” delle asserzioni del danneggiato, in merito alla ricorrenza del pregiudizio lamentato,
“ragionevolezza” che non può dal giudice (vedasi Trib. Napoli 12 febbraio 2002) essere arbitrariamente elevata, attraverso il ricorso all’id quod plerumque accidit, ad integrare quel meccanismo di conseguenzialità, desumibile dalla norma dell’art. 1223 cod. civ.
Se il danno esistenziale si incentra e si identifica nella modificazione peggiorativa, conseguente all’altrui fatto illecito, delle condizioni esistenziali della vittima, non vi è possibilità, sul piano logico e giuridico, di escludere che il danneggiato, oltre alla ricorrenza del fatto illecito, debba provare la sussistenza oggettiva, perché esteriorizzatasi nel concreto ove i valori esistenziali si esplicano, della lamentata modificazione, per quanto transeunte, quale cagionata, direttamente o indirettamente, dal fatto illecito.
Se può ammettersi che il verificarsi di un insulto, più o meno grave, alla persona, propria o del congiunto, provochi normalmente uno status soggettivo di contrizione, nel senso più ampio e generale del termine, non può, invece, ammettersi, senza il supporto di una prova specifica, sia pure presuntiva, che tale insulto cagioni altresì, in base a quel criterio di adeguatezza causale accolto dal legislatore, la lesione di un valore umano giuridicamente protetto, attraverso la relativa contemplazione in una norma di legge o della Costituzione.
Basta che la morte, che senza dubbio è l’insulto estremo alla persona, è una costante – perché ricorrente e certa – della realtà concreta cui l’individuo inerisce, per non dubitare che tale insulto estremo, mentre determina nei congiunti sempre e comunque una contrizione soggettiva, non altrettanto ricorrentemente cagiona una lesione, che si oggettiva nella realtà esteriore, dei valori esistenziali dell’individuo.
E, se è vero che il danno esistenziale, a pena della sua autonomia, non è sovrapponibile al danno morale, è altrettanto vero che il risarcimento dello stato soggettivo di costrizione non può essere attribuito, oltre che a titolo di danno morale, anche a titolo di danno esistenziale, ove non ricorra la prova positiva che tale stato soggettivo di contrizione, esteriorizzandosi nella realtà contingente, si sia oggettivizzato nella lesione di un valore esistenziale, giuridicamente tutelato.
Non può e non deve obliterarsi che, per definizione, “il risarcimento del danno da fatto illecito ha la funzione di porre il patrimonio” – inteso in senso più ampio di quello tradizionale, in quanto comprensivo di tutti gli attributi inerenti all’individuo – “del danneggiato nello stesso stato in cui si sarebbe trovato senza l’evento lesivo e, quindi, trova presupposto e limite nell’effettiva perdita subita da quel patrimonio, in conseguenza del fatto stesso” (Cass. 3 ottobre 1987, n° 7389).
E, se non si può assolutamente dubitare che il cammino, iniziato dai giudici genovesi intorno alla metà degli anni settanta, deve proseguire fino alla realizzazione del diritto al risarcimento integrale del danno alla persona, deve, però, evitarsi che, nel doveroso tentativo di realizzare concretamente un’effettiva
“restitutio in integrum”, venga alterata quella correlazione essenziale tra pregiudizio sofferto ed adeguatezza del risarcimento, con l’attribuzione di un pregiudizio insussistente o, ancora peggio, con la duplicazione del risarcimento per l’unico identico danno.
E’ appena il caso di evidenziare che la giuridica esigenza di assoluta rispondenza tra pregiudizio, effettivamente sofferto, e risarcimento, concretamente attribuito, assume rilevanza sociale in materia di circolazione stradale - materia che, con l’entrata in vigore della legge n° 990 del 1969 sull’assicurazione obbligatoria, è
divenuta uno dei terreni più fertili per l’iter evolutivo dell’istituto del risarcimento del danno da fatto illecito - in quanto, attraverso il meccanismo dell’adeguamento del premio assicurativo, il risarcimento, erogato dalla società assicuratrici, viene a riversarsi sulla collettività degli assicurati.