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Feticismo dell'antichità e propaganda fascista

L'ultima grande rinascita classicistica ebbe luogo (in una versione in realtà piuttosto grossolana) nell'Italia degli anni Trenta con l'avvento del regime fascista, quando nello sfruttamento a fine politico-propagandistico della funzione emozionale dell'arte e della storia antica, queste furono brutalmente piegate e volgarizzate in forme quasi caricaturali che nei programmi del duce sarebbero dovuti essere richiami alla antica gloria di Roma e alla sua supposta continuazione nell'impero dell'Italia fascista.

emblematico del rapporto tra fascismo e archeologia. Una massiccia opera di demolizione del quartiere Alessandrino che sorgeva sull'area dei fori fu condotta senza alcuna cura della preservazione delle informazioni archeologiche, il risultato perseguito non era altro che la creazione di un grande viale da parata che dall'Anfiteatro Flavio conducesse alla Piazza Venezia e al Vittoriano passando tra le rovine dei fori. Un percorso estetico, edificato con il solo fine politico nella più totale assenza di rispetto per l'antichità che si vedeva ridotta ormai a feticcio decontestualizzato.

Lo stesso cuore sociale della Roma antica, i fori, vennero tagliati dall'asse viario e resi impossibili da leggere per chiunque non avesse in mente una chiara immagine topografica della forma urbis. L'ex direttore dell'Istituto Archeologico Germanico Romano Ludwig Curtius racconta nella sua autobiografia189 come

inaugurando la Via dell'Impero il duce ordinò l'abbattimento di una struttura troncoconica di laterizi che si ergeva tra l'Arco di Costantino e il Colosseo, antiestetica e di ostacolo alla viabilità, si trattava di ciò che era scampato ai secoli dell'imponente fontana di epoca domizianea nota come Meta Sudans, bandita così per sempre dalla faccia della capitale perché priva di un carattere estetico utile alla propaganda del regime. A questo si aggiungeva l'idea condivisa da Mussolini che per essere esperiti i monumenti antichi dovessero essere osservati isolati dal restante contesto urbano, venendo a formare quella che in riferimento alla visita di Adolf Hitler nel 1939 Trilussa cantava come la “Roma de travertino, rifatta de

cartone, saluta l'imbianchino, suo prossimo padrone”190.

Negli anni tetri del fascismo lo stato fece un uso apertamente politico delle attività archeologiche italiane, anche le iniziative come quella della creazione del Museo della Civiltà Romana e la mostra per il bimillenario di Augusto non furono dettate esclusivamente da finalità accademiche o comunque culturali, ma anche fortemente da esigenze propagandistiche del regime. L'archeologia del ventennio vide alla sua guida Quirino Giglioli, fervente fascista che non negò mai di praticare un'archeologia militante anche dal punto di vista politico. Con l'operato

189 L. Curtius, Deustche und antike Welte, Stuttgart 1950.

di Giglioli i monumenti di Roma divennero quasi le icone di un'idolatria della romanità che nella sua visione sarebbe stata la guida di una rinascita dell'Italia. Anche il colonialismo italiano in Libia trovava una giustificazione archeologica per Giglioli, tramite lo studio delle città romane dell'Africa.

Il nesso materiale tra la Roma dei Cesari, quella dei papi e la Roma del duce era evidente per Giglioli nel gruppo di monumenti che sorgeva alla fine della via dell'Impero, tra la Colonna Traiana, la Torre Capitolina e il Vittoriano. Tutte le convinzioni dell'archeologia piegata alle esigenze di vantare antenati nobili dell'imperialismo fascista sono evidenti nel suo saggio “L'impero Romano e

l'Impero Fascista”191.

Nel saggio si illustra il progressivo dominio di Roma sul Lazio, sull'Italia e sul Mediterraneo paragonando la conversione culturale romana a un supposto incivilimento operato dall'imperialismo italiano del Novecento, vi si dichiara una supremazia razziale degli antichi romani e degli italiani dell'epoca fascista in quanto loro presunti eredi.

Alcuni passi si tingono del più aberrante razzismo quando si vanta un supposto rifiuto della mescolanza etnica operato dai romani, che a detta di Quirino Giglioli avrebbero saputo valorizzare le razze conquistate ma senza inquinare la purezza della propria “razza bianca”. La violenza alla quale la cultura può essere sottoposta si manifesta scadendo addirittura nel grottesco quando si arriva a paragonare le guerre puniche alle politiche antisemitiche perché volte a liberare la Sicilia, la Sardegna e il mediterraneo dai fenici, levantini dunque esponenti di una razza semitica. Ma aldilà delle forzature ideologiche la retorica fascista imponeva il concetto, attualmente inaccettabile da un punto di vista storico-antropologico, che la rinascita Italiana fosse una rinascita di Roma e dei romani, un concetto nel quale probabilmente molti intellettuali credevano sinceramente in buona fede.

Le esigenze della politica dell'epoca imponevano manovre culturali, diverse da quelle che si erano richieste in epoca post unitaria, l'operato di Giglioli mostra ancora una volta come il momento storico influisca sull'interpretazione

191 Q. Giglioli “L'impero Romano e l'Impero Fascista” contenuto nella rivista Università Fascista 9, 1937, nn.11-12, pp.626-639.

della storia e sull'uso che ne può essere fatto. I richiami all'antichità classica in epoca fascista sono concettualmente cosa ben diversa da quelli di derivazione mazziniana dell'Italia che doveva trovare una giustificazione davanti ai propri cittadini, tuttavia la loro osservazione permette, attraverso un maggiore contrasto tra la storia e il suo utilizzo funzionale a scopi politici, di comprendere il meccanismo di formazione di una comunità immaginata da sovrapporre a una società, meccanismo carpito alla perfezione da Antonio Gramsci nel tempo in cui questo veniva messo in atto:“Tutto il lavorìo di interpretazione del passato

italiano e la serie di costruzioni ideologiche e di romanzi storici che ne sono derivati è prevalentemente legato alla “pretesa” di trovare una unità nazionale, almeno di fatto, in tutto il periodo da Roma ad oggi […] La dittatura di ferro degli intellettuali e di alcuni gruppi urbani con la proprietà terriera mantiene la sua compattezza solo sovraeccitando i suoi elementi militanti con questo mito di fatalità storica, più forte di ogni manchevolezza e di ogni inettitudine politica e militare. È su questo terreno che all’adesione organica delle masse popolari- nazionali allo Stato si sostituisce una selezione di “volontari” della “nazione” concepita astrattamente”192. Gramsci individua dunque nelle rielaborazioni

storiche, effettuate anche tramite la manipolazione e la ripresentazione di reperti materiali, strumento volto all'alimentazione di una “volontà di credere” utilizzata come elemento di fanatizzazione che appoggiandosi ai meccanismi percettivi che giocano sul dislivello tra la durata media della vita umana e il tempo della storia introduce nelle costruzioni mentali un'aura di fatalismo.

La costituzione dell'identità nazionale può dunque avvenire attraverso richiami a elementi storici selezionati e posti in un contesto più opportuno, sul versante dell'esperienza sensibile, privilegiata nel parlare alle masse rispetto alla storia scritta, il campo è quello dell'archeologia, che in quanto disciplina storica è soggetta agli influssi del momento in cui vive, sebbene apparentemente investita di inoppugnabile imparzialità. La storia della proposizione dei resti materiali di altre epoche, per essere compresa, deve essere dunque contestualizzata e studiata

come espressione delle vicende umane e della volontà delle classi sociali dominanti, allo stesso modo della storia della produzione materiale stessa.

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