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Pianificazione ed elusione fiscale nei gruppi internazionali.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

DIPARTIMENTO DI ECONOMIA E

MANAGEMENT

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN

CONSULENZA PROFESSIONALE ALLE AZIENDE

ANNO ACCADEMICO 2015/2016

TESI DI LAUREA

PIANIFICAZIONE ED ELUSIONE FISCALE NEI GRUPPI

INTERNAZIONALI.

RELATORE: CANDIDATO:

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Indice

PREMESSA 6

CAPITOLO PRIMO – INTRODUZIONE ALL’ELUSIONE FISCALE INTERNAZIO-NALE E ALL’AGGRESSIVE TAX PLANNING NEI GRUPPI SOCIETARI.

1.1 Il contesto di riferimento 8

1.2 Il concetto di elusione fiscale e di abuso del diritto 9 1.3 La pianificazione fiscale nei gruppi internazionali 12 1.3.1 Alcuni esempi di pratiche diffuse di aggresive tax planning 13 1.4 Contrasto all’aggresive tax planning in ambito OCSE 21

1.4.1 Il rapporto BEPS 22

1.4.2 L’action plan dell’OCSE 28

1.5 Il contrasto all’aggressive tax planning in ambito comunitario 32 1.5.1 La comunicazione COM (2012) 351 della Commissione Europea 32 1.5.2 Il piano d’azione della Commissione Europea 34 1.5.2.1 La raccomandazione UE in tema di aggressive tax planning 35 1.5.2.2 La raccomandazione in materia di good governance fiscale 36 1.5.2.3 L’istituzione della “UE Platform” 37

1.6 La legge di delega fiscale 38

1.6.1 Il regime dell’adempimento collaborativo 39 1.6.2 La nuova disciplina antielusiva generale 42

CAPITOLO SECONDO- ESTEROVESTIZIONE SOCIETARIA

2.1 Il concetto di esterovestizione societaria e la disciplina di riferimento 46 2.2 Il concetto di residenza fiscale 48 2.2.1 La sede dell’amministrazione 50

2.2.2 Normativa convenzionale 51

2.2.3 La normativa comunitaria 53

2.3 Controllo societario e holding 55

2.4 Le catene partecipative 59

2.5 L’inversione dell’onere della prova 61 2.6 Effetti della riqualificazione della residenza in Italia 64

2.7 Profili penali tributari 66

2.8 Un caso pratico: il caso Dolce e Gabbana 67 2.8.1 Le accuse nel processo tributario: l’esterovestizione, il valore di cessione

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dei marchi e l’abuso di diritto 70

2.8.2 Il processo penale 73

2.8.2.1 La sentenza della Corte di Cassazione, Sezione III penale, n. 43809 del 28 ottobre 2015 75

CAPITOLO TERZO – LA STABILE ORGANIZZAZIONE: TRA NORMATIVA ED ELUSIONE 3.1 Il concetto di stabile organizzazione 79

3.2 La stabile organizzazione nel TUIR 80

3.3 La stabile organizzazione nel decreto internazionalizzazione 86

3.3.1 L’articolo 7 del decreto internazionalizzazione 86

3.3.1.2 Cenni sulla disciplina previgente 89

3.3.2 L’articolo 14 del decreto internazionalizzazione 90

3.3.2.1 L’esercizio dell’opzione per la branch exemption 93

3.3.2.2 Il calcolo dei profitti esenti 95

3.3.2.3 Le stabili organizzazioni CFC 96

3.3.2.4 Il recapture delle perdite: regime transitorio e regola di sistema 98

3.3.2.5 La disclosure delle fattispecie ritenute elusive e il ruling 99

3.3.2.6 Entrata in vigore e il provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate 100

3.3.2.7 Le criticità del nuovo regime 100

3.3.2.8 BEX e credito d’imposta 101

3.4 La stabile organizzazione nel Modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni 102

3.5 La stabile organizzazione nel Rapporto BEPS 108

3.5.1 Il Final Report dell’Action 7 110

3.5.1.1 Modifiche previste per la stabile organizzazione personale 110

3.5.1.2 Modifiche in materia di attività preparatorie ed ausiliarie 112

3.6 La stabile organizzazione e il commercio elettronico 115

3.7 La stabile organizzazione occulta 120

3.7.1 La stabile organizzazione occulta nell’esperienza italiana 123

3.8 Profili penali legati alla stabile organizzazione occulta 125

3.8.1 Soggetti responsabili ed elemento soggettivo 127

3.8.2 Ricostruzione del reddito della stabile organizzazione 127

CAPITOLO QUARTO – IL TRANSFER PRICING 4.1 Il transfer pricing quale tecnica di pianificazione fiscale 131

4.2 La normativa nazionale sul transfer pricing 132

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4.2.2 La remunerazione dei beni immateriali secondo la prassi italiana 136

4.3 Documentazione nazionale 137

4.4 La disciplina internazionale 142

4.4.1 Il transfer princing nel rapporto BEPS 144

4.4.1.1 Gli intangibles nel rapporto BEPS 146

4.4.1.1.1 I principi generali della revisione del Capitolo 6 delle Transfer Pricing Guidelines 146

4.4.1.1.2 Le esemplificazioni dell’OCSE 148

4.4.1.1.3 I metodi di determinazione del valore normale 151

4.4.1.2 Interventi OCSE in materia di documentazione 152

4.4.1.2.1 Il Discussion Draft dell’OCSE 154

4.4.1.2.2 Le raccomandazioni dell’OCSE del 16 settembre 2014 in materia di documentazione 157

4.4.1.2.3 Il Final Report “Transfer Pricing Documentation and Country-by-Country Reporting” 159

4.5 La determinazione del valore nelle transazioni intercompany 160

4.5.1 Un particolare fattore di comparabilità: l’analisi funzionale 164

4.6 Metodi per la determinazione dei prezzi di trasferimento 167

4.6.1 Metodi tradizionali basati sulla transazione 167

4.6.2 Metodi basati sull’utile della transazione 168

4.7 Finanziamenti infruttiferi infragruppo 169

4.8 Servizi infragruppo 172

4.9 La rilevanza penale del transfer pricing 177

4.9.1 Il reato di dichiarazione infedele nella vecchia formulazione 179

4.9.2 La nuova fattispecie del reato di dichiarazione infedele 179

CAPITOLO QUINTO - LE CONTROLLED FOREIGN COMPANIES 5.1 Il ruolo dei paradisi fiscali nell’ambito della tax governance 181

5.2 La gestione dei potenziali rischi fiscali legati alla normativa CFC 182

5.2.1 Il rischio reputazionale 183

5.3 La disciplina CFC nel TUIR 184

5.3.1 Il presupposto soggettivo 185

5.3.2 Il presupposto oggettivo: il controllo partecipativo 187

5.3.3 Il presupposto oggettivo: la residenza in Stati o territori a fiscalità privilegiata 188

5.3.3.1 Le problematiche che pone la nuova disciplina 191

5.3.4 L’imputazione dei redditi della CFC all’impresa controllante residente e la determinazione del reddito estero da imputare al socio 195

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5.3.6 La valorizzazione della partecipazione nella CFC 199

5.3.7 Il regime disapplicativo della disciplina CFC 199

5.3.7.1 La prima esimente 200

5.3.7.2 La seconda esimente 201

5.3.8 L’estensione del regime CFC ai soggetti residenti in Stati o territori non aventi un regime fiscale privilegiato 203

5.3.9 Novità in tema di accertamento 205

5.4 L’abrogazione dell’articolo 168-bis e 168 del TUIR 206

5.5 Novità in tema di interpello 208

CONCLUSIONI 210

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Premessa

Il presente lavoro mira a fornire una breve trattazione circa la pianificazione fiscale aggressiva nei gruppi societari internazionali, e circa le misure prese a livello internazionale e domestico per contra-stare tali fenomeni elusivi. Il contrasto agli illeciti di fiscalità internazionale costituisce ormai da tem-po un imtem-portante settore di intervento sia per l’Amministrazione finanziaria che per il Legislatore, coerentemente ad uno scenario economico globalizzato e transazionale, che ha fortemente condiziona-to determinate categorie di contribuenti, tra cui vi sono le multinazionali, per le quali vi è un rapporcondiziona-to inversamente proporzionale tra la scelta del luogo dove vivere e la scelta del livello di imposizione cui essere assoggettati.

L'elusione negli ultimi decenni ha assunto dimensioni sempre più rilevanti in quanto favorita prima, dalla liberalizzazione valutaria della fine degli anni ottanta e, successivamente, dal processo di inte-grazione economica, a livello comunitario e non, oltre che alla ormai nota internalizzazione e globaliz-zazione dell'economia. Sempre più spesso, le esigenze commerciali ed imprenditoriali di conquista di nuovi mercati ovvero di ottimizzazione dell'impiego delle risorse, in realtà in taluni casi sono sempli-cemente strumentali ad un’attenta pianificazione fiscale. Il fenomeno dell'elusione, dunque, allo stato attuale, pur senza assumere, in termini qualitativi e quantitativi, gli stessi valori dell’evasione, necessi-ta, indubbiamente, di particolare considerazione se non altro in quanto destinato, inevitabilmente, a svilupparsi ulteriormente in futuro.

Negli ultimi anni a livello internazionale, comunitario, e nel nostro ordinamento sono stati apportati importanti cambiamenti legislativi per cercare di far fronte al mutato contesto economico, e per cerca-re di arginacerca-re i fenomeni di aggcerca-ressive tax planning, i quali mirano ad erodecerca-re la base imponibile nei Paesi a fiscalità ordinaria e a spostare i profitti nei Paesi con fiscalità agevolata.

Tra tali interventi di particolare rilevanza è il rapporto “Addressing Base Erosion and Profit Shifting”, c.d. “Rapporto BEPS” pubblicato nel febbraio del 2013 dall’OCSE, e che evidenzia le principali que-stioni fiscali internazionali e suggerisce l’adozione di un piano di azione per contrastare il fenomeno dell’erosione della base imponibile mediante il profit shifting. Coerentemente con quanto suggerito dal rapporto BEPS, nel luglio del 2013, l’OCSE ha pubblicato l’Action plan per il contrasto all’erosione della base imponibile mediante lo spostamento dei profitti, che ha individuato 15 interventi, la cui fi-nalità è quella non solo di contrastare le pratiche di base erosion e profit shifting, ma anche di incre-mentare la collaborazione tra i vari Paesi e rendere le legislazioni fiscali dei vari Paesi più adatte alle mutate condizioni del contesto economico internazionale.

A livello nazionale, nel corso degli ultimi due anni, l’ordinamento tributario italiano ha registrato im-portanti sviluppi normativi nell’ambito della fiscalità internazionale, in special modo ad opera del cd. Decreto internazionalizzazione. Come emerge dalla relazione illustrativa, l’obiettivo del decreto è sta-to quello di rendere il nostro Paese maggiormente attrattivo e competitivo per le imprese, italiane o straniere, che intendono operare in Italia.

Esiste infatti una forte consapevolezza dell’interferenza che il fattore fiscale può esercitare sulle scelte economiche degli operatori e del ruolo che l’ordinamento tributario può e deve svolgere a sostegno

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7 dell’internazionalizzazione, riducendo i vincoli alle operazioni transfrontaliere e creando un quadro normativo sempre più certo e trasparente per gli investitori.

Nel secondo, terzo, quarto, e quinto capitolo sono approfonditi alcuni istituiti di diritto tributario svi-luppati, negli anni, dal Legislatore e a livello internazionale con fini antielusivi, ossia di contrasto ai fenomeni di pianificazione fiscale.

Nel secondo capitolo si tratta del fenomeno dell’esterovestizione societaria che costituisce un argo-mento di rilevante criticità nell’ambito del diritto tributario nazionale ed internazionale, costituendo un fenomeno dissociativo tra residenza formale e residenza sostanziale posto in essere per beneficiare di un regime fiscale più vantaggioso rispetto a quello del Paese di effettiva appartenenza, nel capitolo ol-tre alla normativa fiscale riguardante questo tema si sviluppa anche un caso pratico di grande interesse e attualità, ovvero il caso riguardante la famosa casa di moda “Dolce&Gabbana”

Il terzo capitolo tratta della stabile organizzazione, istituto fondamentale per la definizione della terri-torialità dei redditi d'impresa, al fine di stabilire la potestà impositiva dello Stato della fonte e quello della residenza. Nel capitolo, oltre alla normativa nazionale e internazionale, che negli ultimi tempi sono state oggetto di profonda revisione, si affronta in particolare, anche il problema della cd. “stabile organizzazione occulta”, e il tema della stabile organizzazione in rifermento al commercio elettronico. Il quarto capitolo tratta del transfer pricing con cui si intende l’insieme di regole, tecniche e procedure che le imprese multinazionali attuano ai fini della determinazione dei prezzi di trasferimento in transa-zioni aventi ad oggetto beni o servizi tra le diverse società del gruppo residenti in Paesi diversi. Anche qui verrano sviluppate le normative italiana e internazionale, e si farà un breve approfondimento circa le operazioni infragruppo riguardanti i finanziamenti infruttiferi e i servizi.

Infine il quinto capitolo tratta del problema che i Paesi a fiscalità privilegiata creano quando una o più consociate del gruppo vengono stabilite nei loro territori, e in particolare tratta della disciplina delle controlled foreign companies dettata dal Legislatore per far fronte ai possibili comportamenti elusivi collegati al trasferimento di reddito nei cd. Paradisi fiscali tramite le relazioni infragruppo quando par-te del gruppo è localizzato, appunto, in essi.

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CAPITOLO PRIMO – INTRODUZIONE ALL’ELUSIONE FISCALE INTERNAZIONALE E ALL’AGGRESSIVE TAX PLANNING NEI GRUPPI SOCIETARI

1.1 Il contesto di riferimento

L’elusione fiscale a livello internazionale, favorita dal processo di integrazione economica a livello comunitario e non, oltre che dalla ormai nota internazionalizzazione e globalizzazione dell’economia, negli ultimi decenni ha assunto dimensioni sempre più rilevanti.

La globalizzazione si caratterizza per la progressiva autoregolamentazione dell’economia, la quale af-ferma la propria autonomia e autosufficienza rispetto allo Stato; il mercato, infatti, diviene vero e pro-prio regime giuridico e fonte di disciplina dei rapporti economici autonoma rispetto al potere normati-vo statale. Dato che le relazioni economiche si deterrioralizzano, si assiste ad un ridimesionamento della sovranità nazionale, e quindi lo Stato perde la capacità di disciplinare e controllare gran parte dei rapporti e delle relazioni che si intrecciano all’interno dei suoi confini; il potere economico prescinde dallo spazio determinato dal potere politico, in quanto il primo tende alla determinazione di una con-cezione spaziale illimitata, mentre il secondo si organizza in considerazione del fatto che lo spazio in cui viene ad essere esercitato è limitato.

In tale contesto attori di rilievo sono le imprese multinazionali, che se da un lato hanno visto accresce-re l’internazionalizzazione delle loro attività di business, dall’altra devono sottostaaccresce-re a ordinamenti tri-butari con carattere strettamente nazionale, e ciò porta inevitabilmente a potenziali conflitti tra Ammi-nistrazioni finanziarie di diversi Paesi e a rischi di doppia imposizione, dato che l’attività svolta dalle imprese del gruppo multinazionale rileva ai fini dell’allocazione del reddito in un Paese piuttosto che in un altro.

Il problema sta nel fatto che a fronte di una crescente ed inarrestabile integrazione dei mercati e dell’economia a livello globale, ogni Stato continua ad essere titolare di una propria potestà impositi-va, che consiste nel potere dello Stato di assoggettare a tassazione fattispecie produttive di reddito, e che colloca ciascuno Stato in posizione di sostanziale parità e indipendenza rispetto agli altri nelle re-lazioni internazionali.

Le norme tributarie interne di uno Stato possono riguardare anche fattispecie presenti in un territorio estero, purché sia ravvisabile un collegamento con l’ordinamento giuridico dello Stato, e ciò, può esse-re considerata una conseguenza dell’intensificarsi degli investimenti internazionali, che ha esse-reso oppor-tuno distinguere tra determinazione dello spazio nel quale la legge ha effetto, e determinazione dei fat-ti che la legge può regolare. Negli ordinamenfat-ti nazionali sono infatfat-ti presenfat-ti disposizioni, che preve-dono la possibilità di estendere l’ambito di applicazione della legge, e che definiscono i criteri in base ai quali una fattispecie può essere disciplinata dalle norme interne, a prescindere dalla sua localizza-zione (carattere ultraterritoriale della disciplina tributaria).

Ai fini dell’imponibilità del reddito prodotto, quindi, non bisogna guardare tanto alla definizione geo-grafica del territorio, ma piuttosto alla definizione dei fondamenti che legittimano l’esercizio del pote-re impositivo nei riguardi di un soggetto, o di una fattispecie, verificatesi all’interno o all’esterno del territorio. Lo Stato può, infatti, affermare la propria pretesa tributaria, non solo sulla base di criteri di

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9 collegamento reali, connessi alla localizzazione territoriali della fattispecie, ma anche con riferimento a criteri di collegamento personali, estendendo la propria potestà impositiva ai redditi prodotti all’estero da soggetti passivi con i quali instaura determinati rapporti1.

L’intensificarsi delle relazioni economiche globali, e il persistere di una pluralità di ordinamenti tribu-tari, hanno evidenziato le criticità connesse ai rapporti tra potestà impositiva e contesto economico cir-costante, tra cui, oltre ai rischi di doppia imposizione, vi è sicuramente il fatto che in tali circostanze le imprese multinazionali riescono a sfruttare sempre più le differenze tra i diversi regimi fiscali naziona-li con lo scopo di ridurre in modo considerevole l’imposizione sul reddito; infatti dall’interazione di legislazioni fiscali diverse possono derivare divari che offrono l’opportunità di eliminare o ridurre in modo considerevole il livello di imposizione sul reddito.

Bisogna a questo punto considerare che, gli schemi di pianificazione fiscale, attuati dalle imprese mul-tinazionali, negli ultimi anni, sono divenuti particolarmente aggressivi (cd. aggressive tax planning), tali schemi coinvolgono più giurisdizioni e hanno l’effetto di attuare il trasferimento degli utili impo-nibili in Stati con regimi fiscali favorevoli. Caratteristica fondamentale delle pratiche in questione è il risparmio d’imposta attraverso operazioni formalmente lecite, le quali, tuttavia, sono in contrasto con lo scopo delle norme, ossia attraverso operazioni classificabili quali elusive e abusive.

È necessario sottolineare, che ad oggi, nonostante risulti pacifico che le imprese multinazionali debba-no essere adeguatamente tassate, debba-non sodebba-no ancora chiare tuttavia le modalità attraverso le quali le stes-se dovrebbero esstes-sere assoggettate agli obblighi fiscali, evitando i fenomeni di doppia imposizione e di erosione della base imponibile. L’approccio corrente consiste principalmente nel tassare le multina-zionali in un determinato Stato, soltanto per i profitti che derivano dall’entità localizzata in tale Paese, ma tale sistema presenta alcune criticità: innanzitutto la tassazione delle multinazionali sulla base dei redditi prodotti in ogni Paese favorisce la competizione fiscale tra Stati, ed incentiva a porre in essere comportamenti elusivi e opportunistici; ed inoltre in tale contesto un’impresa multinazionale può fa-cilmente delocalizzare o porre in essere strategie di aggressive tax planning per ridurre le imposte pa-gate in un determinato Paese.

Una proposta di tassazione che potrebbe evitare le suddette criticità, prevede che ogni Paese in cui una multinazionale è residente, tassi gli interi profitti realizzati da essa a livello globale, concedendo un credito per le imposte pagate nelle altre giurisdizioni estere, fino al livello di tassazione della resident jurisdiction, che generalmente viene, definita come il luogo in cui è presente l’headquarter, e/o il luogo in cui è stata costituita2.

1.2 Il concetto di elusione fiscale e di abuso del diritto

Nei sistemi fiscali avanzati la propensione del contribuente di sottostare al minor sacrificio fiscale pos-sibile avviene normalmente tramite comportamenti elusivi, ossia tramite aggiramento delle norme, e

1I criteri di collegamento si distinguono in base all’elemento su cui si fondano, da una parte si hanno criteri di

collegamento di tipo reale o oggettivo, che collegano l’imposizione a presupposti realizzati nel territorio dello Stato (principio della tassazione alla fonte); dall’altra si hanno criteri di collegamento personali basati sulla resi-denza del soggetto che realizza il presupposto impositivo, indipendentemente da dove quest’ultimo si manifesta (principio del reddito mondiale).

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10 non tramite manifestazioni dirette di contrapposizione alle disposizioni fiscali, il contribuente cioè pla-sma gli schemi giuridici formali previsti dal legislatore adattandoli al fine economico che si è prefissa-to, effettuando la scelta per lui più vantaggiosa, cercando cioè di conseguire il massimo risparmio d’imposta altrimenti non ottenibile.

Non esiste una definizione di elusione fiscale, elusione è tutto ciò che sta nel mezzo tra lecito rispar-mio d’imposta3 ed evasione fiscale4: essenza dell’elusione fiscale è quella di alterare la finalità sostan-ziale di una regola tributaria, si va cioè a contaminare il cd. “spirito della legge”, ossia la ratio ispira-trice della norma, ottenendo un indebito risparmio di imposta. Tramite l’elusione si evita quindi l’onere tributario senza violare alcuna norma, ma aggirando la fattispecie astratta regolata dalla stessa: in altri termini, vengono posti in essere fatti e atti formalmente consentiti da una disposizione tributa-ria, ma che in realtà comportano un vantaggio fiscale non in linea con la ratio sottesa alla stessa. L’operazione elusiva è caratterizzata da tre elementi essenziali:

a. elemento soggettivo: sul piano soggettivo la condotta elusiva si caratterizza per l’assenza di un ef-fettivo interesse economico alla realizzazione dell’operazione, ossia di un interesse diverso dall’ottenimento di un risparmio d’imposta;

b. elemento oggettivo: dal punto di vista oggettivo l’operazione elusiva si caratterizza per l’atipicità del procedimento utilizzato nel caso concreto, e per la surrogabilità di quest’ultimo con quello previsto dalla norma elusa, in quanto entrambi destinati a produrre effetti affini e intercambiabili, senza che il comportamento in concreto adottato risponda ad una precisa esigenza, o scopo diverso da quello di ottenere un risparmio fiscale;

c. risultato raggiunto: dal punto di vista del risultato il procedimento usato permette di ottenere un risparmio di imposta non previsto o consentito in nessun modo dal Legislatore.

In conclusione con l’elusione si ha una costruzione artificiosa per attribuire una parvenza di legalità ad un risparmio di imposta illegittimo5.

Ad oggi molto più rilevante, rispetto al concetto di elusione, risulta essere quello di abuso del diritto, che in campo fiscale nasce con le sentenze del 2005 e del 2006 pronunciate dalla Corte di Giustizia eu-ropea (caso Halifax) e dalla Corte di Cassazione (casi dei dividend washing o dividend stripping). Il concetto di abuso del diritto, in realtà è stato, dapprima sviluppato dalla dottrina, e successivamente è stato recepito dalla giurisprudenza, e ha progressivamente acquisito la connotazione di istituto giuridi-co, sia nel nostro ordinamento che nell’ordinamento comunitario. Il fine di tale istituto è di articolare uno strumento di autodifesa dell’ordinamento giuridico, da utilizzarsi quando gli altri meccanismi di autotutela dell’ordimento stesso, specie quelli a carattere preventivo, falliscano.

3Il lecito risparmio di imposta consiste nella scelta dell’alternativa, che comporta il minor sacrificio fiscale, tra

quelle che il Legislatore individua, per la medesima fattispecie, in modo esplicito.

4“Nelle condotte elusive i negozi giuridici posti in essere dal soggetto sono reali, e tali per cui il presupposto

impositivo non nasce; nelle condotte evasive i negozi giuridici posti in essere realizzano il presupposto impositi-vo, ma vengono occultati” (Piergiorgio Valente, Elusione fiscale internazionale, I edizione, IPSOA, Milano, 2014, pag. 30).

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11 Si parla di abuso del diritto laddove un soggetto, pur esercitando un proprio diritto espressamente ri-conosciuto dalla legge, non persegue un fine meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, ma anzi realizza un obiettivo ad esso contrario. Per detta ragione, non gli può essere riconosciuta la tutela giu-risdizionale che l’esercizio del diritto predetto invece meriterebbe. A fronte dell’attribuzione di un cer-to diritcer-to, effettuata in via generale ed astratta dall’ordinamencer-to, l’abuso del diritcer-to identifica così l’ipotesi in cui il suo esercizio finisce per disattendere, nel caso concreto, le finalità che la giustificano ovvero determinare una situazione che l’ordinamento non può tollerare.

L’atto abusivo si pone al di fuori del diritto, ma non nella forma, bensì negli effetti e nelle finalità per-seguite: a fronte dell’esercizio di un diritto, formalmente perfetto, si pone il perseguimento per suo tramite di un vantaggio che l’ordinamento non reputa meritevole di tutela.

Elusione e abuso del diritto, in ambito fiscale, sono affini: nel nostro ordinamento, il concetto di abuso del diritto è stato un allargamento del concetto di elusione fiscale, il quale era stato erroneamente cir-coscritto a fattispecie casistiche6 ed, in effetti la Corte di Cassazione ha affermato che: “il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici”7.

La validità economica dell’operazione posta in essere dal contribuente è, quindi, presupposto fonda-mentale per l’esclusione della sussistenza di una pratica abusiva, la scelta di realizzare una determinata condotta deve essere sorretta da ragioni extrafiscali che possono riguardare l’attività economica nel suo complesso, le variazioni del mercato o la razionalizzazione e il contenimento dei costi. Solo se l’operazione è carente di valide ragioni economiche si potrà configurare un’ipotesi di abuso del diritto nel caso di conseguimento di un indebito vantaggio fiscale. Ai fini della qualificazione di una pratica quale abusiva, rilevante, è anche l’uso distorto e anomalo degli istituti giuridici e contrattuali da parte del contribuente. Ed infine, altro presupposto per la configurazione della pratica abusiva è il risultato ottenuto dal contribuente tramite l’uso distorto delle forme negoziali, si avrà, quindi, abuso del diritto quando il contribuente abusando degli strumenti giuridici, pone in essere una condotta volta all’ottenimento di un vantaggio fiscale. Lo scopo del contribuente può essere esclusivo o concorrente ad altri scopi extrafiscali, e deve produrre quale risultato materiale, un illecito risparmio di imposta. In ambito europeo i giudici comunitari hanno progressivamente elaborato una nozione di abuso del di-ritto applicabile in campo tributario, in conseguenza del fatto che nell’ordinamento europeo non è pre-sente una clausola generale antielusiva. Alla formulazione in via giurisprudenziale del principio antia-buso hanno contribuito due diversi aspetti: il primo attiene a quelle pronunce che si sono soffermate sull’abuso delle libertà fondamentali, garantite dai trattati comunitari, da parte del contribuente con il

6La norma antielusiva generale contenuta nell’ormai abrogato articolo 37-bis del D.P.R. 600/73, infatti, faceva

riferimento alle sole imposte dirette, e ad operazioni particolari elencate nel comma 3.

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12 fine di ottenere un indebito vantaggio fiscale; il secondo aspetto concerne la formulazione di una no-zione di abuso del diritto attraverso una lettura delle singole norme comunitarie in materia fiscale, co-me le direttive in materia di imposte dirette e indirette. Con riguardo a tale secondo aspetto, dalla sen-tenza Halifax si possono ricavare i criteri usati dalla Corte comunitaria per definire ciò che è conside-rato illecito risparmio di imposta, ossia deve trattarsi di operazioni dirette a conseguire un vantaggio fiscale non in conformità alle disposizioni di legge e che hanno quale unico scopo quello di conseguire tale vantaggio.

Per quanto riguarda il primo aspetto nella giurisprudenza comunitaria l’esercizio delle libertà fonda-mentali, da parte di un soggetto, incontra dei limiti se l’obbiettivo è esclusivamente il raggiungimento di un fine fiscale, o la violazione di una norma nazionale per ottenere un indebito vantaggio fiscale. Il riferimento è principalmente all’uso strumentale delle libertà sancite dai Trattati per evitare norme na-zionali, che determinerebbero un aggravio da un punto di vista fiscale. Per fare un esempio, e pren-dendo a riferimento il principio della libertà di stabilimento, si avrà una condotta abusiva nel caso in cui il soggetto invochi tale diritto senza addurre la sussistenza di un valido business purpose, ma con il fine esclusivo di ottenere un indebito vantaggio fiscale.

La formulazione in via giurisprudenziale, nazionale e comunitaria, di una nozione generale di divieto di abuso del diritto trova un fondamento nel principio della prevalenza della sostanza sulla forma, che ha origini nei sistemi di common law. Secondo tale principio nelle transazioni economiche, ai fini fi-scali prevale la sostanza dell’operazione, cioè bisogna guardare a ciò che le parti hanno realmente in-teso realizzare, e non fermarsi alla forma giuridica conferita al negozio ed inoltre la sostanza di una qualsivoglia operazione deve essere connotata dalla genuinità economica delle ragioni del soggetto che l’ha posta in essere8.

1.3 La pianificazione fiscale nei gruppi internazionali

La necessità, nell’economia certamente globalizzata, di internazionalizzazione delle imprese conduce le multinazionali a valutare attentamente tra le altre, la variabile tributaria dell’investimento, e ad adot-tare un’efficiente politica fiscale volta alla minimizzazione dell’imposizione consolidata, e ad un’efficiente gestione del rischio fiscale (cd. “tax risk management”), che sempre più vanno ad incide-re sui risultati aziendali diincide-retti agli azionisti.

La tax governance nei gruppi di imprese risponde essenzialmente all’esigenza di assicurare la gestione e la prevenzione dei rischi connessi alla variabile fiscale, nonché il supporto in sede di verifica fiscale. Decisioni, attività e operazioni assunte da un’organizzazione aziendale possono generare aree di incer-tezza sul rischio relativo al business, ed alcune di esse riguardano gli aspetti fiscali. La gestione del ri-schio fiscale nei gruppi multinazionali implica, quindi l’amministrazione e il controllo di tali aree di incertezza al fine di prevenire la nascita di controversie con le autorità competenti dei Paesi in cui svolge l’attività di business.

8Piergiorgio Valente, Elusione fiscale internazionale, I edizione, IPSOA, Milano, 2014, pagg. 15 e ss.. D.Lgs. 5

agosto 2015, n. 128 - Abuso del diritto ed effettiva utilità della novella: Much ado about nothing?, di Andrea Ca-rinci e Dario Deotto, in “Il fisco” n. 32-33 del 7 settembre 2015.

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13 Nei gruppi multinazionali operanti in più giurisdizioni, la variabile fiscale è gestita in una duplice otti-ca: da un lato, assolvendo gli obblighi normativi vigenti in un particolare Paese, dall’altro, prevenendo il nascere di eventuali contenziosi con le autorità fiscali dei Paesi in cui il business è condotto.

Per quanto riguarda la politica fiscale nei gruppi di imprese, essa è concepita al fine di soddisfare inte-ressi trascendenti rispetto a quelli delle singole entità giuridico-economiche che compongono il grup-po, ed è oggetto di attività di direzione e coordinamento, cioè di quell’attività mediante la quale si esplica l’influenza dominante della capogruppo e si indirizza l’attività delle consociate. Ai fini dell’elaborazione di tecniche finalizzate all’ottimizzazione del carico fiscale del gruppo, è necessaria la conoscenza dei principi che informano l’ordinamento tributario del Paese di residenza della casa madre e di quelli in cui il gruppo intende investire o in cui il gruppo si trova già ad operare, ma anche dei principi che informano la normativa fiscale internazionale e comunitaria. A tal fine, per attuare ef-ficacemente i processi di pianificazione fiscale internazionale, occorre che il gruppo si avvalga di una rete informativa globale di alto livello, sia interna che esterna al gruppo stesso, in modo da conoscere in tempo utile tutti i dati necessari per l’ottimizzazione della struttura e dei flussi a livello internazio-nale.

Bisogna rilevare che l’implementazione di una strategia fiscale globale, a livello di gruppo, richiede, non solo l’allineamento della variabile fiscale agli obbiettivi perseguiti dal top management, ma anche l’effettuazione di scelte gestionali che garantiscano un’efficiente allocazione delle diverse fonti di red-dito e un’efficiente localizzazione delle società del gruppo nei vari Paesi; inoltre è necessario raziona-lizzare i flussi monetari intersocietari per rearaziona-lizzare il massimo vantaggio in termini di utili al netto delle imposte; ed infine, ma non per questo meno importante, è necessario evitare doppie imposizioni, che traggono origine dall’autonoma potestà d’imposizione dei singoli Stati e dalla sovrapposizione di presupposti impositivi in due o più Stati a seguito dell’assoggettamento ad imposta della stessa ric-chezza per due o più volte.

Il ruolo del tax planning è, dunque, quello di muoversi all’interno delle diverse normative al fine di permettere all’impresa di gestire il rischio fiscale, e di pianificare al meglio la propria attività mediante l’ottimizzazione del carico fiscale nel rispetto assoluto delle normative stesse, sia civilistiche che fisca-li, sia nazionali che internazionafisca-li, quando però il tax planning è utilizzato con l’obbiettivo di elimina-re o ridurelimina-re in modo significativo l’imposizione sul elimina-reddito con modalità, che sebbene formalmente legittime, appaiono non coerenti con gli obbiettivi delle disposizioni e dei principi di fiscalità interna-zionale, si sfocia nell’aggressive tax planning. Quindi il tax planning costituisce, di per sé, un elemen-to pienamente fisiologico, ma lo stesso è caratterizzaelemen-to quale “aggressive”, e diventa paelemen-tologico, qua-lora degeneri in pericolosi fenomeni di elusione e di abuso delle normative fiscali, che vanno ad erode-re le basi imponibili dei Paesi a fiscalità non privilegiata, cerode-reano distorsioni alla libera operatività dei mercati, e hanno un impatto negativo in termini di equità e neutralità dei sistemi fiscali9.

1.3.1 Alcuni esempi di pratiche diffuse di aggressive tax planning

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14 Le pratiche di pianificazione fiscale assumono connotati variegati, in ragione delle diverse caratteristi-che dei singoli ordinamenti giuridici e delle esigenze delle imprese operanti in contesti internazionali. In concreto, una delle più diffuse pratiche di profit shifting, è quella attuata mediante operazioni di triangolazione internazionale, con il ricorso a società di trading e agency companies.

La rifatturazione degli acquisti sui mercati internazionali effettuata mediante triangolazione, ossia in-terponendo una società di trading, costituita ad hoc in un Paese a bassa fiscalità, tra l’originario forni-tore e l’impresa nazionale, viene posta in essere al fine di delocalizzare nel Paese di stabilimento della società di trading una quota significativa dei profitti realizzati dal contribuente nazionale, sovrafattu-rando in capo a quest’ultimo i rispettivi costi deducibili.

In modo speculare, la stessa operazione può essere posta in essere interponendo una società off-shore come collettore delle vendite sui mercati internazionali, che acquistando i prodotti dall’impresa nazio-nale a prezzi ridotti li rivende all’estero a valori di mercato applicando un significativo margine di guadagno.

Per fare un esempio pratico si ipotizzi che la società italiana A debba approvvigionarsi di merci all’estero dal fornitore B ad un prezzo di 100. La merce una volta importata in Italia verrà rivenduta ad un prezzo di 200. Il profitto complessivo da assoggettare alle imposte dirette sarà dunque pari a 100. Se invece vi sarà l’interposizione della società C, localizzata in un Paese a fiscalità privilegiata in cui i redditi d’impresa sono esenti da tassazione, e riconducibile al titolare della società A, che acquista le merci a 100 dallo stesso fornitore B e le rivende alla società A a 180, l’imponibile di quest’ultima rela-tivo all’operazione non sarà più 100, ma 20. Lo stesso vale nel caso in cui la società di trading C venga interposta con riferimento alle vendite nei confronti di un cliente estero.

Nel caso in questione, se emerge il rapporto di partecipazione tra le società A e C, alle operazioni in-tercompany descritte, risulta applicabile la disciplina in materia di transfer princing, se invece l’unitarietà del gruppo venga dissimulata, per esempio, interponendo uno schermo fiduciario per la de-tenzione della partecipazione di controllo nella società di trading la disciplina sui prezzi di trasferi-mento non risulterà automaticamente applicabile10,11.

10 In ogni caso l’imprenditore è comunque chiamato prudenzialmente a valutare gli emergenti rischi fiscali

con-nessi alla contabilizzazione di costi maggiori rispetto a quelli effettivamente sostenuti, attraverso la descritta tec-nica di sovrafatturazione, che al termine di un puntuale accertamento dell’Amministrazione finanziaria potrà as-sumere anche rilievo penale, ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. 74/2000, in combinato disposto con l’art. 1, comma 1, lett. a), laddove il legislatore ha chiarito che tra le fatture o altri documenti per operazioni inesistenti rientrano anche le fatture “gonfiate”, ovvero i documenti fiscali che indicano corrispettivi in misura superiore a quella rea-le. Inoltre, si rammenta che lo svolgimento da parte della società di trading off-shore di un’attività commerciale in un Paese a fiscalità ordinaria attraverso una struttura organizzata può giustificare l’emersione di una stabile organizzazione, a meno che non si avvalga di agenti indipendenti e l’attività commerciale non venga, in concre-to, gestita da uffici localizzati all’estero.

11 A comprova dell’effettiva diffusione di tali pratiche di pianificazione fiscale aggressiva, tanto pericolose per le

finanze dei Paesi a fiscalità ordinaria, vale la pena rammentare che, recentemente, le cronache nazionali hanno messo in luce l’adozione di uno schema simile a quello descritto sopra da parte di un noto gruppo italiano, ope-rante in ambito multinazionale nel settore farmaceutico, gruppo Menarini. In questo caso, i costi sostenuti in Ita-lia per l’acquisto delle materie prime sarebbero lievitati per effetto dell’interposizione di società estere (localiz-zate in Svizzera e Nuova Zelanda) tra i fornitori originari localizzati in Asia ed il gruppo italiano, mentre i profit-ti così distratprofit-ti sarebbero confluiprofit-ti nei conprofit-ti dei soci.

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15 L’utilizzo di società off-shore per attività di trading internazionale, comportano sempre un incremento dei rischi fiscali connessi al potenziale sospetto generato nelle Autorità fiscali, che spesso induce a un approfondimento dei rapporti intercorsi tra le parti, e molte imprese hanno addirittura escluso qualsi-voglia forma di interlocuzione commerciale con soggetti economici formalmente stabiliti in Paesi a fiscalità privilegiata.

Tali emergenti problematiche hanno favorito negli ultimi anni la notevole pubblicizzazione e diffusio-ne di uno schema di pianificaziodiffusio-ne tributaria che consente di preservare i vantaggi fiscali garantiti dal ricorso alle società off-shore nelle attività di trading internazionale, pur riducendo notevolmente i con-nessi tax risks, specie in caso di controlli fiscali12. In sostanza, alla società di trading costituita in una giurisdizione off-shore, che garantisce l’abbattimento totale o sostanziale del carico fiscale sui margini di guadagno alla stessa attribuita, viene affiancata un’ulteriore società on-shore, stabilita in un Paese che non desta sospetti; solitamente, il Regno Unito, che rappresenta certamente la giurisdizione privi-legiata per la costituzione delle società on-shore. Lo step successivo prevede la stipula di un contratto di agenzia tra: la società off-shore, quale principal, localizzata in un Paese a fiscalità privilegiata, e la società on-shore, chiamata a operare come agent della prima, compravendendo i prodotti sui mercati internazionali in proprio nome, ma per conto della società off-shore.

Quindi, nei rapporti commerciali la società paradisiaca risulta sempre schermata dal suo agente inter-nazionale, che provvede alla ricezione degli ordini, alla fatturazione e alla gestione logistica e finan-ziaria connessa alle attività di trading.

In cambio, l’agente riceve una commissione dalla società principal, che di solito viene determinata in percentuale sul fatturato generato, e che può trattenere sul conto corrente utilizzato per l’incasso dei corrispettivi, che vengono retrocessi alla società off-shore in forza del contratto di agenzia al netto dei pagamenti effettuati per gli acquisti delle merci.

Ovviamente, la società on-shore può legittimamente portare in deduzione i costi sostenuti per la ge-stione dell’attività di agenzia (uffici, personale ecc.), mentre il margine di guadagno di competenza della società principal verrà (eventualmente) assoggettato a tassazione in base alle aliquote applicabili nella giurisdizione off-shore di stabilimento. In sostanza, la agency company opera come un vero e proprio fiduciario della società principal, garantendone la riservatezza.

Uno dei principali profili di rischio emergenti dall’adozione di tale struttura principal-agent è rappre-sentato dalla potenziale dipendenza diretta dell’agente dal suo principal, da cui può discendere l’esistenza di una stabile organizzazione della società off-shore nella giurisdizione on-shore e, quindi, la tassazione dei profitti dell’attività di trading alle aliquote ordinarie ivi previste. Solo l’effettiva loca-lizzazione del c.d. place of effective management nella giurisdizione off-shore e l’indipendenza dell’agente dalla società principal potrebbero permettere di escludere tale evenienza.

12Tale struttura, inoltre, consente di bypassare formalmente le richiamate disposizioni vigenti nel nostro Paese in

tema di obblighi di comunicazione riguardanti i rapporti con operatori residenti in Paesi inseriti nella black list, che negli ultimi anni sono stati tra l’altro implementati.

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16 Ancora, per mitigare i rischi fiscali nei Paesi di stabilimento delle due società che costituiscono la struttura di trading internazionale, solitamente viene consigliato all’imprenditore di: formalizzare in modo puntuale tutte le clausole del contratto di agenzia, stabilendo le funzioni assunte, la ripartizione dei rischi e l’entità delle commissioni, che dovrà essere tale da giustificare nei confronti delle locali Autorità fiscali la commercialità dell’attività svolta dall’agente; far amministrare la società agente da soggetti non residenti; escludere qualsivoglia attività commerciale svolta dalla società agente sul mer-cato domestico. In sostanza, i prodotti devono essere acquistati da fornitori esteri e destinati sempre fuori dai confini nazionali. Difatti, in molti Paesi (tra cui il Regno Unito) la costituzione di tali struttu-re è tollerata solo se la loro operatività è limitata “estero su estero”, accontentandosi di tassastruttu-re gli utili netti attribuiti all’agente, di importo sensibilmente inferiore rispetto ai profitti complessivamente gene-rati dall’attività di trading, in quanto comunque la stessa si è realizzata fuori dai confini nazionali, in assenza di sostanziali collegamenti territoriali.

È evidente che la costituzione di una simile struttura per la gestione degli approvvigionamenti o della distribuzione dei prodotti sui mercati esteri da parte di un imprenditore nazionale può garantire rile-vanti vantaggi fiscali, generati dal sistematico arbitraggio sui prezzi applicati nelle transazioni inter-corse, finalizzato alla delocalizzazione di materia imponibile in una giurisdizione a bassa tassazione. Tuttavia, è altrettanto palese che la potenziale assenza di valide ragioni economiche sottese all’impiego di tali strumenti di tax planning, che solitamente induce a un controllo approfondito dei rapporti in sede ispettiva, finalizzato a far emergere gli eventuali legami societari intercorrenti tra le parti in causa, comporta in capo all’imprenditore l’assunzione di un rischio fiscale rilevante, che in un’ottica di salvaguardia della sua integrità patrimoniale deve essere attentamente valutato ai fini di un bilanciamento degli interessi di massimizzazione dei profitti ottenuti mediante la ricerca di un carico fiscale ottimale.

Altra pratica di pianificazione fiscale, molto diffusa, è data dall’abuso delle disposizioni contenute nel-le Convenzioni contro nel-le doppie imposizioni stipulate tra Stati, al fine di ottenere vantaggi in ambito tributario. Tali pratiche sono comunemente conosciute con il termine treaty shopping13.

Attraverso l’utilizzo strumentale delle disposizioni convenzionali, in ambito fiscale è possibile sfrutta-re le clausole volte ad eliminasfrutta-re potenziali fenomeni di doppia imposizione, per ottenesfrutta-re la riduzione (o addirittura l’eliminazione) della pressione impositiva, generalmente ai danni del Paese della “fon-te”. In sostanza, le pratiche di “treaty shopping” comportano una violazione “indiretta” delle clausole della Convenzione, poiché al rispetto formale della norma si accompagna la violazione sostanziale del-lo “spirito del trattato”.

Generalmente, un’operazione di “treaty shopping” è il risultato di un processo logico che si sostanzia nelle seguenti fasi:

a) identificazione del target (rappresentato dal risparmio d’imposta da ottenere);

b) sviluppo di una serie di ipotesi alternative per lo sfruttamento delle norme convenzionali relative ai flussi di reddito individuati;

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17 c) definizione della struttura ottimale per il caso specifico, che consenta di ottenere il maggior vantag-gio, assumendo il minor “rischio fiscale”.

Di solito, le pratiche di treaty shopping vengono realizzate abusando delle clausole convenzionali che disciplinano la tassazione transfrontaliera dei c.d. “passive income” (royalties, interessi, dividendi), la nozione di residenza e stabile organizzazione e la concessione di crediti d’imposta figurativi (in base alla c.d. “tax sparing clause”).

Una pratica di treaty shopping utilizzata da diversi istituti di credito per ottenere il rimborso delle rite-nute applicate sui dividendi in uscita è stata oggetto di complessi accertamenti operati dall’Amministrazione finanziaria. Difatti, è stato scoperto che i detentori di titoli azionari in alcune imprese italiane, non legittimati a richiedere il rimborso del credito d’imposta derivante dall’applicazione delle ritenute sui dividendi in uscita, secondo una pratica comunemente definita “di-vidend washing”, a ridosso dello stacco dei di“di-videndi cedevano i titoli medesimi a banche residenti in Paesi che avevano sottoscritto con l’Italia un vantaggioso Trattato contro le doppie imposizioni, salvo poi riacquistarli, a seguito dell’erogazione dei dividendi, secondo uno schema giudicato privo di “vali-de ragioni economiche”, in quanto finalizzato esclusivamente a poter acce“vali-dere a benefici convenziona-li, altrimenti non spettanti.

Il più classico schema abusivo si realizza cercando di ovviare all’assenza di una Convenzione tra due Stati sfruttando un regime fiscale vantaggioso contro la doppia imposizione (ad esempio, in presenza di ritenute ridotte su dividendi, interessi e royalties) esistente fra il Paese della fonte e un terzo Stato, mediante l’inserimento di un ulteriore soggetto economico, denominato società “conduit”, ivi residen-te, affinché questo possa usufruire di tale regime fiscale agevolato, trasferendo successivamente i maggiori profitti ottenuti al soggetto economico “beneficiario effettivo” finale, sotto forma di rispar-mio d’imposta.

In questo modo, viene garantita al beneficiario effettivo la percezione di un reddito gravato da un’imposizione fiscale più bassa di quella che avrebbe ottenuto qualora il flusso reddituale non fosse stato “mediato”. In questo caso, la società interposta viene comunemente definita “direct conduit com-pany”.

Per fare un esempio pratico supponiamo che, tra lo Stato A, sede della società fonte dei dividendi, e lo Stato B, sede della società beneficiaria effettiva degli stessi, non sia stata stipulata alcuna convenzione contro le doppie imposizioni, per tanto i dividendi pari a 100 vengono assoggettati ad una ritenuta or-dinaria del 30%, di conseguenza i dividendi netti percepiti dalla società beneficiaria sono pari a 70. Diversamente, interponendo una società “conduit” localizzata nel Paese “C”, che ha stipulato un van-taggioso trattato con entrambi gli Stati coinvolti, nel Paese della fonte i dividendi possono essere tassa-ti al 5% e subiscono un’ulteriore tassazione (con ritenuta del 10%) nel Paese di residenza della società interposta, con distribuzione al beneficiario effettivo di un dividendo netto pari a 85,5.

Ancora più articolata appare la struttura elusiva realizzata attraverso “stepping stone conduit compa-nies”, mediante l’interposizione di un’ulteriore impresa tra la società “fonte” e il beneficiario effettivo del “passive income”, riassunta di seguito.

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18 Allo schema sopra esposto, in questo caso, si aggiungere un’ulteriore società conduit localizzata nel Paese “D” che ha stipulato convenienti convenzioni sia con lo Stato dove ha sede la prima conduit company, sia con il Paese dove ha sede la società beneficiaria effettiva. Supponiamo che entrambe le convenzioni in questione prevedano la totale esenzione da ritenute per le royalties in uscita), il benefi-ciario effettivo riesce ad incassare un canone netto pari a 95, incrementando il risparmio d’imposta complessivamente ottenuto.

Per entrambe le pratiche di treaty shopping sopra descritte, appare legittima l’insoddisfazione dello Stato in cui è stabilita la società “fonte” “A”, che a fronte di una ritenuta ordinaria pari a 30, ne incassa una sensibilmente ridotta, pari a 5.

Nell’ipotesi di interposizione della “direct conduit company”, ottiene un vantaggio imprevisto lo Stato “C” in cui risiede quest’ultima, che incassa una ritenuta pari a 9,5, mentre risulta parimenti aggirato con l’utilizzo delle “stepping stone conduit companies”, dovendo riconoscere l’esenzione da ritenute in capo alla società “C”, in forza del Trattato sottoscritto con lo Stato “D”.

L’effettiva diffusione delle pratiche di treaty shopping è testimoniata dall’adozione da parte di nume-rosi gruppi multinazionali (specialmente statunitensi) di una pratica conosciuta con la denominazione “Double Irish with Dutch sandwich”, in ragione del contestuale impiego di ben due consociate con se-de in Irlanda (di cui una con stabile organizzazione in un paradiso fiscale) e un’ulteriore “conduit company” stabilita in Olanda, al fine di abbattere l’imposizione sui profitti generati fuori dai confini statunitensi.

Tale struttura di alta ingegneria fiscale sfrutta, contemporaneamente, i benefici fiscali offerti: • dall’Irlanda, in tema di tassazione dei redditi d’impresa, attualmente con aliquota del 12,5%; • dall’Olanda, che non applica ritenute sui passive income in uscita come le royalties;

• da paradisi fiscali come le Bermuda, dove i redditi conseguiti dalle società o stabili organizzazioni ivi localizzate risultano esenti da imposizione.

In sostanza, tale pratica elusiva prevede la stipula di un primo contratto di licenza avente ad oggetto le tecnologie di proprietà del gruppo, sottoscritto tra la capogruppo statunitense “A” e la società control-lata “S1” che ha sede legale in Irlanda e stabile organizzazione nell’arcipelago delle Bermuda, che prevede in capo alla cedente un corrispettivo non particolarmente elevato.

La società “S1” è quindi legittimata a vendere la tecnologia di proprietà della società “A” all’interno del mercato europeo, ma decide di sottoscrivere un contratto di sub-licenza con la società “S2” resi-dente in Olanda, la quale, a sua volta, gira la sub-licenza alla società “S3”, nuovamente stabilita in Ir-landa. Conseguentemente, sarà la società irlandese “S3” ad operare effettivamente sul mercato, attra-verso una struttura imprenditoriale dotata di mezzi e personale.

Quest’ultima, a fronte dei ricavi complessivamente conseguiti, sarà tenuta a riconoscere delle royalties passive alla società olandese “S2” e risulterà assoggettata a tassazione in Irlanda sul risultato economi-co economi-complessivo, economi-con aliquota partieconomi-colarmente vantaggiosa.

Le royalties pagate da “S3” ad “S2” non saranno assoggettate a ritenute in uscita, in forza della Con-venzione contro le doppie imposizioni in vigore tra l’Irlanda ed i Paesi Bassi.

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19 A sua volta, la consociata olandese “S2” provvederà, quale mera “conduit company”, a trasferire le royalties incassate dalla società “S3” alla stabile organizzazione della consociata “S1” sita alle Ber-muda, in cambio di una piccola commissione, tassata ad aliquota ordinaria in Olanda.

Anche in tal caso, le outbound royalties saranno esenti da ritenute, in ragione della mancata tassazione alla fonte di canoni ed interessi prevista dal sistema fiscale olandese.

Da ultimo, i proventi incassati dalla consociata “S1” non saranno assoggettati a tassazione in Irlanda (in quanto imputati alla sua stabile organizzazione), né alle Bermuda, dove è prevista la generale esen-zione per i redditi d’impresa.

Il principale punto debole di tale schema elusivo è rappresentato dalla concentrazione finale dei profit-ti generaprofit-ti dal gruppo all’estero, all’interno di società stabilite in paradisi fiscali, per cui si rende ne-cessario procedere all’effettuazione di ulteriori operazioni finanziarie al fine di far arrivare alla casa madre le disponibilità finanziarie esentasse, senza procedere all’erogazione di dividendi che risulte-rebbero tassabili negli Stati Uniti. Orbene, a tali fini le tecniche solitamente utilizzate sono:

• l’emissione di nuove azioni da parte della casa madre statunitense, acquistate dalla consociata stabili-ta nel paradiso fiscale, che le utilizzerà quale concambio per eventuali acquisizioni;

• l’acquisizione da parte della casa madre di partecipazioni in società terze, successivamente cedute alla consociata off-shore.

La complessità di tale schema di tax planning aggressivo (nel caso di specie, principalmente a danno degli Stati Uniti, ma anche degli altri Paesi in cui opera l’impresa multinazionale), il cui impiego è giustificato esclusivamente dalla generazione di evidenti vantaggi fiscali, dimostra quanto sia perico-losa in ambito internazionale la proliferazione di pratiche di treaty shopping.

Altro strumento molto utilizzato nell’ambito dell’International Tax Planning è, indubbiamente, costi-tuito dalle holding company, note anche con l’espressione di “società cassaforte”, in quanto il loro scopo primario consiste nella detenzione in portafoglio e nella gestione delle partecipazioni in società appartenenti al Gruppo. La diversa localizzazione di tali strutture societarie ha significative conse-guenze fiscali, in virtù sia dei rispettivi ordinamenti interni, sia delle convenzioni internazionali bilate-rali.

Dal punto di vista economico, l’acquisizione di partecipazioni rappresenta una modalità d’investimento non solo per i grandi gruppi societari, ma anche, specie di recente, per le piccole e me-die imprese. Lo scopo perseguito dall’investitore non risiede solo nel potenziale ottenimento del divi-dendo distribuito dalla “figlia” partecipata, ma anche nelle molteplici occasioni strategiche, soprattutto nel caso di partecipazione di maggioranza, tale da esercitare un’influenza sulle scelte e sugli indirizzi delle società controllate. Le interessenze societarie, infatti, possono produrre diversi effetti economici, quali, in particolare: la potenzialità di sviluppo (attraverso la realizzazione di un gruppo societario, quale conseguenza di un processo d’acquisizione di partecipazioni, si creano le premesse per successi-ve stabili relazioni intersocietarie), gli accordi negoziali tra imprese (si pensi alle joint successi-venture, ai patti di sindacato, ai contratti di collaborazione che sfociano, tradizionalmente, nell’acquisto reciproco di quote sociali), i benefici concorrenziali (l’ingresso nella compagine sociale d’altre imprese può essere

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20 finalizzato ad impedire l’accesso al mercato a potenziali concorrenti). La partecipazione al capitale di un’altra impresa produce, generalmente, in capo al possessore l’acquisizione dei redditi sotto forma di partecipazione al risultato economico (dividendi), ovvero, in alternativa, un accrescimento del valore della partecipazione stessa. Più precisamente, il dividendo viene monetizzato all’atto della distribuzio-ne degli utili da parte della società figlia, mentre l’accrescimento del valore della partecipaziodistribuzio-ne (co-siddetta plusvalenza o capital gain) si concretizzerà all’atto del suo trasferimento a terzi a titolo onero-so.

Il sorgere di redditi comporta la conseguente problematica della tassazione dei medesimi. Da qui l’emersione di importanti profili fiscali, oltre a quelli economici in precedenza esaminati. Le tematiche fiscali tipiche delle holding sono connesse proprio alle individuate tipologie di reddito, ossia dividendi e plusvalenze.

Nella gran parte dei sistemi fiscali è prevista una ritenuta alla fonte (withholding tax) sui dividendi di-stribuiti. Qualora il dividendo in entrata sia esente da imposta nello Stato del beneficiario, la ritenuta alla fonte applicata dallo Stato da cui proviene il flusso non è quasi mai deducibile e/o recuperabile, rappresentando a tutti gli effetti un costo pieno. La ritenuta alla fonte trova una forte limitazione nell’ambito delle convenzioni bilaterali contro la doppia imposizione. Ne deriva che lo Stato con la re-te di convenzioni più ampia, rappresenta quello più inre-teressanre-te per l’ubicazione di un’eventuale hol-ding beneficiaria di flussi di dividendi.

Analoghe argomentazioni possono essere formulate in materia di withholding tax sui dividendi in uscita. L’azionista della holding, infatti, ha il primario interesse, analogamente a qualsiasi azionista, ad incassare il proprio profitto attraverso la ricezione di dividendi. Ne deriva che sarà più appetibile il Paese in cui il flusso in uscita non subisca alcuna ritenuta, al fine di consentire all’azionista di ricevere un dividendo pieno.

Per quanto riguarda i capital gain, cioè la plusvalenza realizzata in occasione della vendita di un’attività finanziaria, quale una partecipazione detenuta in una società figlia, un regime fiscale, di-venta soddisfacente qualora la holding possa cedere le proprie partecipazioni realizzando la plusvalen-za senplusvalen-za alcun onere fiscale.

Il tax planning, conseguentemente, suggerisce di affidare la gestione delle partecipazioni con significa-tivi plusvalori latenti a holding ubicate in Paesi che offrano un regime fiscale agevolato in materia di cessioni di partecipazioni; in tal caso, infatti, in caso di realizzo, la holding non subirà l’eventuale pre-lievo fiscale sul capital gain realizzato. Inoltre, qualora la holding svolga anche attività imponibili, as-sume rilievo la possibilità di dedurre i costi collegati con il possesso delle partecipazioni e a queste inerenti14. Quindi l’utilizzo strategico, nell’ambito della pianificazione fiscale internazionale, di socie-tà holding consente di ottimizzare il carico fiscale complessivo. Sotto tale profilo, l’Olanda ed il

14Si pensi al caso dell’Olanda il cui ordinamento (come peraltro accade in Italia per le partecipazioni in regime

“PEX”, ai sensi dell’art. 109, comma 5, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, con riferimento alle spese e agli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi), prevede l’indeducibilità delle spese accessorie di ge-stione delle partecipazioni (ad esempio, costi relativi all’attività di controllo della legal entity di cui è stato ac-quistato il pacchetto azionario, ovvero spese accessorie sostenute per la cessione della partecipazione, come spe-se legali, notarili, amministrative).

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21 semburgo possono essere definiti come i “paradisi delle holding”, in quanto offrono regimi fiscali par-ticolarmente vantaggiosi, riferiti all’imposizione dei dividendi, alla ritenuta alla fonte da applicare ai dividendi ricevuti e distribuiti, all’esenzione da tassazione per le plusvalenze realizzate in seguito alla cessione di partecipazioni, alla deducibilità dei costi collegati al possesso delle partecipazioni.

Difatti una delle forme di tax planning più conveniente, specie per i grandi gruppi, è rappresentata dal cosiddetto “dutch sandwich”, ossia, alla lettera, “panino olandese”. Trattasi di una struttura societaria che consiste nel collocare una società holding madre in un Paese a fiscalità privilegiata e la società holding figlia in Olanda, controllata solitamente al 100 per cento dalla prima. La figlia olandese, a sua volta, controlla altre società operative collocate in Stati esteri. Attraverso tale struttura partecipativa, il cash flow operativo (ossia il profitto delle società controllate sparse nel mondo) non giunge diretta-mente al paradiso fiscale, ma transita attraverso un canale intermedio, l’Olanda appunto.

Una volta che i profitti raggiungono la meta ultima (ossia il paradiso fiscale), ha termine il ciclo di al-locazione dei flussi finanziari. Il fine perseguito è quello di beneficiare delle numerose e agevoli Con-venzioni stipulate dall’Olanda, così da incanalare i flussi attraverso percorsi fiscalmente meno onerosi. Lo scopo ultimo è quello di sfruttare, attraverso le reti convenzionali, la diversa qualificazione di un determinato reddito, ottenendo così l’esenzione o l’applicazione di aliquote inferiori.

Appare opportuno, rilevare, seppur brevemente, che il fenomeno in esame, di per sé lecito, potrebbe assumere profili patologici nel caso in cui la società interposta svolga la funzione di mera “conduit company”. Ci si riferisce, in particolare, a quei fenomeni, già visti sopra, definiti dalla dottrina tributa-ria internazionale con il termine di “abuso di Convenzione” attraverso i quali un soggetto, al fine di conseguire risparmi fiscali si avvale di un regime convenzionale a lui non spettante in considerazione della sua situazione soggettiva personale (treaty shopping), nonché della diversa qualificazione del reddito per il quale la Convenzione stessa si applica (rule shopping)15.

1.4 Contrasto all’aggressive tax planning in ambito OCSE

Nel febbraio 2013, l’OCSE ha pubblicato il rapporto “Addressing Base Erosion and Profit Shifting”, c.d. “Rapporto BEPS”, che evidenzia le principali questioni fiscali internazionali e suggerisce l’adozione di un piano di azione per contrastare il fenomeno dell’erosione della base imponibile me-diante il profit shifting.

Per Base Erosion and Profit Shifting (BEPS) si intende l'insieme di strategie di natura fiscale che talu-ne imprese pongono in essere per erodere la base imponibile (base erosion) e dunque sottrarre imposte al Fisco. La traslazione dei profitti (profit shifting) da Paesi ad alta imposizione a Paesi a tassazione nulla o ridotta è, di fatto, essa stessa una strategia che conduce all'erosione della base imponibile. Tali pratiche sono consentite: da strategie fiscali aggressive in contesti ad alto tasso di innovazione, digitalizzazione e globalizzazione; dalla rigidità dei sistemi fiscali a fronte di una estrema flessibilità dei redditi di impresa; dalla possibilità di scindere l'imposizione delle fonti reddituali dalle attività

15Treaty shopping: abuso del diritto convenzionale mediante pratiche di aggressive tax planning, di Fabio

Anto-nacchio, in “Il fisco” n. 31 del 2 settembre 2013. Le holding europee quale strumento di pianificazione fiscale internazionale, di Marco Thione e Marco Bargagli, in “Il fisco” n. 34 del 19 settembre 2011. Profit shifting attra-verso operazioni di triangolazione internazionale di Fabio Antonacchio in “Il fisco” n. 46 del 16 dicembre 2013.

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22 economiche che le generano; dall'assenza di coordinamento e dalla presenza di asimmetrie tra i diversi regimi fiscali nazionali, ad esempio in termini di un difforme trattamento (a fini fiscali) delle compo-nenti di bilancio di impresa (interessi, dividendi, ecc.) e di una valutazione non uniforme delle voci reddituali associate a transazioni intragruppo e non16.

Il piano d’azione suggerito dal c.d. rapporto BEPS ossia l’“Action plan on Base Erosion and profit Shifting”, è stato emanato in data 19 luglio 2013, ed identifica quindici specifiche azioni dirette a for-nire ai Governi gli strumenti, sia nazionali che internazionali, necessari per contrastare il fenomeno dell’erosione della base imponibile mediante il profit shifting.

1.4.1 Il rapporto BEPS

Dal rapporto “Addressing Base Erosion and Profit Shifting” emerge come i principi accolti a livello internazionale derivanti dalle best practices dei diversi ordinamenti, non siano stati in grado di seguire i significativi cambiamenti che hanno interessato, soprattutto negli ultimi anni, l’economia. In partico-lare l’interazione tra ordinamenti fiscali di diversi Paesi caratterizzati da norme fiscali internazionali, che sono principalmente espressione di una c.d. “economia di vecchio stampo”, e che quindi non ap-paiono più rispondenti ad una realtà che risulta fortemente caratterizzata da un alto livello di integra-zione economica transfrontaliera, essendo poco inclini a disciplinare fenomeni in cui sono coinvolti contribuenti globali, determina situazioni in cui i contribuenti possono eliminare o ridurre significati-vamente il livello d’imposizione con modalità non conformi agli obiettivi delle norme e dei principi di fiscalità internazionale. L’obiettivo dell’OCSE è di illustrare le problematiche riguardanti l’erosione della base imponibile mediante il profit shifting, che determinate tipologie di strutture fiscali e/o ope-razioni possono creare.

Secondo il Rapporto BEPS, per un’impresa multinazionale, la competitività implica la capacità di vendere “the best products at the best price”, con l’obiettivo di aumentare profitti e il “shareholder va-lue”. A tal fine, è naturale che le imprese tendano a localizzare i propri investimenti laddove la reddi-tività risulti essere più alta: il livello di tassazione, i principi che caratterizzano il sistema fiscale di un determinato Paese e le modalità attraverso cui le Amministrazioni fiscali operano rappresentano uno dei fattori in grado di influenzare sia la redditività di un’impresa sia le decisioni di investimento della stessa.

Il Rapporto BEPS precisa che ogni struttura fiscale avente l’obiettivo di erodere la base imponibile si avvale di una serie coordinata di strategie. L’analisi delle diverse strutture fiscali esistenti, ha eviden-ziato che la tendenza generale è quella di associare i profitti ad operazioni riguardanti “intangible rights and obligations”; e che nonostante le strategie di pianificazione fiscale siano legittime e rispet-tino formalmente le norme e i principi fiscali esistenti, l’obiettivo complessivo potrebbe consistere nell’erosione della base imponibile degli Stati, secondo modalità contrastanti con lo spirito della legge. Il Rapporto BEPS offre un’overview degli sviluppi registratisi a livello globale in tema di tassazione del reddito delle persone giuridiche attraverso un’analisi:

- dei principi-chiave che costituiscono il fondamento della tassazione delle attività transfrontaliere;

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