• Non ci sono risultati.

"All these places have their moments". Riqualificazione del Viadotto dei Presidenti e dei suoi spazi interstiziali

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi ""All these places have their moments". Riqualificazione del Viadotto dei Presidenti e dei suoi spazi interstiziali"

Copied!
254
0
0

Testo completo

(1)

Università di Pisa

DESTeC

Corso di laurea in Ingegneria Edile Architettura

a.a. 2014 /2015 Prof. Arch. Prof. Ing. Prof. Agr. L. Lanini V. Cutini F. Cinelli

(2)
(3)
(4)

0

(5)

IN GENERALE

1

p | 3

1.1 D’architettura

p|5sulla questione della frammentazione p|6

sulla questione della periferia p|11 sulla questione dello spazio pubblicop|15sulla questione del non luogo p|19sulla questione dell’infrastrutturap|22su altre questionip|26

1.2 D’ingegneria

p|35sulla questione della teoria configurazio-nale p|38sulla questione della griglia urbana e del movimento na-turalep|41sulla questione dell’axial analysisp|43sulla questione di alcuni indici configurazionalip|49 sulla questione delle critiche

(6)

2

IN PARTICOLARE

p | 57

2.1 Il III municipio

p|59 l’analisi territoriale p|61 la definizione del sistema attualep|65l’evoluzione p|69il Viadotto dei Presidenti

p|75Porte di Romap|85conclusionip|92

2.2 L’analisi configurazionale

p|97 l’analisi diacronica p|99

(7)

3

IN PRATICA

p | 151

3.1 Dunque

p|153 considerazioni in generale p|155 considera-zione in particolare p|158la conferenza municipale p|161 come agirep|164

3.2 Il sistema

p|173 l’infrastruttura p|178 la grigliap|196i per-corsip|203le attivitàp|208gli assortimentip|213

(8)
(9)

0|

Intro

“Ci sono luoghi scomparsi dalle mappe della città, dalla memoria degli abitanti e dalla loro vita quotidiana. Spazi che hanno dimenticato il rumore dei corpi, dei gesti e delle voci. Luoghi chiusi, inaccessibili, divenuti nel tempo volumi e superfici inospitali, figure invisibili. Hanno spezzato la storia e la bellezza, l’immaginazione e il paesaggio,

ma noi non ci rassegniamo. Il cambiamento partirà dalla rigenerazione di questi luoghi, e dalla capacità collettiva di recuperare gli spazi instabili della città, divenuti per molti orizzonti ambigui o violenti. Il cambiamento avverrà quando i flussi e le diverse identità della città

torneranno ad abitare questi luoghi. Il cambiamento trasformerà questi spazi in luoghi di scambio e di condivisione, aperti alla

rigenerazione degli usi e dei significati, a nuovi linguaggi e relazioni.” (Firenze St’O aperta)

(10)
(11)

La definizione di un sistema che vada a scrivere gli spazi bianchi residuali, brandelli vuoti del grande disegno di urbanizzazione che ha investito Roma nel corso del secolo scorso, mira a creare un organismo funzionante che si basi sul luogo, sia a servizio di coloro che il luogo lo abitano e renda migliore questo stesso luogo. Si è dunque cercato di riscoprirne e attestarne l’identità, la storia, e la capacità relazione, rendendolo, di nuovo, un luogo.

Si è partiti da un problema: il III municipio di Roma è tagliato lon-gitudinalmente dal Viadotto dei Presidenti, il tronco iniziale di un programma di definizione di Roma come capitale intrapreso nel do-poguerra e definitivamente abbandonato solo nel 2010, senza che si andasse oltre la costruzione del primo tronco viario che permet-tesse l’ingresso dell’Autostrada A1 all’interno del Raccordo Anulare. Il Viadotto dei Presidenti è dotato di un percorso destinato alla

(12)

mo-bilità pubblica leggera rimasta fin dalla sua realizzazione agli inizi degli anni 90, inutilizzata.

Portato all’attenzione delle cronache a causa dell’inserimento nel programma del Gruppo G124 del senatore Renzo Piano, ci si è chiesti se proprio questa infrastruttura abbandonata potesse essere la risposta alle esigenze segnalate dagli abitanti stessi nella Confe-renza Municipale del dicembre 2014. La mancanza di un sistema di percorribilità ciclabile e pedonale, la necessità di servizi che si occupino delle fasce più deboli delle popolazione come bambini e anziani, che rimangono schiacciati dal meccanismo di quartie-re dormitorio che sta sempquartie-re più caratterizzando la prima perife-ria romana, ma anche la grave minaccia del non luogo e della standardizzazione che aleggia sulla periferia in sé, aggravata dalla nuova centralità urbana Bufalotta, sta portando all’impoverimento se non alla perdita di una vita di quartiere e dunque della comunità. Come siamo arrivati a questo punto, come si è depositato il cadave-re dell’infrastruttura abbandonata sul territorio del municipio e quali sono le possibilità che questa stessa ferita offre?

Il III municipio inquadra il quadrante nord est della capitale e ri-mane inesplorato fino agli inizi del ‘900. Le prime sperimentazioni sul territorio sono quelle di Gustavo Giovannoni, che, favorendo il rapporto privilegiato che ivi permane con la realtà della campagna romana, realizza sul modello della Garden City, la Città Giardino. Seguirono poi le prime borgate storiche, del Tufello e Val Melaina, caratterizzate sempre dalla dimensione non eccessiva e dalla pre-senza del verde. Dal dopo guerra in poi il territorio è stato preda

(13)

dell’abusivismo e del costruttivismo spregiudicato, sorgono i grandi palazzoni grigi delle periferie, la densità aumenta in maniera spro-positata e investe anche gli stessi primi insediamenti.

Lo studio configurazionale del municipio, la sua evoluzione e la sua crescente saturazione hanno spiegato le dinamiche che si sono andate forgiando nel corso della sua crescita urbana, denunciando le mancanze del complesso urbanistico, e le modifiche immesse nel sistema urbano dal Viadotto prima e dalla centralità urbana Bufa-lotta poi. Un’analisi più approfondita della configurazione attuale denuncia la mancata opportunità che non è stata colta proprio con il Viadotto: risulta centrale nel suo dispiegarsi longitudinale, come risultano centrali le due stazioni di cui la linea di mobilità leggera era stata dotata, ma, rispetto ad altri tronchi viari che presentano le stesse peculiarità, non vi corrispondono insediamenti di attività e particolari connessioni.

Si è dunque deciso di cogliere questa opportunità che la stessa con-figurazione offre, cercando di attribuire al Viadotto un valore se-mantico centrale, che vada ad affiancare la posizione centrale che già ricopre, rendendolo segno, fulcro e linfa del municipio.

(14)
(15)

1|

In generale

“La dimensione urbana in cui il cittadino si è voluto insinuare gli si è rivolta contro. Ci siamo sempre voluti sentire parte di una grande organismo per poi ritrovarci a sentirci troppo piccoli.” (Periferie, quale futuro?)

(16)
(17)

Accostarsi al tema della periferia significa entrare in un dibattito quasi infinito di pareri, cause e conseguenze. Il tema del degrado delle zone pe-riurbane delle città è stato trattato da molti e sotto vari aspetti. Si è dunque cercato di riportare articoli e opinioni varie e articolate, talvolta opposte, che si sono analizzate nello studio di questa tesi, ma che hanno portato, tramite una sintesi critica, a una definizione del problema che siamo andati ad affrontare.

(18)

1.1.1 Sulla questione della frammentazione

1.1.1.1 Sprawltown | R.Ingersoll

Senza accorgercene la città è scomparsa 1.

Continuiamo a vivere in ambienti urbani con nomi storici, come Roma, Parigi, New York, ma oggi la maggior parte del mondo svi-luppato abita in periferia. L’eccesso di urbanizzazione negli ultimi 50 anni ha portato la città oltre la metropoli, oltre la megalopoli: un territorio urbanizzato.

Sprawl, il termine usato per descrivere la crescita indistinta che ha interessato le città americane negli anni Sessanta, significa sdra-iato, e non ha equivalenza nella lingua italiana, si può utilizzare una pluralità di termini per esprimerne l’idea, periferia, periurbano, conurbazione, nebulosi urbana, exurbia, città diffusa. Se prima il fenomeno si poteva riscontrare solo nelle città dotate di benessere economico, le città più ricche, adesso questo tipo di espansione si riscontra anche in città come Il Cairo. Oggi più del 50% del mondo abita in città e di questo oramai il 60% abita in situazioni

periurba-ne, portando al definitivo declino delle categorie di urbano e rurale. Town significa piccola città, nel senso di comunità. Anche la comu-nità ne esce mutata, nella grande espansione urbana infatti, sono alla deriva i rapporti di vicinanza e partecipazione, è cambiato il pa-esaggio e questo cambiamento ha portato con sé mutamenti antro-pologici: il mondo civico della piazza è stato abbandonato perché si lavora e si vive altrove, i valori della polis sono monumentalizzati nella forma urbana dei centri storici o riprodotti in altri contesti, di fatto terra di nessuno. Nella città la maglia urbana di strade tra-smette un’impressione di interconnettività che rassicura l’utente sulla raggiungibilità di ogni destinazione, gli sviluppi al di fuori del centro storico causano invece un forte senso di disorientamento. La stra-da di scorrimento e il paesaggio spezzettato dello sprawl inducono soltanto dubbi intorno al legame tra sistema viario e tessuto urba-no. Al di fuori della town, la comunità si risolve senza adiacenza e propinquità.

L’individuo non è più radicato nello spazio e il suo rapporto con la città non è più quello da abitante, da cittadino, è un rapporto ambiguo che lo assimila al turista. Sprawl è un modo di essere. So-stiene Gianni Vattimo “ Vivere in questo modo molteplice significa fare esperienza della libertà come oscillazione continua tra appar-tenenza e spaesamento.”2 Lo Sprawl è apparso ai margini della città

storiche grazie ai nuovi mezzi di trasporto su rotaie, l’economia dell’automobile è stata poi determinante per la sua diffusione; ma adesso quei fenomeni posturbani, come i centri commerciali che un tempo caratterizzavano soltanto la periferia, si ripetono anche nel

(19)

centro. La diffusione dello Sprawl è quindi arrivata a definire non più soltanto un modo di occupazione dello spazio, ma anche il modo in cui lo si vive, tutte le interazioni sociali sono ormai mediate da mezzi telematici.

Paul Virilio descrive così la città “questa è una città sempre meno topica e territoriale e sempre più teletopica e profondamente ex-traterritoriale, in cui le nozioni geometriche di centro e di periferia perderanno a poco a poco il loro significato”3. Vivere lo sprawl

significa trovarsi liberi da vincoli di spazio e tempo.

La perdita di centralità del centro delle città, la difficoltà di orientar-si nella trama indistinta della periferia che ci porta a sapere dove siamo ma senza riuscire ad orientarci, riassumo i connotati di un mondo senza orientamento. La pianta di Roma di Giovambattista Nolli (1748) è prodotta con la tecnica figura sfondo, mostra i vuoti bianchi delle strade, delle piazze e dei giardini, e i pieni neri dell’e-dificato. Questa rappresentazione non sarebbe efficace né per rap-presentare la città, né per rappresentarne il territorio circostante, a caratterizzarli adesso è più il movimento che lo spazio e i rapporti tra pieni e vuoti non esistono più, o è tutta figura o è tutto sfondo. L’arte del montaggio cinematografico sembra quindi indicata per raccontare la periferia, come dimostra Fellini ne “La dolce vita” o Jean Luc Godard in “Due o tre cose che so di lei”, che hanno aper-to il discorso sulla periferia negli anni Sessanta, molaper-to prima degli urbanisti.

Secondo i criteri rinascimentali e pittoreschi la città preindustriale è bella e la periferia attuale è brutta. La bellezza del centro deriva dal

fatto che è statico, e quindi facile da comprendere come il punto di fuga della prospettiva, lo sprawl invece è mosso, volubile, sfuo-cato, incomprensibile. Un tempo tutte le città avevano una maglia di strade contenuta in una forma compatta, l’identità del luogo era stabilita da una gerarchia architettonica di monumenti e spazi ur-bani che rappresentavano la collettività, la sintassi delle varie città si assomigliava, ma nessuna città era uguale all’altra. Oggi il contesto della periferia è composto da strade di scorrimento, svincoli sopra-elevati, cartelloni pubblicitari e grandi edifici banali circondati da parcheggi; la stessa cosa si ripete tante volte senza che vi sia una sintassi. Lo sprawl non viene mai letto come un’unità perché non si può avere una visione d’insieme, sarebbe quindi facile conclu-dere che tutte le periferie sono uguali nel loro disordine perché si ritrovano e si riproducono gli stessi oggetti, distributori di benzina, capannoni, uscite autostradali, ma si può comunque ravvisare una differenza sostanziale tra le periferie europee e quelle americane, quelle europee infatti sono più dipendenti dal centro storico e sono quasi sempre frutto della pianificazione, qualcheduna addirittura si è espansa senza compromessi e abusivismi, come in Spagna e in Olanda.

Ma se lo sprawl rovina l’ambiente delle città e del territorio, porta in sé la necessità moderna di una libertà individuale: l’unico principio della società di massa che rimane accettabile è che ognuno può avere accesso al benessere, a una casa, a un lavoro: avere accesso ai servizi è il mandato democratico della modernità4. Il mito della

(20)

lasciando una scia di spreco di risorse e di degrado ambientale: il paesaggio suburbano sembra l’esito dell’entropia urbana, il pote-re del consumismo avanza in modo inarpote-restabile, e per questo lo sprawl diventa insopprimibile. La città come forma e come comunità è stata sacrificata per quella che forse è solo un’illusoria libertà in-dividuale offerta dalla società dei consumi. Ci sarà un giorno in cui ci domanderemo se si può davvero chiamare libertà dover andare a far la spesa in macchina perché andare a piedi è troppo lontano? Se si conviene che lo sprawl è brutto, come è possibile che noi, beneficiari della vita moderna ci troviamo belli in questo ambiente? Essere liberi di consumare forse è una libertà, ma non totalitaria, la fuga individualistica da un’identità ereditata dalla cultura urbana non è necessariamente liberatoria. Riscoprire il senso di respon-sabilità verso gli altri, prendersi cura dell’ambiente, partecipare al dialogo per definire e risolvere i problemi collettivi sono modi per sentirsi liberi, anche in una società di consumi. La libertà della polis era concepibile soltanto sottoforma di dialogo ed essere ostracizzati dalla comunità era la punizione più severa. Sotto il manifesto della libertà individuale, i praticanti dello sprawl si sono auto ostracizzati. Tra tutti i frammenti alienati della città diffusa, ci si attende un nuovo synoikismos, l’accordo di vivere insieme nel dialogo. E questo non è un mandato per i politici ma anche una questione per i progettisti.

1.1.1.2 Città in frantumi | S.Paone

Le città negli ultimi trent’anni hanno subito profonde trasformazio-ni e questo ha comportato un rafforzamento di forme di centralità legate alla funzione di comando che da sempre sono state asse-gnate allo spazio urbano. Come più volte ha ricordato Gottmann5

il concetto di rete è fondamentale per comprendere i meccanismi di funzionamento di una città. Infatti ogni città è una rete innanzitutto infrastrutturale, a cui si aggiungono una serie di rete complementari che sono legate alle capacità relazionali dei soggetti che si muovo-no e agiscomuovo-no nello spazio urbamuovo-no. Ogni società civilizzata ha poi sempre avuto bisogno di un centro affinchè la popolazione dispersa fosse amministrata e nel frattempo gli venissero offerti una serie di servizi: la centralità della città implica sempre funzioni di governo, ma anche quelle dei rituali collettivi, religiosi, e la funzione di mer-cato6.

Nodi, flussi e reti di un potere urbano

Fino agli anni Settanta del XX secolo è stato fondamentale per lo sviluppo urbano il binomio città/territorio circostante, sia perché l’espansione del ciclo fordista (la crescita della città su base indu-striale) ha comportato la diffusione di agglomerati urbani attorno a un centro, sia perché il fordismo inteso come produzione di beni standardizzati e di massa ha trovato nella città e nel suo interland un gigantesco artificio per la circolazione dei beni prodotti. La crisi del sistema fordista ha quindi significato anche il declino del modello

(21)

gravitazionale di organizzazione territoriale in cui la città si poneva come luogo centrale e momento gerarchico rispetto al territorio cir-costante.

Le città sono entrate a far parte di un insieme di relazioni e di potere capaci di seguire sempre meno la logica di continuità e di struttu-rarsi sempre più in funzione di nodi (centri urbani) e di assi (flussi di merce, gente, capitali e informazioni) che li collegano. L’imma-terialità delle relazioni dovuta alle nuove tecnologie informatiche ha permesso di rendere complesse e articolate le reti che le città producono e su cui si sostengono. Questo ha fatto sì che al model-lo gravitazionale si sia sostituita gradualmente una struttura di tipo policentrico: un sistema a rete composto di spazi, anche distanti tra loro, interconnessi, che hanno i loro punti di forza nei nodi urbani, scostandosi dalla tradizionale gerarchia che va dalla capitale alla città di provincia7. Mentre la città fordista nel suo funzionamento è

stata paragonata ad una macchina, la rete di nodi urbani ha una natura dinamica associabile al flusso.

La dispersione territoriale delle attività economiche, le nuove tec-nologie, hanno generato nuove e più articolate forme di concen-trazione legate alla funzione di organizzazione. I centri urbani nei quali si viene a realizzare la massima concentrazione di questo tipo di attività sono definiti città globali8. Queste a loro volta entrano in

una rete di potere in cui le relazioni si basano sull’utilizzo di nuove tecnologie e operano come punti direzionali dell’economia globale, come localizzazione chiave per società di servizi finanziari, come luoghi di produzione e innovazione e come mercati.

Centralità e marginalità: verso la città duale

Gli studi urbani che hanno per tema la globalizzazione, sottolinea-no sia le gerarchie che si vengosottolinea-no a formare, sia i processi di seg-mentazione all’interno del medesimo spazio urbano, mettendo in risalto il rischio che le città si frantumino e i loro pezzi non riescano a riconnettersi, vista la nuova configurazione del potere urbano, variabile, effimera e indipendente al luogo.

La presenza di diverse centralità e concentrazioni ridisegna il mondo urbanizzato come una catena di aree metropolitane collegate fra loro da lunghi corridoi di comunicazione ma nello stesso tempo il risultato di questo nuovo tipo di relazione non è dato dalla somma delle diverse parti che compongono una città. Infatti se da un lato le città sono gli insediamenti in cui si concentrano nuove funzioni e nuove possibilità, nello stesso tempo il sistema rete è fortemente escludente, e lo spazio urbano è quello in cui coesistono nuove forme di ricchezza e nuove forme di marginalità. Le città diventano duali, ovvero composte da aree residenziali e di consumo desti-nate ai nuovi gruppo di potere, e zone segregate e marginali. La dualizzazione dello spazio urbano quindi non segue più la classi-ca dicotomia centro periferia, ma spazi di marginalità costellano le aree urbane rendendole una sorta di arcipelago in cui si alternano mondi completamente differenti.

Marcuse spezzetta ulteriormente lo spazio urbano distinguendovi enclaves riservate ai più abbienti, zone centrali della città che han-no subito la gentrificazione da parte di classi medio alte che hanhan-no espulso i gruppi che prima vi risiedevano, aree suburbane riservate

(22)

alla classe media e i nuovi ghetti di esclusione, in cui l’appartenenza etnica si lega a quella di classe e ivi si concentrano soggetti tagliati fuori dal nuovo ordine economico.

L’indebolimento delle relazioni nella città globale

L’economia globale ridefinisce quindi i concetti di centralità e mar-ginalità dando vita a uno spazio metropolitano fortemente segmen-tato e polarizzato socialmente, e per questo fragile dal punto di vista delle stesse relazioni spaziali e sociali.

La città nell’epoca della globalizzazione registra un indebolimento delle relazioni sociali che erano favorite dalla prossimità, e porta in alto il rischio che lo spazio urbano finisca per diventare una col-lezione di oggetti accostati ma reciprocamente indifferenti. Come sottolinea Secchi 9 una delle tendenze della vita all’interno delle

città è quella della creazione di percorsi del tutto individuali e per questo differenti dal percorso di tutti gli altri, i luoghi sono tenuti in-sieme solo da una mappa mentale individuale. In questa incessante creazione di reti di relazione individuali, si restringono le possibilità d’incontro e lo spazio che rimane tra gli oggetti e i contenitori che ciascuno frequenta. Tutto ciò rende il territorio e le città immense collezioni di oggetti che finiscono per essere accostati e muti. Secondo questa prospettiva le città appaiono sempre più caratte-rizzate da un’urbanizzazione in cui i singoli pezzi non riflettono più l’intensità di relazioni che è propria delle esperienze della città, ma le sfilacciature della dimensione spaziale e di quella relazionale.

1.1.1.3 La città generica | R.Koolhaas

Città generica e città incerta sono due metafore riconducibili all’op-posizione tra centralità e marginalità: la prima esprime una centralità sinonimo di esclusività e si espande attraverso tipologie privilegiate di habitat e di consumo e diffusione di architetture standardizzate, la seconda configura il definire di una marginalità il cui significato tende sempre meno ad essere associato a una distanza dal centro e coincide sempre più con forme di stigmatizzazione e immagini di dequalificazione sociale.

La città generica è la deriva della città contemporanea 10, è la

for-mazione di élite all’interno delle reti che compongono la città glo-bale, al loro stile di vita improntato all’iperconsumo. Essa si con-cretizza nella tendenza all’omogeneizzazione e alla similitudine di forme, essendo ripetizione infinita del medesimo modello struttura-le. Norberg Schultz sosteneva che la struttura basilare unificatrice del luogo si componeva di tre elementi, memoria, orientamento e identificazione, la città generica, con le sue spinte omogeneizzatrici diviene fattore determinante della perdita del luogo. La città generi-ca è generi-caratterizzata dalla standardizzazione e omogeneizzazione de-gli scenari urbani, le città tendono a essere identiche e a non offrire più nulla di inedito, inatteso o stimolante.

Accanto alle élite si muovono un insieme di mondi eterogenei, for-mati da soggetti la cui esistenza si svolge lungo percorsi che oscilla-no tra la momentanea inclusione, precarietà e definitiva esclusione. Spazialmente questi gruppi si articolano in zone territorialmente

(23)

se-gregate e culturalmente segmentate. L’impatto territoriale dell’eco-nomia globale permettere di distinguere, come detto, lo spazio dei flussi, rete globale che unisce i nodi strategici della produzione e della gestione del potere, e lo spazio dei luoghi, inteso come forma territoriale di organizzazione della vita quotidiana, molto frammen-tato, che comprende percorsi e ritmi di vita differenti e differenziati. A questa moltitudine di mondi, Agier da il nome di città incerta.

1.1.2 Sulla questione della periferia

1.1.2.1 La geometria variabile delle banlieue

italia-ne| S.Tosoni

Classicamente il concetto di periferia fa riferimento a una porzio-ne di territorio ben riconoscibile, più o meno defilata spazialmente rispetto a un centro attorno a cui continua a gravitare e da cui di-pende sotto vari punti di vista: per le infrastrutture, i servizi, le chan-ce lavorative o anche solo occasioni culturali e di socialità. Che si tratti di un’area degradata o di un’area soggetta a gentrificazione, tale territorio è immaginato come sostanzialmente continuo, con un

alto livello di uniformità interna e allo stesso tempo come interes-sato da medesimi processi. Se questi caratteri risultavano adeguati a rappresentare la città moderna, appare sempre meno utile a af-frontare le modalità del vivere urbano contemporaneo. E ciò anche per quanto riguarda il contesto italiano, sebbene nel nostro paese i processi di trasformazione accelerata che riguardano le grandi città globali si osservino in maniera limitata, sia per la marginalità del nostro paese rispetto agli scenari mondiali, sia per una certa capa-cità di inerzia che le città italiane oppongono ai processi di trasfor-mazione. Così sia nelle città maggiori come Roma e Milano, sia in quelle media Firenze, Torino, Napoli, Palermo e altre, è innanzitutto il rapporto classico centro periferia a saltare, al tipico rapporto sa-tellite si vanno a sostituire relazioni plurime e differenti.

A tali dinamiche di ridefinizione continua delle relazioni di connes-sione e disconnesconnes-sione si affianca la crisi dell’idea di periferia come territorio relativamente uniforme al proprio interno, interessato da processi del medesimo tipo. Ci troviamo infatti di fronte a quartieri difformi e discontinui, caratterizzati da tendenze e velocità che pos-sono anche farsi radicalmente divergenti; in molti casi non è solo l’idea di periferia a diventare problematica, ma anche quella di quartiere intesa come unità territoriale riconoscibile, dal momento che la frantumazione del territorio urbano sembra funzionale solo ad una arbitraria suddivisione amministrativa. E’ proprio tale fran-tumazione che da vita a territori sbriciolati in cui molte volte le isti-tuzioni rinunciano a politiche pubbliche delegando in modo sempre più ampio lo sviluppo urbano al privato.

(24)

Tale processo di frantumazione e riconnessione non interessa uni-camente quella che un tempo era la periferia, è infatti anche l’altro polo della relazione, il centro, a riconfigurarsi, differenziandosi e as-sumendo la forma di una stratificazione caotica di network differen-ti. Anche per descrivere il vivere contemporaneo questa descrizione di periferia appare inadeguata, infatti questi quartieri, più che ad unità ben individuate che gravitano intorno a un centro ugualmente riconoscibile, assomigliano più a effetti prospettici, alla forma di-segnata da una somma di differenti increspature, differenti pieghe urbane (Deleuze). Nel momento in cui la superficie piana del tessuto urbano è attraversata da reti plurali che esercitano su di essa forze connettive e disgiuntive, questa tende a sollevarsi e avvallarsi, a disegnare forme piegandosi. I quartieri sensibili rappresentano l’ef-fetto prodotto da un’operazione di piegatura che è almeno dupli-ce poiché alle pieghe della riorganizzazione funzionale dei network dislocati spazialmente, le stesse pieghe sono tirate e spinte da altri attori sociali, i cittadini che, nella loro prassi quotidiana, tentano di connettere e disconnettere luoghi diversi in un unico mondo di vita, ma anche attori che operano nel sociale, e tentano di assume-re come proprio elemento centrale il viveassume-re nel territorio nella sua pienezza. Pensare i quartieri sensibili sposta il fuoco dell’analisi del territorio e del suo contesto alle forze che lo piegano e lo impiega-no, rovesciando la prospettiva razionalista che faceva nascere unità insediative autosufficienti dal nulla, tracciando gli assi portanti di nuovi quartieri in un vuoto, e che tanti relitti ha lasciato sul territorio. Nella sua concreta realizzazione l’esperienza del periferico spesso

è caratterizzata dalla ripetizione, razionalizzazione e uso intensivo dello spazio edificabile, venendo a creare la tragedia della mono-tonia. La periferia è stata protagonista dell’epoca fordista, poiché era il luogo dove si abitava e dove si metteva in atto lo scontro per il controllo della produzione e delle idee; nella città post industriale, dopo il cambiamento del rapporto tra centralità e marginalità, e la delocalizzazione delle attività produttive, le periferie tendono a diventare sacchi di disoccupazione e spazi di immobilità.

1.1.2.2 Periferie del corpo e dell’anima |

D.Tetta-manzi

La periferia rimanda all’idea di cerchio, di rotondità, di abbraccio. La periferia esprime distanza, è ciò che sta intorno, per estensione ciò che è lontano dal centro. Ma se periferia è ciò che è lontano dal centro, è pure ciò che è lontano dal cuore, e dunque non è nella mente, non appartiene al pensiero. Così si crea la marginalità delle persone e dei luoghi. Non viene prima la desolazione dello spazio e del tempo, dell’anima e della ragione: prima sta la lontananza, una lontananza che non è densa di relazione, ma nasce dall’allon-tanamento scelto e voluto del rendere estraneo ciò che non è vicino al centro. E’ una sorte di egocentrismo che contamina la società e l’individuo, la città e il cittadino, che mina le basi sociali e impedisce alla società di realizzarsi nella sua pienezza di comunità.

(25)

rispetto a un ipotetico centro, ma anche rispetto a se stessi e al pro-prio essere persona. Nasce così la periferia intesa come rimozione, isolamento, emarginazione, abbandono, reazioni triste e violenta. Se una città ha un cuore e un’identità non ci sono periferie ne spa-ziali ne temporali ne umane. La periferia è quindi da intendersi in senso spaziale, quanto anche in senso tipicamente umano. Esiste inoltre una periferia ancor più radicale che coinvolge l’uomo come uomo, ossia nella sua umanità, che può diventare periferia a se stesso, quando è senza identità e senza radici, quando perde la capacità di riconoscere l’altro e stabilire una relazione, di essere cittadino, cioè quando si allontana dalla propria umanità.

La gente fugge dalla periferia della grande città, nuovi venuti ripo-polano gli spazi di chi è riuscito a fuggire senza che nessuno abbia risolto il problema che aveva causato la fuga. Questo renderà l’a-lienazione ancora peggiore e la violenza ancora più distruttiva. La gente fugge dalla periferia della grande città verso nuovi luoghi a misura d’uomo, e questo genera una periferia ancor più gigante-sca, smisurata, che minaccia sempre più il cuore, una periferia che inghiotte la persona. E così si celebra un altro tradimento, la fuga alla ricerca di un nuovo senso, di una nuova identità non trova compimento, perchè si sviluppa una nuova frenesia, edificatoria e quotidiana. Ci si muove in continuazione: si passa da un centro commerciale a un altro, ci si muove insieme ma isolati. Le nuove periferie debbono stordirci nel rumore, nei consumi, nella folla dove ciascuno ignora l’altro nella sua fisicità persino quando i corpi nel-la calca si sfiorano. Cosa produrrà un modello sociale fatto di un

frenetico correre tra lavoro e acquisti? Quale progetto di vita e di futuro sostiene questa immensa periferia? Nessuno riesce a ritrovare la gioia dell’appartenenza alla comunità sociale.

E’ necessario vincere l’oscurità, che è anche oscuramento e anneb-biamento di sé, uscirne fuori. E’ importante render possibile l’esser persona e condurre ciascuno per costruire tale possibilità ad affron-tare le proprie responsabilità individuali, sociali, civili e politiche.

1.1.2.3 Storie di periferia | G.Paba

Prima descrizione convenzionale

Periferia è una famiglia di associazioni mentali obbligate: la descri-zione tradizionale vede la periferia come mondo della distanza e della separazione, della lontananza dal centro, sia fisica sia simboli-ca in quanto estranea alla storia e alla cultura del centro stesso. Pe-riferia è il mondo astratto dell’uniformità e della razionalizzazione, universo qualitativo dello standard, geometria banale dell’edifica-zione, visione orizzontale della città zonizzata e spazialmente divisa. Periferia è un mondo costruito nella presunzione di una medietà biologica degli abitanti, vivere in una casa di periferia è vivere in una città mutilata, un frammento incompiuto della città.

Periferia è il mondo delle relazioni a distanza.

La condizione triste della periferia appartiene a tutte le periferie del mondo, ma la periferia italiana ha la peculiarità distintiva di essere “senza”: una città senza servizi, senza trasporti pubblici efficienti,

(26)

senza decoro urbano. Forse periferia è anche uno stato mentale, una condizione psicologica e culturale.

L’applicazione sistematica delle norme dell’edilizia quantitativa ha poi avuto la conseguenza della creazione di una macchina urbani-stica rigida e dura, le opportunità migliori infatti sono spesso offerte dagli spazi sfuggiti alla pianificazione, aree residuali, buchi nel pro-cesso di urbanizzazione.

La periferia è un elemento di transizione tra una città compatta e una campagna sgombra di costruzioni (“..configurarsi in un tessuto irregolare e eterogeneo, che determina un ambiente il quale non ha più la libera armonia del paesaggio naturale, ma che non possiede nemmeno l’ordine spaziale e volumetrico del paesaggio urbano” A.Rossi), definita quindi attraverso termini negativi, non paesaggio, non città, non luogo.

Seconda descrizione non convenzionale

Oggi la periferia è fisicamente e morfologicamente stratificata, ha una sua storia edilizia ormai relativamente lunga: è una somma di periferie distinte con gradi differenti di identità e abitabilità.

La periferia contiene buchi di urbanizzazione, spazi potenzialmente disponibili al cambiamento e all’uso collettivo, degradati, recintati, inaccessibili, pericolosi e sconnessi, sono spazi ignorati, che non conoscono ancora un sistema utilizzabile di spazi collettivi.

La periferia è dinamica, anche nelle trasformazioni edilizie: l’incro-stazione edilizia prosegue per aggiunte, completamenti, riempimenti e trasformazioni. E’ dinamica anche dal punto di vista demografico

e dal punto di vista dell’articolazione: vi sono centri minori, deboli e annegati in un paesaggio edilizio anonimo.

Periferia è luogo di interazione sociale e di intervento solidale, di attività di sostegno e di accoglienza, è volontà di contrasto, espres-sione di disagio sociale, elementi identitari del quartiere.

Nella periferia si forma un gusto per la memoria come scoperta, come risultato di un’attività di indagine, di ricerca di continuità del territorio con la sua storia. Forse la componente più importante e creativa della trasformazione della periferia è costituita dagli em-brioni di relazioni comunitarie che cominciano a crescere e proli-ferare.

Per Giddens “disembedding” è la condizione dell’abitare periferi-co, scioglimento dei vincoli di prossimità spaziale, sparizione della comunità organica raccolta nel suo insediamento, ma le nuove condizioni aprono una possibilità diversa di radicamento sociale e spaziale, una forma di reembedding, un processo consapevole di ricostruzione di solidarietà e comunità.

Le precedenti descrizioni delineano una periferia luogo di desola-zione e morte sociale, secondo la visione convenzionale e, secondo la visione ottimista, una fucina di risorse potenziali e di trasforma-zioni spaziali e sociali, collettivamente agite.

La verità non sta ne da una parte, ne dall’altra, ne nel mezzo, ma bensì nella somma: la periferia metropolitana consolidata è un campo di contraddizione, di movimenti antagonistici , di ribellione e pacificazione. E proprio in questo è già città, poichè conflitto e innovazione sono il fondamento di ogni organismo urbano.

(27)

1.1.3 Sulla questione dello spazio pubblico

1.1.3.1 Spazi aperti e crisi dello spazio pubblico |

V.Gregotti

Se nella città tradizionale lo spazio pubblico veniva vissuto nella piazza, quindi uno spazio per natura aperto ed esterno, nella città contemporanea sempre più spesso l’idea di spazio pubblico si as-socia alla forma chiusa e interna del grandi contenitori di terziario e tempo libero. La crisi contemporanea dell’idea di spazio pubblico può quindi esser letta molto genericamente come la crisi delle rigo-rose opposizioni aperto/chiuso, esterno/interno, pubblico/privato sulle quali si fondava l’organizzazione dello spazio nella città tradi-zionale. Come sostengono Cenzatti e Crawford, le moderne attività di socializzazione non avvengono più in spazi fortemente connota-ti come luoghi di rappresentazione colletconnota-tiva, bensì in spazi interni quasi pubblici. A questo fenomeno di progressiva nomadizzazione

ed atopicità delle pratiche di socializzazione si associa il fatto che la nozione stessa di spazio pubblico tende oggi a perdere una sua precisa definizione prestandosi a interpretazioni estremamente va-riegate e articolate, come quelle che seguono.

Parlare di crisi contemporanea del valore e dell’uso pubblico dello spazio aperto significa riferirsi a due filoni principali di riflessione critica, il primo riguarda il dibattito svolto negli anni ’50 all’interno degli ultimi CIAM intorno a nozioni come quella dell’Urban core, o quello di soglia tra spazi pubblici e privati (Aldo van Eyck). Il se-condo sugli studi tipologici degli anni sessanta che riporta l’atten-zione sui valori di regolarità e continuità morfologica delle strutture urbane.

Tutti questi filoni di riflessione critica hanno anche agito a livello di politiche urbane influenzando in particolare il fenomeno di embel-lissement degli spazi pubblici consolidati nei centri storici europei. Peter Buchanan critica il processo di progressiva riduzione dell’e-stetica urbana a una pratica di puro marketing, legata alla sempre maggiore terziarizzazione dei centri urbani e ad una interpretazio-ne iperestetizzante della disciplina del disegno urbano; lo spazio appare sempre troppo disegnato, e quindi piattamente grafico e decorativo.

(28)

1.1.3.2 L’uso degli spazi pubblici | AA.VV

Il carattere della città |Ulf Hannerz

Nel quadro della vita urbana non si deve trascurare la dimensione spaziale dell’organizzazione sociale e della cultura urbana: la città è una porzione di territorio affollata di interazioni umane. In un certo senso, ciò che resta del paesaggio naturale viene adattato a fattore strutturante della comunità, ma in gran parte è del paesaggio urba-no che ci dobbiamo occupare, cioè dell’ambiente che la popolazio-ne urbana si è creato.[..] Dobbiamo avere una maggiore apertura sui fattori che determinano la parcellizzazione del terreno e sui modi della sua appropriazione, tenendo conto dei quartieri residenziali non meno che dei centri monumentali. Ma bisogna anche sapere come un paesaggio urbano esprime per chi ci vive la società in ge-nerale e la comunità in particolare e come esso faciliti determinati contatti ostacolandone altri. Qual è il palcoscenico e quali invece le quinte della vita urbana?

Camillo Sitte e l’agorafilia | Jacques Dewitte

Scrive Sitte “Nell’urbanistica moderna il rapporto tra superfici edifi-cate e superfici vuote si è capovolto. In passato gli spazi vuoti costi-tuivano una totalità in se conclusa e se ne stabiliva la forma in base all’effetto che si voleva ottenere. Oggi si ritagliano lotti edificabili in

forma di figure regolari, e a quel che rimane si da il nome di strada o piazza”.

La suddivisione in lotti attuata dagli urbanisti implica un nuovo tipo di rapporto non solo tra superfici edificate e superfici piene, ma anche fra spazio e luogo. Un tempo la creazione di una piazza presupponeva il riconoscimento nella sua specificità di luogo, nel senso di uno sforzo inteso a costruire, dispiegare il luogo stesso a partire da ciò che esso era e in vista dell’effetto globale che si voleva produrre. La piazza era intesa come “totalità in se conchiusa”. Oggi invece si prendono le mosse dallo spazio globale, delimitando un certo numero di lotti che diverranno altrettanti blocchi edificati. E’ questo il modo di procedere a determinare il rovesciamento fra pieno e vuoto; il fatto stesso che all’interno di uno spazio globale si definiscano dei lotti come virtuali blocchi cinti da strade è indi-cativo della tendenza a concepire i pieni come circondati da vuoti, l’isolato come un cubo chiuso posto in un’area vuota. Ma questa logica fondamentale non si limita alla suddivisione dello spazio ur-bano in isolati, ma informa la liberalizzazione degli edifici che indu-ce a collocare tutti i monumenti al indu-centro di uno spazio vuoto. Nel suo funzionamento generale è la logica del sistema dei blocchi che identifica un pieno sempre circondato da un vuoto. E’ la logica che non riconosce alla strada o alla piazza alcuna specificità: lo spazio di risulta, il ritaglio di sartoria della lottizzazione diventa la piazza. Oppure esiste un blocco piazza, assimilabile al blocco edilizio. In entrambe i casi non si può parlare di piazza nel vero senso del ter-mine. Ma se la logica dei blocchi porta a negare la specificità della

(29)

piazza, produce d’altro canto un proliferare di spazio vuoto. La cit-tà moderna è caratterizzata da piazze immense, senza proporzione con gli edifici che la circondano, monotone spianate decisamente troppo grandi a cui si imputa la malattia tipica della società moder-na, l’agorafobia.

All’aridità del blocco risponde il vuoto angosciante dello spazio, sono due facce della medesima desolazione.

Spazi pubblici e mondi paralleli | Cenzatti e Crawford

Una definizione dello spazi pubblico diventa sempre più difficile per i critici dell’architettura che cercano un ordine urbano dalle coor-dinate visibili tra lo spazio costruito e lo spazio sociale, ma trovano solo assenza, ripetizione e frammenti. Per la maggioranza è impos-sibile riconoscere quei luoghi, shopping malls, atri di alberghi e uffici, luoghi di scambio di informazione, come spazi pubblici. In-dubbiamente se si definisce lo spazio pubblico secondo le categorie tradizioni del passato, agorà, forum piazza strada, i nuovi luoghi lasciano piuttosto a desiderare malgrado il pubblico che costante-mente li affolla. Tuttavia se si propone una definizione più flessibile, consideriamo sia pubblico che spazio dei concetti continuamente ridefiniti dalla realtà, e possiamo interpretarli come una prova della non scomparsa dello spazio pubblico, ma dell’emergere di un nuo-vo tipo di dominio pubblico.

Possiamo identificare due motivi per la difficile collazione teorica dei nuovi spazi, il primo deriva da una concezione storica e idea-lizzata di spazio pubblico come spazio della democrazia, dove tutti

hanno uguali diritti di abitare, dove tutti gli scambi sociali possono avvenite, dimentichi di come nella storia gli spazi pubblici sono sta-ti caratterizzasta-ti tanto dall’inclusione quanto dall’esclusione, come l’agorà greca preclusa a donne e schiavi. Al di la della sua breve romanticizzazione la definizione e funzione di spazio pubblico sono sempre caratterizzate da specifiche circostanze storiche che margi-nalizzano o privilegiano gruppi sociali che ne fissano cosi la natura e il diritto di accedervi. A questa prima difficoltà si intrecciano i cam-biamenti di ordine sia tecnologico sia sociale che oggi stanno defi-nendo i parametri entro cui lo spazio pubblico si colloca. Lo spazio costruito innanzitutto non è più lo strumento privilegiato che da la forma all’urbano e alla vita sociale: la città non è più una gerarchia statica di oggetti fisici in uno spazio unitario, ma una griglia compo-sta da una rete di trasporti e comunicazioni. Dato che l’interazione sociale nell’urbano senza luogo non è più legata quindi a luoghi privilegiati, anche la sfera pubblica acquista un nuovo concetto, la comunità senza prossimità. Senza più l’attrito della distanza, gli in-dividui possono costruire la loro socialità attraverso tante comunità di interessi. Accendendo a canali di comunicazioni, a nuove idee, gli individui possono prendere parte a relazioni sociali non dettate dalla prossimità spaziale. Allo stesso tempo decresce l’importanza della comunità luogo, per cui conta la posizione fisica. L’urbano senza luogo non ha quindi distrutto lo spazio pubblico, ma ne ha moltiplicato e diversificato le possibilità: i nuovi spazio sono parziali e selettivi e rispondono a segmenti limitati della popolazione e a un numero limitato di ruoli dell’individuo. I tipi di spazi pubblici

(30)

pro-dotti sono due, gli “spazi quasi pubblici”, come gli shopping malls, di proprietà privata ma usati pubblicamente, e una categoria quasi invisibile di spazi attraversati e definiti dalle nuove reti di comunica-zione, “quasi spazi pubblici”.

1.1.3.3 Spazio pubblico e periferie | C. Pignaris

Quando oggi si parla di periferie si usano spesso termini come “rammendare”, “ricucire”, ricostruire relazioni sociali, senso di co-munità. Come se in un qualche passato questi quartieri abbiano avuto identità, dinamicità sociale, e il problema del loro isolamento derivasse solo dall’averli progettati con trascuratezza, dimenticando di realizzare dei collegamenti con il centro cittadino.

In realtà le periferie storiche, quelle sorte prima dei fenomeni dei sobborghi abusivi o delle villettopoli, rappresentano il “peccato mortale dell’architettura moderna” (La Cecla) e furono pianificate a tavolino da grandi firme dell’architettura proprio con il proposito di creare dei ghetti isolati. Lo spazio pubblico spesso esiste, artico-lato, ma pensato senza abitanti (es. Gallaratese, Zen, Corviale). Immigrazione, illegalità, disoccupazione, abbandono scolastico, ri-duzione dei servizi sociali hanno acuito il problema, amplificando il senso di abbandono e insicurezza, oggi le strade, le piazze, i parchi delle periferie appaiono in generale degradati e deserti e le strut-ture come scuole, centri sportivi, palestre, quando esistono, sono recintate come dei bunker. Lo spazio pubblico è luogo di nessuno e

spazio privo di regole dove ogni forma di disagio può trovare casa, dall’occupazione abusiva con caravan e baracche al graffitismo, alle corse scommessa, alle sfide tra bande, all’offerta di servizi ille-gali. Eppure proprio in questi luoghi pieni di contraddizioni e tensio-ni sociali si stanno a poco a poco sviluppando interessanti esempi di riscatto e capacità di autorganizzazione: adozioni di aree verde, autocostruzione di orti comunitari, azioni di public art, mercatini solidali, merende interculturali, ecc.

Cos’è cambiato?

Uno degli enzimi di questo risveglio potrebbe essere il cambiamen-to sociale innescacambiamen-to dalla crisi economica, che sta spingendo nei quartieri periferici studenti, disoccupati, giovani famiglie, artisti, pre-cari, professionisti e piccoli imprenditori falliti, immigrati italiani e stranieri, espulsi dai centri storici ormai sempre più in mano ai gran-di investitori. Un melting pot gran-di soggetti portatori gran-di nuovi bisogni, consumatori di tecnologie ma anche affamati di mobilità sostenibile e di attenzione sociale, che sta invitando a guardare le periferie con occhi nuovi, come fucine di innovazione sociale.

Prima della crisi economica che ha investito il mondo negli ultimi dieci anni si inseguiva l’architettura dello spettacolo, dove le città erano scenario di sperimentazione di architetture originali e impo-nenti, come il Guggheneim di Bilbao; le archistar plasmavano le municipalità europee totalizzandone tutte le risorse togliendo fondi agli spazi pubblici; l’edilizia è stato il punto di partenza nonché la maggior vittima di tale crisi e in tal senso, la maniera di far architet-tura come precedentemente descritta è stata azzerata in quanto non

(31)

più sostenibile dalla società. Ecco quindi che la caratterizzazione delle città inizia a ripartire dalla riqualificazione e dalla cura del pro-prio spazio pubblico, in scenari come i vuoti urbani, i waterfront e i residui industriali si vanno a ricercare le opportunità di ricucire, ri-densificare, compattare alcuni brani di città, bilanciare pieni e vuoti favorendo un uso misto e nuovi modelli sostenibili di vita urbana.11

1.1.4 Sulla questione del non luogo

1.1.4.1 Non-lieu| M.Augè

“Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale e storico, uno spazio che non può definirsi nè identitario, nè relazionale, nè storico definirà un non luogo.”

Per definire il luogo il sociologo Marc Augè si rifà alla totalità del fatto sociale, che si pone sia come somma delle istituzioni che lo compongono sia come insieme delle diverse dimensioni in rapporto alle quali si definisce l’individualità di ciascuno di coloro che lo vivono e vi partecipano.

Le collettività hanno infatti bisogno di pensare nello stesso tempo all’identità e alla relazione e dunque di simboleggiare gli elementi costitutivi dell’identità condivisa, particolare e singola: il luogo

an-tropologico è principio di senso per chi lo abita e di intellegibilità per chi lo osserva. E’ la reiterazione stessa del luogo antropologico che ne condivide e conferma la necessità, decretandone quindi i tre caratteri principali, identitari, relazionali e storici.

• La concezione aristotelica di luogo lo definisce come spazio

in cui un corpo è posto, ogni corpo occupa quindi un proprio spazio e ne definisce l’identità di luogo.

• In ogni luogo possono coesistere elementi distinti e singoli,

ma non si possono negare le relazioni reciproche né l’identità condivisa che conferisce loro l’occupazione di un luogo comune.

• Un luogo è storico quando coloro che vi vivono possono

riconoscervi degli elementi che non devono essere oggetti di conoscenza.

I vari centri di potere sono al contempo luoghi monumentali, sim-boli della potenza dello stato e metafore visive di una ideologia condivisa da una nazione. Le abitazioni dei comuni mortali, anche se prive di aspetti monumentali o celebrativi, sono anch’esse luoghi che in diversa misura individuano la formazione culturale dei loro abitanti e la loro appartenenza sociale, conservano le loro memo-rie, condizionano comportamenti e creano consuetudini di utilizzo. Sono edifici che rendono riconoscibili i luoghi, sostanziano la me-moria individuale e collettiva.

(32)

che si può definire attraverso tre figure elementari dello spazio so-ciale, la linea, l’intersezione tra linee e il punto di intersezione. Nella città questi si traducono in itinerari, crocevia e centri più o meno monumentali. Sono queste stesse nozioni a sovrapporsi: un itine-rario può passare per differenti punti importanti che costituiscono altrettanti luoghi di incontro, questi punti possono essere fissi su itinerari che loro disegnano, e possono essere luoghi di attrazione e quindi caratterizzati da centri o monumentalità. Identità e relazio-ne diventano il centro di tutti i dispositivi spaziali, supportati anche dalla dimensione temporale, quindi gli itinerari si misurano in ore o minuti, il mercato, luogo di attrazione, si svolge in alcuni giorni, il monumento è espressione tangibile di permanenza.

La modernità non cancella i luoghi e i ritmi antichi, li pone sul-lo sfondo: le nostre città si trasformano in musei proprio mentre tangenziali, autostrade o strade a scorrimento veloce le aggirano. Lo fanno però con una punta di rimorso, infatti tempestano queste arterie esterne con indicazioni delle bellezze e della storia. I luoghi sono indicatori del tempo che passa e che sopravvive.

Il luogo si compie poi nelle parole, parlando lo stesso linguaggio si riconosce di appartenere allo stesso mondo, quindi nello scambio allusivo, nella convivenza e nell’intimità complice dei locatari. La surmodernità, prodotto di tre trasformazioni del mondo contem-poraneo : del tempo, dello spazio e dell’individuo

• Del tempo in quanto non possiamo più rifarci all’idea

dell’avanzamento temporale come sinonimo di progresso dopo i grandi stravolgimenti e le grandi atrocità avvenute nel XX secolo.

• Dello spazio, in quanto i mutamenti di scale, i riferimenti

immaginifici, l’accelerazione dei mezzi di trasporto comportano mutazioni fisiche considerevoli, che ci portano a dover reimparare a pensare lo spazio.

• Dell’individuo e del suo egocentrismo, in quanto ognuno

si considera compiuto in sé, rendendo labile e imprecisa l’identificazione collettiva in cui ogni individuo è implicato. Ed è proprio la surmodernità riproduce non luoghi antropologici che invece non integrano in sé i luoghi antichi.

Il concetto di non luogo si evolve in quello di superluogo quando torna ad accogliere in sé uno scambio sociale, anche se questo avviene nell’ottica del consumo. Il superluogo è un sintomo di cam-biamento di scala in un tessuto urbano tendente al decentramento: i centri storici delle grandi città sono ridotti a luoghi turistici, le attività e i centri commerciali migrano verso le periferie urbane, seguendo un percorso già praticato dal movimento di merci e persone. Ecco che i superluoghi diventano nuovi centri della città estesa, rimanen-do non luoghi nella loto indifferenza al sito, nella loro monumenta-lità e neutramonumenta-lità ma aggiungendovi l’isolamento della città storica e un concetto di spazio pubblico che prescinda dalla prossimità e sia trainato e unificato dall’elemento del consumo.

(33)

Un superluogo è una big box che ospita altre box di varie funzioni. La sovradimensionalità impera.

1.1.4.2 Sui non luoghi | L. Prestinenza Puglisi

Così quindi come Augè si chiede se la nostra società non stia di-struggendo il concetto di luogo come si è configurato nelle società precedenti, Luigi Prestinenza Puglisi ne biasima la lettura nostalgica esaltandone la dimensione dinamica12 : i luoghi tradizionali

presup-pongono una società sostanzialmente sedentaria, un microcosmo dotato di confini ben definiti; i non luoghi sono i nodi e le reti di un mondo senza confini.

Un luogo rimanda memorie, impone atteggiamenti e consuetudini, e proprio queste caratteristiche mancano per esempio alle strutture che nella nostra società contemporanea sono adibite al trasporto, al transito, al commercio, al tempo libero. Entriamo in un aeroporto: si fa una fila, si passa il check in, si mostrano i documenti, si visita il duty free shop, si paga preferibilmente mediante carta di credito, ci si muove seguendo messaggi anonimi, si sbarca in un altro ae-roporto simile al precedente dove ci attendono formalità identiche. Si pensa non per l’uomo specifico, conosciuto ed identificato come diverso rispetto agli altri, ma per l’uomo generico, individuato dal numero di un documento o di una carta di credito, queste strutture architettoniche sono configurate per ospitare un commercio muto, un mondo lasciato ad individualità solitarie, tutte assolutamente

uguali. La società democratica, non pone pregiudiziali di appar-tenenza: per poter accedere ed utilizzare le strutture della nostra contemporaneità basta che la persona – di qualunque nazionalità, credo o colore- rispetti alcune regole. Poche e ricorrenti, uguali per un centro commerciale, un parcheggio interrato , una autostrada o una macchina che eroga denaro. Ci si fa riconoscere come solvibili, si attende il proprio turno, si seguono le istruzioni, si fruisce del pro-dotto, si paga. L’identificazione è resa possibile dal passaporto, dal-la carta di credito, da un riconoscimento astrattamente sociale. Non più dalla conoscenza individuale, dal riconoscimento del gruppo. Dal punto di vista architettonico i non luoghi sono gli spazi dello standard. Sono strutture dove nulla è destinato al caso: al loro in-terno è calcolato il numero dei decibel, dei lux, la lunghezza dei percorsi, la frequenza dei luoghi di sosta, il tipo e la quantità di informazioni. Sono sicuramente gli unici spazi architettonici dove si è concretizzato il sogno della macchina per abitare, cioè della ergonomia, della efficienza, del confort tecnologico.

La loro quasi inevitabile omogeneizzazione è il prezzo pagato in termini figurativi. I non luoghi sono identici a Milano, a New York, a Londra o a Hong Kong. Monotonia, noia? –si chiede Prestinenza Puglisi- Tutt’altro. Gli utenti poco si curano che i centri commerciali siano tutti uguali. Anzi apprezzano la ripetizione delle infinite strut-ture così simili tra di loro, come dimostra la formula del franchising. L’utente sa, infatti, che troverà in qualsiasi città la catena dei suoi ristoranti preferiti o il suo albergo, e sarà certo degli standard di servizio a lui offerti. Similmente sa che qualunque aeroporto o

(34)

auto-strada vale un’altra e può tranquillamente avventurarvicisi sia che si trovi a Palermo o a Montreal.

Afferma Augè: “paradosso del non luogo: lo straniero smarrito in un Paese che non conosce ( lo straniero “di passaggio”) si ritrova soltanto nell’anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio, dei grandi magazzini o delle catene alberghiere”.

Simili a se stessi, eppure diversi: ecco un altro paradosso dei non luoghi. Entriamo in un grande centro commerciale: troveremo la cucina cinese, italiana, francese, tunisina, il negozio danese, ame-ricano, giapponese. Ognuno con un proprio stile. Continua Augè “ nei non luoghi vi è sempre un posto specifico ( in vetrina, su di un manifesto, a destra dell’aereo, a sinistra dell’autostrada) per del-le “curiosità” presentate come tali: ma essi non operano alcuna sintesi, non integrano nulla, autorizzano solo per il tempo di un percorso, la coesistenza di individualità distinte, simili e differenti le une dalle altre”.

Dal viaggio come esperienza della conoscenza, la società contem-poranea è arrivata al viaggio come concatenamento di diapositive, cioè di immagini frammentarie e tipiche. Ma se il mondo è ridotto al tipico, non è, in fondo, difficile estrarre i caratteri essenziali e portarli direttamente a domicilio. D’altronde noi europei che tanto storcia-mo il naso di fronte al potere devastante del tipico che caratterizza i non luoghi non ci accorgiamo, che nonostante le nostre Soprinten-denze imbalsamatrici, abbiamo permesso una simile omologazione di tutti i centri storici delle nostre città. A Londra, Parigi, Milano o a Roma si passeggia nello stesso modo: identici i negozi, i mimi, i

venditori di cibaglie, le macchine per il cambio di valuta, il senso di solitudine.

Per sentirci in un contesto sociale non ci rimane che guardare lo spettacolo degli altri che camminano e, a loro volta, ci osservano: uno spettacolo dove attori e spettatori si confondono in un recipro-co e recipro-continuo scambio delle parti.

1.1.5 Sulla questione dell’infrastruttura

1.1.5.1 Infrastrutture e nuova mobilità | AA.VV

La città contemporanea si è andata configurando come un orga-nismo disperso e frammentato, interconnesso da un sistema di in-frastrutture: quello delle infrastrutture è un ambiente fisico dove si svolge la maggior parte del tempo di coloro che utilizzano la città, uno spazio che non si è ancora riusciti a costruire come luogo, ma di cui è palese il ruolo collettivo, perché è anche li che la città vede e riconosce se stessa.13

In tale organismo è aumentata la necessità di mobilità, sia per mo-tivi professionali, culturali, turistici sociali, ma anche solo per il pia-cere di muoversi. Ecco quindi che la mobilità è diventata elemento caratterizzante della stessa società contemporanea, esigendo un ripensamento di ciò che una volta era considerato uno spazio

(35)

pura-mente tecnico. 14 Le cosiddette “infrastrutture della mobilità”

conno-tano spazi sempre più rilevanti di paesaggio senza riuscire a creare luoghi, anzi spesso creando le condizioni di degrado dei medesimi luoghi da queste attraversati. Pensate e progettate per migliorare la vita della collettività, aumentando la possibilità e il raggio d’a-zione dell’individuo queste infrastrutture hanno spesso contribuito alla dequalificazione del paesaggio: nell’attraversare territori hanno definito altri territori marginali, spazi sottoutilizzati o inutilizzati, dif-ficilmente accessibili e quindi degradati. Le cause di questa cattiva integrazione sono da ricercare nell’indifferenza verso la natura e il carattere dei luoghi, la banalità e la povertà di soluzioni progettuali e la concezione di spazio dei trasporti come elemento rigidamente monofunzionale.

La frattura tra progetto dell’infrastruttura e disegno della città, tra infrastruttura e qualità dei suoi spazi pubblici è piuttosto recente, per tutto l’Ottocento infatti è proprio l’infrastruttura a definire la modernizzazione della città, dotandola di nuovi servizi necessari e reinventandone la forma e gli spazi pubblici e a rendersi parte fon-damentale della forma della città.

Nel Novecento il movimento diventa l’interesse primario. E’ il secolo in cui l’infrastruttura incontra l’utenza di massa e mette a punto le tecniche che ne garantiscono il funzionamento.15 Complice quindi

l’irruzione dell’automobile e degli aeroplani, una serie di percorsi aerei e di viadotti, con lo scopo della massima velocità traforano edifici e sorvolano lo spazio urbano sottostante, secondo un criterio di organizzazione monofunzionale che sancisce il distacco tra la

strada e lo spazio pubblico. A partire dagli anni 20/30 del Nove-cento l’infrastruttura viaria si svincola quindi dal disegno del tessuto edilizio acquistando autonomia e rendendosi indipendente, seman-ticamente e praseman-ticamente, dalle contingenze e dai condizionamenti imposti dai luoghi. Un oggetto isolato nel paesaggio.

Ecco quindi che gran parte delle città del mondo, ad oggi si tro-vano a dover fare i conti con una serie di superstrade e autostrade a scorrimento veloce realizzate senza particolar attenzione al fatto urbano nella misura propria della città e quindi ad aver a che fare con l’indagine sulla rimodellazione di infrastrutture esistenti, che si articolino in relazione alle specifiche urbane e contaminando la se-zione stradale con l’introduse-zione di altre funzioni rispetto a quelle veicolari.

La ricerca di una maggiore integrazione tra infrastruttura di traspor-to e spazio pubblico porta a un’ibridazione del singolo manufattraspor-to con altre tipologie o frammenti di queste, soprattutto come nel caso in cui l’infrastruttura si sollevi da suolo diventando un elemento tridi-mensionale con una propria evidente spazialità: un esempio su tutti il Ponte Vecchio a Firenze.

Il ponte Vecchio deve la sua immagine attuale a una stratificazione ottenuta nei diversi secoli, colonizzato in primis dai macellai, cac-ciati dalle vie della città per i loro scarti e i loro odori, successiva-mente dalla costruzione del corridoio vasariano, la vista del fiume è adesso praticamente inaccessibile per i passanti: lo spazio interno è creato dall’attività di chi lo vive e dal prolungamento delle strade che vi danno accesso in una sintesi che fa pensare a uno spazio

(36)

fuso tra interno e esterno e che sancisce il superamento dell’idea zeviana dell’opera architettonica che nasce dal rapporto tra spazio esterno con cui interagisce attraverso il proprio volume e lo spazio interno dove l’uomo svolge la propria attività. Questa concezione di spazio è un intermezzo tra lo spazio classico e lo spazio urbano che trova la propria dimensione ritagliandosela nella città, uno spazio in between.

Sostiene Vittorio Gregotti che i due aspetti che intrecciano le in-frastrutture, il territorio e l’architettura, due aspetti connessi ma in qualche modo separabili. Mentre il territorio riguarda il tracciato dell’infrastruttura visibile o invisibile, subendone o imponendo mo-dificazioni nel percorso stesso, così come negli aspetti insediativi circostanti, l’architettura riguarda il disegno del manufatto, la sua capacità di dialogo con il circostante, con cui si deve confrontare anche a livello di scala, una questione spesso risolta con il trion-falismo dell’infrastruttura. Sulla base della duplicità semantica del termine territorio, che può essere paesaggio e panorama, Gregotti riprende lo studio di Paolo d’Angelo affermando che l’insieme della nostra storia è presa di possesso del paesaggio, invenzione di figura e modificazione della natura in modo da trasformarla in paesaggio conoscibile: nascono i paesaggi industriali, paesaggi di periferia, di rovine, di assenze e paesaggio di sogno, che appartengono in ogni risoluzione, alla natura. Che ruolo gioca quindi questa pluralità di paesaggi nei grandi sistemi infrastrutturali e sulle opere di architettu-ra? Una grande architettura deve apparire come se avesse sempre abitato quel luogo e fatto parte di quel paesaggio, diventandone

parte necessaria, pur continuando a sorprendere.

Nel saggio “Mutazioni strutturali” Franco Purini parte dal significato etimologico di infrastruttura, che indica ciò che sta sotto le strutture. Quindi sia tutto quello che risulta nascosto, sia qualcosa che costi-tuisce la base degli edifici. Nello sviluppo di questa dicotomia, le infrastrutture oggi rappresentano un elemento pervasivo che lega le varie parti della città conferendo ad essa un’ambigua relazione di continuità e discontinuità. Ecco che le infrastrutture, come duplici emblemi di articolazione e disarticolazione, hanno ceduto il passo a una volontà di proporsi come architetture integrali, momenti di accensione linguistica e scalare che segnano il tessuto urbano, pas-sando dallo stare sotto allo stare tra. Ma cosa sono le infrastrutture? Elementi di geografia artificiale. Sculture.

L’Autostrada del Sole per esempio si può interpretare come un uni-co manufatto uni-composto per tutta la sua lunghezza da un rilevato che prevede l’inserzione di ponti, viadotti, raccordi, autogrill: essa possiede una dimensione narrativa costituendosi come la successio-ne di ambienti simili e allo stesso tempo diversi. Questa architettura territoriale non è però leggibile nel suo complesso, ma solo attra-verso singole inquadrature. Da questo punto di vista la natura delle infrastrutture è insieme unitaria e seriale, nel senso che il continuo scorrere di una sezione è contrappunto alla ripetizione modulare di alcune componenti standardizzate, come ad esempio i caselli che introducono nel sistema una nota di atopicità. Un’infrastruttura non ha uno spazio interno, quindi secondo la definizione zeviana non sarebbe propriamente un’architettura, anche se, quando si entra in

Riferimenti

Documenti correlati

Se esiste una sequenza finita linearmente indipen- dente massimale in V, allora: (1) ogni sequenza linearmente indipendente in V `e contenuta in una sequenza finita

Negli anni ’90 si è assistito all’ascesa del cosiddetto “panico morale” 93 all’interno della società francese che per Loїc si manifesta quando un gruppo

Un elemento che identifica con evidenza e in modo piuttosto netto dal punto di vista monetario tutta questa area è il dato cronologico concernente i ritmi del- la diffusione

In primo luogo, la scelta come caso studio dell’insediamento di Via Palazziello -emblematica rispetto alla tematica dello spazio di mediazione tanto alla scala residenziale quanto

Let us consider a synthetic test case that aims at repro- ducing the quarter of five spots problem in the presence of fractures. The computational domain is the unit square and no

L’astinenza alcolica protratta può essere considerata un con- tinuo della sindrome astinenziale acuta e, in generale, una sua corretta valutazione dovrebbe misurare tutte o almeno

Le comunità della nostra area rimangono poco visibili, poco citate e dunque poco esemplari anche nella Politica, dove peraltro anche la storia e la costitu- zione di Corinto