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Più pensionati equivale a più occupati?

Mettere in atto una serie di tecniche affinché l'età di pensionamento si alzi sembra essere una strategia virtuosa. E lo è senza ombra di dubbio, dopo quanto detto in precedenza, se si guarda alla spesa pensionistica.

Da vagliare è invece il rapporto che intercorre tra l'età di ritiro elevata e la disoccupazione.

Facciamo un esempio. Un certo numero di lavoratori, impiegati presso la stessa impresa lascia, chi per un motivo chi per un altro, il proprio posto.19 L'impresa si

troverà a dover ricoprire il vuoto lasciato e a questo punto si rivolgerà all'offerta

19 Ovviamente nel nostro esempio è esclusa la possibilità che sia stata l'azienda a licenziare i lavoratori per crisi o sovracapacità produttiva.

di lavoro che c'è nel mercato. Se i lavoratori ritiratisi non vanno a infoltire l'offerta di lavoro (ed è proprio questo che avviene se questi saranno andati in pensione) allora la disoccupazione nel mercato sarà senz'altro diminuita in maniera netta.

Può sembrare un esempio banale ma secondo me ben rappresenta il pensiero che tra i detrattori della riforma Fornero ha fatto capolino. Lasciare che le persone rimangano in attività oltre quanto consentito in precedenza toglie opportunità lavorative ai disoccupati o ai giovani inoccupati. In altre parole un posto di lavoro occupato per più anni è un posto di lavoro in meno per qualcun altro. Non è una congettura inedita. Rientra tra gli argomenti che diversi governi in più Stati hanno portato avanti per giustificare il ritiro precoce come situazione desiderabile [Fenge, Pestieau (2005, pp. 115-118)].

Ma è davvero esatto fare questa equazione se si passa dalla singola impresa al tessuto economico generale, che vive di molte altre interazioni che nell'esempio vengono omesse?

Che i lavoratori non siano del tutto interscambiabili si può evincere considerando l'esperienza del singolo lavoratore, vista sia in relazione all'età, sia soprattutto come percorso già intrapreso e consolidato all'interno di una stessa impresa. Il lavoratore di 60 anni non ha più la prestanza fisica di un tempo e gli sono precluse per questo una serie di attività che un ventenne svolgerebbe senza problemi. D'altro canto il sessantenne ha dalla sua una esperienza che il ventenne non può in alcun modo acquisire perché frutto del learning-by-doing, processo

interno a ogni impresa. È tutto ciò che si impara solo facendolo, una formazione pratica che nessun testo universitario può sostituire.

Non è chiaro però il risultato congiunto di questi due fattori divergenti. Non vi sono studi empirici per la difficoltà di misurare questi dati, che per lo più rimangono oscuri persino allo stesso lavoratore, in modo oggettivo. Nonostante questo ostacolo si può ipotizzare che la preponderanza di uno sull'altro possa derivare in determinate situazioni dalla natura di quello specifico lavoro.

Ci sarà una sostituibilità spiccata in mansioni che richiedono uno sforzo fisico notevole quale può essere ad esempio l'operaio addetto alla catena di montaggio nell'industria automobilistica.

Viceversa questa sostituibilità sarà meno efficace se il lavoro in questione rientra tra quelli che sono comunemente detti intellettuali. Un esempio calzante è quello del professore universitario. Questa categoria in un recente passato è stata proprio in Italia oggetto di un dibattito in tal senso. Vi è chi ha sostenuto, credo a ragione, che l'entusiasmo conti per loro ben più della sola età anagrafica [Balestrino, Ranchetti (2010)].

Una stima del rapporto tra pensionamento dei lavoratori più anziani e diminuzione della disoccupazione giovanile è stata empiricamente fatta in passato riguardo ai Paesi Europei, prendendo come periodo di riferimento gli anni dal 1986 al 1996 [Boldrin, Dolado, Jimeno, Peracchi (1999, pp. 8-9)]. Ebbene, i risultati non hanno evidenziato alcuna correlazione statisticamente rilevante.

Lavoratori giovani e lavoratori più anziani possono anche esser visti come due fattori complementari nella produzione [Hebbink (1993, pp. 217-224)]. In altre parole se il salario dei primi sale è normale che le imprese preferiscano attingere alla domanda di lavoratori in là con gli anni. E viceversa.

Tuttavia ciò non implica che sia efficiente per la collettività che le imprese possano beneficiare del ritiro della manodopera più costosa (in Italia notoriamente le coorti più mature) per assumere quella meno costosa. Per tornare all'esempio dal quale ero partito, il problema è che qualcuno le pensioni di coloro che si ritirano le dovrà pur pagare. Quel qualcuno, ormai dovrebbe essere chiaro, sarà lo Stato. Ma lo Stato chi è in questo caso, se non i lavoratori che rimangono in attività, tra cui i neo assunti, pagando i contributi?

Un giovane quindi dovrebbe sperare di farsi carico di un costo futuro per ottenere un beneficio presente (il tanto agognato posto di lavoro), nonostante il beneficio sia frutto di una situazione di partenza di svantaggio (il basso salario).

Concludendo, emerge che abbassare l'età di pensionamento non vada necessariamente a liberare posti per le giovani generazioni e quando questo avviene non sempre è un vantaggio per loro, specie se gravati da forme contrattuali atipiche che tendono a prevedere bassi salari.

Potrebbe addirittura accadere che le imprese decidano di non sostituire coloro andati in pensione con nessun altro lavoratore, a prescindere dalla loro età, procedendo piuttosto a una ristrutturazione. La disoccupazione totale sarebbe incrementata, con uno svantaggio netto per la società nel suo complesso. In tempi

Capitolo 4

“La   fissazione,   ai   fini   del   pensionamento,   di   una   condizione   d’età   diversa   a   seconda   del   sesso   non   è   tale   da   compensare   gli  svantaggi ai quali sono esposte le carriere  dei dipendenti pubblici di sesso femminile,   aiutando   queste   donne   nella   loro   vita  professionale e ponendo rimedio ai problemi   che esse possono incontrare durante la loro  carriera professionale. ”

Corte di Giustizia Europea

Sentenza del 13/11/2008 su controversia Commissione- Repubblica Italiana.