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Spazi pubblici e mondi paralleli | Cenzatti e Crawford

1.1.6 Su altre question

1.1.6.1Altre questioni: la città imperfetta | S.Marini

All’ombra dell’opera si sono sviluppate storie trasversali, racconti minori, diagonali rispetto alle tracce sicure che hanno strutturato

i territori. Paesaggi inattesi spesso polverosi per mancanza di rap- presentazione: la loro esistenza è marcata con colore bianco sulle mappe. Nelle carte non vengono riportate informazioni su queste aree, la loro condizione di instabilità, di isole in attesa di trasforma- zione o di attenzione, non trova riscontro nelle codifiche dei segni; la loro presenza racconta una città imperfetta, in cui possono trova- re posto intrusi e anomalie, una città aperta. Ma queste anomalie possono dar luogo a nuovi altri paesaggi, basta modificare una norma per andare oltre l’eccezione, per generare un’architettura dentro. Non si tratta di rispondere a un problema formale ma di trovare operatori spaziali capaci di restituire situazioni.

Gli spazi scartati, bianchi, si offrono per dar corpo a strategie an- tiche, come possibili aree di riserva o edifici disponibili alla trasfor- mazione e al cambiamento. Lasciare il bianco, implementarlo di connessioni, di relazioni, significa principalmente risparmiare suolo e usare quello che c’è: l’esistente.

In questa logica disegno urbano e architettura trovano una possi- bilità di dialogo. Questi fattori tornano protagonisti grazie a una concezione del paesaggio e della scena che non è più semplice- mente sguardo e contemplazione, ma che implica la centralità della trasformazione e di chi la governa anche abitualmente con il pro- prio operare. Grazie a figure minori la costruzione contemporanea riacquista la misura del proprio essere. L’architettura parassita ad esempio riabilita l’esistente con corpi autonomi ma non autosuffi- cienti per dichiarare le esigenze dell’oggi e per non cancellare ciò che trova sotto i suoi passi, cosciente che il proprio tempo è deter-

minato. La natura non offre solo memoria, ma anche dinamiche, modalità di relazione. La città che da sempre comprende in se tutte le strategie del costruire, può riscoprire le motivazioni che la pon- gono al centro del territorio: come in una festa in paese bastano alcune maschere per ritrovare le ragioni del vivre ensemble.

Molte recenti considerazioni sulla città si basano e si soffermano su due fenomeni: la progressiva concentrazione urbana e la dispersio- ne della città. La critica sia architettonica sia afferente a discipline come gli studi urbani e quelli sociopolitici, guarda al fenomeno del- la dispersione coniando termini che rappresentino il nuovo assetto del sistema urbano. Non più città ne metropoli, ma termini composti che confermano le mutations in corso, come città diffusa, città con- tinente, città generica, sprawltown.

La stessa biennale del 2006 ripropone il tema della città. Architet- tura e società, mettendo in evidenza la depressione demografica di sedici metropoli e la conseguente esigenza di appropriate risposte urbane. E’ la ritrovata centralità delle città a esser l’altra faccia della dispersione urbana: le tensioni centripete e centrifughe che attra- versano la città, determinate da mutazioni economiche e pressioni antropiche, delineano un quadro complesso e fortemente articolato in cui convivono in cui convivono accezioni globali come localismi. Per quanto riguarda la città europea uno dei fattori che influenzano le spinte centrifughe è stato individuato nella progressiva museifica- zione dei tessuti storici. La salvaguardia del patrimonio, attraverso il restyling, ha innescato una catena di processi di gentrification che investe intere aree della città. Queste aree si svuotano spostando la

pressione abitativa in zone più economiche. Non ultimo il problema dell’accessibilità incentiva la costruzione edilizia in prossimità di ar- terie infrastrutturali a scorrimento veloce. La crescita avviene quindi seguendo il principio della tabula rasa, alla ricerca di spazi vuoti da occupare ex novo. Tale principio porta anche ad un’altra strategia trasformativa: la sostituzione di parti del territorio urbano con in- sediamento di micro città asiatiche. Attraverso questa pratica della sostituzione la città si rigenera con una cadenza temporale sempre più ridotta, sospinta da sviluppi economici favorevoli.

La cultura occidentale e quella orientale raccontano due diversi tipi di sviluppo, se da una parte ci si sviluppa attraverso le strutture della memoria, dall’altra si assiste alla scomparsa di modelli edilizi in fa- vore di qualcheduno più nuovo. Impostate su questo sfondo, mentre parti di città vedono consolidarsi quale esclusivo il proprio ruolo simbolico o il territorio urbano si rigenera sostituendo ciclicamente le sue parti, alcune ricerche riguardano ai “territori di mezzo”, agli spazi bianchi come possibile risorsa per attuare mobilità d’uso, cer- cando di evolvere semplici pratiche a modello, ponendole appunto oltre l’eccezione. I terrains vagues per il carattere di indeterminazio- ne assumono questo ruolo cruciale nell’ambito delle trasformazioni. Spesso valutati come occasioni per massimizzare lo sviluppo della proprietà immobiliare, vengono letti come possibili termini di un rinnovato dialogo tra progetto e città: “Le pratiche architettoniche si collocano in spazi improbabili. Vi è tutta una varietà di spazi siffatti. Un esempio è quello dell’intersezione di molteplici reti di trasporto e comunicazione in cui l’occhio nudo non scorge alcuna forma, solo

pure infrastrutture e il loro uso necessario.”17

L’emanazione in diversi paese di norme che limitano la nuova edi- ficazione e incentivano la trasformazione dell’esistente ha innescato nel dibattito architettonico la riproposizione della teoria parassita- ria. Tale strategia riguarda i tasselli dismessi delle città che spes- so incorrono in semplicistiche demolizioni, e anche quei territori di mezzo centrali nell’esperienza urbana perché capaci di raccontare le transizioni e gli stravolgimenti di specifiche configurazioni spazio temporali. Questi luoghi non vengono interpretati come spazi da ristrutturare o rifunzionalizzare, ma come campi di applicazione di una modalità operativa che sa cogliervi margini di utilizzo e di sen- so. Ecco che la progettazione si debba basare sulla ricerca di questa possibilità, sulla capacità di lettura e interpretazione dell’esistente e dell’innesco di un processo di risignificazione.

Mentre alcuni parti di territorio, brani di città o manufatti architet- tonici, appartengono come eredità alla memoria collettiva e man- tengono capacità comunicative come segni e simboli, insediamenti industriali, spazi commerciali e pubblici si svuotano a causa dello spostamento di energie e interessi economici su altre aree. In qua- lunque modo li si rianimini, questi spazi risignificati dotano la città di luoghi e servizi che rispondono alla necessità delle contempora- neità.

L’influenza degli assetti sociali sul territorio si esplicita nelle tra- sformazioni informali che agiscono sull’esistente. Tali pratiche di trasformazione in corso nella città, spesso di carattere abusivo, diventano riferimenti per sperimentazioni architettoniche che riflet-

tono sul rapporto pubblico privato e sul ruolo della normativa nella progettazione. “Le enormi dimensioni dei terrains vagues e degli spazi più modesti, dove le abitudini della gente possono contribuire alla creazione di uno spazio pubblico, al di là degli spazi pubblici monumentalizzati dello stato. Interventi di microarchitettura posso- no immettere complessità negli spazi standardizzati. Questo tipo di complessità immessa può a sua volta coinvolgere i vari tipi di pub- blico temporaneo che prendono corpo nella città in particolari spazi in determinate ore del giorno e della notte.”18

Si assiste a una riscoperta dell’esperienza, delle situazioni come forma primaria della conoscenza, un antropocentrismo che pone come centrale la problematica dell’individuo, la costruzione del suo spazio e di questo in rapporto allo spazio della collettività, “è il pubblico a farsi trasparenza di storie private, esibizioni di esperienze minute, particolari”.19

Nel quotidiano emergono nuove forme di personalizzazione dello spazio, ma anche nuove pratiche, strategie, storie minute di crea- tività e di sovvertimento alle norme, di economie informali che na- scono dall’economia formale. Seguendo la natura stessa della città attraverso l’inserimento di nuove forme con l’esistente, “si attua il perenne esperimento per dar forma alla contraddizione, al conflitto. Città da polemos, polis polemos” come sostiene Massimo Cacciari. Si attua così la possibilità che una città costruita sulle situazioni in- contri e si sovrapponga alla città prospettica seguendo la ricerca progettuale.

Bianco. Il colore dell’oblio, dell’omissione di ciò che si conosce

poco. E bianco può essere anche il silenzio, un momento di rifles- sione, una pausa che non sia inazione. Il bianco è lo spazio tra due identità, che racconta o che è offerto a un’azione. Il bianco nel dise- gno del territorio coincide con lo spazio tra le cose, la carta bianca tra le linee, tutto quello che non è segno. Bianco sono zone della città senza informazione, espulsi da una struttura d’ordine in attesa di essere reintegrati nel processo della produzione.

Che siano aree in fase di privatizzazione, in attesa di nuove costru- zioni, pubbliche ma non utilizzate. La natura instabile di questi scarti urbani, spazi residuali necessita di una strumentazione operativa di tipo archeologico, di racconti non gerarchici in grado di rilevare proprio il tessuto di equivalenze e di distanze, di possibilità; e chiede simbologie capaci di significare la sospensione, la mancanza di uso e spesso di attenzione che li connota. La restituzione della stratifi- cazione permette di palesare gli scarti presenti nella linea evolutiva, gli spostamenti e i salti i momenti durante i quali l’oggetto cambia significato riportando l’evidenza della trasformazione. Uno sguardo obliquo, impostato su parametri sanciti dalla patologia, proiettato sull’eccezione e sulla norma, consente di riportare non la scena ma la successione e la logica dei processi della costruzione. L’evidenza della trasformazione mette in campo il secondo connotato del bian- co, come segno dell’oblio. L’oblio pone attenzione sul movimento e sul vagare, non è più importante passare da una parte dall’altra, ma lo stato di sospensione nel momento in cui si attraversa. L’erran- za è la condizione propria di questi spazi in cui tempi e pratiche si incontrano e trovano nella non regolamentazione una logica comu-

ne. Il ritmo di percorrenza e di costruzione di questi luoghi si fa va- riato e complesso, carico di ibridazioni non formali ma sostanziali. I luoghi bianchi, sconosciuti, si offrono come condizione al margine, per istituire nuove modalità abitative, per sollecitare cambiamenti nel sistema dato; si palesano come quelle falle, quei buchi, quei punti deboli in cui le pratiche possono esercitare il proprio potere e chiedere cambiamento. La figura del parassita è come l’archeologo che cerca tra passato e presente la successione, la stratificazione degli eventi, gli spazi liberi per potervi immettere la propria presen- za.

Lo strumento che innesca una revisione nei processi che conduce a una riconsiderazione del ruolo del tempo e uso nella reinterpreta- zione dei territori e poi di conseguenza dei manufatti, è la norma, matrice generatrice dello scarto e della possibile resistenza o trasfor- mazione di un luogo. E’ infatti attraverso la definizione della norma che lo scarto ha luogo ma è sempre attraverso questo parametro che si costruisce una revisione del significato di ciò che è residuale. La dialettica tra la determinazione dello spazio , la presenza dei suoi confini e il continuo accumulo di materia proiettano queste realtà verso scenari nei quali gli spazi bianchi, le aree di sospensione, in attesa di definizione, rappresentano un bacino di scambio, territori neutri. Ma è proprio la loro neutralità, il colore bianco che li conno- ta sulle mappe a dotarli di quella identità data dalla somma di tutti i colori che molti altri luoghi discriminano.

Ecco quindi che spazi bianchi e figure minori raccontano una città che chiede di essere riscoperta. Dimentichi di una quotidianità ope-

rante, si è scelto di inseguire quadri con prospettive vuote e perfette, perfette nella loro totale solitudine, narratrici di una civitas che re- stituisce una urbs assente, resa pura astrazione. Anche gli strumenti del vivere e della mobilità hanno rubato la scena allo stare, al luo- go, determinato in sé principalmente dalla capacità di accomunare, di riunire comunità chiare e nuove presenze. Si è assistito al mutare del paesaggio, al dilagare della città sul territorio con sguardo alli- bito. Con queste scena vuote senza attori si è cercato il perché della fine del senso dello spazio pubblico. Certamente le migliori fotogra- fie che ritraggono architetture e città sono vuote, senza personaggi, per evitare che questi con i propri colori, le proprie identità, possano interferire con lo scorrere chiaro delle linee, con i toni neutri o colori primari dell’affresco precisamente progettato.

I bianchi si presentano come spazi che offrono libertà primitiva, per- ché dichiaratamente pubblici, o abusivamente anarchici, di tutti.

1.1.6.2 Altre questioni: sovrascrivere l’esistente |

AA.VV

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Si possono desumere tre categorie di utilizzo desunte dall’analisi etimologica del termine parassita: l’utilizzo della metafora biologica del parassita in architettura, l’interpretazione in chiave sociale di questo termine e quindi la sua applicazione come strumento opera- tivo per rubare spazio alla città, la declinazione in chiave concettua- le del parassita. Le tre accezioni sono accomunate dalla relazione

con l’esistente, l’immissione di una nuova architettura dipendente dal sistema ma indipendente in termini identitari. Se l’architettura postmoderna ha istituito un parallelo tra le procedure compositive e le possibili modalità di costruzione del pensiero inteso come frase, la modalità progettuale parassitaria sposta l’attenzione su semanti- ca, sintassi e pragmatica.

La prima declinazione vede un approccio semantico, cioè assimila- bile al ramo della linguistica che studia il significato dei simboli e dei loro raggruppamenti. Secondo questa declinazione, questi pro- getti istituiscono ricerche intorno al ruolo simbolico, comunicativo dell’architettura e anche sulle modalità di relazione con apparati simbolici esistenti.

La seconda declinazione si sposta sulla sintassi, ovvero sulle “rela- zioni che si istituiscono nella frase tra le parti che la compongono, e tra queste e le funzioni”. I progetti si articolano a cercare nuove re- lazioni o a rileggere quelle esistenti o dimenticate tra gli elementi del progetto stesso, la modalità operativa rifugge ogni tipo di rimandi iconici o metaforici.

La terza declinazione opera attraverso un procedimento assimilabile alla pragmatica, cioè allo studio delle relazioni tra i segni e chi li usa. L’attenzione si sposta dal progetto al suo uso. Queste architet- ture denunciano la volontà di cercare di rispondere all’esigenza di chi le usa e le attraversa, ma anche alle necessità e problematiche della città stessa.

Nel procedere dalla prima alla terza declinazione si passa da un’at- tenzione del progetto al significato proprio dell’architettura e del

suo linguaggio, a un approccio in cui la componente linguistica è improntata a tracciare coordinate nel tessuto urbano fino alla terza declinazione che vede nell’occasionalità della pratica e nell’instabi- lità di possibili segni il proprio fondamento.