Quella che da molti è additata come l'origine di tutti mali del nostro sistema pensionistico nasce nel 1965. I soggetti coinvolti erano i dipendenti e gli autonomi. Inizialmente il requisito per potervi accedere era il versamento di 35 anni di contributi. Ed erano sufficienti.
La pensione d'anzianità infatti non era legata al raggiungimento di un'età anagrafica; ad essa il concetto di età pensionabile semplicemente non si applicava.
Le uscite per le casse statali furono maggiori di quanto preventivato e la soppressione dell'istituto nel 1968 fu la logica conseguenza.
Salvo ricomparire l'anno dopo con alcune novità. La legge 153/1969, quella del passaggio dal contributivo al retributivo, introdusse il concetto di contributo figurativo: ai fini del calcolo dei contributi erano contati anche gli anni di servizio militare e simili.
L'ampliamento ad attività diverse da quelle puramente lavorative era stato bocciato nel breve esperimento del 1965 perché la ratio dell'istituto non era
“incoraggiare il pensionamento anticipato, ma premiare l'anzianità di lavoro”.15
Questa concessione era accompagnata almeno da uno stringente requisito per poter beneficiare della pensione d'anzianità e cioè l'aver cessato l'attività lavorativa. Il cumulo di prestazione pensionistica d'anzianità e di retribuzione da lavoro era visto come una stortura non solo per le casse dello Stato, ma per il mondo del lavoro.
Inizialmente la pensione d'anzianità permetteva, fatti due conti, di andare in pensione anche a 49 anni d'età, avendo iniziato a lavorare a 14 anni. Nessun altro Stato al mondo concedeva un qualcosa di simile.
Il Ministro del Lavoro del governo Rumor, Gianni Brodolini, l'aveva concepita per dare un premio a quanti iniziavano giovanissimi a lavorare, la cui salute era perciò precocemente minata dall'usura. L'effetto degli interventi legislativi
15 Dichiarazione del Ministro del lavoro e della previdenza sociale del secondo governo Moro, Umberto Delle Fave, nel 1965. Fonte: Sgroi, Itinerari giurisprudenziali in materia di previdenza sociale, Giappichelli, Torino, 2007.
successivi fu però quello di un foro in un vestito aderente: bastò poco perché si allargasse in maniera all'inizio impensabile, facendo scandalo.
Nel 1973 infatti il D.P.R. 1092 permetterà condizioni di pensionamento talmente generose da partorire veri e propri record di pensioni premature nel settore pubblico. È l'inizio del fenomeno che la storia ricorderà come baby pensioni. Da quel momento “nei casi di dimissioni, di decadenza, di destituzione e in ogni
altro caso di cessazione del servizio il dipendente civile ha diritto alla pensione normale se ha compiuto venti anni di servizio effettivo”.
Incredibilmente non è questa la condizione più favorevole. “Alla dipendente
dimissionaria coniugata o con prole a carico spetta, ai fini del compimento dell'anzianità, un aumento del servizio effettivo sino al massimo di cinque anni”,
in altre parole gli era concessa la pensione d'anzianità con soli 15 anni di contributi.
Ovviamente furono tantissimi i dipendenti pubblici che si avvalsero di questa possibilità, in molti casi con l'aggiunta che il divieto di cumulo veniva aggirato con un lavoro in nero.
Alle donne la concessione senza pari venne giustificata anche come un sostegno all'istituto famiglia in generale e un incentivo alla crescita demografica in particolare. Alcuni casi furono scovati e narrati dai giornali dell'epoca. Una donna in provincia di Udine, Ermanna Cossio, andò in pensione alla tenerissima età di 29 anni nel 1983 [E. Rosaspina (1994)]. Aveva lavorato da quando aveva 14 anni, prima come commessa in un panificio e poi come bidella nella scuola
del suo paese. Probabilmente è suo il record mondiale di pensionamento precoce. Anche ad altre categorie vennero via via riservati trattamenti speciali. La stessa legge del 1973 prevedeva regimi speciali per i militari.
Nel 1974 una legge che prese il nome dal suo proponente, un deputato socialista poi passato alla dirigenza della CGIL, Gaetano Mosca prometteva la
“regolarizzazione della posizione assicurativa dei dipendenti dei partiti politici, delle organizzazioni sindacali e delle associazioni di tutela e di rappresentanza della cooperazione”. Queste categorie potevano beneficiare della pensione
d'anzianità senza aver versato alcun contributo, per delle prestazioni di lavoro che si configuravano come al di fuori dei canoni di legge, lavoro in nero dunque. Se i baby pensionati ebbero una donazione per loro l'espressione più giusta sembra quella di furto legalizzato.
Nel frattempo le condizioni socio-economiche erano mutate. Gli anni Settanta erano stati segnati da inflazione alle stelle a causa delle crisi petrolifere e da lotte operaie. Allo stesso tempo era iniziato già il processo di invecchiamento e di calo della natalità della popolazione, rendendo anacronistica l'età pensionabile fissata nel 1939: 60 anni per gli uomini e 55 anni per le donne.
Il debito pubblico italiano cresceva prorompente ma i governi non sembravano prestargli particolare attenzione. La quota della spesa pensionistica sul PIL proprio in quegli anni iniziò ad essere un problema, ma i baby pensionati erano diventati ormai un qualcosa di definitivo.
garanzia costituzionale a farvi scudo. Il conto, salato, venne stipato a forza nel debito pubblico, che tanto qualcuno in futuro avrebbe pagato.
Nel 1978 fu Scotti a presentare il primo progetto di riforma. Da Ministro del lavoro tentò un intervento non sui requisiti per andare in pensione, bensì sulla marea di disparità tra categorie in cui così bene si mascheravano i privilegi. Il progetto non fu nemmeno discusso in Parlamento a causa della chiusura anticipata della legislatura.
Da allora tanti proclami e due Commissioni per studiare correttivi da attuare, con l'innalzamento dell'effettiva età di pensionamento in prima linea, ma nulla di concreto fino alle riforme degli anni Novanta.16
La riforma Amato del 1992 va a incidere sull'età pensionabile, connessa quindi con la sola pensione di vecchiaia, aumentandola parallelamente per uomini e donne, 65 anni i primi e 60 le seconde. La contribuzione minima per accedere alla pensione di vecchiaia passa da 15 a 20 anni. Amato però avrà il merito non secondario di porre fine alle scappatoie che avevano permesso le baby pensioni: per avere diritto alla pensione di anzianità, prescrive la legge, non si possono in ogni caso avere meno di 35 anni di contributi. È una condizione vincolante che cancella con un colpo di spugna quasi trent'anni di follia pura.
Solo con Dini nel 1995 la pensione d'anzianità subì però una importante modifica in senso restrittivo per tutti. Oltre agli anni di contributi versati si fissa anche il
16 Meritano menzione la 1° Commissione Castellino insediatasi presso il Ministero del Tesoro nel 1981 e la Commissione parlamentare Cristofori protrattasi dal 1984 al 1987, entrambe senza esiti. Fonte:
requisito di aver compiuto 57 anni. L'età anagrafica entra per la prima volta nel concetto di pensione d'anzianità. In alternativa la pensione d'anzianità era conseguibile con almeno 40 anni di contributi. In quest'ultimo caso lavoratori molto precoci, avendo iniziato a lavorare a 14 anni, avrebbero potuto richiedere la pensione a 54 anni, un'età più bassa dell'estremo inferiore dell'età pensionabile flessibile, fissata da quella stessa legge tra i 57 e i 65 anni.
Nel decennio scorso la novità maggiore che ha riguardato l'istituto della pensione d'anzianità è stata l'introduzione del cosiddetto sistema delle quote, “in base al
quale il diritto alla pensione si consegue, in presenza di un’anzianità contributiva minima di 35 anni, al raggiungimento di una quota data dalla somma tra età anagrafica e contribuzione posseduta dall’assicurato.”17 Le quote
hanno periodicamente subito vari spostamenti, sempre in avanti, mantenendo tuttavia costante la disparità di condizioni tra uomini e donne.
La riforma Fornero pone fine a tutto questo. La pensione d'anzianità, premio al lavoro, era già di difficile giustificazione quando vigeva un metodo di calcolo retributivo. Con il passaggio definitivo per tutti al contributivo oltre che ingiustificabile diverrebbe inattuabile. Oggi una donna di 29 anni, alla quale fosse concesso di andare in pensione, avrebbe messo da parte un montante contributivo così esiguo che, diviso per gli anni che gli restano da vivere, le darebbe un importo molto al di sotto dell'assegno sociale.
Sullo sfondo del percorso appena visto vi sono delle considerazioni che giova
fare.
L'età pensionabile, è bene renderlo palese, è cosa ben diversa dall'età di pensionamento effettiva. La pensione d'anzianità è l'elemento che ha inciso maggiormente in Italia sul ritiro precoce.
Vi è un altro istituto che ha favorito il distacco tra i due concetti: il prepensionamento. È un ammortizzatore sociale atipico che si rende necessario in casi di crisi aziendali di una certa rilevanza. È doveroso accennarvi perché anche in questo caso l'Italia è stata protagonista in negativo. Si è abusato del prepensionamento perché era la scelta più facile da parte delle imprese in tutte le situazioni in cui, con il beneplacito dei governanti, gli era permesso beneficiarne. Anche qui la logica di fondo era: qualcun altro pagherà, prima o poi.
Vi sono altri fattori esogeni alla previdenza per vecchiaia che pesano sul differenziale tra età pensionabile e età effettiva in cui l'individuo si ritira dal mondo del lavoro. Tra questi meritano una menzione la pensione d'invalidità e l'indennità di disoccupazione [Brugiavini (1999, pp. 185-193)].
Per quanto riguarda la pensione d'invalidità la discriminante è data dai requisiti più o meno restrittivi per il suo accesso, ovvero dalla percentuale di invalidità che è richiesta per potervi accedere. Abbassare la percentuale equivale a permettere il ritiro a un numero maggiore di persone, concentrate presumibilmente nelle coorti in cui i fisiologici acciacchi dell'età iniziano a farsi sentire.
L'indennità di disoccupazione e più in generale tutti gli strumenti messi in campo dallo Stato per arginare i problemi legati alla perdita o alla mancanza originaria
del posto di lavoro, provocano una spirale di lassismo da parte dello stesso individuo. Infatti se da un lato risulta difficile a una certa età una ricollocazione lavorativa per mancanze del sistema, dall'altro inciderà il comportamento del singolo, non incentivato a una ricerca attiva del lavoro dalla circostanza che la rete di protezione sociale gli consente quantomeno di sopravvivere dignitosamente. L'individuo non rientrerà più nel mondo del lavoro, passando di fatto da una prestazione sociale all'altra.