L'Italia non è l'unico Paese europeo in cui negli anni Novanta si è instaurato un processo di riforma nel sistema pensionistico basato sul principio contributivo. Nel 1991 è infatti iniziato un lento percorso molto simile in Svezia, conclusosi però con un esito ben differente dal caso italiano.
In Svezia protagonista è stato un gruppo di studiosi, che ha tradotto in un sistema pensionistico tecnicamente ben congegnato una serie di principi su cui tutte le forze politiche concordavano, senza dare ulteriori diktat.
Tra questi principi il principale era la stabilità finanziaria perché “se non fosse
stato finanziariamente stabile, non sarebbe stato considerato socialmente un buon sistema. Se non fosse stato stabile qualcuno avrebbe dovuto pagare il conto prima o poi” [Settergren (2003)].
Il gruppo di esperti partiva dal dato dell'instabilità del sistema precedente. Inoltre lo stesso era molto iniquo perché portava a una redistribuzione caotica del reddito. Questo fu il motivo per cui i sindacati in Svezia non osteggiarono il cambiamento, quando addirittura non lo appoggiarono.
Il cambiamento avvenne concretamente tra il 1995 e il 2003; furono otto anni in cui tutti i partiti parteciparono a un aspro scontro negoziale ma con la consapevolezza di fondo che si stesse procedendo nella direzione giusta. Per dare un termine di paragone, in Italia lo stesso processo di concertazione prese un periodo di tempo inferiore ad un anno. Anche in Svezia in realtà i diretti interessati, i cittadini, più che sostenere la riforma la subirono passivamente. L'1 Gennaio 1998 entrò in vigore in Svezia il sistema contributivo. A differenza dell'Italia pre-Fornero, la riforma sarà completamente effettiva intorno al 2020 [Cigno, Werding (2007, p. 31)].
L'Italia può fregiarsi di un primato meramente cronologico. Mentre l'opinione internazionale ancora oggi fatica a credere che l'Italia stia andando verso una risoluzione dei suoi problemi strutturali, “il modello svedese è additato come una
costruzione compiuta ed elegante oltreché un baluardo contro i potentati, economici e intellettuali, della capitalizzazione” [Gronchi (2007)]. Tutti gli Stati
che si avvicinino al contributivo dichiarano di ispirarsi alla Svezia.
Il sistema contributivo italiano ha insiti sin dal 1995 alcuni difetti di costruzione che in Svezia non ci sono.
[Gronchi (2002, p. 259)]. In periodi in cui la massa salariale cresce si ha un surplus della massa contributiva mentre quando la massa salariale rallenta si crea un deficit pensionistico. Si può però prevedere la costituzione di un fondo in cui possano accumularsi i surplus per poi decumularsi in presenza di deficit. Questo permetterebbe l'equilibrio nel lungo periodo, non lasciando ai politici un'occasione di discrezionalità. Il fondo in un certo senso autogestisce il consueto saliscendi della massa salariale. La Svezia nel 1998 abbinò un fondo di questo tipo al sistema contributivo, dimostrando più lungimiranza del legislatore italiano.
Un secondo lapsus italiano è stato non aver tenuto conto nel calcolo delle aliquote contributive di alcune voci importantissime come le pensioni di invalidità, le pensioni indirette, le spese di amministrazione e i crediti contributivi inesigibili [Gronchi (2002, p. 263)]. Non prevedere, come appunto in Svezia, delle riserve di aliquota destinati a questi extra-costi significa lasciare una falla nel sistema. Queste voci sarebbero finanziate sine die dalla fiscalità generale. Non tenerne conto è causa di uno squilibrio strutturale che andrebbe sanato, alla luce soprattutto del legame che si è voluto creare tra contributi versati e prestazioni erogate. Se le prestazioni non sono solo quelle di un mondo ideale, allora i contributi che vengono richiesti al lavoratore devono essere adeguati di conseguenza.
Un importante meccanismo del sistema previdenziale che ciclicamente viene riproposto nei discorsi dei politici è la rivalutazione delle pensioni, resa
indispensabile dal passare del tempo. Ebbene, anche in questo la Svezia sarebbe un modello da seguire in una eventuale e auspicabile correzione.
Il sistema contributivo può essere raffigurato da una banca virtuale in cui gli attivi versano e i pensionati prelevano da conti individuali, anch'essi virtuali. I singoli conti sono fruttiferi di interessi sia prima che dopo il pensionamento. La sostenibilità del sistema pensionistico è garantita dalla scelta oculata del tasso di interesse. Idealmente dovrebbe essere uguale alla crescita del PIL.
Le strade percorribili nella rivalutazione delle pensioni sono due. Si può scegliere di calcolarla anno per anno al tasso reale prescelto; oppure si può anticipare, al momento del pensionamento, una certa percentuale della futura rivalutazione che poi andrà scalata nell'adeguamento al tasso effettivo. In altre parole si può decidere di pagare le pensioni con profili temporali diversi ma sempre in maniera sostenibile.
Sia l'Italia che la Svezia decisero di anticipare di una percentuale fissa il tasso di interesse al momento del pensionamento [Gronchi (2001, pp. 28-31)]. Noi siamo stati anche più prudenti del Paese scandinavo, anticipando l'1,5% del rendimento contro il loro 1,6%. In entrambe le situazioni il movente fu il tentativo di rendere più accettabile il contributivo.
Con l'anticipo del tasso d'interesse infatti il risultato è un rapporto tra l'ultimo stipendio percepito e la prima mensilità di pensione, il famoso tasso di sostituzione, più alto. Ma si percepisce una cifra iniziale maggiore a discapito delle pensioni future perché si blocca in questo modo il potere d'acquisto dei
pensionati, creando delle disparità di non poco conto che vanno sotto il nome di pensioni d'annata. Questo trade off fra liquidazione e rivalutazione porta così a differenze rilevanti nell'importo pensionistico di due persone con la stessa età e lo stesso percorso lavorativo ma ritiratisi in anni diversi [Gronchi (2001, pp. 28- 31)].
Se nel breve periodo si creano tali iniquità intragenerazionali, nel lungo periodo il problema è molto più grave perché sussiste il serio rischio che si vada incontro a situazioni di povertà più o meno grave tra coorti di individui che sono andati in pensione da parecchi anni, a causa della mancata perequazione.
Ma quello che ora mi preme richiamare è l'ennesima differenza tra Svezia e Italia a vantaggio della prima. I tecnici svedesi concepirono una rivalutazione coerente con quanto detto prima: il tasso d'interesse sostenibile (nel loro caso il tasso di crescita del reddito da lavoro medio, corretto con un meccanismo appositamente creato di non intuitiva comprensione) diminuito della percentuale anticipata, l'1,6%.
Il legislatore italiano dimenticò per strada l'anticipazione dell'1,5% dell'interesse sostenibile, lasciando i criteri di rivalutazione concepiti per la riforma del 1992, quando ancora si era pienamente nel sistema retributivo. La ragione di tale svista, ancora una volta, è da ricercare tra le fila delle parti sociali.
Non sembrò allora accettabile un doppio regime di indicizzazione, diverso tra retributivo e contributivo. Se la Svezia risolse il problema alla radice, estendendo alle pensioni retributive la nuova perequazione prevista per quelle contributive,
nel nostro Paese vinse l'impasse e si creò il paradosso di un sistema contributivo con l'indicizzazione di quello retributivo.
Gli aumenti secondo il decreto legislativo 503/1992 vengono “calcolati
applicando all'importo della pensione spettante alla fine di ciascun periodo la percentuale di variazione che si determina rapportando il valore medio dell'indice ISTAT dei prezzi al consumo per famiglie di operai ed impiegati, relativo all'anno precedente il mese di decorrenza dell'aumento, all'analogo valore medio relativo all'anno precedente.” Quindi il tasso di interesse scelto non
è la crescita del PIL, ma l'aumento dei prezzi. Si attua inoltre un distinguo tra pensioni più basse e pensioni più alte, prevedendo una indicizzazione ai prezzi piena per le prime e solo parziale per le seconde. Nel 1995 non venne toccato questo meccanismo perché era stata una dura conquista del 1992, coerente con il sistema retributivo, in un ottica di contenimento della spesa previdenziale.
Come se ciò non bastasse il legislatore italiano ha lasciato inalterata anche la possibilità, risalente sempre allo stesso decreto legge del 1992, di ulteriori forme di rivalutazione concordate tra sindacati e governo. Nella realtà questa opzione non è mai stata adottata fino ad oggi, nonostante sia stata presente a più riprese in diversi programmi elettorali.
Le conseguenze di questa mancanza di coerenza in Italia comportano tassi di interesse diversi tra attivi e pensionati [Gronchi, Nisticò (2008, pp. 87-88)]. Per i pensionati, come abbiamo visto, l'interesse è pari all'inflazione più l'1,5%
anticipato precedentemente nei coefficienti di trasformazione.12 L'interesse degli
attivi invece è uguale alla crescita nominale del PIL.
Anche se in anni di crescita del PIL lenta o di decrescita, come quelli che stiamo vivendo, il tasso di interesse dei pensionati non è svantaggiato da questa dicotomia, non è una scelta saggia mantenerla perché questa provoca distorsioni non facilmente individuabili, già per questo meritevole di attenzione.
Solo a titolo esemplificativo si può pensare all'influenza che un diverso tasso di interesse provoca sulla scelta del momento di ritiro nel singolo individuo. Sapere di avere un'indicizzazione del proprio reddito diversa potrebbe indurre ad anticipare, o a posticipare in condizioni di maggior crescita dell'economia, il proprio pensionamento.
La distorsione sarebbe tanto più significativa in un sistema pensionistico che vuole dare l'opportunità al singolo lavoratore di scegliere autonomamente l'età del proprio ritiro, senza penalizzare in termini assoluti una scelta piuttosto che un'altra. Nel prossimo capitolo vedremo che la riforma Fornero è fortemente orientata in questa direzione.
12 Il coefficiente di trasformazione è un parametro corrispondente all'età del lavoratore (quando presenta domanda di pensionamento) in base al quale si calcola l'ammontare lordo della pensione partendo dal montante contributivo individuale.
Capitolo 3
“Io trovo abbastanza paradossale che lo Stato che non ci dice quando dobbiamo comprare la casa, quando dobbiamo sposarci, quando dobbiamo fare figli ci debba dire quando dobbiamo lasciare il lavoro.”
Elsa Fornero
Conferenza stampa di presentazione del decreto legge 201/2011, 4 Dicembre 2011.