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Il lavoro di tesi giunto al termine, affronta il tema della pericolosità sociale nello specifico caso degli infermi o semi-infermi di mente, nella speranza di riuscita del progetto di de-istituzionalizzazione, fortemente voluto dalla dottrina e dalla psichiatria.

Vengono affrontate le evoluzioni del sistema penale e del sistema sanzionatorio italiano, alla luce degli sviluppi ideologici sia in campo penale che in campo psichiatrico, sottolineando come il rapporto spesso mutevole e contrastante tra questi due ambiti, abbia notevolmente influenzato la valutazione della pericolosità sociale dei soggetti autori di reato affetti da disturbi psichici e delle misure di sicurezza ad esso ancorate, sempre in bilico tra esigenze custodiali ed esigenze terapeutiche.

Notevole ed importante il lavoro della Corte Costituzionale, chiamata insieme al legislatore ad un compito importante, ovvero, delineare le linee guida per uno sviluppo omogeneo ed esaustivo della materia di volta in volta affrontata ed assicurarne la compatibilità con il rispetto dei diritti garantiti dalla Costituzione a tutti soggetti ed ovviamente anche agli autori di reato, colpevoli sì ma anche e primariamente persone.

La trattazione di questo argomento serve anche a richiamare l’attenzione sulla realtà dell’internamento dei folli-rei, diventato negli anni una vera e propria emergenza psichiatrica, che è stato ed è tuttora trascurato, dimenticato e sottovalutato dalla società, e

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conseguenzialmente anche dal mondo politico che sulle richieste ed esigenze della società basa la sua sopravvivenza.

Nonostante negli anni siano stati fatti passi avanti, come testimonia la Legge n. 81/2014, che riforma la materia e definisce un termine ultimo di chiusura degli OPG tramite la sostituzione con le REMS, strutture sanitarizzate e medicalizzate, manca sempre quell’elemento o quella spinta in più in grado di mettere la parola fine alla vergogna dell’internamento, teoricamente con finalità terapeutiche e riabilitative, ma di fatto solo contenitivo.

Elemento che forse ha maggiormente impedito la diminuzione del numero di internati è l’insufficiente impegno delle regioni nella realizzazione di programmi terapeutici individuali, che permettano di avere un’efficiente ed efficace alternativa alla custodia in struttura. Una soluzione possibile potrebbe esser quella di un aumento delle possibili misure di sicurezza applicabili, come ad esempio l’affidamento in prova al servizio sociale, che fungano da elemento intermedio tra i due estremi, ovvero il ricovero in REMS e la libertà vigilata. Anche in relazione al fatto che la misura della libertà vigilata con prescrizioni terapeutiche, accolta con tanta soddisfazione dalle Magistrature di Sorveglianza, di fatto è scarsamente applicata in quanto fallimentare, sempre in conseguenza dell’assenza di adeguate strutture territoriali di presa in carico del paziente.

Siamo di fronte ad una situazione paradossale, mentre il riformatore e la dottrina avanzano in un percorso di de-istituzionalizzazione e di “apertura delle porte”, basato sul principio del favor libertatis e della restituzione di una soggettività e dignità al reo folle, la Magistratura di Sorveglianza rema contro, poiché scontrandosi costantemente con una realtà socio-sanitaria visibilmente non pronta e non funzionale ed un contesto territoriale di accoglienza carente (comunità di alloggio,

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famiglia, DSM, Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna o UEPE), tende ad optare per la soluzione dell’internamento, scelta pragmatica non condivisibile ma del tutto comprensibile.

E’ fortemente auspicabile, a mio avviso, una più stretta collaborazione tra i Tribunali di Sorveglianza e gli enti territoriali, come i Servizi di Salute Mentale, e la promozione del confronto tra i professionisti dei diversi settori che si occupano delle misure alternative alla custodia in strutture custodiali, nel tentativo di garantire ai folli-rei un percorso dignitoso e realmente curativo e risocializzante.

La Legge n. 81 ha sicuramente fatto passi avanti nel tentativo di focalizzare l’attenzione sulla cura del soggetto e non sulla malattia in sé, quindi in chiave di psichiatria inclusiva e prevedendo il ricovero in REMS solo come extrema ratio, tuttavia, la previsione e la definizione di tali strutture custodiali fa sorgere la paura che in mancanza dell’effettiva presenza di programmi terapeutici individuali territoriali, possano risorgere le vecchie logiche custodiali e manicomiali tanto osteggiate e combattute.

Se da un lato si tende al male minore per i dimessi che rischiano l’abbandono, dall’altro lato lo sfavore generalizzato nei confronti delle misure di sicurezza custodiali, spinge molti giudici e periti ad un eccesso di prudenza nella diagnosi del vizio di mente e della pericolosità ad esso legata, anche in considerazione della poca chiarezza e certezza dei criteri alla base del giudizio prognostico in questione. Creando l’assurda situazione di un aumento dei detenuti, nel senso di aver spostato dai vecchi OPG e dalle odierne REMS al carcere, autori di reato con disagi psichici necessitanti dei trattamenti sanitari specifici, ma nonostante ciò ritenuti imputabili e condannati alla pena detentiva.

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Aggravando ulteriormente la condizione di soggetti che oltre a vedersi negata la libertà personale, in conseguenza del reato e della pena comminata, vedono negarsi il diritto al trattamento terapeutico ed il rispetto del diritto alla salute costituzionalmente previsto.

Bisogna tener presente la gravità della condizione loro riservata dall’impianto sanzionatorio, tali soggetti infatti, per il sistema colpevoli del reato e pazzi per condizione personale, vivono spesso realtà di disagio e marginalità familiare e sociale che non gli consente una difesa attiva e consapevole dei loro diritti e la Legge che in questo caso dovrebbe garantirli e proteggerli, li dimentica e li umilia condannandoli all’invisibilità.

Lungi da me cadere in facili sentimentalismi, ma ritengo importante sottolineare, come nella formazione e nella condotta di ogni individuo il contesto sociale di appartenenza svolga un ruolo attivo, e che dovremmo quindi costantemente tener presente che questi soggetti sono individui come noi “normali” e parte integrante della nostra stessa società, e che renderli invisibili e rinchiuderli in strutture lontane dai nostri occhi, non ci affrancherà dalle responsabilità che abbiamo nei loro confronti.

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