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L'antichita' nella nuova Italia. Storia di un dibattito e nascita dei primi musei nazionali.

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UNIVERSITA` DI PISA

TESI DI LAUREA

L'antichità nella nuova Italia.

Storia di un dibattito culturale e nascita

delle istituzioni museali nazionali.

RELATORE

CANDIDATO

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INDICE

Introduzione p. 5

- Nascita della coscienza nazionale italiana

Capitolo I

Dall'antiquaria all'archeologia. p. 14

- L'influenza germanica

- La scuola viennese di storia dell'arte

- L'antiquaria italiana di fronte a un'antichità “moderna” - Giuseppe Fiorelli e la Scuola Archeologica di Pompei

- Emanuel Löwy, archeologia classica all'Università di Roma

Capitolo II

Istituzioni per la tutela dei beni archeologici negli stati preunitari. p. 43 - Il Regno di Sardegna

- Il Lombardo-Veneto

- I ducati di Parma e Modena - Il Ducato di Lucca

- Il Granducato di Toscana - Lo Stato Pontificio - Il Regno delle Due Sicilie

Capitolo III

Sincronizzazione delle leggi preunitarie e nascita delle soprintendenze p. 66 - L'Italia Settentrionale

- Le Provincie Emiliane

- L'Italia centrale. la Toscana l'Umbria e le Marche - L'Italia Meridionale

- La tutela del patrimonio archeologico tra istituzioni centrali ed enti periferici - La legge organica di tutela e la nascita delle Soprintendenze

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Capitolo IV

La nascita delle prime istituzioni museali nazionali. p. 124

- L'eredita del Museo Kircheriano e il progetto di Ruggero Bonghi per il Collegio Romano

- Il Museo del Colosseo e il Museo Tiberino

- Il progetto di Lanciani e Sneider per un grande museo romano sul Celio

- Felice Barnabei e la soluzione del Museo Nazionale Romano tra le Terme di Diocleziano e Villa Giulia

Capitolo V

Parchi archeologici e musei all'aperto. p. 152

- Il tessuto urbano della città eterna tra modernizzazione e conservazione - Il progetto di Guido Baccelli per un parco archeologico nel cuore di Roma

Capitolo VI

Patrimonio archeologico e identità nazionale. p. 164

- Identità e identificazione

- Feticismo dell'antichità e propaganda fascista

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Introduzione

“We know that ghosts cannot speak until they have drunk blood; and the spirits wich we evoke demand the blood of our hearts. We give it to them gladly; but if they then abide our question, something from us has entered into them; something alien, that must be cast out in the name of truth!”

Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, Greek Historical Writing and Apollo, Oxford, 19081.

L'osservazione del passato avviene sempre attraverso orientamenti strettamente legati al momento culturale in cui si trova immerso l'osservatore. Lo stesso interesse per il passato è dettato da esigenze culturali che non sono mai le stesse nelle diverse epoche, cosi come non lo è la sua interpretazione. Qualsiasi rapporto con il passato, anche se condotto con la massima ricerca di obiettività, si articola tra un'attrazione per valori con i quali si ha simpatia e repulsione per quelli che si percepiscono come alieni o incompatibili.

Quando si interroga la storia per cavarne delle risposte, queste saranno inevitabilmente influenzate dalle domande che si sono poste, e tutte le speculazioni conseguenti conserveranno la traccia del modo di pensare dello

1 Il testo riportato fa parte di una prolusione pronunciata da Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff all'università di Oxford nel 1908. Il testo completo della lezione si trova, insieme a un'altra lezione su Apollo, in U. Willamowitz Moellendorff, Greek historical writing and Apollo, two lectures delivered before the University of Oxford June 3 and 4, Oxford 1908, p.25.

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studioso che ha posto gli interrogativi ed esatto le risposte. Il filologo tedesco Ulrich von Wilamowitz Moellendorff durante una conferenza a Oxford nel 1908 paragonò chi interpreta la storia a Odisseo che, nell'Ade dovette offrire libagioni di sangue all'ombra di Tiresia affinché potesse rispondere alle sue domande. Così come il sangue della vittima sacrificale assunto da un'entità ormai aliena alla realtà sensibile la penetra e gli permette di comunicare con un essere pertinente al mondo dei vivi, allo stesso modo quando si interroga la storia non bisogna dimenticare che insieme all'interrogativo una parte del nostro modo di pensare penetra nei meandri di un mondo che non esiste più rimanendo inclusa nella risposta.

È imprescindibile capire che l'antichità rappresenta per gli storici un mondo altro nel quale i canoni interpretativi delle società moderne non sono sempre validi, la nostra visione dell'antichità anche se resa con la massima freddezza porterà sempre con se una distorsione dovuta al nostro tempo. Neanche l'interpretazione dei dati materiali, ovvero la materia di studio della scienza archeologica, può sfuggire a tale condizionamento e così come per la storia questa può essere volontariamente distorta costruendo immagine di un passato che non è mai esistito utile alle le necessità morali di un mondo moderno, ma storicamente falso.

Il rapporto con l'antichità per secoli non è stato condotto sotto la forma di ricerca storica volta a comprendere o interpretare aspetti del passato come mondo lontano con il quale si condivide in tutto esclusivamente uno spazio geografico, ma è stato un rapporto intensamente emotivo quasi nostalgico, che ha voluto vedere nel distacco tra passato e epoca dell'osservatore un'identità quasi genetica che una volta riscoperta e riportata in vita avrebbe portato inevitabilmente a una rinascita di tutto ciò che veniva considerato esemplare nell'antico.

Solo nella seconda metà del Settecento il fuoco della passione per l'antico cominciò gradualmente a mutare nella più fredda fiamma dei lumi, in una visione più obiettiva volta alla comprensione scientifica della storia, dopo l'ultima infatuazione rinascentista manifestatasi con l'epoca neoclassica, l'antichità venne condotta dal pensiero positivista del pieno Ottocento nei ranghi più freddi e

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ordinati delle scienze.

Nello scenario culturale internazionale la seconda metà dell'Ottocento fu caratterizzata dalla profonda svolta impartita in tutti i settori scientifici dal pensiero di Charles Darwin, la cui teoria evoluzionistica trovò rapidamente adattamenti nelle scienze sociali a partire dalle applicazioni sociologiche di Herbert Spencer, che furono all'origine del cosiddetto darwinismo sociale, ed ebbe notevole influsso sul lavoro dell'antropologo americano Lewis Morgan nel suo studio sulle società antiche, basato sulle teorie comparativistiche derivate dall'osservazione degli indiani irochesi, così come su quello del suo omologo britannico Edward Tylor, ma anche sul pensiero di Karl Marx che con la sua incisiva influenza storica avrebbe avuto a sua volta notevoli applicazioni anche nel campo dell'archeologia e della storia dell'arte. Nell'Ottocento le teorie dell'evoluzionismo darwiniano furono recepite direttamente ed applicate all'archeologia dall'inglese Augustus Pitt-Rivers con la sua teoria dell'evoluzione tecnologica e dallo svedese Oscar Montelius che elaborò il suo metodo tipologico per le datazioni relative e il celebre sistema delle tre età.

- Nascita della coscienza nazionale italiana

Negli anni in cui germogliavano nuove prospettive scientifiche in Europa nasceva una giovane nazione sul suolo che era stato la culla della più estesa civiltà dell'antichità mediterranea ed europea. Dall'angolo nord occidentale del paese il Regno di Sardegna aveva dato origine al processo di unificazione, ma lo stato sabaudo non godeva di alcuna giustificazione ideologica per estendere il suo dominio su tutta la penisola. La nota frase di Massimo D'Azeglio “s'è fatta

l'Italia, ma non si fanno gl'italiani” sottolinea come fosse problematica la

situazione della disomogeneità culturale in uno degli ultimi territori d'Europa a farsi nazione. L'unità era stata di fatto una conquista di tutto il territorio da parte di un singolo stato, subita passivamente dalla maggior parte della popolazione che eccettuata la piccola parte composta da intellettuali, patrioti e liberali non percepiva alcun legame con l'idea di Italia che di fatto si trovava ad essere una nazione popolata da stranieri, ancora almeno culturalmente cittadini e sudditi

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degli stati preunitari. Il fare gli italiani di D'Azeglio significava fare la nazione giacché era stata artificialmente creata l'Italia, ossia lo stato che l'avrebbe dovuta contenere. Nei processi di formazione della nazione2 i governi utilizzano politiche

atte a instaurare una ideologia nazionalistica nelle masse non già toccate da un proprio sentimento nazionalistico. In un' epoca nella quale l'illuminismo aveva da tempo sradicato ogni possibile argomentazione religiosa per la legittimazione del potere, il collante di una nazione era da ricercarsi in fatti culturali, la molteplicità delle confessioni o la loro assenza non permetteva più neanche alla religione di svolgere questo compito. L'idioma ufficiale e la sua uniformazione nazionale hanno un ruolo primario nell'unificazione culturale, ma oltre questo è necessario che i cittadini siano resi capaci di immaginarsi come detentori dell'eredità storica di un passato ideale del quale essere i continuatori per il semplice fatto di essere parte formante della nazione, per queste ragioni le politiche di costruzione della coscienza nazionale dovevano avere ambito principalmente nell'istruzione pubblica.

L'archeologia essendo la disciplina interessata allo studio dei resti materiali e sensibili della storia gioca, con tutti i suoi riflessi, un ruolo per niente secondario nella rappresentazione collettiva del passato di una nazione dal punto di vista non solo storico ma anche estetico.

Nella seconda metà dell'Ottocento era necessario per il governo del nuovo stato unitario guardare al passato per individuare un momento storico isolabile come ugualmente rappresentativo per tutte le diverse entità storico-sociali italiane che rendesse il governo piemontese accettabile anche a quelle compagini che se lo erano visto imporre passivamente, un tale modello poteva essere riconosciuto non altrove che nell'Italia romana, in particolare nella sua organizzazione nelle undici regioni di epoca augustea. Dopo il 20 settembre del 1870 insieme ai nuovi scavi e alla valorizzazione dei monumenti antichi della capitale i temi dell'archeologia

2 Lo storico britannico Benedict Anderson affronta il tema dei musei nazionali come elementi del processo di formazione dell'identità nazionale nell'opera Comunità immaginate, Londra 2006, la sua attenzione è indirizzata principalmente al processo di nation building e autorappresentazione presso le nazioni postcoloniali asiatiche del ventesimo secolo. Il passaggio specificatamente rivolto al ruolo ideologico dei musei nazionali si trova alle pagine 163 ss.

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vennero ripresi e riproposti nell'architettura ufficiale, nell'urbanistica, nelle stampe dei francobolli e in molti altri aspetti della vita quotidiana. Lo stesso obiettivo di porre Roma come capitale del regno aveva la sua chiara valenza ideologica. Fu così che nella nuova Italia venne a formarsi un concetto di nazione derivante da quella che secondo la teoria dello storico britannico Benedict Anderson è definibile come comunità immaginata3, ovvero un'immagine ideale resa da un

insieme di riti e simboli riproposti in diversi contesti con lo scopo di reinventare una tradizione culturale. Il concetto di stato nazionale è tipico dell'età moderna, il primo esempio riscontrabile nella storia è quello della Francia rivoluzionaria, quando la popolazione cominciò ad autorappresentarsi con propri riti e simboli4.

Attualmente nello scenario della politica internazionale il modello sociale dello stato nazionale sembra essere l'unico ammissibile, percepito come quasi scontato. Tuttavia, lo sviluppo di un tale concetto è frutto di rappresentazioni collettive5 che

rendono possibile la formazione di un sentimento di appartenenza nazionale capace di rendere validi su grande scala i valori di una comunità naturale.

La nazione è dunque una comunità immaginata, nella quale proiezioni collettive suppliscono all'impossibilità di conoscere o stringere un legame personale con tutti gli appartenenti ad essa, ponendosi come ideali mediatori tra individui che li condividono. La formazione di una comunità politica immaginata non sarebbe stata possibile precedentemente per via dell'importante ruolo giocato nella sua formazione dalle tecniche dell'età moderna. La lingua svolge un ruolo di primissimo piano nella percezione di una comunità linguistica come culturalmente uniforme, secondo Benedict Anderson le forme di comunicazione di massa, soprattutto quelle legate alla stampa (print capitalism) hanno svolto un ruolo guida nella formazione dell'idea che le comunità nazionali hanno di sé stesse.

3 Per una definizione completa del concetto in questione vedi B. Anderson, Comunità

immaginate, London 2006, pp. 37 ss.

4 L'origine del concetto di stato nazionale così come il tema del nazionalismo sono ampiamente trattati nella raccolta di saggi di Marcel Mauss a cura di Riccardo Di Donato I fondamenti di

un'antropologia storica, Torino, Eianudi 1998, pp. 5-57.

5 Le rappresentazioni psichiche collettive, sono definite da Durkheim come aspetti della vita quotidiana, sovraindividuali e coercitivi che coinvolgono un intero gruppo sociale. La coercitività di questi fatti sociali si esprime in norme, consuetudini, idee collettive. E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, Torino, Einaudi 2008.

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Quello che formò le prime comunità immaginate fu la commistione tra un sistema di produzione capitalistico e la diffusione di una tecnologia comunicativa su larga scala come la stampa, l'interazione tra questi due fattori portò alla circoscrizione di insiemi basati sulla diversificazione linguistica umana.

Allo stesso modo motivi legati all'identità nazionale, vera o costruita, sono stati riproposti e diffusi contribuendo a riflettere tra le masse l'idea di appartenenza a una nazione. Il concetto di tradizione inventata, enucleato dallo storiografo inglese Eric John Hobsbawm6, consiste in un insieme di pratiche,

costumi e simboli regolati da norme condivise che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento nelle quali è implicita una continuità con il passato o con una parte del passato selezionata (o talvolta inventata) secondo criteri e necessità ideologiche, il richiamo al passato serve a una società che affronta radicali cambiamenti o si impone come nuova per acquisire una forma di legittimazione. Anche le rivoluzioni e i movimenti che le accompagnano, nonostante si presentino come momenti di esplicita rottura con il passato, hanno un proprio passato da difendere in un momento storico nel quale si colloca idealmente l'apice di valori condivisi.

Alcune civiltà antiche sono divenute nel corso della storia un riferimento ideale anche per popoli distanti da esse sia cronologicamente che geograficamente, l'antichità classica, in particolare quella greca più di tutte le altre. Il motivo è da ricercarsi nel fatto che quella sviluppatasi nell'Ellade fu la prima civiltà strutturata socialmente secondo metodi razionali e nel contempo la prima nella quale la ricerca della conoscenza fu portata avanti libera da ogni ritorno di utilità immediata. L'idealizzazione di quella greca come Civiltà per antonomasia, sarà un mito duro ad essere superato, che cadrà soltanto nel ventesimo secolo con la scuola francese di antropologia storica e il fondamentale lavoro di Louis Gernet Les Grecs sans Miracle7. Tuttavia la storia della civiltà

6 Il processo di invenzione della tradizione è esplicato esaurientemente nel capitiolo introduttivo in E.J. Hobsbawn, T. Ranger, The invetion of tradition, Cambridge 1983. Il libro contiene una serie di saggi che esemplificano ampiamente il fenomeno, chiarendo uno schema applicabile allo studio di innumerevoli circostanze storico-sociali.

7 L. Gernet, I Greci senza miracolo. Testi raccolti e presentati da Riccardo Di Donato, con una

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greca ha conservato per il mondo occidentale un fascino particolare perché mai decaduta, a causa della conquista romana che cristallizzandola in un momento ideale le ha negato la possibilità di svilupparsi fino giungere a una fase percepibile storicamente come una decadenza endogena, di conseguenza diverse nazioni si sono richiamate ai suoi valori ed è esattamente nello scopo di richiamarsi al mondo classico che devono essere intese le acquisizioni di marmi e opere d'arte antiche da parte degli stati nazionali europei e americani nell'Ottocento. Una sorta di giustificazione genetica delle società non più basata sul sangue e sul suolo, ma sul sangue e sul patrimonio.

La tradizione culturale (e dunque anche il patrimonio materiale) non è un elemento imparziale che si presenta in una società come semplice sopravvivenza del passato ma è, in quanto frutto di costruzioni e selezioni ideologiche, parte della sovrastruttura ideologica e come tale sensibile alle vicende sociali dell'epoca nella quale viene costruita e percepita.

Nel caso dell'Italia subito dopo l'unificazione, oltre alla volontà ideologica, semplici manovre economiche o amministrative hanno influenzato il corso degli studi e lo sviluppo della scienza archeologica, così come il modo nel quale i risultati di questa venivano proposti al pubblico con pubblicazioni ed esposizioni. Nel contempo l'archeologia è stata utilizzata, insieme ad altri fattori che esulano dal nostro campo, dal governo centrale come strumento di propaganda unitaria, come cemento per fare gli italiani con cui popolare la nuova nazione.

L'obiettivo che ci si pone con questa tesi è quello di indagare in quale modo fu approcciata, percepita e rappresentata l'antichità classica da parte delle istituzioni in seno alla nazione italiana nel primo mezzo secolo della sua vita, come sia giunta la tradizione della conservazione e della tutela dagli stati preunitari al Regno d'Italia e quali siano stati gli intenti e i motivi ideologici che hanno camminato accanto allo sviluppo di una scienza archeologica italiana. Il

da Riccardo Di Donato, con una prefazione di Jean Pierre Vernant. Luois Gernet con i suoi studi inaugurò il fortunato filone francese di indagini storico sociologiche sul mondo antico, superando definitivamente la patina di idealizzazione che rendeva impossibile studiare le meccaniche evolutiva della società greca. Per una visione del metodo di indagine storica di Gernet e delle sue conseguenze vedi anche R. Di Donato, Per una antropologia storica del

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momento della creazione dei primi musei nazionali così come l'osservazione del recupero e dell'allestimento delle aree archeologiche interne alle città (in particolare nella capitale) è di primaria importanza per valutare come l'Italia intendeva rappresentare l'evidenza materiale del proprio passato. L'interesse quasi esclusivo per l'antichità classica, dunque per un periodo storico isolato, è una chiara espressione della volontà di richiamo a un'epoca percepita come modello.

In questa tesi si cercherà di comprendere come sia stata manipolata e quale peso abbia avuto l'immagine dell'antichità nel fare gli italiani.

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Capitolo I:

Dall'antiquaria all'archeologia

Per comprendere il momento nel quale in Italia la tradizione antiquaria comincia ad assumere i connotati di una scienza, ossia a mutarsi in archeologia è imprescindibile spostarsi nella Germania degli stessi anni, dove specialmente in Prussia il classicismo a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo aveva preparato il terreno per uno studio scientifico dell'estetica del mondo antico.

L'influenza germanica

Per capire la temperie culturale nella quale prese vita la

Alterumschwissenschaft è interessante leggere un frammento di una lettera inviata

da Goethe a Johan Peter Eckermann del 29 gennaio 1826: “Si parla sempre dello

studiare gli Antichi; ma cosa significa questo se non: Volgiti verso il mondo reale e tenta di esprimerlo, perché questo fecero gli antichi dacché vissero”8.

La visione del Goethe, che supponeva un valore superiore del mondo antico risente di una visione idealizzata dell'antichità classica che ne trasmetteva un'immagine distorta carica di valori che la cultura neoclassica, specialmente quella tedesca, volle attribuirgli. Pur con tutti i pericoli e gli errori dei quali una concezione idealizzata è inevitabilmente portatrice, la visione tedesca dell'antichità nel XIX secolo fu il terreno di coltivazione nel quale gli studi di

Alterumschwissenschaft svilupparono l'embrione dal quale nelle università

tedesche si formò l'archeologia classica. Con il neoclassicismo e la relativa imitazione dell'antico, che fungeva da modello sia morale che artistico si posero anche le basi per un'esplorazione storica dei resti materiali dell'antichità.

In seguito alla pubblicazione della Storia delle arti e del disegno presso gli

8 La lettera è riportata in tedesco in Flodoard von Biedermann, Gespräche mit Eckermann, Leipzig 1949, p. 215.

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Antichi di Johann Joachim Winckelmann nel 17649 gli studiosi tedeschi di

antichistica cominciarono ad avere una visione storicizzata dello sviluppo dell'arte classica, anche se l'archeologia rimaneva fondamentalmente relegata al rango di studio dell'arte greca e romana sulla base delle fonti letterarie, discendendo dunque direttamente dalla filologia ed ereditandone il metodo e continuando a intendere il manufatto artistico come monumento, anziché come documento storico. Tuttavia da Winkelmann in poi lo studio dell'arte antica cominciò finalmente a estendersi oltre la semplice erudizione arrivando a teorizzare concetti generali che potessero essere una guida per la ricostruzione cronologica delle espressioni artistiche dell'epoca classica. Nonostante il suo contributo fondamentale non è corretto considerare Winckelmann come il padre dell'archeologia intesa come storia dell'arte, la sua visione parabolica dell'arte greca che concepiva un processo di ascesa fino alla somma figura di Fidia (glorificato dalle fonti, ma del quale tutte le opere erano ritenute perdute) dopo il quale la produzione artistica si esprimeva solo come una lenta decadenza, era ancora frutto di una adorazione per un periodo in una forma che non esistette mai. Per comprendere che tipo di errori di valutazione influenzavano la visione dell'arte antica di Winckelmann è sufficiente pensare al suo tanto decantato apprezzamento per la suggestione estetica del candore dei marmi greci, che ora sappiamo essere stati originariamente rivestiti di patine policrome, basta questo per farsi un'idea di come una percezione equivocata di un fatto storico artistico o archeologico, con tutte le conseguenti speculazioni interpretative e antropologiche, possa distorcere l'intera visione di un'epoca storica.

Nonostante i suoi iniziali limiti l'avanzamento degli studi di antichistica in Germania fu reso possibile grazie al supporto di una fitta rete di cattedre universitarie, sparse in tutto il territorio e in dialogo tra loro tramite un efficiente sistema di pubblicazione e diffusione. Nella tradizione accademica Germanica della prima metà dell'Ottocento si impose il metodo filologico come paradigma

9 La pubblicazione della Storia delle arti del disegno presso gli antichi di Winckelmann, avvenuta nel 1764 a Dresda con il titolo di Kunst des Altertums fu l'inizio dell'archeologia in senso storico-artistico, basata sull'analisi stilistica.

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applicabile per la risoluzione di tutte le questioni archeologiche e storico artistiche. Nello sviluppo della cosiddetta scuola filologica germanica venne scoperto il grande fraintendimento di Joachim Winckelmann, ovvero il fatto che egli non seppe mai di non aver mai visto l'originale di una statua greca, ma bensì solo copie di età romana. Verso gli anni 30 del XIX secolo la Germania viveva un periodo di grande espansione politica ed economica alla quale corrispondeva un notevole fermento culturale, primeggiando tra le nazioni europee lo stato prussiano si autorappresentava come erede della della civiltà dell'antica Grecia. La stessa cultura nazionale tedesca dell'epoca tra illuminismo, romanticismo e idealismo si riteneva discendente diretta di quel mondo antico di cui erano state gloria Roma e Atene, ragione per la quale la politica prussiana del secolo XIX ben favorì gli studi classici, potenziando e sostenendo il sistema accademico in questo senso.

Negli anni in cui la Germania cominciava a rivendicare la sua parentela con Roma e Atene l'Italia non era ancora uno stato con un governo unitario e la grande abbondanza di vestigia del mondo antico, sia greche che romane, presenti sopra e sotto il suolo di tutti gli stati preunitari era vista come elemento di continuità solo nello Stato della Chiesa, negli altri stati al massimo esisteva la consapevolezza della passata presenza di greci e romani, ma la riscoperta della cultura classica come antenata della cultura nazionale italiana era un sentimento che si sarebbe sviluppato solo dopo l'unificazione. In una Germania che rivendicava il retaggio culturale del mondo antico la scarsità di materiali classici era stata invece motivo catalizzatore per gli studi archeologici, la relativa carenza di vestigia veniva compensata con uno studio più intenso.

Nell'ambito della scuola filologica germanica avvennero le prime grandi identificazioni di statue greche ad opera del Friedrichs10, del Brunn11 che

10 Karl Friederichs (1831-1871) Fu assistente direttore dei musei di Berlino, dove nel 1859 ottenne la cattedra di archeologia. Identificò una serie di statue come copie romane del Doriforo di Policleto. R. Bianchi Bandinelli, Introduzione all'archeologia, Bari 1974 pp. 29-35 11 Enrico (Heinrich) Brunn (1822-1894) fu uno storico dell'arte tedesco, studiò archeologia e

filologia all'università di Bonn, nel 1843 si unì all'Istituto Archeologico Germanico Roma e dal 1865 fino alla sua morte ricoprì la cattedra di archeologia classica a Monaco, dirigendo anche l'importante gliptoteca della città. Per ulteriori informazioni si può consultare la voce “Brunn,

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basandosi sulle fonti letterarie antiche realizzò la sua Geschichte der

Griechischen Künstler utilizzata dall' Overbeck12 come fonte per la sue

classificazioni iconografiche e mitologiche delle arti visive nel mondo greco. Fino ad Adolf Furtwangler13, considerato ultimo esponente pienamente

ascrivibile alla scuola filologica la teoria andò evolvendosi e si formò la consapevolezza che lo studio estetico delle opere d'arte non era sufficiente per comprendere il fatto artistico che doveva essere analizzato stilisticamente per produrne una valutazione storica e non solo estetica.

La scuola viennese di storia dell'arte

Fu il metodo storico artistico elaborato dall'italiano Giovanni Morelli14 a

influenzare Franz Wickhoff15 nell'elaborazione di una teoria “scientifica” della

Heinrich von” in Encyclopedia of the History of Classical Archaeology, Greenwood Press, 1996, vol. 1, pp. 202-03.

12 Johannes Overbeck (1826-1895) fu uno dei primi storici dell'arte ad avvalersi di approfondite ricerche storiche documentali per i suoi studi, prediligendo e interessandosi soprattutto alla ricerca delle fonti per l'arte classica. Studiò all'Università di Bonn e nel 1856 divenne professore all'università di Lipsia, il suo lavoro principale Griechische Kunstmythologie rimasto incompiuto alla sua morte consiste in un corpus iconografico riguardo le rappresentazioni mitologiche nell'arte greca. Encyclopedia of the History of Classical

Archaeology, Greenwood Press, 1996, vol. 2, pp. 834-835.

13 Adolf Michael Furtwrangler (1853-1907) fu allievo di Johannes Overbeck a Lipsia, fu membro dell'Istituto Archeologico Tedesco e partecipò ai primi scavi di Olimpia insieme a Schliemann. Nel 1894 ricoprì la cattedra di archeologia classica monacense, rimasta vacante alla morte di Heinrich von Burnn, insieme con il ruolo di direttore della gliptoteca. Fu tra i primi archeologi a considerare la grande importanza dello studio della produzione ceramica ed a utilizzare i frammenti ceramici come strumento di datazione. Encyclopedia of the History of

Classical Archaeology, Greenwood Press, 1996, vol. 1, pp. 475-476.

14 Giovanni Morelli (1816-1891) bergamasco, studiò in Svizzera e a Monaco dove si laureò in medicina, il suo interesse principale furono tuttavia sempre le antichità, pubblicò alcune opere di iconologia e storia dell'arte sotto lo pseudonimo di Nicholas Schäffer. Tornò in Italia negli anni 40 dell'Ottocento dove mise a frutto la il suo intelletto e la sua pressoché perfetta conoscenza del tedesco, traducendo le conversazioni tra Goethe e Eckrmann e alcuni scritti di Schelling. Partecipò alle rivolte contro gli austriaci del '48 e nel 1861 divenne deputato del primo Governo del regno d'Italia. Il suo metodo di analisi morfologica dell'opera d'arte fondata sul riconoscimento dei particolari più minuti, volta a riconoscere le mani dei diversi artisti. Questo sistema chiamato “metodo Morelli” ottenne decisi riconoscimenti negli ambienti storico-artistici tedeschi in particolare presso la scuola viennese e Franz Wickoff. Pubblicò il suo trattato sui maestri italiani in tedesco sotto lo pseudonimo di Ivan Lermolieff. Per una biografia approfondita su Morelli e il suo metodo vedi M. Panzeri

,

La figura e l'opera di Giovanni Morelli, Bergamo, 1987.

15 Franz Wickoff (1853-1909) fu il fondatore della cosiddetta scuola viennese di storia dell'arte, conobbe Giovanni Morelli e ne implementò, facendolo proprio, il metodo applicandolo al suo campo di studi che era quello dell'arte romana e della prima epoca

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storia dell'arte che tenesse conto del contesto storico nel quale venivano realizzate le opere e mirasse all'identificazione della personalità artistica che ne era artefice, di fatto fu proprio Wickhoff nell'ultimo decennio del secolo XIX a distinguere per primo l'arte greca da quella romana. La corrente storicistica fondata dal Wickhoff trovò la sua massima espressione nella scuola viennese16 di storia dell'arte,

nell'ambito della quale si ruppe definitivamente ogni concezione di evoluzione parabolica dell'arte antica.

Nella produzione culturale della scuola viennese giocò un ruolo fondamentale la figura di Alois Riegel17, che parallelamente al suo lavoro di

ordinamento dei reperti romano-barbarici della regione danubiana conservati al museo archeologico di Vienna realizzò la sua opera sulla industria artistica tardo romana nella quale riesaminando tutta la storia dell'arte romana dal II secolo a.C. giunse a una rivalutazione totale della produzione artistica del tardo impero, considerata fino ad allora come espressione di una profonda decadenza.18

L'innovazione apportata da Alois Riegl consistette nell'individuare l'errore

cristiana. Tra i suoi apporti principali alla storia dell'arte si trova la rivalutazione dei caratteri d'indipendenza dell'arte romana, riconosciuta come produzione originale e non come propaggine di quella ellenistica. Vedi R. Bianchi Bandinelli "Wickhoff, Franz." in

Enciclopedia dell'arte antica classica e orientale 7, pp.1218-1219.

16 Con la definizione di scuola viennese di storia dell'arte Julius von Schlosser volle intendere il proficuo concerto di storici dell'arte che operò nell'università di Vienna tra la seconda metà dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento, quando dovette cessare di esistere a causa della dispersione dei suoi membri in seguito all'avvento del nazionalsocialismo. La scuola non ebbe in realtà una compattezza dogmatica, ma fu piuttosto un susseguirsi di approcci metodologici che rispecchiavano la vivace evoluzione culturale dell'epoca. La caratteristica principale della scuola viennese fu quella di porre basi scientifiche per la storia dell'arte, separando le constatazioni storicistiche da quelle estetiche. In questo modo i materiali artistici assunsero il valore di documenti storici, legati alle circostanze sociale dell'epoca in cui vennero prodotti superando così le visioni paraboliche di apogeo e decadenza nella storia della produzione artistica. Vedi U. Kultermann, Storia della storia dell'arte, Milano 1981.

17 Alois Riegl (1858-1905) fu uno degli esponenti più rappresentativi della scuola di Vienna, operò applicando la metodologia storicistica alle arti figurative attraverso l'analisi formale delle opere. Impartì una svolta considerevole alla storiografia dell'arte abolendo il concetto di valutazione qualitativa nella comparazione delle diverse epoche artistiche, introducendo così una sorta di relativismo culturale nella storia dell'arte. Per una approfondita visione della metodologia di Riegl vedi M. Iversen, Alois Riegl: History and Theory, Cambridge Massachusetts, 1993.

18 A. Riegl, Die spätrömische Kunstindustrie nach den Funden in Österreich,Vienna 1901. L'opera in questione, oltre ad aver introdotto il concetto di volontà dell'arte negli studi storico-artistici, ebbe un impatto rivoluzionario sulla concezione e percezione dell'arte romana antica contribuendo al suo studio come produzione artistica autonoma rispetto all'arte greca.

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del considerare semplicisticamente secoli di produzione artistica come decadenti, elaborando la teoria del gusto nota con il termine di Kunstwollen, secondo la quale a ogni epoca storica corrisponderebbe un gusto espresso nella relativa produzione artistica e non avrebbe alcun senso giudicare qualitativamente l'arte di un'epoca ponendo come temine di paragone canoni estetici relativi ad altre epoche.

L'apporto del Riegl fu profondamente innovatore, tuttavia i tempi non erano ancora maturi perché fosse superato un grande limite della storia dell'arte, ossia l'analizzare il gusto estetico isolandolo dai fatti sociali, intendendo la sovrastruttura artistica come una sorta di entità autonoma non vincolata alla struttura sociale. Un altro esponente della scuola viennese, il boemo Max Dvorak19, partendo da una iniziale adesione pressoché totale alle teorie del

Wickhoff e del Riegl portò le proprie teorizzazioni verso un orizzonte più storicistico, vedendo la storia dell'arte non solo come storia della produzione artistica ma anche come disciplina volta alla conoscenza generale dello sviluppo storico, si incominciava a intravedere la possibilità di ricavare dalle espressioni formali della materia antica delle informazioni di carattere storico e sociale. Ciononostante Dvorak, considerando la storia dell'arte come disciplina autonoma rispetto ad altre scienze storiche, considerava argomento esclusivo della storia dell'arte l'analisi delle forme e degli stili succedutisi nel corso delle varie epoche ritenendo che lo studio dei contenuti sociali, economici, culturali veicolati dalle opere d'arte dovesse essere sì oggetto dell'attenzione dello storico dell'arte, ma che non dovesse essere il suo interesse principale lasciando che fosse la sociologia storica ad occuparsene, nel contempo considerava possibili apporti storico sociologici per la comprensione stilistica degli oggetti d'arte.

In questo senso solo attraverso l'isolamento dei caratteri prettamente

19 Max Dvorak (1874-1921) Di origine boema, fu assistente alla cattedra di Wickhoff dal 1898. Divenne uno dei più prominenti esponenti della scuola di Vienna, nello studio della mutevolezza del concetto di arte nel tempo, a partire da concezioni idealistiche giunse a concepire la produzione artistica come frutto della sovrastruttura ideologica, con particolare riferimento all'apparato religioso. Così come Wickhoff e Riegl considerò la storia dell'arte come disciplina preminentemente storica, separata dall'estetica. Vedi M. Calavesi Prefazione

alla traduzione italiana di Max Dvorak, catechismo per a tutela dei monumenti, allegato al

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artistici dell'oggetto d'arte se ne sarebbe potuta fornire una lettura storico artistica che non ricadesse nella storia generale, tenendo presente che ciò che distingue la storia dalla storia dell'arte è che quest'ultima non vive esclusivamente attraverso le fonti, ma il suo permanere nel mondo come oggetto sensibile affianca al suo divenire storico una lettura estetica parallela, osservabile attraverso i canoni della sensibilità contemporanea.

Al vivace progresso della ricerca metodologica dell'Ottocento tedesco non corrispondeva una risposta adeguata negli stati italiani preunitari. Nella penisola tardava decisamente ad affermarsi un metodo archeologico, forse per la scarna e inorganica costellazione di cattedre sparse nelle università italiane che venivano assegnate il più delle volte ad antiquari di diverso livello di erudizione, la cui formazione risultava spesso poco più che dilettantistica e priva di metodo teorico, dunque non era certo adeguata alla formazione di specialisti nel settore all'interno delle università.

L'antiquaria italiana di fronte a un'antichità “moderna”

In Italia non si riusciva a superare lo studio documentario dell'opera d'arte antica e la ricerca rimaneva fondata più sull'intuizione che sul metodo. Il problema risiedeva anche in un difetto nella formazione dei giovani che avrebbero dovuto occuparsi di antichità, gli studenti tedeschi arrivando all'università con solide basi di cultura greca e romana derivate dall'insegnamento dei Gymnasien, potevano specializzarsi in vari settori di studi di antichità: dalla storia dell'arte all'epigrafia, dalla filologia alla storia; in Italia l'antiquaria manteneva invece un carattere variegato, ancora legato più al collezionismo antiquario che alle università e tardava nel trovare percorsi definiti e specializzati.

In Italia negli anni precedenti l'unificazione operavano archeologi certamente di gran valore come Ariodante Fabretti, Giancarlo Conestabile della Staffa, Antonino Salinas, Giulio Minervini, Giuseppe Fiorelli, ma è davvero difficile trovare altre personalità che siano state capaci di influenzare e dirigere il corso degli studi di antichistica italiani. Osservando il panorama della cultura archeologica preunitaria, si osservano personalità quasi autodidatte dal punto di

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vista del metodo di ricerca che spiccano in un contesto culturale nel quale la media appare livellata verso un livello piuttosto basso e limitato all'erudizione e alla disputa accademica.

Non è un caso che queste figure intellettuali determinanti, per il progresso degli studi in seno alla nazione che andava riunificandosi, avessero integrato la loro formazione antiquaria classica con studi di antichistica in Germania.

Gli studiosi che operarono in Italia negli anni a cavallo dell'unificazione, furono sempre figure isolate, formatesi autonomamente e perfezionatesi con studi condotti all'estero, le cui fatiche intellettuali portarono alla nascita di una scuola archeologica in patria.

A cominciare dall'opera di studiosi come Ariodante Fabretti, Giancarlo Conestabile, Giuseppe Fiorelli, Giulio Minervini in Italia mosse i suoi primi passi lo sviluppo di una scuola archeologica continuativa, tramandata con metodo e non più basata esclusivamente sui fragili pilastri dell'erudizione dilettantistica.

Sia Fabretti20 che Conestabile provenivano dalla scuola di Giovan Battista

Vermiglioli21, erudito perugino perfettamente inserito in quella corrente di

antiquari italiani della prima metà dell'Ottocento che sviluppavano la propria ricerca in un ambito geografico locale, in seno a una tradizione di studi famigliare slegata da ogni vincolo con il mondo accademico, ma con l'interesse volto non più

20 Ariodante Fabretti (1816-1894) perugino, si laureò nel 1841 in medicina veterinaria presso l'università di Bologna, dove abbracciò gli ideali liberali, che lo portarono a essere eletto deputato per Perugia nell'assemblea costituente della Repubblica Romana. Si formò come antiquario presso la scuola del suo concittadino Giovan Battista Vermiglioli, ma dal 1849, in seguito al ritorno del papa fu esule dapprima in Toscana, poi in Piemonte. Dal 1860 ricoprì la cattedra di archeologia all'università di Torino,e dal 1872 fu direttore del Museo di antichità della città. Fu eletto senatore del regno nel 1889. Il suo interesse principale fu rivolto alla comprensione dell'epigrafia etrusca, campo nel quale eccelse ottenendo fama internazionale, Negli ultimi anni della sua vita si dedicò quasi esclusivamente alla cura del museo, dalle cui collezioni trasse i materiali per i suoi studi. Vedi la voce di G. Fagioli Vercellone sul

Dizionario Biografico degli Italiani,vol 43, 1993, p.731 e M. Barbanera, L'archeologia degli italiani, Roma 1998, pp. 15-16.

21 Giovan Battista Vermiglioli (1827-1877) ricevette un'istruzione antiquaria in seno alla sua famiglia e nel 1810 ottenne la prima cattedra di archeologia all'università di Perugia, che mantenne fino al 1846, quando fu costretto a lasciare la città per via della sua militanza liberale. Fu principalmente un etruscologo e uno storico di Perugia. Sulla sua vita e i suoi studi esiste uno scritto dell'allievo G. Conestabile della Staffa, Della vita degli studi e delle opere di

G.B. Vermiglioli, in “Dei monumenti di Perugia etrusca e romana”I, Perugia 1855, pp. 3-180

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verso la catalogazione antiquaria, ma verso la comprensione di ogni aspetto dell'oggetto dei loro studi.

Ariodante Fabretti, allievo di Vermiglioli, nel 1848 gli succedette alla cattedra di archeologia dell'università di Perugia dedicandosi principalmente allo studio dell'epigrafia etrusca e degli altri popoli italici, due anni dopo la cattedra fu ricoperta dal Conestabile quando, dopo il ritorno del papa in seguito ai moti del '48, Fabretti, di tendenze fortemente mazziniane, compromessosi politicamente in quanto membro della costituente della Repubblica Romana, dovette optare per l'esilio prima a Firenze e poi a Torino, dove dopo dieci anni ricoprì la cattedra di archeologia.

Anche Conestabile22 aveva concentrato le sue ricerche principalmente sulla

civiltà etrusca e i suoi resti epigrafici a livello locale, ma ebbe la possibilità di integrare la sua formazione con lunghi soggiorni all'estero durante i quali ebbe modo di assimilare lo spirito dell'archeologia classica germanica. Probabilmente Giancarlo Conestabile è lo studioso intorno al cui operato si pone la cesura tra l'antiquaria e la scienza archeologica in Italia, per quanto parlare di cesure in un'evoluzione così graduale sia necessariamente una convenzione approssimativa. Conestabile formatosi come antiquario, perfezionatosi in Germania non è classificabile che come archeologo quando una volta che nel 1848 ottenuta la cattedra di archeologia a Perugia importò il metodo di insegnamento degli

archälogische seminare tedeschi, avvalendosi di repertori museali con antichità

originali e copie in gesso nonché di moderne riproduzioni fotografiche a scopo didattico per la formazione pratica di archeologi che sapessero orientarsi autonomamente e in prima persona nella storia dell'arte antica, con lo scopo di curare il patrimonio archeologico nazionale e proseguire a loro volta nella

22 Gian Carlo Conestabile della Staffa (1824-1877) si volse all'archeologia dopo la laurea in Filosofia e Belle Lettere conseguita presso l'Università di Torino, influenzato principalmente da Vermiglioli e Fabretti dedicandosi principalmente allo studio delle antichità etrusche, ottenendo la cattedra di archeologia perugina dopo Fabretti. Tra 1859 e il 1863 compì soggiorni all'estero, specialmente in Germania e in Grecia durante i quali assorbì lo spirito della scuola filologica germanica. Elaborò una teoria su una civiltà di origine orientale che avrebbe preceduto quella etrusca sul suolo italiano. Vedi la voce di R. Volpi sul Dizionario Biografico

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formazione di nuove generazioni di archeologi. Nel 1875 quando fu istituita una cattedra di archeologia all'università di Bologna l'autorità di Conestabile era così uniformemente percepita che la sua convocazione avvenne con la formula “per chiara fama”.

A livello locale operavano altri studiosi, che a causa delle carenze comunicative di un'Italia ancora smembrata rimasero purtroppo isolate. La città di Palermo giovava dei vivaci studi di Antonino Salinas23, formatosi anch'egli in

seno alla tradizione antiquaria della sua famiglia perfezionò i suoi studi a Berlino dove ebbe la fortuna di seguire tra gli altri i corsi del Friederchs, del Boeckh e del Böetticher integrandoli con l'esperienza personale ottenuta con viaggi e soggiorni di studio in Grecia, nell'ambito dei quali intraprese anche una campagna di scavo nel cimitero del Ceramico di Atene che illustrò nelle sue prolusioni all'università di Palermo, rendendosi così pioniere dell'impresa archeologica italiana all'estero che anche in questo caso ebbe all'origine l'influenza della scuola germanica. In seguito Salinas si dedicò principalmente allo studio della numismatica della Sicilia antica, ottenne nel 1865 la cattedra di archeologia all'università di Palermo, della quale sarebbe diventato rettore nei primi anni del Novecento, e 13 anni dopo ricoprì il ruolo di curatore nel museo archeologico del capoluogo siciliano al quale lasciò in eredità la sua collezione comprendente anche ben 6000 monete antiche e la sua fornitissima biblioteca.

Nella prolusione pronunciata il 12 dicembre 1865 a Palermo, intitolata

Dello stato attuale degli studi archeologici in Italia e del loro avvenire24 è

evidente la critica mossa dall'archeologo palermitano nei confronti dei proseguitori della scienza antiquaria, chiamati ironicamente “battezzatori di

23 Antonio Salinas, (1841- 1914) in gioventù fu combattente garibaldino, si avvicinò all'archeologia attraverso un iniziale interesse per la numismatica, conseguì la laurea all'università di Berlino ed estese poi il campo dei suoi studi a tutta la produzione materiale siciliana dall'antichità al medioevo. Nel 1856 ottenne la cattedra di antichità all'università di Palermo (della quale fu rettore dal 1903 al 1904) e la mantenne per quasi mezzo secolo, affiancandola al ruolo di direttore del Museo Archeologico del capoluogo siciliano e intraprendendo scavi in tutta la Sicilia occidentale. Vedi M. Barbanera, L'archeologia degli

Italiani, Roma 1998, pp. 14-19.

24 A. Salinas, Dello stato attuale degli studi archeologici in Italia e del loro avvenire, in “Rivista Nazionale”, I, Palermo, 1865, pp. 195-212.

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statue”, incapaci di calarsi nei meandri della storia a partire dalle testimonianze materiali e artistiche. Salinas era dunque consapevole che gli studi di antichistica italiani avrebbero dovuto attraversare un difficile cammino per liberarsi del freno della tradizione antiquaria e maturare quella stessa metodologia interpretativa che aveva permesso agli studi di Alterumswissenchaft germanici di passare dalla visione idealizzata romantica e neoclassica di un'antichità selezionata a una concezione organica e scientifica della produzione del passato. Durante gli anni alla direzione del museo palermitano Salinas concentrò tutta la sua attenzione su di esso e probabilmente proprio per questa ragione rimase nel suo relativo isolamento, occupandosi quasi esclusivamente dell'archeologia della propria isola. Si occupava in prima persona dell'allestimento dell'esposizione e della sistemazione dei nuovi pezzi che affluivano al museo in seguito a ritrovamenti sporadici o scavi sistematici, come nel caso delle metope del tempio di Selinunte. Con Salinas il museo archeologico di Palermo diventò espressione diretta e organica della storia della Sicilia, nella quale si potevano esperire le testimonianze delle diverse culture che avevano investito quell'angolo del Mediterraneo centrale nelle loro diverse espressioni: dalle metope classiche alle opere di artigianato, nel tentativo di produrre un'esperienza storica totale attraverso una vasta esposizione di reperti di cultura materiale. Pur innovando, Salinas aveva conservato il carattere più pregiato della tradizione antiquaria italiana: la concezione totalizzante, che spingeva a includere ogni aspetto della produzione nelle collezioni e dunque a studiarlo e preservarlo. Tuttavia l'interesse preminentemente locale del lavoro intellettuale di Antonino Salinas si sviluppava in un momento di contrasto con le tendenze centralizzanti del governo di Roma.

Su scala minore operò allo stesso modo il canonico Giovanni Spano25,

25 Giovanni Spano (1803-1878) fu un archeologo sardo originario di Ploaghe, laureatosi in teologia all'università di Sassari si trasferì a Roma per studiare greco, arabo,ebraico e caldeo. Canonico dell'università di Cagliari insegnò nell'università della città (della quale fu rettore nel 1857) Sacra Scrittura e lingue orientali, da qui il suo avvicinamento all'antichità che lo portò ad intraprendere, tra i suoi molteplici interessi, il primo studio sistematico delle antichità sarde e a formare una collezione archeologica che sarebbe poi confluita nei musei di Cagliari e Sassari. Vedi L. Guido, Vita di Giovanni Spano, Ittiri 2000 e P. Pulina, S.Tola, Il tesoro del

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isolato nelle ricerche svolte nella sua Sardegna, fu un intellettuale capace di applicare il suo multiforme ingegno in diversi campi: dalla linguistica all'etnologia, dalla storia all'archeologia. Diventato Commissario per le antichità dell'isola intraprese scavi e ricerche sul campo elaborando anche un metodo di scavo che prevedeva una sorta di primitiva e pioneristica documentazione stratigrafica, dedicò quasi tutta la sua vita allo studio complessivo delle antichità sarde, formando così una collezione archeologica personale che sarebbe diventata in seguito il nucleo principale del Museo archeologico di Cagliari, tranne per la parte che fu donata al gabinetto di archeologia dell'Università di Sassari confluendo poi nelle collezioni del Museo archeologico G.A. Sanna.

Un'altra figura di grande spessore, ma ulteriormente isolata fu Giovan Battista De Rossi26, il quale lavorando all'interno dello stato pontificio rimase ai

margini della comunità scientifica archeologica post unitaria, tuttavia ebbe il grande merito di fondare l'archeologia cristiana, portandola da una condizione meramente apologetico-religiosa al rango scienza archeologica vera e propria, grazie ai suoi studi svolti principalmente nell'ambito delle catacombe romane.

Giuseppe Fiorelli e la Scuola Archeologica di Pompei

Tra le varie personalità intellettuali che spiccavano in virtù delle loro capacità e spirito innovatore nel panorama della penisola, a influenzare maggiormente il corso degli studi di antichità in Italia nel tardo Ottocento fu quella del napoletano Giuseppe Fiorelli27, senza ombra di dubbio lo studioso più

26 Giovan Battista De Rossi (1822-1894) fu il fondatore dell'archeologia cristiana in senso moderno, studiò giurisprudenza a Roma per poi lavorare come bibliotecario al Vaticano, si interessò allo studio delle catacombe romane che coltivò per trent'anni, pubblicandone i risultati nel Bullettino di Archeologia cristiana.

27 Giuseppe Fiorelli (1823-1896) fu l'archeologo più rappresentativo della presa di coscienza dell'archeologia italiana nella formazione di una propria scuola autonoma. Studiò giurisprudenza e coltivò un interesse particolare per la numismatica, nel 1844 divenne ispettore addetto alla soprintendenza degli scavi di antichità di Napoli, e nel 1847 direttore dei R. scavi di Pompei, un incarico che segnerà profondamente gli sviluppi della sua carriera. Di ideologia fortemente liberale partecipò ai moti del '48 in seguito ai quali fu rinchiuso per nove mesi nel carcere di S.Maria Apparente a Napoli perdendo l'incarico di ispettore. Una volta scarcerato trovò impiego come contabile presso una ditta di forniture d'asfalto. Nel 1851 ottenne di lavorare per il conte di Siracusa Leopoldo di Borbone, dapprima come consulente in materia di archeologia e in seguito come segretario e fiduciario, occupandosi anche degli scavi a Cuma

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rappresentativo per quanto riguarda le innovazioni nel campo dell’archeologia della prima età post unitaria. Fu l'archeologo che più seppe affrontare le difficoltà pratiche e teoriche che coinvolgevano il settore delle scienze dell'antichità nel periodo della sua affermazione come ramo di studi indipendente, caratterizzato da una grande lungimiranza riuscì a isolare i diversi fattori di freno al progresso dell’archeologia e affrontarli separatamente, nel campo della formazione, dell’organizzazione degli scavi e della pianificazione dell’apparato per la tutela e la conservazione. Fiorelli si formò in modo più o meno autonomo secondo la più classica tradizione antiquaria frequentando in gioventù collezionisti di antichità partenopei, in particolare il commerciante di monete antiche Benigno Tuzzi.

Di fatto il suo primo interesse fu proprio la numismatica, così come la sua prima pubblicazione Osservazioni sopra alcune monete rare di città greche con la quale si introdusse nel mondo scientifico e accademico con un'autorità tale che l'anno seguente, il 1844, il ministro dell'interno del Regno delle de Sicilie Nicola Santangelo lo nominò Ispettore addetto alla Soprintendenza generale degli scavi e tre anni dopo Ispettore dei R. Scavi di Pompei, in seguito si occupò anche della collezione numismatica del Museo Borbonico, ma essendo di idee

patrocinati dal conte. La sua attenzione scientifica rimase però sempre incentrata sugli scavi pompeiani. Dopo la caduta del Regno delle Due Sicilie la sua figura fu riabilitata, riottenne il suo incarico di ispettore agli scavi del Museo di Napoli e nel 1860 la cattedra di professore di archeologia all'università. Durante gli anni '60 dell'ottocento la sua fama crebbe e Fiorelli divenne il vero referente per l'archeologia italiana in tutto il meridione, nello stesso decennio avvertendo le necessità formative di nuovi esperti nel settore fondò la Scuola Archeologica di Pompei, che configurandosi come ente separato dal sistema universitario gli causo una certa inimicizia da parte di alcuni esponenti dal mondo accademico, primo fra tutti il futuro ministro della Pubblica Istruzione Pasquale Villari. All'inizio degli anni '70 fu convocato più volte a Roma dai ministri Scialoja e Correnti come consulente per questioni di politica culturale quali i lavori della giunta superiore di belle arti, la giunta consultiva di storia, archeologia e paleografia e per consigli su come riformare la Soprintendenza per gli scavi e i monumenti di Roma che incontrava serie difficoltà operative a causa del conflitto con l' omologa istituzione comunale. Il 28 marzo 1875 il Ministro Bonghi creò una direzione centrale degli Scavi e musei del Regno, chiamandone alla guida Giuseppe Fiorelli. Fiorelli continuò ad operare nella capitale fino al 1891, quando a causa della mai approvata legge di tutela (l'ultimo tentativo fallito era stato quello del 1887 seguito dalle dimensioni del Ministro Coppino) e di vicissitudini familiari alle quali si aggiungevano problemi di salute legati alla vista, si dimise tornando nella città partenopea dove morì cinque anni dopo. Per una visione d'insieme della vita e dei molteplici apporti di Fiorelli alla cultura italiana vedi: F. De Angelis, Giuseppe

Fiorelli: la"vecchia"antiquaria di fronte allo scavo, in Ricerche di storia dell'arte, 1993, n. 50,

pp. 6-16. e M. Barbanera, L'archeologia degli Italiani, Roma 1998, pp. 21-34. oltre che la voce di G. Kannes, in Dizionario Biografico degli Italiani, Vol. 48.

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dichiaratamente liberali la sua carriera in seno allo stato borbonico fu bruscamente interrotta in seguito alla carcerazione che conseguì alla sua partecipazione ai moti rivoluzionari del 1848, un fatto che Fiorelli non tentò mai di nascondere e anzi ribadì con orgoglio nei suoi ultimi anni. Impossibilitato a operare nella sua Campania dal 1853 al 1860 lavorò come segretario particolare presso il Conte Leopoldo di Siracusa, fratello di simpatie liberaleggianti del re Ferdinando II.

Poté tornare a occuparsi degli scavi di Pompei solo con la caduta del regime borbonico dapprima come ispettore e dal 1863 come soprintendente, un tema che non aveva cessato di studiare anche durante gli anni trascorsi al servizio del Conte di Siracusa, per il cui onomastico dedicò nel 1858 un libello Sulle

regioni pompeiane e sulla loro antica distribuzione, considerabile come vero e

proprio momento chiave nello sviluppo della mentalità archeologica dello studioso. Nel piccolo lavoro il Fiorelli, criticando tutti i precedenti studi sull'antica città campana, mette in evidenziava la necessità di studi sistematici sulla topografia urbana per pianificare la ricerca e gli scavi. Nonostante la formazione del Fiorelli emergesse dalla più profonda e tradizionalistica disciplina antiquaria per lo più autodidatta, egli fu abbastanza lungimirante da comprendere che una campagna di scavo condotta come lo era stata fino ad allora quella di Pompei non era assolutamente sufficiente per ricostruire la vita dell'antica città, l'accento della sua critica cadeva sul fatto che lo studio dei monumenti non fosse connesso con uno studio topografico, che sarebbe stato necessario per una comprensione organica delle strutture urbane, con tutti i riflessi sulla storia economica e sociale della città campana che ne sarebbero derivati.

Nonostante la sua divisione di Pompei in nove regioni sia stata confutata dalla successiva ricerca archeologica è importante notare come per la prima volta venisse presa in considerazione una pianificazione preventiva per una campagna di scavi che mirasse alla comprensione organica del sito e non alla scoperta di monumenti e oggetti che in altro modo sarebbero stati portati alla luce come reperti decontestualizzati. Sebbene la formazione antiquaria di Giuseppe Fiorelli si fosse sviluppata in un periodo piuttosto chiuso per la città di Napoli egli fu capace di elaborare un metodo di ricerca che ebbe grandi riconoscimenti nel

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periodo post unitario e che veniva ritenuto ancora valido agli albori del Novecento, nell'Italia unita i meriti scientifici di Fiorelli ebbero pieno riconoscimento e a coronamento dei suoi studi pompeiani nel 1861 ottenne la cattedra di archeologia all'università di Napoli per volere del ministro della Pubblica istruzione Francesco de Sanctis28.

Per completare la formazione dei suoi allievi all'università di Napoli Fiorelli aveva ben chiara la necessità di una attività pratica che affiancandosi allo studio accademico permettesse di trasformare i giovani studenti di archeologia in veri e propri archeologi mediante un rapporto diretto con l'intero processo archeologico, dalle indagini preliminari, allo scavo, all'edizione finale sia dei monumenti che dell'instrumentum domesticum. Fu così che su richiesta di Fiorelli nel 1866 il ministro della Pubblica istruzione Domenico Berti 29presentò a

Vittorio Emanuele II il decreto per l'approvazione della fondazione della Scuola archeologica di Pompei.

Il problema del mancato avanzamento dell'archeologia italiana era, secondo lo studioso napoletano, da ricercarsi soprattutto nei difetti organizzativi di un sistema di ricerca e tutela che non era operativo uniformemente sul territorio e nelle cui fila si aveva difficoltà a reperire figure dotate di una formazione archeologica sufficientemente solida. Nella seconda metà del XIX secolo continuavano a non sussistere le condizioni per uno studio sistematico delle antichità, ovvero un sistema efficiente di insegnamento, pubblicazione, tutela e riordinamento dei musei. Lo sforzo di diversi antichisti italiani e in particolare di Fiorelli, che dovette sottrarsi ai suoi diletti studi campani, specialmente dopo la chiamata a Roma nel 1860 e la collaborazione con il Ministro Bonghi, fu quello di lavorare per un progresso dell'archeologia attraverso la risoluzione di problemi

28 Francesco De Sanctis (1817-1883) fu uno storico della letteratura italiana, fu il primo ministro della Pubblica Istruzione del Regno d'Italia e ricoprì il dicastero in ben otto legislature tra il 1861 e il 1886.

29 Domenico Berti (1820-1897) fu professore di filosofia nelle università di Torino e Roma e studioso del pensiero del Rinascimento italiano. Fu ministro della Pubblica Istruzione nell'ambito del secondo governo La Marmora (1865-1866)e del secondo governo Ricasoli (1866-1867), in seguito fu anche ministro dell'Agricoltura, Industria e Commercio nei governi Depretis IV e V.

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non specificatamente archeologici ma organizzativi. L’istituzione della Scuola archeologica di Pompei aveva il compito principale di costituire in Italia un organo nel quale formare sistematicamente nuovi archeologi da impiegare sul territorio nazionale, attraverso un connubio di studi teorici e attività pratica ritenuta dall’ideatore della scuola imprescindibile, così come l’attività di laboratorio per un istituto di scienze naturali. Nel suo ritenere l’archeologia una scienza, composta di metodo e teoria universalmente applicabile e non insegnabile senza il supporto della pratica, Giuseppe Fiorelli palesava le sue tendenze positivistiche che in effetti ebbero grande influenza nella formazione di un archeologia italiana dotata di caratteri propri e originali e non unicamente derivata dalla visione idealista importata in Italia dagli studi prussiani. La scuola pompeiana fu il vero laboratorio nel quale nacque una corrente autoctona dell’archeologia italiana, nella quale trovò affermazione l’idea di una scienza archeologica non incentrata sullo studio di un oggetto o un monumento fine a se stesso, ma che avesse come obiettivo la comprensione dell’oggetto nella sua totalità, cercando di estrapolarne tutte le informazioni possibili al fine di collocarlo con la massima esattezza all’interno di un contesto storico e sociale del quale potesse così divenire fonte. L’idea stessa che gli oggetti materiali potessero fungere da fonte per la storia al pari o anche più delle fonti letterarie antiche e che essa stessa avrebbe potuto illuminare sulla mitologia, sulla vita religiosa, sugli aspetti pubblici e privati delle società antiche era alla base della Scuola archeologica di Pompei. Accanto alla filologia dell’arte, derivata dalla filologia letteraria e già diffusa in ambito germanico si poneva alla scuola di Fiorelli un’attenzione altrettanto filologica riguardo il contesto nel quale gli oggetti venivano rinvenuti.

L’importanza attribuita alla formazione dei giacimenti archeologici e dunque al modo nel quale un oggetto viene scoperto e a tutti i dati che possono essere captati durante la scoperta e lo scavo è una novità nella quale la tendenza positivista di Giuseppe Fiorelli e della sua scuola si palesò ancora una volta con la massima evidenza, conferendo al metodo dello scavo la stessa dignità scientifica dello studio del monumento. Tuttavia non tutti i buoni propositi poterono essere

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realizzati nei primi anni di attività della scuola, i programmi erano ambiziosi, ma i finanziamenti elargiti dallo stato non potevano supportarli, inoltre i candidati allievi giungevano alla scuola con una scarsissima preparazione nel campo delle antichità, tanto che il primo anno nessuno dei quattro candidati fu ammesso, Fiorelli lamentava l’inadeguatezza del sistema d’istruzione a riguardo, il secondo anno furono ammessi tre allievi, ma di questi solo Edoardo Brizio30, che in seguito

avrebbe avuto un ruolo importante nell’archeologia della protostoria emiliana, portò a termine il percorso formativo. Le difficoltà nell’avviamento della scuola posero Giuseppe Fiorelli in una posizione scomoda nei confronti del ministro Bargoni e del suo consigliere (e futuro ministro) Villari31, cominciò così un

dibattito sul metodo scientifico della scuola pompeiana e sulla strada che l’archeologia italiana si accingeva ad intraprendere nel quale si confrontavano le due principali tendenze dell’archeologia dell’epoca: quella idealista legata alla scuola filologica di tradizione germanica e quella di tendenze positiviste e sperimentali che gravitava intorno all’operato di Fiorelli.

Le critiche principali al metodo d'insegnamento di Fiorelli erano venute dall’autoritaria figura di Theodor Mommsen, che sebbene considerasse l’istituzione della Scuola archeologica di Pompei un notevole progresso per gli studi italiani dissentiva sul metodo di insegnamento teorico-pratico intrapreso in Campania, rimanendo un partigiano dell’archeologia filologica e dunque dell’insegnamento nelle università con il supporto di repertori plastici di marmi e gessi. La soluzione prospettata dallo studioso tedesco era quella di affidare l’insegnamento dell’archeologia a un archeologo di grande prestigio come Giancarlo Conestabile della Staffa in una grande città come Roma, nella quale gli

30 Edoardo Brizio (1846-1907) si formò a Torino, avendo come maestro Ariodante Fabretti, dal 1868 al 1871 fu allievo di Fiorelli presso la Scuola Archeologica di Pompei, l'anno successivo fu incaricato di redirigere il catalogo del Museo Civico di Bologna. Nel 1875 divenne assistente alla Direzione Generale degli Scavi e dei Musei e nel 1876 ottenne la cattedra di archeologia di Bologna. Su di lui si veda G. Sassatelli, Brizio e la prima sistemazione

dell'archeologia bolognese,in “Dalla stanza delle antichità al Museo Civico. Storia della

formazione del Museo Ciico Archeologico di Bologna” Bologna 1984, pp. 381-400.

31 Pasquale Villari, (1827-1917) fu ministro della Pubblica Istruzione dal 1891 al 1892, durante il suo dicastero vennero istituite gli Uffici Regionali per la Conservazione dei Monumenti, precursori delle Soprintendenze. Per ulteriori informazioni si veda E. Garin, La cultura

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allievi avrebbero goduto di un clima più sensibile ai diversi impulsi degli studi internazionali che nella provinciale cittadina campana e di tutti i vantaggi apportati da uno studio svolto all’interno della capitale mondiale dell’archeologia, i soggiorni in località dove praticare gli scavi archeologici sarebbero stati più brevi e avrebbero costituito una parte meno consistente del programma di formazione. L'opinione di Giancarlo Conestabile della Staffa si poneva sulla medesima linea ritenendo che la scuola pompeiana fosse fin troppo impegnativa per formare direttori degli scavi, ai quali l’archeologo perugino attribuiva un ruolo meramente tecnico e nel contempo insufficiente per formare archeologi classici secondo la tradizione filologica germanica.

Il ministro Villari istituì una commissione che si riunì a Firenze nel dicembre del 1869 con lo scopo di riformare la scuola di Pompei, il ruolo di formazione di nuovi funzionari da parte della scuola fu riconfermato, ma furono modificati i criteri di ammissione, gli allievi sarebbero dovuti essere provvisti di laurea o aver lavorato almeno tre anni in un museo statale, in questo modo sarebbero giunti alla scuola con una preparazione più consistente, poiché la formazione in materia di antichistica impartita nei licei italiani era stata ritenuta anche da Fiorelli del tutto inadeguata.

L'archeologia insegnata a Pompei con la pratica e non solo con lezioni teoriche ebbe un ruolo decisamente innovativo per lo sviluppo delle tecniche di scavo. Sebbene l'indagine non fosse ancora condotta con metodo stratigrafico una particolare attenzione e documentazione del contesto caratterizzava la tecnica dello scavo, che avveniva per asportazione di strati di terra orizzontali dall'alto (a Pompei era stata in uso la pratica di liberare le strade dalla terra procedendo verticalmente) con l'obbiettivo di isolare e comprendere le diverse fasi di crollo. Un'invenzione moderna e originale fu la tecnica ideata da Fiorelli di riempire le cavità lasciate dai corpi umani e animali, dalle piante e dagli alimenti e da oggetti d'uso deperibili, con colate di gesso al fine di trarre calchi illuminanti su dettagli trasversali della vita urbana dei quai non si sarebbe potuta ottenere notizia archeologica in altro modo.

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