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Il sistema pensionistico italiano dopo la riforma Fornero

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Academic year: 2021

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Indice generale

Capitolo 1 - Introduzione...2

Capitolo 2...13

2.1 Contributivo per tutti: meglio tardi che mai...14

2.2 L'importanza dell'intervento Statale nel settore previdenziale...20

2.3 La falsa speranza della piena capitalizzazione: il caso cileno...26

2.4 Basta regali...29

2.5 Svezia, modello da seguire...32

Capitolo 3...39

3.1 Nel segno della flessibilità...40

3.2 Uno scenario demografico non incoraggiante...44

3.3 Una storia all'italiana, la pensione d'anzianità...49

3.4 Giusti incentivi, equa pensione...56

3.5 Più pensionati equivale a più occupati?...60

Capitolo 4...65

4.1 Pari è fatta...66

4.2 Le cause della disparità. ...67

4.3 L'impatto delle riforme sulle differenze di genere...71

4.4 La pensione viene dopo...73

Capitolo 5...76

5.1 Una norma programmatica sulla previdenza complementare...77

5.2 Il percorso della previdenza complementare in Italia...78

5.3 Cosa la Professoressa Fornero suggerisce al Ministro Fornero...89

5.4 La Gran Bretagna è il modello da seguire?...94

Capitolo 6 - Conclusioni...99

Bibliografia...112

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Capitolo 1 - Introduzione

“In   quest'Italia   agli   adulti   si   concede   di  fingersi   vecchi   per   andare   in   pensione,   ma  poi da pensionati di regredire a giovani. E   viceversa   per   i   giovani   accade   l'opposto.  Quel   loro   sentirsi   scaduti   per   la   vita,   vecchi   precoci,   è   l'esito   inevitabile  dell'averli   tenuti   in   un'adolescenza  protratta  rispetto  al   lavoro.   Non   lavorano,  o   un   lavoro   precario,   mal   pagato,   ne   perpetua la tutela.”

Geminello Alvi

Una repubblica fondata sulle rendite, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2006.

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Nel Novembre 2011 il nuovo Presidente del Consiglio Mario Monti compose la squadra del suo governo. A capo del Ministero del Welfare nominò Elsa Fornero. Gli addetti ai lavori sapevano il significato intrinseco di questa scelta: una nuova riforma del sistema pensionistico avrebbe visto la luce.

L'incertezza poteva riguardare semmai i tempi, visto il difficile momento politico ma soprattutto economico che il Paese affrontava in quei giorni, con un mercato azionario che non sembrava dare segni di ripresa.

Il debito pubblico era la causa di maggiore diffidenza con la quale ci si doveva confrontare. Le prime pagine dei giornali videro comparire quotidianamente termini fino ad allora sconosciuti ai più come spread e tasso d'interesse.

All'inizio i governanti avevano pensato a una parentesi temporanea, un inasprirsi della crisi mondiale che non aveva risparmiato nessun Paese occidentale dal 2008. L'ottimismo più tenace nulla poté però con l'escalation della situazione. Nessun intervento sembrava ottenere un qualche effetto. Il problema era la perdita della credibilità. Alla fine il governo Berlusconi fu costretto alle dimissioni.

Mario Monti è stato visto da subito come uomo del destino. Un ex Commissario Europeo ed economista di fama internazionale non poteva non accogliere il beneplacito dell'Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale, le istituzioni che avevano più o meno velatamente consigliato un cambio alla guida del nostro Paese, un tentativo quasi disperato.

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dimostrato un non comune senso del dovere, anche quando si è trattato di mettersi contro i cosidetti poteri forti. Caso emblematico è la vittoria ottenuta quando da numero uno dell'antitrust UE ha inflitto una multa senza precedenti al gigante a stelle e strisce Microsoft.

Il toto-ministri del nascente governo tecnico vedeva tra i favoriti della stampa, per il ruolo di Ministro del Welfare, Pietro Ichino. Il giuslavorista lombardo è stato eletto nel 2008 al Senato nelle liste del Partito Democratico; propugna da tempo l'introduzione della flexicurity e i più vedevano in questo una buona ragione per la sua nomina. Ichino, si pensava, avrebbe potuto riformare il mondo del lavoro e dare al Paese una decisiva spinta verso la crescita. Un segnale forte, in fondo, era quello che l'Europa aspettava dal neonato governo Monti.

Monti avrebbe voluto all'interno del governo tecnico uomini delle varie forze politiche. Queste però non riuscirono ad accordarsi, ognuna temendo conseguenze disastrose nelle successive elezioni da un'adesione diretta alle azioni di governo che necessariamente avrebbero richiesto sacrifici a tutti. Quindi, per la sua appartenenza al PD, Ichino non avrebbe mai potuto esser nominato Ministro.

A capo del dicastero del Lavoro e delle politiche sociali è stata nominata così Elsa Fornero, docente di Economia Politica presso la Facoltà di Economia dell'Università di Torino. Fornero è presidente del CeRP, primo centro in Italia specificatamente rivolto allo studio dell'economia delle pensioni e dell'invecchiamento, oltre che membro del centro di ricerca Netspar, acronimo di

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Network for Studies on Pensions, Aging and Retirement, che ha come area di riferimento l'Europa. Elsa Fornero è quindi una conoscitrice della materia; ne ha dato prova anche al grande pubblico nei suoi editoriali per il quotidiano economico e finanziario Il Sole 24 Ore.

Insomma, si tratta di una scelta ben mirata quella di Monti. Chiamare Fornero a capo del dicastero del Welfare è stato, per il sistema pensionistico, un po' come nominare Ministro degli Esteri un generale dell'esercito in tempo di crisi diplomatica con uno Stato confinante: una precisa dichiarazione d'intenti. Elsa Fornero inoltre non era nemmeno totalmente avulsa da Via Veneto1, essendo

componente del nucleo di valutazione della spesa previdenziale.

Il nuovo governo tecnico ha giurato di fronte al Presidente della Repubblica Napolitano il 16 novembre 2011. Fin da subito si è messo all'opera per cercare di placare la tempesta finanziaria abbattutasi sull'Italia e meno di un mese dopo, il 6 dicembre, ha varato il decreto-legge n. 201 dall'eloquente titolo: “Disposizioni

urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici”.

L'ultimo punto, ovvero la crisi dei conti pubblici, è il motivo principale che ha innescato la crisi di credibilità internazionale nei confronti di un Paese che, pur vivendo peculiari criticità, ha al suo interno le risorse per risollevarsi da un periodo di stagnazione dell'economia a livello globale, in primis l'alto livello di risparmio delle famiglie.

La necessità di fronteggiare un debito pubblico in pericoloso aumento in passato

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avrebbe portato ad un'inflazione controllata, stampando moneta e svalutando di conseguenza il debito. La perdita di valore della moneta avrebbe significato anche un rilancio delle esportazioni. L'unione monetaria europea ha reso questa strada impraticabile. Prima di noi Portogallo e soprattutto Grecia hanno sperimentato le difficoltà di questa preclusione. L'unica opzione è stata la riduzione di alcune voci di spesa che quel debito hanno sostanzialmente contribuito a crearlo.

Secondo l'ultima rilevazione Istat, che ha come anno di riferimento il 2009, in Italia il rapporto pensioni/PIL è cresciuto rispetto agli anni precedenti ed è quasi al 17%.2 Naturale che una fonte di spesa così consistente andasse ad attirare

l'attenzione del nuovo governo. Sarebbe altresì sbagliato e fuorviante ridurre l'intervento del decreto legge 201/2011 sul sistema pensionistico a una mera necessità di far cassa. Si rischierebbe un eccesso di superficialità, non rendendo giustizia alle finalità ultime della riforma.

Il capo IV del decreto-legge, composto dal solo lunghissimo art. 24, è interamente dedicato alle “disposizioni in materia di trattamenti pensionistici”. Una sorta di preambolo spiega chiaramente che “ le disposizioni (…) sono rivolte

a garantire il rispetto, degli impegni internazionali e con l'Unione Europea, dei vincoli di bilancio, la stabilità economica-finanziaria e a rafforzare la sostenibilità di lungo periodo del sistema pensionistico in termini di incidenza della spesa previdenziale sul prodotto interno lordo.”

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I criteri ispiratori della manovra sono essenzialmente tre.

Il primo include l'equità e la convergenza intergenerazionale e

intragenerazionale. Il sistema precedente era basato su troppi distinguo basati

sull'anno in cui si era iniziato a lavorare e sull'appartenenza al comparto pubblico o privato, agricolo o industriale, dipendente o autonomo. Ciò voleva dire che a due lavoratori con gli stessi anni di contributi e lo stesso livello di contribuzione corrispondevano sovente due diverse situazioni previdenziali. Questo andava contro il principio di equità all'interno della stessa generazione. L'equità tra diverse generazioni era minata dal permanere nel sistema di una fascia di pensioni il cui calcolo si basava sul metodo retributivo. La riforma non ha la presunzione di annullare con un colpo di spugna queste ingiustizie, ma più realisticamente punta ad attenuare i privilegi che non hanno alcuna ragion d'essere.

Il secondo criterio è la flessibilità nell'accesso ai trattamenti pensionistici. Permettere al lavoratore stesso di scegliere, naturalmente entro una certa fascia di età, l'anno in cui ritirarsi significa dargli un incentivo all'efficienza nei casi in cui l'esperienza del lavoratore più che compenserebbe il deterioramento fisico. Chi rimane in attività per più anni deve ricevere un adeguamento economico della propria pensione. Sembrerebbe un concessione scontata, senza la quale chi lavora di più si troverebbe discriminato, costretto a pagare un “tributo indiretto” per la sua libera e legittima decisione, ma prima della riforma non esisteva nulla del genere.

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Il terzo criterio è l'adeguamento dei requisiti di accesso alle variazioni della

speranza di vita. Questo è un intervento dinamico, che punta ad adattare la

situazione agli eventi senza passare da un continuo trattare con le parti coinvolte, rischiando di “perdere” pezzi di efficienza sulla strada del compromesso politico. Non sarebbe la prima volta e di certo nemmeno l'ultima. È innanzitutto la sostenibilità del sistema a richiedere questa misura.

Nei giorni successivi alla presentazione del decreto legge, come era logico aspettarsi, sui giornali la parola spread è stata parzialmente sostituita dal termine pensione. Il dibattito nel nostro Paese si è incentrato su argomenti come il metodo contributivo, pensioni d'anzianità e blocco temporaneo delle indicizzazioni delle pensioni.

Il Ministro Fornero, nella conferenza stampa di presentazione delle misure straordinarie, ha parlato senza troppi giri di parole di un passaggio epocale.

Si passa infatti da un periodo in cui le pensioni sono state viste come un

“trasferimento dello Stato deciso nominalmente secondo criteri di giustizia, secondo criteri di equità, ma spesso in maniera un po' arbitraria e sicuramente nascondendo molti privilegi, a un periodo in cui tutti devono capire che il principale meccanismo per avere pensioni consistenti è il lavoro”.3 La riforma

del lavoro tanto cara ad Ichino non è accantonata in attesa di tempi migliori, ma la svolta sulle pensioni è prodromica a quella per necessità e vincoli finanziari. Ridare risalto al lavoro come base per la pensione si concretizza nel passaggio

3 Conferenza stampa di presentazione del decreto-legge 201/2011, http://www.youtube.com/watch? v=ClL1Hj5rx84&feature=fvst consultato in data 10/05/2012.

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definitivo e non più scaglionato dal metodo di calcolo retributivo al metodo contributivo. Le riforme degli anni Novanta avevano peccato nella fase dell'attuazione, procrastinate fino a renderne vacui i contenuti. Il contributivo ora e subito è stata invece una sfida dell'esecutivo guidato da Monti. Questo, ha spiegato Fornero, implica due esiti.

Nessun euro versato come contributo va perso, con conseguenze di non secondaria importanza sulla piaga del lavoro nero. In più gli euro versati da giovani contano di più perché la capitalizzazione è più alta in conseguenza del tempo maggiore di quiescenza di quella parte del montante contributivo.

La seconda implicazione è che se si va in pensione prima, la pensione è più bassa, in ossequio al già citato criterio di flessibilità nell'accesso ai trattamenti pensionistici.

Sempre legato a questo criterio c'è stato un inasprirsi progressivo, ma abbastanza veloce nella sua attuazione, della possibilità di accedere alla pensione di anzianità.

Innanzitutto il termine stesso è stato abolito dalla legislazione vigente, sostituito da un più onesto “pensione anticipata”. Oltre a questo, l'accesso alla pensione in considerazione degli anni di contributi versati è permessa ad un'età anagrafica sempre più alta. Quest'ultima misura corregge un'anomalia che pesava molto sulla sostenibilità di lungo periodo del nostro sistema, facendo vacillare l'assicurazione che il debito previdenziale contratto con le varie generazioni potesse essere onorato; si sostanziava in un privilegio, probabilmente il maggiore

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sia per numero di persone coinvolte sia per consistenza del regalo che queste si trovavano ad avere, in considerazione di anni di contribuzione in meno e specularmente anni di pensione in più.

Le reazioni dei sindacati e dei cittadini direttamente coinvolti dalle misure non si sono fatte attendere. Nell'immediato le preoccupazioni maggiori sono venute dai cosiddetti esodati, coloro i quali non avevano raggiunto i requisiti per andare in pensione alla data del 31 dicembre 2012, termine ultimo fissato dal decreto legge per passare definitivamente al nuovo sistema, ma avevano accettato il pre-pensionamento dai propri datori di lavoro. In sostanza avevano contrattato con le vecchie regole per usufruire della pensione di anzianità. Erano perciò prossimi disoccupati intorno ai sessanta anni non ricollocabili nel mondo del lavoro, privi quindi di una fonte di sostentamento.

A parte questo caso particolare, che comprende una relativamente contenuta percentuale, tutti gli altri lavoratori che si sono visti aumentare l'età di attività lavorativa di qualche anno non hanno opposto una resistenza estrema alla riforma Fornero. C'è stata in una parte considerevole del Paese la consapevolezza che le misure fossero necessarie e nell'interesse della collettività, abbracciando con questo termine le generazioni che ancora non hanno voce nel consesso politico, i figli e i nipoti degli attuali lavoratori.

Persino i sindacati si sono limitati soltanto a dichiarazioni prevedibili, quasi di facciata. Era chiaro anche a loro che la situazione economica non lasciava troppo spazio alla contrattazione collettiva che nel passato era servita tanto

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efficacemente per ottenere benefici ai propri iscritti, con le già citate proroghe nell'attuazione delle riforme.

La segretaria della CGIL, Susanna Camusso, ha parlato di "un durissimo colpo ai

redditi dei pensionati e un allungamento insostenibile per tanti lavoratori e lavoratrici che si troverebbero sconvolte le prospettive di pensione e molto incrementati gli anni di lavoro".4 Per Angeletti, leader UIL, ''per il Paese sarà necessario fare cose poco piacevoli ma non devono essere sempre gli stessi a farle. Quello (...) non in linea e non coerente con l'affermazione di equità è il combinato disposto dall'introduzione del sistema contributivo per tutti e l'allungamento obbligatorio dell'età. Una combinazione che produce effetti di disuguaglianza”. Anche per il segretario della CISL Bonanni "va bene l'equilibrio dei conti ma è troppo veloce il passaggio al contributivo e l'innalzamento dell'età. E la somma dei due interventi non è una modifica sostenibile".

È evidente qui che i sindacati hanno a cuore non tanto il sistema nel suo complesso, quanto la generazione attuale di lavoratori. Ovvia considerazione perché sono proprio loro i rappresentati. Ma poco o nulla hanno potuto fare per opporsi. Un tavolo delle trattative non si è nemmeno formato. In altri tempi e in altre circostanze sarebbe bastato questo ad arrivare allo sciopero ad oltranza a sigle sindacali unite.

L'obiettivo di questo lavoro vuole essere perciò quello di spiegare i vantaggi che

4 www.adnkronos.com/IGN/News/Economia/Sulle-pensioni-i-sindacati-non-ci-stanno-Colpo-durissimo-Manovra-non-e-equa_312713821282.html, consultato in data 5/10/2012.

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la riforma Fornero apporterà all'Italia; vantaggi che, è bene sottolineare fin d'ora, non saranno pienamente compresi se non si ha in mente il percorso del nostro sistema pensionistico dagli anni Novanta ad oggi. Un susseguirsi di riforme che se si fossero concentrate in una sola avrebbero permesso un risparmio di risorse nel nome dell'equità e della sostenibilità. I vantaggi di questa riforma andranno pesati con gli svantaggi perché, come noto in economia, there is no such thing as

a free lunch.5

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Capitolo 2

“Dovremmo   iniziare   a   occuparci   meno   di  pensioni.   Mi   riferisco   al   desiderio   di  cambiare   ogni   volta,   riproporre   ogni   volta  una nuova riforma. Quella fase delle riforme  è   passata.   Realizziamole!   Perché   noi   le  abbiamo fatte le riforme, ma sono ancora da  venire nelle loro applicazioni. Ed è li che  saranno dolori.”

Elsa Fornero

4 maggio 2011, Giornata nazionale della previdenza 2011, Borsa Italiana, Milano

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2.1

Contributivo per tutti: meglio tardi che mai.

Secondo il decreto legge 201/2001 dal 1° Gennaio 2012 la pensione sarà calcolata per tutti con il metodo contributivo, limitatamente alla parte successiva a tale data. Non è una novità assoluta per il nostro sistema previdenziale.

Non cambia nulla per coloro che hanno iniziato a lavorare dopo la riforma del 1995. Quella temporalmente più vicina a noi è una riforma che va a incidere sul discrimine che si era fatto tra coloro che avevano già maturato in quello stesso anno diciotto anni di contributi e quelli che avevano iniziato a lavorare più tardi. La riforma Fornero guarda solo ai primi.

Preliminarmente è bene che si definiscano alcuni concetti generali dai quali non si può prescindere parlando di pensioni. Mi riferisco in particolare ai metodi di finanziamento (a ripartizione e a capitalizzazione) e di calcolo delle pensioni (il retributivo, oggi definitivamente estinto, e il contributivo).

Il nostro sistema pubblico è prevalentemente a ripartizione. Il sistema si dice a ripartizione se il gettito contributivo riscosso in ogni periodo è destinato al finanziamento delle prestazioni erogate nello stesso periodo.

C'è una sorta di patto tra generazioni che prevede che il lavoratore al tempo t dia dei contributi, che serviranno a pagare le pensioni di chi si è già ritirato, in cambio della garanzia che al tempo t+1, periodo del suo ritiro, gli sarà in un certo qual senso restituito il favore da chi al tempo t+1 lavora. Il sistema a ripartizione permette uno scambio intergenerazionale, anche se per precisione occorre

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sottolineare che solo la prima generazione gode appieno di questo scambio perché è l'unica che riceve un qualcosa in cambio di nulla. Tutte le generazioni successive devono fare i conti innanzitutto con questa prima elargizione.

L'altro sistema di finanziamento è detto a capitalizzazione perché i contributi che ogni lavoratore versa nel periodo di attività sono investiti sul mercato dei capitali. Nel periodo di pensionamento la pensione è pari ai contributi versati, aumentati del rendimento ottenuto dal loro impiego, il montante contributivo. Questi viene diviso per gli anni che l'individuo ha davanti al momento del ritiro, secondo l'aspettativa di vita. I sistemi privati non possono che essere a capitalizzazione, ma anche i sistemi previdenziali pubblici alle origini erano fondati su questo metodo.

Bismarck, il cancelliere del reich tedesco che nel lontano 1889 promulgò la prima legge che permetteva ai lavoratori dipendenti di andare in pensione ad una certa età, aveva in mente un risparmio forzato del singolo in vista della vecchiaia [Cherubini (1997, p. 107)]. Alla base c'era un idea non democratica di Stato che tratta i propri sudditi come non capaci di prendere autonomamente una decisione così importante. I risparmi coatti del singolo erano come depositati su conti bancari, ma la banca era in questo caso lo Stato. Oggi viene definito sistema bismarckiano più in generale lo schema pensionistico che prevede un collegamento tra i contributi e i benefici.

Una volta capito a grandi linee come funziona il sistema dal punto di vista del suo finanziamento è bene comprendere come si passa a usare queste risorse. Il

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calcolo di erogazione delle pensioni in un sistema a ripartizione può essere fatto con il metodo retributivo o con quello contributivo.

Con il primo al tempo t+1 l'individuo percepirà una pensione adeguata alla retribuzione che ha percepito in attività. Questione fondamentale è il periodo lavorativo di cui tener conto; in teoria può essere tutta la vita lavorativa o un solo anno. È anche detto sistema a prestazione definita.

Con il secondo l'individuo percepirà una pensione calcolata sui contributi effettivamente versati. Quest'ultimo è logicamente più simile al sistema a capitalizzazione, tanto da far parlare di capitalizzazione virtuale. È conosciuto anche con il nome di sistema a contribuzione definita.

In Italia, come detto, il pilastro principale è quello pubblico a ripartizione e ha origine nel secondo dopoguerra nel momento in cui l'inflazione ha polverizzato le riserve create dal precedente sistema a capitalizzazione [Cinelli (2003, p. 220)]. E' un'esperienza comune a molti Paesi occidentali. Si è venuta a creare una solidarietà tra generazioni basata sul meccanismo intergenerazionale di finanziamento pensionistico già descritto.

Il patto tra padri e figli si è però atrofizzato in conseguenza sia di scelte scriteriate di calcolo delle pensioni sia per mutamenti demografici di cui non si è tenuto conto per troppo tempo.

All'origine il legislatore italiano aveva preferito il metodo contributivo e il finanziamento a capitalizzazione.

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p. 267)]. E si scelse di fare riferimento alle retribuzioni degli ultimi cinque anni, le più alte nella carriera, in special modo per i redditi da lavoro più alti, empiricamente più dinamici. Questo, unito al passaggio al sistema di finanziamento a ripartizione, rese nel lungo periodo la situazione insostenibile. Infatti se nell'immediato il c.d. baby boom del dopoguerra consentiva un cospicuo accumulo di riserve, che si sostanziava in un trasferimento di risorse senza particolari criticità, un prevedibile e puntualmente verificatosi calo demografico ha creato un ordinario passivo nel bilancio previdenziale.

La situazione era peggiorata dalla bassa età in cui era permesso il pensionamento, con il peculiare istituto della pensione di anzianità, bizzarro unicum a livello mondiale.6 La pensione d'anzianità era una prestazione che gli iscritti alle casse

previdenziali potevano richiedere al raggiungimento di una determinata quota, data dalla somma dell'età anagrafica e dell'anzianità contributiva. Permetteva così di andare in pensione anche prima dell'età pensionabile.

Il sistema previdenziale a ripartizione è passato all'inizio degli anni Ottanta da una situazione di pareggio a una di disavanzo. Il saldo del settore previdenziale, al netto dei contributi dell'amministrazione centrale e locale, era nel 1980 positivo, pari allo 0,45% in rapporto al PIL [Vitali, Visaggio (1996, p. 179)]. Nel 1981 il saldo diventa negativo e peggiorerà progressivamente negli anni a venire, fino a raggiungere nel 1994 un disavanzo del 3,4% in rapporto al PIL.

Un sistema a ripartizione in disavanzo è caratterizzato dal fatto che ad una data t

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lo Stato riceva un ammontare di contributi dagli individui della generazione t e allo stesso tempo eroghi pensioni, agli individui della generazione t-1, pari ai contributi ricevuti più un fondo di sussidi pensionistici integrativi, coincidenti con il disavanzo [Vitali, Visaggio (1996, p. 183)].

L'immediata conseguenza di un disavanzo, al netto di altre entrate fiscali e di moneta, è l'emissione di titoli pubblici al fine di garantire una copertura finanziaria. I titoli pubblici a loro volta generano nei periodi successivi una spesa per gli interessi dovuti, andando ad aggravare il bilancio statale. Questo circolo vizioso può diventare insostenibile alla lunga.

Non vi possono essere nemmeno ragioni giustificative del disavanzo in questo caso perché essendo un meccanismo puramente di previdenza non è finalizzato a porre dei correttivi assistenziali in determinate situazioni a rischio. Un disavanzo di questo genere non porta alla redistribuzione della ricchezza in senso egualitario ma può paradossalmente andare in direzione contraria a questo obiettivo.

Il 1992 è l'anno che segna l'inizio del lento cambiamento. Il periodo post Tangentopoli ha visto una prima riforma con il governo tecnico Amato che non ha modificato né il carattere retributivo né il sistema a ripartizione ma, con il D.lgs. 503/1992, ha innalzato il periodo di riferimento per il calcolo della pensione: dai cinque si è passati agli ultimi dieci anni di retribuzione e, per i neo-assunti, all'intera vita lavorativa [Ciocca (2005, p. 274)]. Amato definì quelle misure, nella conferenza stampa di presentazione, come obbligate perché il Paese

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si trovava sull'orlo di un precipizio.

Il ritorno al contributivo si è avuto con la legge n. 335 del 1995, meglio conosciuta come riforma Dini, con differenti metodologie rispetto alla situazione pre-1969. La novità riguarda l'ideazione del montante contributivo individuale secondo cui ogni lavoratore si vedrà calcolata la pensione in base ai contributi versati e rivalutati, poi moltiplicati per un coefficiente di trasformazione che varia con l'età.

Il principale problema di quella che poteva essere la riforma principe del nostro ordinamento previdenziale è stata la differenziazione che prevedeva un'attuazione differita nel tempo dei principi cui si ispirava.

Infatti solo chi ha iniziato a lavorare nel 1996 rientra a pieno nel contributivo; chi aveva meno di diciotto anni di contributi a quella data ha la pensione calcolata pro-quota con il sistema retributivo e pro-quota con il contributivo; coloro che nel 1996 avevano maturato diciotto anni di contributi non sono toccati dal provvedimento, rimanendo a pieno con il contributivo [Ciocca (2005, p. 280)]. La conseguenza insita nella distinzione era che si sarebbero perpetrati per ancora tre o quattro decenni i forti squilibri finanziari tra contributi e prestazioni. Altre leggi negli anni successivi hanno affrontato la questione in maniera parziale. La riforma Fornero invece ha bruscamente accelerato il processo messo in moto nel 1995.

Il prosieguo di questo capitolo affronterà alcuni quesiti sul sistema pensionistico italiano e in particolare verranno discusse le strade alternative che il Ministro del

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Welfare avrebbe potuto in via del tutto teorica intraprendere. Il quesito di fondo è: posto che non esiste un sistema previdenziale perfetto, le misure della Fornero sono le migliori possibili?

Innanzitutto la scelta preliminare è se preferire un sistema pensionistico privato a quello pubblico. Solo in seguito sarà analizzato il dilemma concernente se l'attuale sistema a ripartizione sia realmente preferibile al ritorno alla pura capitalizzazione o meno; il Paese cui fare riferimento è il Cile. Il capitolo proseguirà poi con una riflessione sul regalo che ancora oggi continua a percepire chi è andato in pensione con il metodo di calcolo retributivo. Infine si vedranno i motivi per cui la Svezia, pur essendo il suo passaggio al contributivo quasi coevo, ha saputo costruire un sistema pensionistico migliore dell'Italia.

2.2

L'importanza dell'intervento Statale nel settore

previdenziale.

Quando si parla di pensioni è importante tener bene a mente la distinzione tra le due diverse nature sulle quali queste si innestano, cui fanno capo due coincidenti finalità.

Vi è una natura previdenziale, che persegue il mantenimento di un tenore di vita quanto più possibile stabile in capo a coloro che si ritirano dal mondo del lavoro. Assolve una funzione di risparmio oppure una assicurativa qualora insorga una causa ostativa del mantenimento in attività del lavoratore, come una malattia o il

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licenziamento. Condizione per partecipare alla previdenza è ovviamente il versamento di contributi. Solo questa circostanza dà diritto a una prestazione previdenziale.

L'altra natura delle pensioni è prettamente assistenziale. Persegue obiettivi di redistribuzione del reddito a favore di coloro che si trovano in stato di indigenza o più in generale di bisogno. L'erogazione di questi trattamenti non passa dal versamento di contributi, né il loro ammontare è legato in qualche maniera al reddito percepito in precedenza da coloro che ne hanno diritto.

La natura assistenziale non è oggetto di questo lavoro sia per evitare di allargare troppo il campo di indagine a scapito della completezza, sia perché questa può essere assolta solo da uno Stato, non essendo paragonabile la sua azione in questo campo all'azione di qualche magnanimo benefattore privato.

Chiarito questo punto è normale non considerare qui la funzione di assistenza ai più bisognosi come un vantaggio di un sistema pensionistico pubblico rispetto a uno privato. Ripeto: non perché non sia degno di esser sottolineato, ma per coerenza di contenuti. “Gli oneri che le funzioni assistenziali comportano

devono essere posti integralmente a carico della collettività, fare capo al bilancio pubblico ed essere coperti da prelievo fiscale generale (a livello nazionale, regionale e locale)” [Somaini (1996, p. 30)]. Il campo di ricerca è

perciò diverso: si tratta di mera redistribuzione del reddito.

In teoria per assicurarsi un reddito dopo il pensionamento si potrebbe sottoscrivere una polizza che assicuri il pagamento di una rendita vitalizia, presso

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una compagnia privata di assicurazione.

Nella realtà non è vantaggioso perché il tasso di rendimento atteso è molto minore del tasso di interesse di mercato.7 Ciò è dovuto in gran parte agli elevati

costi amministrativi, costi fissi per antonomasia, di un sistema privato. Gestire lo stesso programma di pensionamento per un elevato numero di individui è più costoso che prevedere programmi di pensionamento vari tra i quali gli individui possano scegliere oppure, all'eccesso, un programma personalizzato per ogni individuo.

Vi sono poi una serie di circostanze che vanno sotto il nome di rischi sociali e il cui caso più esemplificativo e conosciuto è l'inflazione. Si parla di rischio sociale ogni volta che un evento, che ha una certa probabilità di verificarsi, potrebbe coinvolgere la società vista nel suo complesso e il costo dell'evento non può essere sopportato da una società assicurativa privata. Il rischio d'inflazione, consiste nella possibilità che la crescita del tasso di inflazione, l'aumento del livello dei prezzi, nel periodo di durata dell'investimento effettuato, sia talmente elevata da comportare una perdita di valore reale dell'investimento. Garantire un'assicurazione contro l'inflazione sarebbe per una compagnia privata foriero di problemi di insolvenza visto che subirebbe l'elevato rischio di risarcire tutti gli assicurati al verificarsi di un solo, aleatorio, evento. Sarebbe come sottoscrivere assicurazioni sulla vita in periodo di guerra.

Solo uno Stato può quindi assumersi un rischio sociale perché il pericolo di una

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sua insolvenza è fortemente limitato dalla possibilità di richiedere tributi alla fiscalità generale e perché può, sempre grazie all'arma tributaria, ripartire il rischio sociale tra più generazioni, trasferendolo a quelle successive e così diluendone la portata.8 Lo Stato, nel caso delle pensioni, può trasferire il costo di

un aumento eccessivo dell'inflazione alle generazioni future prevedendo l'indicizzazione delle pensioni.

Cause di fallimento dei mercati previdenziali privati sono poi tutti quei casi in cui vi sia un'asimmetria informativa. Il differente grado di conoscenza tra assicurato e compagnia privata, a vantaggio del primo, può avere ad oggetto un'informazione oppure un'azione.

Il primo caso va sotto il nome di selezione avversa (adverse selection) [Akerlof (1970)]. Gli individui che decidono di assicurarsi hanno diverse speranze di vita in relazione al loro stato di salute. Le compagnie di assicurazione dovrebbero modulare i premi richiesti in base alla diversa speranza di vita ma, poiché è molto costoso se non impossibile scoprire le informazioni detenute da ogni individuo, le compagnie sono costrette a stabilire premi medi. Così facendo chi ha una speranza di vita maggiore, in rapporto a questa, riceverà premi meno convenienti di chi ha una speranza di vita minore. La conseguenza sarà che solo i rischi peggiori si assicureranno. Per chi ha un'alta speranza di vita converrà non sottoscrivere alcuna polizza.

8 Si tralascia qui, volutamente, il costo, in termini di interessi sul debito pubblico, di una tale pratica. Tra l'altro il trasferimento di risorse tra generazioni è alla base del crescente peso del debito pensionistico italiano.

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Il secondo tipo di informazione asimmetrica è l'azzardo morale (moral hazard). É un problema di azione nascosta dell'assicurato dopo aver stipulato l'assicurazione. La compagnia assicuratrice non può controllare il suo comportamento. Nel settore previdenziale vi è azzardo morale nel momento in cui un individuo decide di ritirarsi. L'assicurazione dovrebbe garantire un reddito nel momento in cui l'individuo non sia più in grado di avere un reddito da lavoro per il naturale decadimento delle sue condizioni psicofisiche. Ma il momento di ritirarsi dal lavoro non avviene per tutti alla stessa età. Intorno ai sessanta anni vi è chi ancora può essere produttivo e chi, obiettivamente, non lo è più. Se entrambe le fattispecie hanno stipulato un'assicurazione, grazie alla quale al raggiungimento di quella stessa età potranno esercitare senza costi9 l'opzione di

non lavorare più e godere di una rendita vitalizia, anche coloro che potrebbero rimanere in attività si ritireranno. Saranno gli incentivi, o per meglio dire la loro mancanza, a spingerli verso questa decisione.

Una possibile soluzione al problema di selezione avversa è costringere tutti i singoli individui ad assicurarsi contro il rischio vecchiaia. Ovviamente solo lo Stato detiene un tale potere coercitivo. È un primo argomento a favore della previdenza pubblica.

L'azzardo morale porta le compagnie private a non stipulare delle assicurazioni complete, essendoci un trade off tra la riduzione del rischio e gli incentivi. La polizza da pagare per l'individuo sarà perciò più alta perché dovrà tener conto

9 Senza costi equivale qui a dire che l'opzione non è legata a un previo controllo dalla società erogatrice della pensione.

(25)

dell'azzardo morale. In questo caso anche lo Stato ha gli stessi limiti.10 La

previdenza pubblica e quella privata non sono in grado di eliminare il moral hazard.

Ricapitolando quindi vi sono delle solide basi per ritenere migliore da un punto di vista oggettivo la scelta di preferire un sistema previdenziale pubblico piuttosto che uno privato. Lo Stato in estrema sintesi ha dalla sua il potere di limitare i costi fissi, di indicizzare i trattamenti pensionistici all'inflazione e di imporre l'obbligo di assicurazione a tutti i lavoratori. Quest'ultima misura è giustificata anche da una considerazione preliminare: annoverare le pensioni tra i beni meritori.

I merit goods sono beni il cui consumo non può essere lasciato dallo Stato, qui visto in vesti paternalistiche, alla libera scelta del singolo individuo [Musgrave (1959, pp. 13-15)]. Lo Stato perciò incentiverà la riduzione o l'aumento del consumo di quel bene meritorio a seconda che lo consideri in maniera negativa oppure positiva.

Nel caso in esame la società considera giusto dare un sostegno economico a coloro i quali non possano più lavorare per raggiunti limiti anagrafici e non abbiano precedentemente risparmiato in vista di questo evento. Ma così facendo i costi sarebbero sopportati dal resto della popolazione, tra cui si annovererebbero gli individui che hanno prudentemente accumulato risparmi. L'obbligatorietà dell'assicurazione di vecchiaia è anche qui la soluzione efficace a disincentivare

10 Il fatto che vi siano dei limiti non esclude affatto che si possano adottare azioni volte a ridurre il problema di azzardo morale. Se ne parlerà nel capitolo 3.

(26)

tali comportamenti egoistici.

2.3

La falsa speranza della piena capitalizzazione: il

caso cileno.

Elsa Fornero, come i suoi predecessori, ha perciò fatto la scelta più oculata mantenendo in mano pubblica il sistema previdenziale, almeno il suo pilastro fondamentale.

Ma il fatto che le pensioni debbano essere gestite dallo Stato non implica necessariamente che questo non le possa amministrare secondo un metodo a capitalizzazione. Non vi sono ragioni per preferirvi a priori il sistema a ripartizione. Allo stato di maturità attuale del sistema a ripartizione la riconversione non è però una possibilità plausibile.

Il problema è il c.d. doppio pagamento che la generazione testimone e prima protagonista del passaggio dovrebbe sostenere. Questa generazione infatti, durante il periodo di attività lavorativa, si troverebbe a dover pagare contributi sia per onorare la promessa, che si era fino a quel momento perpetuata, con la generazione precedente, sia per mettere da parte un capitale abbastanza cospicuo da permettergli di godere di una pensione adeguata al momento del proprio ritiro. Non sembra dunque la ripartizione ad essere oggettivamente preferibile, ma il fatto che essa non permetta un'inversione alla capitalizzazione non lascia altra scelta. Ad onor del vero non è uno scenario mai verificatosi a livello planetario.

(27)

Il Cile è passato negli anni '90 da un sistema pubblico a ripartizione a uno a capitalizzazione misto, essendo lasciata alla discrezionalità del singolo la scelta tra pubblico e privato [Godoy, Valdés-Prieto (1999, pp. 60-74)]. Ma le caratteristiche del Paese sudamericano sono talmente peculiari da renderlo un caso a parte rispetto ai Paesi occidentali.

In Cile nel 1952 una riforma del sistema pensionistico venne approvata sulla scia delle idee di sicurezza sociale che venivano dall'Europa occidentale. In particolare le proposte di William Beveridge erano viste come un postulato per la creazione di un moderno e diffuso sistema di sicurezza sociale. Il Cile si dotò di una gran quantità di Cajas, fondi pensionistici, e il sistema era disegnato a ripartizione. C'erano sostanziali differenze tra i vari Cajas sia in termini di tassi di contribuzione sia in quanto a benefici ricavati. La segmentazione di contribuzione e benefici era in diretto contrasto con il principio di uguaglianza propugnato dal prevalente modello social-democratico. Il sistema cileno era in realtà tutt'altro: era un insieme di diversi sistemi pensionistici negoziati tra coloro che avevano un qualche potere politico e vari gruppi dotati di influenza elettorale. Era una stratificazione di privilegi che i secondi avevano a poco a poco ottenuto con una compravendita di voti. La riforma non aveva fatto altro che cristallizzare una situazione che si era creata a partire dal 1924.

La proliferazione dei Cajas ebbe l'effetto di rendere più costosa la loro amministrazione e meno efficiente il servizio. Vari governi succedutesi indicarono sempre la risoluzione della questione previdenziale come un loro

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obiettivo urgente ma rimase insoluto. In particolare la democrazia in Cile attraversò varie vicende; nel 1973 un golpe militare porta all'autonomina a Presidente del Generale Augusto Pinochet. Durerà fino al 1990.

Durante il regime militare crebbe la richiesta per un'economia che permettesse una crescita dei consumi e del benessere generale, allontanandosi dal socialismo e abbracciando idee capitaliste. Nel 1980 il governo di Pinochet vara una riforma del sistema previdenziale basata sulla capitalizzazione individuale.11 È una novità

assoluta che, nelle intenzioni, avrebbe portato indubbi vantaggi alle generazioni future cilene.

Secondo il nuovo sistema, le imposte sul salario di ciascun lavoratore vengono versate su un fondo pensionistico individuale e privato, che rimane di sua esclusiva proprietà. Il denaro presente sul conto viene investito in fondi d’investimento gestiti da professionisti. Se una persona cambiasse lavoro, il suo fondo pensione lo seguirebbe nella nuova professione.

Questi fondi hanno alimentato un’economia in crescita, fruttando un reddito pensionistico decisamente superiore a quanto si sarebbe ottenuto versando allo Stato le medesime somme.

Il sistema cileno sembrava funzionare. I Paesi dell'America Latina seguirono negli anni Novanta l'esempio cileno, ma con scelte meno radicali [Riesco (2008)]. Le società che in Cile gestiscono i fondi pensione, le AFP

11 Intervista a José Pinera, autore della riforma in qualità di Ministro del governo Pinochet,

http://www.brunoleoni.com/nextpage.aspx?codice=386, consultato in data 22/03/2012. Libero, 18 giugno 2004 .

(29)

(Administratoras de Fondos de Pensiones) fino agli ultimi anni del secolo scorso si fregiavano di rendimenti eccezionali, nell'ordine del 10%. Poi l'esplodere delle bolle speculative che avevano reso possibili simili exploit fecero ben presto capire che la capitalizzazione non era in grado di mantenere le promesse nel lungo periodo.

Il risultato è che oggi in Cile i rendimenti pensionistici sono talmente bassi da aver reso indispensabile un'integrazione dello Stato al fine di dare un reddito dignitoso, una rete di protezione predisposta dalla presidente Michelle Bachelet a inizio 2008.

Perciò puntare l'intera posta in gioco su fondi individuali sperando in miracolosi rendimenti è utopistico. Inoltre la transizione in Cile fu finanziata grazie alla nazionalizzazione delle miniere di rame. In Italia non ci sarebbe nemmeno una simile possibilità. Passare alla capitalizzazione sarebbe difficile da realizzare e non efficiente da mantenere nel lungo periodo.

2.4

Basta regali.

Il sistema pensionistico italiano doveva quindi necessariamente rimanere sia pubblico sia basato sul sistema a ripartizione nel suo pilastro principale. Mi riferisco al termine pilastro principale perché il nostro sistema, è bene chiarirlo, attualmente è misto, basato cioè su più pilastri.

(30)

Un primo pilastro è quello di cui si discute più diffusamente in questo lavoro; è il pilastro pubblico. Il secondo e il terzo pilastro sono basati su un sistema a capitalizzazione privato, rispettivamente su base collettiva e su base individuale. A loro sarà dedicato un capitolo di questo lavoro.

Tornando al pilastro pubblico, abbiamo già sottolineato come la riforma Fornero abbia accelerato il passaggio dal metodo di calcolo retributivo a quello contributivo. Con le precedenti riforme, in particolare quella che porta il nome di Dini, la piena entrata a regime della nuova architettura pensionistica si sarebbe avuta solo intorno al 2030 per i flussi delle nuove pensioni e soltanto dopo il 2050 per quanto atteneva lo stock delle pensioni in essere [Fornero (2002, p. 274)]. Con l'estensione del pro-rata si va verso una situazione di maggior equità intergenerazionale. Questa è tanto più fondamentale se si ottiene in un comparto pubblico a partecipazione obbligatoria, dove di fatto si limita la libertà individuale di scelta.

Una recente simulazione del CERP ha cercato di quantificare la convenienza di coloro i quali si ritirano con il vecchio metodo di calcolo [Belloni, Coda Moscarola (2011)]. Quello che è stato chiamato con cognizione di causa, dagli autori della ricerca, “regalo” del retributivo ci consegna dei numeri semplicemente esaustivi. La formula retributiva ha sistematicamente violato per molti anni quella che è la sostenibilità finanziaria del sistema concedendo un rendimento assai superiore a quanto possibile. Il rendimento è l'interesse che ogni anno il contributo versato viene ad accumulare.

(31)

L'indicatore usato per fare una stima della generosità del sistema è il Present Value Ratio (PVR), il valore dei benefici pensionistici, fatto pari a 100 il montante contributivo. Un PVR uguale a 100 indica piena sostenibilità; più ci si allontana da questa cifra più il sistema è generoso. Il PVR varia considerevolmente in base al sesso, al profilo di carriera più o meno dinamico, all'età di pensionamento e al settore di appartenenza, autonomo o dipendente, in quest'ultimo caso pubblico o privato.

Il trattamento maggiormente generoso spetta alle lavoratrici autonome con un PVR di 368. In altri termini una lavoratrice autonoma per ogni 100 euro di contributi versati, ha riconosciuti un surplus di 268 euro. Se si è uomini, nella stessa condizione lavorativa, il regalo scende a 246 euro. I dipendenti pubblici hanno un PVR di 268 se uomini e di 249 se donne. Infine dalla simulazione è emerso che i più svantaggiati, o meglio i meno privilegiati, sono i lavoratori dipendenti privati che hanno un PVR rispettivamente di 162 gli uomini e di 188 le donne.

Si va perciò da un regalo che permette quasi di quadruplicare l'investimento iniziale a uno che quasi lo raddoppia. Con il contributivo il PVR sarà approssimativamente pari a 100.

Si può pensare a un individuo, il signor Rossi, che oggi si ritira dal mondo del lavoro e percepisce una pensione di 1500 euro; di questi solo una cifra che si aggira tra i 400 e gli 800 euro sono dovuti al reale risparmio in vista della vecchiaia. Il nipote del signor Rossi, quando si ritirerà a sua volta, avrà la stessa

(32)

pensione di 1500 euro solo se avrà risparmiato una cifra equivalente. Se il nipote dovesse replicare i risparmi del nonno, la sua pensione non gli permetterebbe in questo caso di arrivare che a 800 euro nella migliore delle prospettive. Continuando con il nostro esempio, la riforma Fornero ha imposto che il figlio del signor Rossi sia protagonista di una vicenda previdenziale più simile a quella del nipote del signor Rossi. È un cambiamento del patto intergenerazionale importante.

2.5

Svezia, modello da seguire.

L'Italia non è l'unico Paese europeo in cui negli anni Novanta si è instaurato un processo di riforma nel sistema pensionistico basato sul principio contributivo. Nel 1991 è infatti iniziato un lento percorso molto simile in Svezia, conclusosi però con un esito ben differente dal caso italiano.

In Svezia protagonista è stato un gruppo di studiosi, che ha tradotto in un sistema pensionistico tecnicamente ben congegnato una serie di principi su cui tutte le forze politiche concordavano, senza dare ulteriori diktat.

Tra questi principi il principale era la stabilità finanziaria perché “se non fosse

stato finanziariamente stabile, non sarebbe stato considerato socialmente un buon sistema. Se non fosse stato stabile qualcuno avrebbe dovuto pagare il conto prima o poi” [Settergren (2003)].

(33)

Il gruppo di esperti partiva dal dato dell'instabilità del sistema precedente. Inoltre lo stesso era molto iniquo perché portava a una redistribuzione caotica del reddito. Questo fu il motivo per cui i sindacati in Svezia non osteggiarono il cambiamento, quando addirittura non lo appoggiarono.

Il cambiamento avvenne concretamente tra il 1995 e il 2003; furono otto anni in cui tutti i partiti parteciparono a un aspro scontro negoziale ma con la consapevolezza di fondo che si stesse procedendo nella direzione giusta. Per dare un termine di paragone, in Italia lo stesso processo di concertazione prese un periodo di tempo inferiore ad un anno. Anche in Svezia in realtà i diretti interessati, i cittadini, più che sostenere la riforma la subirono passivamente. L'1 Gennaio 1998 entrò in vigore in Svezia il sistema contributivo. A differenza dell'Italia pre-Fornero, la riforma sarà completamente effettiva intorno al 2020 [Cigno, Werding (2007, p. 31)].

L'Italia può fregiarsi di un primato meramente cronologico. Mentre l'opinione internazionale ancora oggi fatica a credere che l'Italia stia andando verso una risoluzione dei suoi problemi strutturali, “il modello svedese è additato come una

costruzione compiuta ed elegante oltreché un baluardo contro i potentati, economici e intellettuali, della capitalizzazione” [Gronchi (2007)]. Tutti gli Stati

che si avvicinino al contributivo dichiarano di ispirarsi alla Svezia.

Il sistema contributivo italiano ha insiti sin dal 1995 alcuni difetti di costruzione che in Svezia non ci sono.

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[Gronchi (2002, p. 259)]. In periodi in cui la massa salariale cresce si ha un surplus della massa contributiva mentre quando la massa salariale rallenta si crea un deficit pensionistico. Si può però prevedere la costituzione di un fondo in cui possano accumularsi i surplus per poi decumularsi in presenza di deficit. Questo permetterebbe l'equilibrio nel lungo periodo, non lasciando ai politici un'occasione di discrezionalità. Il fondo in un certo senso autogestisce il consueto saliscendi della massa salariale. La Svezia nel 1998 abbinò un fondo di questo tipo al sistema contributivo, dimostrando più lungimiranza del legislatore italiano.

Un secondo lapsus italiano è stato non aver tenuto conto nel calcolo delle aliquote contributive di alcune voci importantissime come le pensioni di invalidità, le pensioni indirette, le spese di amministrazione e i crediti contributivi inesigibili [Gronchi (2002, p. 263)]. Non prevedere, come appunto in Svezia, delle riserve di aliquota destinati a questi extra-costi significa lasciare una falla nel sistema. Queste voci sarebbero finanziate sine die dalla fiscalità generale. Non tenerne conto è causa di uno squilibrio strutturale che andrebbe sanato, alla luce soprattutto del legame che si è voluto creare tra contributi versati e prestazioni erogate. Se le prestazioni non sono solo quelle di un mondo ideale, allora i contributi che vengono richiesti al lavoratore devono essere adeguati di conseguenza.

Un importante meccanismo del sistema previdenziale che ciclicamente viene riproposto nei discorsi dei politici è la rivalutazione delle pensioni, resa

(35)

indispensabile dal passare del tempo. Ebbene, anche in questo la Svezia sarebbe un modello da seguire in una eventuale e auspicabile correzione.

Il sistema contributivo può essere raffigurato da una banca virtuale in cui gli attivi versano e i pensionati prelevano da conti individuali, anch'essi virtuali. I singoli conti sono fruttiferi di interessi sia prima che dopo il pensionamento. La sostenibilità del sistema pensionistico è garantita dalla scelta oculata del tasso di interesse. Idealmente dovrebbe essere uguale alla crescita del PIL.

Le strade percorribili nella rivalutazione delle pensioni sono due. Si può scegliere di calcolarla anno per anno al tasso reale prescelto; oppure si può anticipare, al momento del pensionamento, una certa percentuale della futura rivalutazione che poi andrà scalata nell'adeguamento al tasso effettivo. In altre parole si può decidere di pagare le pensioni con profili temporali diversi ma sempre in maniera sostenibile.

Sia l'Italia che la Svezia decisero di anticipare di una percentuale fissa il tasso di interesse al momento del pensionamento [Gronchi (2001, pp. 28-31)]. Noi siamo stati anche più prudenti del Paese scandinavo, anticipando l'1,5% del rendimento contro il loro 1,6%. In entrambe le situazioni il movente fu il tentativo di rendere più accettabile il contributivo.

Con l'anticipo del tasso d'interesse infatti il risultato è un rapporto tra l'ultimo stipendio percepito e la prima mensilità di pensione, il famoso tasso di sostituzione, più alto. Ma si percepisce una cifra iniziale maggiore a discapito delle pensioni future perché si blocca in questo modo il potere d'acquisto dei

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pensionati, creando delle disparità di non poco conto che vanno sotto il nome di pensioni d'annata. Questo trade off fra liquidazione e rivalutazione porta così a differenze rilevanti nell'importo pensionistico di due persone con la stessa età e lo stesso percorso lavorativo ma ritiratisi in anni diversi [Gronchi (2001, pp. 28-31)].

Se nel breve periodo si creano tali iniquità intragenerazionali, nel lungo periodo il problema è molto più grave perché sussiste il serio rischio che si vada incontro a situazioni di povertà più o meno grave tra coorti di individui che sono andati in pensione da parecchi anni, a causa della mancata perequazione.

Ma quello che ora mi preme richiamare è l'ennesima differenza tra Svezia e Italia a vantaggio della prima. I tecnici svedesi concepirono una rivalutazione coerente con quanto detto prima: il tasso d'interesse sostenibile (nel loro caso il tasso di crescita del reddito da lavoro medio, corretto con un meccanismo appositamente creato di non intuitiva comprensione) diminuito della percentuale anticipata, l'1,6%.

Il legislatore italiano dimenticò per strada l'anticipazione dell'1,5% dell'interesse sostenibile, lasciando i criteri di rivalutazione concepiti per la riforma del 1992, quando ancora si era pienamente nel sistema retributivo. La ragione di tale svista, ancora una volta, è da ricercare tra le fila delle parti sociali.

Non sembrò allora accettabile un doppio regime di indicizzazione, diverso tra retributivo e contributivo. Se la Svezia risolse il problema alla radice, estendendo alle pensioni retributive la nuova perequazione prevista per quelle contributive,

(37)

nel nostro Paese vinse l'impasse e si creò il paradosso di un sistema contributivo con l'indicizzazione di quello retributivo.

Gli aumenti secondo il decreto legislativo 503/1992 vengono “calcolati

applicando all'importo della pensione spettante alla fine di ciascun periodo la percentuale di variazione che si determina rapportando il valore medio dell'indice ISTAT dei prezzi al consumo per famiglie di operai ed impiegati, relativo all'anno precedente il mese di decorrenza dell'aumento, all'analogo valore medio relativo all'anno precedente.” Quindi il tasso di interesse scelto non

è la crescita del PIL, ma l'aumento dei prezzi. Si attua inoltre un distinguo tra pensioni più basse e pensioni più alte, prevedendo una indicizzazione ai prezzi piena per le prime e solo parziale per le seconde. Nel 1995 non venne toccato questo meccanismo perché era stata una dura conquista del 1992, coerente con il sistema retributivo, in un ottica di contenimento della spesa previdenziale.

Come se ciò non bastasse il legislatore italiano ha lasciato inalterata anche la possibilità, risalente sempre allo stesso decreto legge del 1992, di ulteriori forme di rivalutazione concordate tra sindacati e governo. Nella realtà questa opzione non è mai stata adottata fino ad oggi, nonostante sia stata presente a più riprese in diversi programmi elettorali.

Le conseguenze di questa mancanza di coerenza in Italia comportano tassi di interesse diversi tra attivi e pensionati [Gronchi, Nisticò (2008, pp. 87-88)]. Per i pensionati, come abbiamo visto, l'interesse è pari all'inflazione più l'1,5%

(38)

anticipato precedentemente nei coefficienti di trasformazione.12 L'interesse degli

attivi invece è uguale alla crescita nominale del PIL.

Anche se in anni di crescita del PIL lenta o di decrescita, come quelli che stiamo vivendo, il tasso di interesse dei pensionati non è svantaggiato da questa dicotomia, non è una scelta saggia mantenerla perché questa provoca distorsioni non facilmente individuabili, già per questo meritevole di attenzione.

Solo a titolo esemplificativo si può pensare all'influenza che un diverso tasso di interesse provoca sulla scelta del momento di ritiro nel singolo individuo. Sapere di avere un'indicizzazione del proprio reddito diversa potrebbe indurre ad anticipare, o a posticipare in condizioni di maggior crescita dell'economia, il proprio pensionamento.

La distorsione sarebbe tanto più significativa in un sistema pensionistico che vuole dare l'opportunità al singolo lavoratore di scegliere autonomamente l'età del proprio ritiro, senza penalizzare in termini assoluti una scelta piuttosto che un'altra. Nel prossimo capitolo vedremo che la riforma Fornero è fortemente orientata in questa direzione.

12 Il coefficiente di trasformazione è un parametro corrispondente all'età del lavoratore (quando presenta domanda di pensionamento) in base al quale si calcola l'ammontare lordo della pensione partendo dal montante contributivo individuale.

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Capitolo 3

“Io   trovo   abbastanza   paradossale   che   lo  Stato   ­che   non   ci   dice   quando   dobbiamo  comprare la casa, quando dobbiamo sposarci,  quando   dobbiamo   fare   figli­   ci   debba   dire  quando dobbiamo lasciare il lavoro.”

Elsa Fornero

Conferenza stampa di presentazione del decreto legge 201/2011, 4 Dicembre 2011.

(40)

3.1

Nel segno della flessibilità.

Il comma 3 del d.l. 201/2011 stabilisce la soppressione della pensione di anzianità. Da adesso in avanti la pensione di vecchiaia, anch'essa profondamente rinnovata, sarà affiancata dalla pensione anticipata (prima denominata pensione di vecchiaia anticipata).

La pensione di vecchiaia è conseguibile soddisfacendo una serie di requisiti differenziati tra uomini e donne e, per queste ultime, tra dipendenti e autonome. Le lavoratrici dipendenti dovranno avere 62 anni che diverranno 63 anni e sei mesi dal 1° Gennaio 2014, 65 anni dal 1° Gennaio 2016 e 66 anni a decorrere dal 1° Gennaio 2018. Anche le altre categorie seguiranno la medesima tendenza. Le lavoratrici autonome per il ritiro nell'anno 2012 dovranno avere 63 anni e sei mesi (64 anni e sei mesi nel 2014, 65 anni e sei mesi nel 2016, 66 anni nel 2018). Per i lavoratori dipendenti e i lavoratori autonomi l'età pensionabile è fissata da subito a 66 anni.

Riepilogando: nel 2018 per tutti l'età pensionabile sarà 66 anni. Inoltre confermata la previsione secondo cui l'età pensionabile sarà periodicamente aggiornata (prevista cadenza triennale a partire dal 2013) tenendo conto delle mutate condizioni riguardanti l'aspettativa di vita. A prescindere dai calcoli fatti, la riforma Fornero prevede che a partire dal 2022 l'età pensionabile non possa essere minore di 67 anni.

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70 anni infatti, sia gli uomini che le donne, avranno incentivi alla prosecuzione del rapporto di lavoro. Il calcolo del tasso di sostituzione terrà conto dei contributi versati in più negli anni non obbligatori e dei conseguenti anni in meno di percezione della pensione.

La pensione di anzianità, come detto, scompare. Per quanti non volessero aspettare il raggiungimento dell'età pensionabile rimane comunque la pensione anticipata, con dei limiti più stringenti e dei benefici più penalizzanti rispetto alla disciplina precedente. La pensione di vecchiaia anticipata è concessa agli uomini che abbiano maturato 42 anni e un mese di contributi e alle donne con 41 anni e un mese di contributi nell'anno 2012. Quanti si ritireranno nel 2013 dovranno avere un altro mese di contributi, per arrivare nel 2014 a dover avere 42 anni e tre mesi gli uomini e 41 anni e tre mesi le donne. Inoltre “sulla quota di trattamento

relativa alle anzianità contributive maturate antecedentemente il 1° gennaio 2012 (pari alla quota di pensione calcolata con il metodo retributivo, ndr), è applicata una riduzione percentuale pari a 2 punti percentuali per ogni anno di anticipo nell'accesso al pensionamento rispetto all'età di 62 anni. Nel caso in cui l'età al pensionamento non sia intera la riduzione percentuale è proporzionale al numero di mesi”.

Soffermiamoci ora sulle modifiche della pensione di vecchiaia. L'innalzamento dell'età pensionabile delle donne, con una sostanziale convergenza agli uomini, è una misura che l'Unione Europea aveva da tempo chiesto ai governanti italiani. Il volano era stata una sentenza di condanna dell'Italia da parte della Corte di

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Giustizia dell'Unione Europea, in data 13 Novembre 2008. La Corte aveva accolto il ricorso della Commissione Europea, la quale chiedeva che l'Italia eliminasse la disparità tra uomini e donne nell'età che consentiva l'accesso alla pensione di vecchiaia, limitatamente al settore dei dipendenti pubblici. L'Italia ha ottemperato alla sentenza dell'organo di giustizia dell'UE. È evidente che questo portasse come conseguenza un innalzamento dell'età pensionabile anche per le donne impiegate nel privato.13

Per gli uomini non cambiano le cose al momento, rispetto alla legislazione precedente.

Altra nota di rilievo, comune a uomini e donne, è la cancellazione del bizantinismo creato di recente dal legislatore italiano che andava sotto il nome di finestra di pensionamento. Il d.l. 201/2011 ha incorporato l'anno che bisognava aspettare per andare in pensione dopo aver maturato i requisiti pensionistici, tant'è che gli uomini prima potevano andare in pensione a 65 anni più uno, ora portati appunto a 66, e le donne (dipendenti presso privati) a 61 anni più uno di finestra, mentre ora possono ritirarsi a 62 anni, fatte salve le già considerate correzioni dei prossimi anni.

Guardando nel complesso le misure della riforma Fornero attinenti la flessibilità in uscita, con incentivi economici adeguati a lavorare fino ai 70 anni, e le correzioni sulla pensione di vecchiaia anticipata prima dei 62 anni, disincentivanti al ritiro prematuro, ci troviamo di fronte un quadro di previdenza

13 Sulle conseguenze della fine della disparità uomo-donna ci si soffermerà più diffusamente nel capitolo 4.

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ben congegnato e perfettamente in coerenza con metodo di calcolo contributivo. Il messaggio che un lavoratore in età avanzata riceve non potrebbe essere più chiaro di così: tu puoi decidere di andare in pensione quando vuoi, ovviamente con un limite minimo e uno massimo, ma le conseguenze della tua scelta ricadranno sul tuo reddito futuro.

Prima un individuo appena ne aveva la possibilità, a prescindere dalle sue reali condizioni di salute, pur non soffrendo di logorio fisico che ne condizionasse la prosecuzione in attività, usciva dal mondo del lavoro per mettere mano a guadagni che aveva solo in parte contribuito ad accumulare.

Dal d.l. 201/2011 in avanti un individuo ancora in forze difficilmente sceglierà di ritirarsi; semplicemente non gli converrà più.

Si è così passati dal trionfo dell'asimmetria informativa alla massima trasparenza nelle azioni degli individui da parte dello Stato, in qualità qui di assicuratore del rischio vecchiaia. L'egoismo dell'individuo teorizzato dalla scienza economica non ha a mio avviso una reale constatazione che superi o eguagli questo caso. Porvi un freno era un dovere morale prima ancora che finanziario.

Le critiche sul punto non sono mancate, anche se non hanno assunto dimensioni tali da far fare un passo indietro al Governo Monti. Tutte sono riassumibili con la constatazione-supposizione che alzare così tanto l'età pensionabile non permetterà a nessuno di godere della pensione, semplicemente perché si muore ad un'età che quasi coincide con l'età pensionabile.

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periodo. E, secondo una celebre frase attribuita a John Maynard Keynes, nel lungo periodo siamo tutti morti.

Ma è proprio così? Le statistiche attuali e le proiezioni future danno ragione a quanti avrebbero voluto la cristallizzazione del sistema ad età pensionabili così basse? Nel prosieguo del capitolo cercherò di dare una risposta a questo quesito. Seguirà un excursus per scoprire meglio la pensione di anzianità che per tanto tempo è stata l'anomalia italiana per eccellenza in tema di pensioni. Verranno poi esaminati gli effetti concreti di una flessibilità in uscita così come si è palesata. Il capitolo si chiuderà con una disamina su un tema tanto discusso quanto poco chiaro: una bassa età di pensionamento libera posti di lavoro per i giovani.

3.2

Uno scenario demografico non incoraggiante.

Le democrazie occidentali nel secondo dopoguerra hanno vissuto un periodo di impetuosa crescita dei tassi di fertilità [Cigno, Werding (2007, pp. 1-13)]. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta i Paesi industrializzati poterono godere di livelli di natalità mai verificatisi prima d'allora. Ma la crescita impetuosa non era destinata a durare a lungo: la natalità ebbe dappertutto un evidente e inesorabile calo.

È bene fare riferimento per la natalità al tasso di fecondità totale (TFT), un dato statistico molto usato per fare confronti tra l'ammontare di nascite in diverse

(45)

popolazioni. Indica il numero medio di figli per donna (limitatamente agli anni in cui una donna può biologicamente concepire, per convenzione tra 15 e 44 anni) e, a differenza del numero totale di nascite pro-capite, è indipendente dalla struttura della popolazione per sesso e per età.

Per approssimazione si suppone solitamente che un tasso di fertilità totale pari a 2,1 indichi un livello costante nella composizione della popolazione, quanto più il tasso è maggiore di questo numero tanto più è significativa la crescita della popolazione.

Negli Stati Uniti il 1957 fu l'anno del picco massimo con 3,85 figli per donna. In Europa a metà anni Sessanta si registrarono TFT oscillanti tra 2,3 e 2,8. L'Italia in particolare nel 1966 ebbe il TFT massimo, pari a 2,4. Fu l'apoteosi e allo stesso tempo l'inizio della fine del baby boom.

Il TFT subì da allora un declino che lo ha portato ad arrivare, ai giorni nostri, a cifre poco maggiori della fatidica soglia di 2,1 negli Stati Uniti e minori di 1,4 in Germania e nella stessa Italia. In Europa la Francia e la Svezia (ma il discorso può estendersi agli altri Paesi Scandinavi) hanno tassi di fertilità totale sopra la media Ue, ma restano sotto il 2,1.

Tra le cause del crollo della natalità una è proprio l'estensione della previdenza per vecchiaia a strati sempre più ampi della popolazione nel corso del Novecento, fino a comprenderne la totalità. Infatti i bambini possono essere considerati come

investment goods: la loro presenza è un'assicurazione che copre il rischio

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