• Non ci sono risultati.

Parere sul d.d.l. recante:

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "Parere sul d.d.l. recante:"

Copied!
33
0
0

Testo completo

(1)

Parere sul d.d.l. recante:

“Responsabilità disciplinare e incompatibilità del magistrato”.

Il Consiglio Superiore della Magistratura, nella seduta del 19 luglio 1988, ha deliberato di approvare il seguente parere:

“PREMESSA

Il Consiglio considera con particolare soddisfazione la presentazione di un nuovo disegno di legge su una materia così importante e delicata come quella del sistema disciplinare; e ciò a maggior ragione ove si consideri che il d.d.l. in esame tiene conto, per molti aspetti, del precedente parere del Consiglio Superiore e del dibattito di questi anni e quindi è, nel suo complesso, assai più soddisfacente di quelli presentati nel passato, specialmente per quanto riguarda la normativa di carattere sostanziale.

Il tema del processo disciplinare è divenuto ormai indifferibile, perchè l'esigenza di una garanzia reale del corretto funzionamento dell'attività giurisdizionale è fortemente sentita ed auspicata da tutti i cittadini e perchè, d'altro lato, la normativa vigente è del tutto insufficiente ed inadeguata, impostata com'è su una struttura tipica da disciplina di ordinamento interno piuttosto che su un apparato strumentale funzionale a garantire prima di tutto e soprattutto la collettività.

E' in questa prospettiva che appare davvero utile e opportuno che venga approvato al più presto un provvedimento di legge che riordini la materia, togliendole qualsiasi impalcatura da giurisdizione "interna", colmandone le lacune, rafforzandone l'efficacia, ed attribuendole quel connotato pubblicistico che è il presupposto fondamentale perchè il sistema possa funzionare come reale garanzia di buon andamento e di corretto funzionamento della giurisdizione.

In una prospettiva del genere, dovrebbe prendersi atto dell'ormai compiuto distacco del procedimento disciplinare in esame, anche per le sue caratteristiche tipiche, rispetto al sistema vigente per il pubblico impiego.

Va detto peraltro che, ancora una volta, il rafforzamento di un apparato di tipo repressivo non può essere sufficiente da solo a sciogliere alcuni nodi di

(2)

fondo, anche se non va sottaciuto che un sistema repressivo efficace ha, in sè, tutti i presupposti anche per un'efficace funzione intimidatrice e dunque prevenzionale.

Il problema è peraltro più vasto e riguarda la responsabilizzazione del magistrato, intesa nel senso più ampio e complesso. La responsabilizzazione, prima che su misure di carattere sanzionatorio o riparatorio, si fonda su sistemi in grado di funzionare al meglio e di fornire adeguate risposte alla crescente domanda di giustizia.

Nel precedente parere, il Consiglio Superiore rilevava in premessa che i presupposti per un discorso serio e razionale di responsabilizzazione e di responsabilità consistono nella complessiva efficienza degli uffici giudiziari, nell'efficienza del sistema processuale civile e penale, nell'adeguatezza dei sistemi di reclutamento, di preparazionme e di aggiornamento continuo della professionalità. Tale impostazione è ancora oggi attuale. Il Consiglio, dunque, non può non cogliere questa occasione per ribadire l'esigenza, assoluta ed urgente, di riforma del sistema giudiziario, delle strutture, dell'ordinamento così come dei codici di rito; ciò consentirà, oltretutto, la formazione di una nuova figura di giudice, non solo dotato di quella terzietà che deve contraddistinguerlo, ma anche assistito da quella professionalità che è presupposto fondamentale di ogni principio di corretto funzionamento e di responsabilizzazione.

Solo in questo contesto, un sistema disciplinare riformato potrà funzionare appieno e fornire ulteriori garanzie ai cittadini. E dunque, nell'apprezzare lo sforzo di riformare un sistema largamente insoddisfacente, va giustamente ribadita l'esigenza che tutte le riforme necessarie procedano di conserva, proprio per poter dispiegare - ciascuna e tutte assieme - le proprie potenzialità.

Alla luce di questa premessa, e riprendendo il discorso appena accennato all'inizio, può essere subito chiarito che il presente parere può essere assai più rapido e sommario del precedente, proprio perchè, di quello, diversi spunti e rilievi sono stati accolti ed il sistema che si va delineando appare nel suo complesso idoneo ad assolvere alla funzione pubblicistica che deve essergli attribuita.

(3)

Il parere attuale sarà quindi concentrato solo attorno alle questioni tuttora aperte o a quelle sulle quali più vivo è il dissenso o più sensibili sono le perplessità manifestate in Consiglio.

Poichè il d.d.l. è articolato in tre capi, in gran parte autonomi fra loro, il parere ne seguirà l'andamento, salvo riservare ad alcune questioni per così dire "trasversali" una trattazione unitaria.

Capo primo (disposizioni generali). Art. 1.

Il d.d.l. non ribadisce esplicitamente, come si è fatto in altri disegni o progetti di legge, princìpi fondamentali come quello di legalità o quello di insindacabilità del contenuto degli atti giudiziari. Di ciò viene data, nella relazione, una spiegazione che solo in parte può essere ritenuta soddisfacente.

Ancorchè si tratti di principi generali e in certo modo recepiti dalla stessa normativa costituzionale, il ribadirli all'inizio di un testo legislativo così importante assumerebbe un significato che non può e non deve essere sottovalutato. Il Consiglio riterrebbe preferibile, in definitiva, che le disposizioni generali iniziassero proprio con la solenne formulazione dei due princìpi in questione, che del resto influenzano ed illuminano l'intero articolato.

La proclamazione esplicita dei doveri fondamentali del magistrato così come formulata appare invece pienamente accettabile, anche come premessa alla tipicizzazione, finalmente realizzata con opportuna sostituzione alla formula generica ed in definitiva vuota dell'art. 18 del D.L.T. 31.5.46 n.511, delle precise indicazioni contenute negli articoli 2-3-4 del d.d.l.. Un rilievo è stato formulato da diversi consiglieri per ciò che attiene alla esclusione dall'ambito dei doveri elencati nel primo paragrafo dell'articolo uno del riferimento alla indipendenza. E' stato obiettato che si tratta di concetto che è alla base di tutto il sistema, anche per precise indicazioni costituzionali;

ma i sostenitori della tesi acennata hanno obiettato che riaffermarlo in questa sede non sarebbe pleonastico ed attribuirebbe un valore più completo ad una elencazione che, per riferirsi perfino al riserbo, dovrebbe essere omnicomprensiva e non escludere proprio il richiamo al fondamento dell'intero sistema.

(4)

Secondo alcuni Consiglieri, l'introduzione di tale parametro ulteriore dovrebbe riflettersi anche nella previsione esplicita degli illeciti ad esso ricollegabili (ad esempio prevedendo come illecito autonomo il collegamento con centri di potere che perseguano finalità antiistituzionali).

A riguardo dell'art. 1 e in particolare del comma 2, si osserva che alla formula "in ogni atto di esercizio dei poteri", che appare in qualche modo imprecisa o equivoca, si dovrebbe sostituire quella, più corretta, "nell'attività giudiziaria". Si osserva, altresì, che l'intero comma 4 appare inutilmente ripetitivo e potrebbe prestarsi ad equivoci che è opportuno evitare, stante la chiara formulazione degli articoli successivi e quanto si dirà appresso circa la norma di chiusura.

Art. 2. (Illeciti disciplinari nell'esercizio delle sue funzioni).

Più complessa è comunque la tematica relativa all'art. 2, in ordine al quale sono emerse varie questioni. Anzitutto, correlando alcune previsioni della norma e in particolare quelle contenute nella lettera b) al titolo, si avrebbe il risultato di escludere dall'ambito dell'illecito disciplinare una serie di comportamenti analoghi a quelli ipotizzati ma suscettibili di essere tenuti anche al di fuori dell'esercizio delle funzioni. Sotto questo profilo, occorrerebbe raccordare meglio la disciplina dell'art. 2 con quella dell'art. 3 e viceversa.

Diversi consiglieri hanno poi fatto rilevare che non si vede in che modo l'interferenza nell'attività giudiziaria di altro magistrato possa rilevare sul piano disciplinare quando è realizzata mediante l'esercizio delle funzioni, a meno che si traduca in abuso o arbitrarietà; al tempo stesso, la connotazione di

"gravità" della interferenza sembra ingiustificata, non dovendosi essa considerare come elemento integrativo della fattispecie disciplinare. Si è parimenti rilevato che è inaccettabile l'idea che costituisca illecito disciplinare l'assenza di motivazione per qualsiasi tipo di provvedimento; il fatto dovrebbe essere qualificato, in un certo qual modo, con riferimento ad ipotesi di particolare gravità o a determinati tipi di provvedimento, per distinguerlo dalle ipotesi in cui la mancanza di motivazione è sostanzialmente priva di rilievo.

Non a caso, nel precedente d.d.l., questa previsione era limitata ai

(5)

provvedimenti "abnormi", adottati nell'ambito di procedimenti cautelari.

Tuttavia, si tratta fin qui di questioni accessorie, rispetto ai più cons istenti rilievi di cui si dirà appresso circa la definizione, sul piano dell'illecito disciplinare, dei comportamenti direttamente collegati all'esercizio dell'attività giurisdizionale.

Nel dibattito consiliare sono emerse diverse perplessità circa l'opportunità di considerare fra gli illeciti disciplinari anche i fatti che costituirebbero reato, quali ad esempio "i comportamenti tenuti allo scopo di arrecare illegittimo danno o vantaggio ad una delle parti" (art. 2 lettera A) oppure "il manifesto perseguimento di fini diversi da quelli di giustizia" (art. 2 lettera C), ecc.. In realtà, non sono certo molti i comportamenti del tipo suindicato, suscettibili di restare al di fuori dell'ambito della responsabilità penale; tuttavia poichè ve ne sono (ed alcuni consiglieri hanno fatto esplicito riferimento anche ad ipotesi di comportamento in cui il fatto non sia punibile per difetto di uno degli estremi del reato o di una condizione di punibilità), la formulazione del d.d.l. non dovrebbe dar luogo, secondo molti consiglieri, a particolari inconvenienti ed anzi dovrebbe risultare sostanzialmente più completa.

Ulteriori perplessità vengono espresse per ciò che attiene alla indicazione di comportamenti illeciti che appaiono strettamente o direttamente collegati all'esercizio dell'attività giurisdizionale e che pertanto si pongono o si possono porre in contrasto col principio di insindacabilità degli atti giurisdizionali, certamente valido anche in sede disciplinare. E' il caso di alcune ipotesi contenute nell'articolo 2 lettera C) (grave disapplicazione di legge dovuta ad assoluta mancanza di diligenza; manifesto perseguimento di fini diversi da quelli di giustizia; emissione di provvedimenti privi di motivazione). La possibilità di prendere in considerazione atti di carattere giurisdizionale dovrebbe essere riservata solo a casi veramente estremi ed eccezionali e talmente evidenti da escludere ogni possibilità di sindacato sul contenuto o comunque sul merito dei provvedimenti. Altrimenti, attraverso l'indagine di natura disciplinare potrebbero passare inammissibili attentati alla stessa indipendenza del magistrato o comunque alle valutazioni da lui compiute nell'ambito della sua funzione, per le quali il rimedio previsto, ove esse siano errate, resta pur sempre quello delle impugnazioni. Di conseguenza, parrebbe

(6)

opportuno: 1°) riprodurre anche in questa sede la formula contenuta nel secondo paragrafo dell'articolo 2 della legge 13 aprile '88 n. 117; 2°) non allontanarsi, nella dizione della prima parte dell'articolo 2 lettera C), dalla ipotesi espressamente configurata come colpa grave nell'articolo 2 comma 3 della predetta legge, anche per una maggiore coerenza del sistema della responsabilità, complessivamente considerato.

Infine, si rileva: a) che la disciplina relativa alla violazione dell'obbligo di residenza (art. 2, lettera c) è ancora piuttosto incongruente, non apparendo in definitiva sciolte le perplessità espresse dal Consiglio nel precedente parere (in relazione all'art. 3 lettera e) del d.d.l. allora considerato), anche in relazione al difetto di un'appagante disciplina sostanziale; b) che nell'art. 2, lettera d), la formula relativa all'abituale esenzione dal lavoro giudiziario da parte dei dirigenti di ufficio o presidenti di sezione o collegio e dovrebbe essere meglio specificata con l'aggiunta dell'aggettivo "ingiustificata". Secondo alcuni Consiglieri, dovrebbe essere specificamente prevista tra gli illeciti disciplinari, la violazione dell'obbligo di lealtà (inteso come dovere di riferimento di circostanze veritiere in occasione di autorelazioni, comunicazioni personali, ecc.) nei rapporti con i dirigenti degli uffici, con i titolari del potere di vigilanza, con il Consiglio Giudiziario e con il C.S.M., mentre nell'ambito del dovere di correttezza dovrebbe comprendersi l'obbligo di adeguarsi ai provvedimenti del C.S.M. volti al raggiungimento del fine della migliore funzionalità del servizio. Mentre alcuni Consiglieri manifestano netta contrarietà a tali innovazioni, la maggioranza ritiene comunque esauriente l'elencazione formulata nel disegno di legge e pleonastica ogni ulteriore indicazione, tenuto conto anche dell'esistenza di una norma di chiusura.

E' stato inoltre osservato da diversi consiglieri che l'obbligo gravante sui dirigenti degli uffici di riferire su ogni fatto che denoti violazione dell'obbligo di dirigenza appare eccessivo se non correlato alla possibilità di operare valutazioni sulla gravità o sulla giustificabilità dei fatti stessi.

Il d.d.l., all'ipotesi di una generale formula di chiusura, sostituisce, per ciò che attiene agli illeciti disciplinari realizzati nell'esercizio delle funzioni, una norma di chiusura per ogni paragrafo, correlata alla violazione dei doveri specifici (imparzialità, correttezza, ecc.). Mentre si concorda sulla necessità di una norma di chiusura, che consenta di non restringere i casi di illecito

(7)

disciplinare a quelli già espressamente previsti, si ribadisce tuttavia la necessità di rispetto del principio di legalità e l'esigenza che la norma di chiusura non finisca per essere così generica da apparire omnicomprensiva, sostanzialmente vanificando il sistema di tipicizzazione che oggi si cerca di introdurre. Sotto questo profilo, apparirebbe più congruo e tranquillante sostituire alla generica formula collocata nel d.d.l. al termine di ogni "lettera" e collegata ai singoli doveri, una formulazione conclusiva del tipo di quella che era contenuta nel precedente parere del Consiglio ("ogni altro comportamento analogo a quelli sopra descritti ed ugualmente in contrasto con le esigenze della funzione e del servizio giudiziario"). Questa formula, solo apparentemente generica, appare in realtà ancorata a dati obiettivi più tranquillizzanti (in particolare, basati sull'aggettivo "analogo" e sull'avverbio

"ugualmente"). Del resto, adottando una siffatta formula conclusiva, il testo diventerebbe più armonico, visto che per gli altri illeciti disciplinari è prevista una formula di chiusura conclusiva, sulla quale il Consiglio sostanzialmente concorda, con un solo rilievo, sempre per evitare che la formula resti troppo vaga e generica: anche qui va aggiunto un parametro oggettivo meglio definito;

a tal fine basterebbe aggiungere, dopo la parola "comportamento", l'espressione

"analogo a quelli sopra descritti", tenendo poi fermo il resto.

Art. 3. (Illeciti disciplinari al di fuori delle funzioni).

La lettera d) dell'art. 3, concerne un problema di estrema delicatezza, inerente all'esigenza di contemperamento di valori costituzionali di pari livello.

Si osserva che la tematica fu già affrontata con particolare ampiezza e rigore nel precedente parere e le conclusioni di quell'importante dibattito, a riguardo dell'art. 4 del d.d.l. di allora, restano tuttora valide e di vivissima attualità.

Secondo la maggioranza dei consiglieri, la formula oggi proposta appare ancora troppo estesa e generica per ciò che attiene al contenuto essenziale del comportamento.

In sostanza, al giudizio di mera idoneità (astratta?) del comportamento, si dovrebbe sostituire una valutazione più concreta e pregnante, e più correlata all'effettiva incidenza del comportamento stesso. Alcuni consiglieri considerano invece accettabile la nuova formulazione, ritenendola anche più

(8)

adeguata di quella proposta dal precedente Consiglio, che votò all'unanimità il relativo parere, in quanto fa opportunamente riferimento alla obiettiva idoneità del comportamento tenuto dal magistrato ad incidere sulla serenità ed indipendenza di giudizio dei titolari del processo, correttamente prescindendo dalle reazioni psicologiche di questi ultimi ed assumendo quale riferimento l'esercizio della giurisdizione in sè considerata. Per altri, invece, sarebbe assolutamente necessario eliminare il riferimento al pregiudizio della credibilità della funzione giudiziaria, in qualche modo insito in ogni espressione critica e quindi fuor di luogo in questa sede, in cui non è in discussione un bilanciamento fra il diritto di espressione del pensiero e la dignità dell'istituzione, ma solo fra quel diritto costituzionale e la garanzia, di eguale rango, dell'indipendenza del giudice.

Sempre in relazione all'art. 3, va formulata una annotazione pur marginale, qual'è quella che si riferisce all'impiego del termine "abuso" del primo comma, lettera a); a rigore, infatti, non occorre qualificare due volte l'illiceità del comportamento in esame, posto che in effetti il semplice "uso" (e in tal senso questa espressione andrebbe sostituita a quella del d.d.l.) della qualità di magistrato, con i fini indicati è e deve essere sufficiente ad integrare gli estremi dell'illecito disciplinare.

Anche qui va, tuttavia, registrata l'opinione espressa da qualche componente, secondo cui la formula dovrebbe essere mantenuta così come proposta.

Art. 5. (Sanzioni disciplinari).

A riguardo delle sanzioni, si è sostenuto da varie parti che tra di esse andrebbe introdotta anche la temporanea sospensione dalle funzioni e dallo stipendio (naturalmente fatta eccezione per la parte alimentare). Dovrebbe altresì essere chiarito che l'incapacità ad esercitare un incarico direttivo, prevista dalla lettera D) del primo paragrafo dell'articolo 5, si riferisce a tutti gli incarichi con funzioni direttive e non solo a quelli direttivi in senso stretto (in sostanza, la sanzione dovrebbe essere prevista anche per coloro che occupano i posti cosiddetti semi-direttivi). Quanto al primo rilievo, sembra in effetti che la gamma delle sanzioni potrebbe essere utilmente estesa, anche per

(9)

trovare più facile aderenza fra illecito e sanzione, in conformità, del resto, a quanto previsto per le altre categorie di impiegati o funzionari pubblici. Per il secondo, si tratta - in realtà - di un chiarimento assai utile perchè non vi sarebbe motivo di limitare quel tipo di sanzione solo a una parte di coloro che svolgono funzioni di natura direttiva.

Secondo alcuni Consiglieri, tuttavia, la incapacità ad esercitare incarichi direttivi sarebbe più conseguentemente prevista come pena accessoria, analogamente al trasferimento di ufficio.

Art. 6 e ss. (Sanzioni per determinati illeciti disciplinari).

Sulla corrispondenza tra sanzioni ed illeciti, mentre vi è totale consenso sull'introduzione di una disciplina così puntuale e penetrante, sono emerse alcune obiezioni su due punti:

a) non sempre, secondo alcuni, esiste una reale congruità della sanzione rispetto alla categoria di illeciti; in alcuni casi, vi sono illeciti disciplinari di notevole gravità per i quali si prevedono - in definitiva - sanzioni modeste. E ciò potrebbe essere opportunamente corretto.

Altri hanno invece rilevato (e l'obiezione vale anche per il punto successivo) che il sistema, così come previsto, è congruo, visto che la normativa fa sempre riferimento solo alle sanzioni minime e non al limite massimo.

b) La rimozione di diritto è sostanzialmente prevista solo per fatti per i quali vi è stata condanna penale o applicazione di pene accessorie; ma le ipotesi di rimozione di diritto - sempre secondo alcuni Consiglieri - dovrebbero essere estese anche ad altre fattispecie, almeno alle più gravi tra quelle previste nel testo. Altrimenti vi sarebbe uno squilibrio, anche in relazione ad ipotesi di interdizione temporanea che possono conseguire a reati di limitata gravità.

Non si ravvisano fondati motivi a sostegno della norma contenuta nel par. 8 dell'art. 5, nella parte relativa all'obbligo di trasmissione al Ministro anche di copia degli atti compiuti. Se è comprensibile la finalità che si persegue con la trasmissione dei provvedimenti e se è pacifico che ciò nulla toglie all'autonomia della Sezione Disciplinare, non si riesce invece a capire a cosa dovrebbe essere finalizzata la trasmissione degli "atti". Se essa dovesse

(10)

servire per una sorta di controllo sull'operato della Sezione Disciplinare, è chiaro che essa non potrebbe che essere considerata inammissibile; diversa sarebbe la situazione se si trattasse di rendere possibile l'esercizio del diritto di impugnazione; ma allora, occorrerebbe una chiara precisazione sul punto ed una più precisa definizione del contenuto dell'obbligo.

Art. 8. (Composizione della Sezione Disciplinare).

Quanto al procedimento, vi sono aspetti della parte generale che sono strettamente connessi con questioni che sono affrontate e risolte in altri capi, sicchè appare opportuno che esse vengano trattate unitariamente.

Va tuttavia rilevato fin d'ora che la disciplina di cui all'art. 8, comma 2 e 3, relativa alla composizione della Sezione Disciplinare appare frutto di erroneo riferimento al contenuto della legge 3.1.81 n. 1; essa dovrebbe invece essere adeguata alla legge 22 novembre 1985 n. 655 (art. 3), conseguente alle pronunce della Corte Costituzionale n. 86 e 87 del 1982.

Va altresì osservato che la composizione della Sezione Disciplinare è certamente pletorica e che, rispettate le indicazioni costituzionali, essa potrebbe essere utilmente ridotta. Non pochi hanno poi sottolineato l'opportunità di prevedere un numero di supplenti pari a quello dei componenti ordinari, sì da consentire in determinati casi (ad es. giudizio di rinvio) un completo mutamento di composizione della Sezione.

Art. 10. (Pubblico Ministero e istruttoria).

L'art. 10 riserva unicamente al Procuratore Generale lo svolgimento delle funzioni di pubblico ministero. Nel dibattito consiliare sul parere del 1984 su altro disegno di legge in materia, era stato proposto da alcune parti di attribuire questo potere anche al Ministro (attraverso suoi delegati), nel caso in cui l'azione disciplinare fosse stata promossa da lui. La questione è tuttora attuale ed è puntualmente riemersa anche nella discussione sul nuovo d.d.l.. In realtà, bisogna distinguere tra i poteri istruttori e i poteri di intervento nella fase dibattimentale. In linea di principio, infatti, è certamente da considerare l'utilità e la opportunità di togliere - per quanto possibile - al processo

(11)

disciplinare quel carattere "interno", quasi da giurisdizione domestica, che tradizionalmente lo ha contrassegnato.

Sotto questo profilo, un intervento più pregnante del Ministro nel procedimento, nei casi in cui l'azione sia stata da lui promossa, potrebbe certamente rispondere ad esigenze di carattere generale.

Ma la possibilità di raccogliere prove è considerata da diversi consiglieri con netto sfavore, a meno che si prospetti un sistema in certo qual modo analogo a quello del nuovo c.p.p. circa la inutizzabilità degli elementi "di prova" raccolti al di fuori delle normali garanzie. A fronte di possibili e non lievi inconvenienti, è prevalsa, nel dibattito consiliare, l'opinione che l'istruttoria debba essere condotta dal Procuratore Generale, ma che sia ipotizzabile un intervento di un rappresentante del Ministro in sede dibattimentale, a fianco del P.G. ed in funzione di sostegno dell'accusa. Ciò, in effetti, consentirebbe di ampliare il novero dei soggetti che partecipano al processo e ne sottolineerebbe il connotato spiccatamente pubblicistico di cui si è già detto, senza consentire il profilarsi di pericoli per l'indipendenza della Magistratura o anomalie sotto un profilo meramente procedurale.

All'obiezione che si tratterebbe di una figura sostanzialmente ibrida, non è stato difficile rispondere che in diversi sistemi processuali penalistici stranieri (ed ora in qualche modo anche nel nostro: v. art. 89 e segg. del progetto preliminare del c.p.p.) risultano già note forme di sostegno dell'accusa o comunque di partecipazione alla funzione giurisdizionale, in certa misura assimilabili all'antica figura dell'amicus curiae. Ovviamente, le richieste conclusive dovrebbero essere formulate solo dall'organo ufficiale di accusa, anche per evitare eventuali contraddizioni o comunque anomalie ulteriori.

Dalla formulazione dell'art. 10 deriva poi la conseguenza che l'istruttoria dovrebbe essere sempre sommaria. Una soluzione che appare condivisibile, anche se non va dimenticato che sono state, a suo tempo, avanzate altre proposte, miranti a prevedere due tipi di istruttoria (sommaria e formale) o a sostenere comunque l'opportunità, anzi la necessità, di istituire una sezione istruttoria del C.S.M., alla quale spetterebbe il compito di svolgere atti istruttori, oltrechè di provvedere sulle richieste di archiviazione. Il problema è di non poco momento ed ha dato luogo ad approfondito dibattito anche in sede dottrinaria. Converrà dunque trattarlo più specificamente in

(12)

relazione agli effetti della richiesta di archiviazione, all'unica ipotesi cioè in cui il problema si configuri come di particolare delicatezza e tale da richiedere approfondita meditazione. In tutti gli altri casi, la soluzione dell'istruttoria sommaria affidata al P.G. appare la più conseguente ed anche la più praticabile.

Quanto alla istruttoria formale, è da rilevare che essa è destinata a scomparire anche nel processo penale riformato; per cui sarebbe certamente inopportuno mantenerla in questa sede.

Che poi tutto ciò che si è detto comporti una diversa struttura della Procura Generale della Cassazione appare del tutto evidente. Il problema, però, non è solo di natura organizzativa interna e richiede, per essere risolto, una precisa definizione normativa che consenta, accanto ad un adeguamento della struttura complessiva della Procura Generale, la costituzione di una sezione specificamente destinata alle questioni disciplinari, ponendola in grado, con opportuni accorgimenti ed eventualmente con l'esplicita previsione di forme di rotazione, di affrontare con serio approfondimento e con la dovuta prontezza le complesse questioni che deriveranno dall'esercizio dell'azione disciplinare, dalle istruttorie e da una consapevole presenza nei giudizi, come sarà richiesto dalla nuova, più coerente e più impegnativa impostazione del sistema disciplinare.

Art. 11. (Te rmini).

Va poi rilevata - per ciò che attiene alla disciplina dei termini - una contraddizione tra la previsione dell'art. 11 comma 2 (obbligo di comunicazione del decreto entro sei mesi dall'inizio del procedimento) e ciò che si legge nella relazione, ove si fa riferimento al termine di un anno. In realtà, anche se si condivide l'esigenza di ridurre al minimo la durata del procedimento, occorre essere realisti; e sotto questo profilo, la previsione del termine di un anno appare più ragionevole e compatibile con le attuali strutture degli organismi preposti alle varie fasi del procedimento disciplinare. Quanto al comma 3, appare indispensabile un corretto coordinamento tra il suo contenuto e la previsione dell'art. 17 comma 1, anche per evitare squilibri e contraddizioni (nel primo caso, si parla di sentenze di proscioglimento, mentre nel secondo si fa riferimento al provvedimento di archiviazione).

(13)

In linea di principio, la maggior parte dei consiglieri ritiene che sarebbe preferibile attenersi al testo dell'art. 17.

Un problema è stato sollevato a proposito della "piena notizia del fatto" e della decorrenza dei termini per il titolare dell'azione disciplinare che non abbia avuto tale tempestiva notizia. Tra le soluzioni ipotizzabili, è apparsa a molti preferibile - nella comune convinzione che la materia debba comunque essere disciplinata espressamente - la soluzione che preveda un obbligo di comunicazione immediata tra i titolari dell'azione, non appena uno di essi abbia acquisito la "piena notizia del fatto". In tale ipotesi, è ovvio he il termine per il secondo decorrerebbe dal momento in cui gli è giunta tale comunicazione; ma ove l'obbligo venisse rispettato, si tratterebbe di una differenza temporale minima e tale da non produrre alcun inconveniente.

Da parte di alcuni consiglieri è stato avanzato il suggerimento di introdurre nell'art. 11, la previsione di un termine, ancorchè ampio, di prescrizione, per ovviare alla possibilità che a notevole distanza di tempo e per fini del tutto strumentali, vengano riproposte vicende ormai del tutto superate;

ciò, naturalmente, solo in relazione a fatti aventi esclusiva rilevanza disciplinare, lasciando quindi da parte qualunque ipotesi di fatto costituente reato.

Capo secondo (Il procedimento disciplinare).

Attenta considerazione deve riservarsi alle norme di carattere procedimentale, contenute nel capo II del d.d.l., che - ai fini dell'effettivo e corretto funzionamento del sistema disciplinare riformato - costituiscono il complemento essenziale delle previsioni di natura sostanziale.

A livello generale, sono stati apprezzati i richiami di principio, contenuti nella relazione, al nuovo codice di procedura penale in via di elaborazione, in ordine all'eliminazione dell'istruzione formale ed all'accentuazione del carattere di terzietà del giudice disciplinare.

E tuttavia, la Commissione ha ritenuto, con un'isolata eccezione, che non sia assolutamente praticabile la via rappresentata dal riferimento, sia pure nei limiti della "compatibilità", al nuovo codice di procedura penale in quanto la particolare strutturazione e composizione dell'organo decidente impedisce l'adozione anche di

(14)

quella che rappresenta l'idea fondamentale del nuovo codice, e cioè che la

"formazione" della prova avvenga nella fase dibattimentale, nel pieno contraddittorio di tutte le parti; di conseguenza è inevitabile la permanenza di una fase di istruzione sommaria, svolta dal Procuratore generale, sostanzialmente analoga a quella attuale, sia pure con l'eventuale introduzione di momenti di ulteriore "garanzia" del magistrato incolpato.

Ciò pone immediatamente il problema del richiamo, contenuto negli artt. 13 e 16, alle "norme relative all'istruzione ed al dibattimento dei procedimenti penali":

trattandosi infatti di rinvio non ricettizio, al momento dell'entrata in vigore del nuovo processo penale, verrebbe meno tutto l'impianto complessivo su cui si fonda l'attuale assetto del procedimento disciplinare, senza la possibilità di adattamento ai nuovi istituti e senza più validi termini di riferimento.

Ed allora, la Commissione ha ritenuto che si debba rappresentare al legislatore l'opportunità di una scelta tra una completa regolamentazione, ex novo, dell'aspetto processuale della disciplina e un rinvio ricettizio alle norme del codice di procedura penale vigente.

Tale prospettiva, ad avviso della Commissione, non deve stupire, sia perché esistono precedenti in tal senso sia perché il procedimento disciplinare ha delle caratteristiche proprie, del tutto singolari ed autonome, sicché non sempre pare consentito né ragionevole il richiamo alle stesse norme di un codice di procedura penale. Invero, in molti casi, sono molto maggiori gli elementi di differenziazione da quelli di affinità, anche nel nuovo disegno di legge, che non per nulla, nella parte oggetto di specifica regolamentazione, si ispira a modelli assai diversi da quelli del rito "accusatorio" ai quali invece far riferimento il nuovo codice di procedura penale.

Art. 12. (Esercizio dell'azione disciplinare e inizio del procedimento).

In ordine al le singole disposizioni del capo II del d.d.l., il Consiglio rileva anzitutto l'opportunità che sia chiarita la competenza ad effettuare la comunicazione al C.S.M. dell'esercizio dell'azione disciplinare nelle diverse ipotesi di cui ai commi 1 e 2 dell'art. 12 ed in particolare in quella del 1° comma concernente l'azione disciplinare promossa dal Ministro di grazia e giustizia.

Opportuno sarebbe poi precisare anche il contenuto della comunicazione al Consiglio che dovrebbe comprendere, quanto meno, la sommaria descrizione della

(15)

condotta che si addebita all'incolpato: e ciò per consentire il successivo controllo sulla tempestività o meno dell'esercizio dell'azione disciplinare in relazione ai fatti portati a conoscenza del titolare dell'azione stessa.

Quanto al comma 3 dello stesso articolo, risulta delineato un obbligo di rapporto dai contorni particolarmente ampi e rigidi (specie in relazione al momento sanzionatorio di cui all'art. 2, c. 1, lett. "f", ove l'omissione è qualificata a sua volta come illecito disciplinare).

Il concetto di "fatto suscettibile di valutazione in sede disciplinare", dal quale deriva l'obbligo di rapporto, infatti, limita fortemente gli spazi valutativi dei soggetti tenuti alla comunicazione e meglio potrebbe essere espresso con la formula "illecito disciplinare", in definitiva analoga alla previsione dell'art. 2 c.p.p. (che parla di

"reato").

Mentre ciò appare condivisibile riguardo ai titolari del generale potere-dovere di sorveglianza, risulta più discutibile, nella sua tassativi tà, per quanto concerne i presidenti di collegi e sezioni, cui preclude quel margine di discrezionalità - circa le fattispecie più sfumate o meno rilevanti - ch'è fisiologico per il buon funzionamento di qualsiasi ufficio od organo collegiale, ove sarebbe invece corretto tendere alla diminuzione della conflittualità interna, in conformità al principio di buona amministrazione di cui all'art. 97 della Costituzione. Sotto questo profilo, si potrebbe ipotizzare una differenziazione tra i destinatari dell'obbligo di comunicazione, che, per i presidenti di sezione e di collegio, potrebbero essere i titolari del dovere di vigilanza anziché direttamente il C.S.M..

Ancora con riferimento alla disciplina dell'art. 12, può rilevarsi l'opportunità di far sempre coincidere l'inizio dell'azione disciplinare con il momento in cui ne viene data comunicazione al Consiglio Superiore: e ciò per evitare una concreta riduzione del termine concesso per il completamento della istruttoria quando l'iniziativa parta dal Ministro rispetto ai casi in cui sia invece il Procuratore generale a promuovere l'azione stessa.

Art. 16. (Discussione e decisione) e Art. 13. (Atti istruttori).

Circa la definizione del diritto di difesa dell'incolpato, si evidenzia come esso appaia limitato nella sua manifestazione più tipica, restando preclusa l'assistenza da parte di un avvocato. Nel mentre si delinea un procedimento

(16)

disciplinare più organico e completo rispetto al passato, sembra che il menzionato profilo sia meritevole d'attenzione, non tanto per le eventuali maggiori capacità ed esperienza difensive o la tendenzialmente maggiore indipendenza (anche psicologica) del difensore professionista sia nei confronti dell'assistito sia nei confronti dell'organo giudicante quanto in relazione alla struttura pubblicistica (e non più "interna") del processo disciplinare che costituisce anche una delle ragioni della sua giurisdizionalizzazione.

Anche la possibilità che nel giudizio disciplinare sia data lettura, ai sensi dell'art. 16, comma 4, di atti assunti in assenza di garanzie difensive si ritiene previsione da rettificarsi - perché non risulti lesiva dei diritti dell'incolpato - con la fissazione di adeguati criteri^ di valutazione e/o di limiti alla valenza probatoria di tali atti con l'unico fine -cui già sopra si accennava- che la "formazione" della prova avvenga, almeno nei limiti del possibile, con il contraddittorio del magistrato incolpato, com'é del resto stabilito in via generale e per apprezzabili motivi di civiltà giuridica, dal nuovo codice di procedura penale.

Per converso, sotto altra prospettiva, il divieto di applicazione - sia in istruttoria, sia in dibattimento - delle norme concernenti l'esercizio di poteri coercitivi nei confronti dell'imputato, dei testimoni, dei periti e degli interpreti è apparso a taluni componenti formulato in termini eccessivamente ampi. Può infatti configurarsi spesso l'utilità (e talora la necessità) di disporre di strumenti più penetranti, la cui previsione ben potrebbe conciliarsi con i caratteri del giudizio disciplinare: ad esempio - ed in particolare - ciò vale per l'accompagnamento coattivo, la cui combinazione con la previsione di sanzioni penali (art. 13, comma 3, e 16, comma 4) varrebbe ad assicurare effettività alla disciplina delle assunzioni probatorie, evitando situazioni di inammissibile privilegio per il magistrato incolpato.

Da altri si è obiettato che, non essendo la sezione disciplinare del C.S.M. una Autorità giudiziaria ai sensi dell'art. 13, comma 2° Cost., non sarebbe costituzionalmente corretta la previsione, in capo alla stessa, di un potere di restrizione della libertà personale: osservazione la cui fondatezza appare per la verità difficilmente contestabile ma che peraltro -secondo i sostenitori della tesi opposta- dovrebbe logicamente condurre anche alla illegittimità o, quanto meno, alla opinabilità di una sanzione penale ricollegata, ad esempio, alla falsità o alla reticenza di un testimone che non avrebbe neppure il dovere di presentarsi a deporre.

(17)

Sempre con riferimento alla disciplina dell'art. 13, e fin tanto che non entrerà in vigore il nuovo codice di procedura penale, pare quanto mai opportuna una esplicita regolamentazione del deposito degli atti della istruttoria svolta dal P.M., quanto meno nel caso che la stessa si conclud nel senso del proscioglimento istruttorio: infatti, data la non vincolatività di tale richiesta per la Sezione disciplinare, sembra necessario assicurare al magistrato incolpato la possibilità di conoscere gli atti prima che sugli stessi sia chiamata a pronunciarsi la Sezione Disciplinare. Come è noto, oscillante è stata ed è al riguardo la giurisprudenza della Sezione Disciplinare e della stessa Corte di Cassazione, per cui una esplicita statuizione, in un senso o nell'altro, servirebbe quanto meno a dirimere ogni dubbio.

Di eccessiva ampiezza pare si configuri poi - nelle sue modalità - la delegabilità degli atti istruttori, di cui al comma 4 dell'art. 13, a proposito dell'individuazione del magistrato delegato. L'indicazione, infatti, del solo ambito territoriale (distretto dove l'atto deve essere compiuto) e del requisito della maggiore anzianità del delegato rispetto al magistrato sottoposto a procedimento disciplinare comporta un'eccessiva vaghezza del criterio d'individuazione. Lo si potrebbe opportunamente integrare con indicazioni più specifiche, utili ad instaurare un automatismo nell'identificazione della competenza per l'espletamento delle rogatorie o, quantomeno, a ridurre il margine di discrezionalità nella scelta ad opera del pubblico ministero delegante, a beneficio dell'obiettività del sistema processuale.

Ma le maggiori preoccupazioni derivano dal combinato disposto degli artt. 13 e 16 comma 4: ed infatti, l'esplicita disciplina relativa alle letture consentite in dibattimento, anche di ufficio (e cioè senza il consenso delle parti), di tutta una serie di atti compiuti, in assenza di qualsiasi contraddittorio con l'incolpato e senza la presenza del suo difensore, dall'organo inquirente o, addirittura, da altri organi (ad esempio, ispettori ministeriali) rappresenta addirittura un regresso, sul piano delle garanzie difensive, rispetto alla situazione attuale, dove, ad esempio, per costante giurisprudenza, si procede in sede dibattimentale alla lettura delle deposizioni istruttorie, senza la citazione dei testimoni, solo in caso di consenso di tutte le parti.

Quanto alla fase della discussione e della decisione, taluni Consiglieri hanno rilevato che la "pubblicità" della stessa andrebbe affermata con forza, proprio in funzione della natura "pubblicistica" del procedimento disciplinare e, quindi, indipendentemente dal consenso o dal dissenso dell'interessato; da altri si è

(18)

osservato che la pubblicità della seduta è un diritto dell'incolpato ai sensi dell'art. 6 c.1 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo che testualmente stabilisce che "ogni persona ha diritto ad un'equa e pubblica udienza...al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta".

In quest'ottica, che è già stata fatta propria dalla Sezione disciplinare di questo Consiglio fin dalla sentenza 6 luglio 1985, non appare allora possibile che tale "diritto fondamentale" della persona possa venir compresso ad opera della sezione giudicante sia pure "a tutela della credibilità della funzione giudiziaria con riferimento ai fatti contestati e all'ufficio che l'incolpato occupa": di conseguenza, se l'incolpato chiede che la seduta sia pubblica, non sembra possibile negarglielo.

Non sono mancate peraltro delle perplessità in relazione a tutti quei casi in cui, nel corso della procedura disciplinare, siano stati acquisiti o si debbano acquisire o si debba far riferimento ad atti di procedimenti penali ancora sottoposti a segreto istruttorio. Si tratta di questione assai delicata su cui, prima ancora che in relazione ai procedimenti disciplinari, si sono registrate notevoli disparità di opinioni anche con riferimento alle fasi anteriori al dibattimento disciplinare, a cominciare dalla fase della (eventuale) inchiesta ministeriale o di prima commissione: e non vi è dubbio che proprio la pubblicità della fase dibattimentale è destinata ad accrescere le perplessità, sicché un chiarimento da parte del legislatore nella complessa materia sarebbe quanto mai auspicabile.

Frutto invece di mera svista è il comma 6 dell'articolo, in quanto la composizione numerica della Sezione disciplinare, quale è prevista dal disegno, rende impossibile l'ipotesi di una "parità di voti".

Art. 14. (Archiviazione).

In tema d'archiviazione, - a parte i dubbi circa l'opportunità dell'aggettivazione ("piena") a proposito della notizia del fatto rilevante ai sensi dell'art. 14 (nel quale dovrebbe in ogni caso rettificarsi il riferimento all'art. 10 che invece deve intendersi effettuato nei confronti dell'art. 11) - ritiene il Consiglio che meriti in primo luogo considerazione l'espressa previsione di un "provvedimento motivato" (art. 14, comma 1).

(19)

La formulazione della norma è tale da lasciare adito a dubbi circa l'organo destinatario della prescrizione, sintatticamente riferibile tanto al Ministro ed al Procuratore Generale richiedenti, quanto alla Sezione disciplinare che provvede.

E' pertanto auspicabile la puntualizzazione in sede normativa, ove dovrà compiutamente valutarsi l'opportunità di una almeno sommaria enunciazione delle ragioni per le quali l'organo richiedente non ritiene sussistenti i presupposti per promuovere l'azione disciplinare. Complementarmente, è pure ravvisabile l'esigenza della motivazione del provvedimento della Sezione, così nell'ipotesi in cui acceda alla richiesta, come in quella in cui ritenga di dover disporre l'inizio del procedimento.

A livello concettuale, peraltro, restano da chiarire i rapporti tra la previsione del comma 1 dell'art. 14, che si riferisce alle ipotesi in cui il Ministro o il P.G. ritengano insussistenti "i presupposti per promuovere l'azione", ed il successivo comma 2, che disciplina invece i casi di "esposti e denunce concernenti fatti che non corrispondono ad alcuno degli illeciti disciplinari di cui agli articoli 2 e 3": nel primo caso, l'archiviazione dovrà essere richiesta alla Sezione disciplinare;

nel secondo, potrà essere "direttamente" disposta dai titolari del potere di azione.

Si rileva, però, che i richiamati articoli 2 e 3 esauriscono tutte le ipotesi d'illeciti disciplinari non conseguenti a reati, comprese quelle atipiche, così che si dovrebbe concludere che, in definitiva, a parte i casi in cui si ritengano difettare i presupposti stessi dell'azione disciplinare e quelli in cui si sia in presenza di una "notizia qualificata" dalla fonte (C.S.M., Consigli giudiziari e dirigenti degli uffici) di segnalazione, l'esercizio dell'azione disciplinare sarebbe sempre facoltativo; ma che così non sia lo evidenzia la relazione al d.d.l. da cui si ricava chiaramente come l'intento del legislatore sia quello di consentire l'archiviazione diretta di tutti gli atti concernenti fattispecie che palesemente esulano dall'ambito disciplinare, riservando l'inoltro alla Sezione disciplinare della richiesta di archiviazione per le ipotesi astrattamente rapportabili a fattispecie disciplinarmente rilevanti o che presentino margini di opinabilità (fatta salva la particolare disciplina per le segnalazioni del C.S.M. e degli altri organi, di cui all'ultima parte dell'articolo).

In tale prospettiva, la norma necessita di un'accurata riformulazione.

(20)

Ciò posto, deve tuttavia evidenziarsi come la necessità di un provvedimento di archiviazione da parte della Sezione sia innovazione radicale, che introduce, come già segnalato dal parere del precedente Consiglio, connotati di obbligatorietà dell'azione disciplinare.

Ciò trova consenziente la maggioranza dei consiglieri, i quali ravvisano in tale scelta un corollario della sia pur parziale tipizzazione degli illeciti, una garanzia di eguaglianza di trattamento ed una conferma ulteriore del nuovo carattere eminentemente pubblicistico, che il sistema disciplinare viene ad assumere. Senza soffermarsi ulteriormente sul punto, basterà richiamare quanto scritto, con abbondanza di motivazioni, nel precedente parere, che concludeva con un apprezzamento sostanzialmente favorevole alle soluzioni oggi accolte dal d.d.l..

Una opposta valutazione è stata espressa da alcuni consiglieri. Essi hanno osservato che la innovazione implica una modificazione degli attuali equilibri tra facoltà del Ministro e del P.G. e poteri della Sezione Disciplinare: tanto da suscitare dubbi di legittimità costituzionale. E' sembrato loro, infatti, che la "facoltà"

di promuovere l'azione disciplinare, riservata al Ministro dall'art. 1O7 Cost., che già attualmente incontra un limite nella concorrente legittimazione del P.G., sarebbe sostanzialmente stravolta nel suo contenuto e nei suoi caratteri di politica discrezionalità dalla previsione da un lato dell'obbligo dello stesso P.G. di esperire l'azione disciplinare, dall'altro dal potere della Sezione Disciplinare di assoggettare a controllo le scelte eventualmente fatte nel senso del non esperimento dell'azione.

Nella stessa ottica essi hanno manifestato preoccupazione per la concentrazione di poteri, che l'innovazione realizza nel Consiglio e nella sua Sezione Disciplinare: nel nuovo assetto, infatti, la segnalazione disciplinare del Consiglio ed il controllo della Sezione Disciplinare (che del Consiglio è articolazione) sulle scelte del P.G.

realizzerebbero il cumulo tra quei poteri di iniziativa e di decisione, che l'art.1O7 Cost. sembra voler riservare ad organi ben distinti. Si tratterebbe di un cumulo di poteri, che nella specie non troverebbe giustificazione neppure nei vantaggi di una effettiva obbligatorietà della azione disciplinare: in realtà, nel sistema delineato dall'art.14, comma 1, del d.d.l., la Sezione Disciplinare non è affatto tenuta a pronunciarsi sulla richiesta di archiviazione del P.G., esternando le ragioni del suo accoglimento o del suo rigetto, ben potendo limitarsi a lasciar decorrere i novanta giorni utili per la formazione del silenzio-accoglimento là previsto; sicché la apparente introduzione di connotati di obbligatorietà dell'azione disciplinare

(21)

maschererebbe in realtà uno spostamento del momento discrezionale delle scelte in ordine al non esercizio dell'azione dal P.G. alla Sezione Disciplinare.

A tutto ciò la maggioranza composta dai fautori della tesi della obbligatorietà dell'azione disciplinare, sia pure limitatamente alla figura del P.G.

(non essendo invece neppure concepibile per il Ministro di Grazia e giustizia, che tutt'al più potrebbe essere chiamato a risponderne politicamente davanti al Parlamento attraverso l'obbligo di relazioni periodiche), ha opposto che non è concepibile, sopratutto in relazione ad un sistema disciplinare connotato da una forte, seppur incompleta, tipizzazione, l'inesistenza di una qualsiasi forma di controllo sull'esercizio dell'azione disciplinare anche e soprattutto perché una non corretta gestione della discrezionalità dell'iniziativa disciplinare costituirebbe veicolo di perdita della credibilità della magistratura presso i cittadini; e tale controllo non potrebbe competere ad altri che al C.S.M..

D'altro canto - si è osservato - i rischi connessi alla eccessiva concentrazione di poteri in capo ad un unico organo potrebbero essere attenuati mediante la previsione di una apposita Sezione istruttoria (composta di consiglieri non facenti parte della Sezione disciplinare), cui sarebbe demandato esclusivamente il compito di decidere (con provvedimento sempre motivato, essendo da bandire il criterio del silenzio-assenso) sulle richieste di archiviazione, nonché, eventualmente, sulle richieste di non luogo a procedere.

In questa prospettiva, diretta a rafforzare ulteriormente la obbligatorietà dell'azione disciplinare, si è da taluno adombrata la necessità che, anche nei casi in cui residuino margine di facoltatività da parte del P.G. quest'ultimo sia tenuto a riferire al C.S.M. con una relazione periodica; da altri si è però obbiettato, in proposito, che l'unico controllo ammissibile sull'operato di un organo facente parte dell'ordine giudiziario ed in relazione alle sue funzioni istituzionali è quello giurisdizionale.

Art. 15. (Chiusura dell'istruttoria).

Il disposto dell'art. 15 pone il problema, che però non esaurisce, dei rapporti tra i due titolari dell'azione disciplinare soprattutto nel caso in cui vi sia un dissenso tra gli stessi.

(22)

Può darsi infatti, ad esempio, che il Procuratore generale chieda il proscioglimento istruttorio dell'incolpato ed il Ministro non sia d'accordo; anzi, stando alla normativa che si propone, al Ministro non competerebbe neppure la conoscenza degli atti istruttori compiuti dal Procuratore generale e ciò pur essendo il titolare "principe" (secondo la Costituzione) dell'azione disciplinare.

E' evidente allora che si deve prevedere un meccanismo di raccordo o, quanto meno, di conoscenza che consenta al Ministro di intervenire nel procedimento facendo valere le sue ragioni: esso potrebbe consistere, ad esempio, nella comunicazione al Ministro delle richieste conclusive della Procura generale al termine della istruttoria, con contestuale invio allo stesso di copia degli atti, sì da consentirgli, in caso di richiesta di proscioglimento, di intervenire con proprie osservazioni prima della decisione della Sezione disciplinare e, in caso di richiesta di rinvio a giudizio, di formulare, a sua volta, ai sensi dell'art. 15 c. 2, le proprie richieste di "integrazione o modificazione della contestazione". In ogni caso, la disciplina proposta appare lacunosa e deve essere attentamente riesaminata, anche nella prospettiva, segnalata da alcuni componenti del Consiglio, di prevedere maggiori possibilità di intervento del Ministro (eventualmente attraverso l'Avvocatura dello Stato) nel procedimento disciplinare con specifico riferimento alla fase dibattimentale, ed anche, secondo alcuni, come eve ntuale autonomo potere di determinare, con una propria richiesta, il rinvio a giudizio dell'incolpato.

Art. 17. (Rapporto con altri giudizi).

Un vivace dibattito ha suscitato in Consiglio l'art. 17 di cui è balzata immediatamente in evidenza la mancanza di coordinamento con quanto disposto dall'art. 11, comma 3. Ed infatti, mentre quest'ultima stabilisce che il corso dei termini per il completamento dell'istruttoria disciplinare è sospeso se, per il medesimo fatto, viene iniziata l'azione penale e riprende a decorrere dal giorno "in cui è pronunciata nell'istruzione la sentenza di proscioglimento non più soggetta ad impugnazione o nel giudizio la sentenza irrevocabile o sia divenuto esecutivo il decreto di condanna", l'art. 17 prevede invece che, il procedimento disciplinare resti sospeso fino al "provvedimento di archiviazione o al passaggio in giudicato della sentenza".

(23)

Ora, a parte particolari di minor conto (come quelli relativi alla opportunità di meglio precisare il termine finale della sospensione: momento della pronuncia della sentenza di proscioglimento, momento del passaggio in giudicato, momento della emanazione della ordinanza di inammissibilità della impugnazione per motivi sopravvenuti), il legislatore deve operare una scelta tra la sospensione del procedimento disciplinare fin da quando a carico del magistrato si svolgono indagini preliminari (e fino almeno alla pronuncia del provvedimento di archiviazione) e la sospensione del processo solo a partire dal momento in cui egli assume la qualità di

"imputato" (e fino al momento in cui tale qualità viene meno).

Entrambe le soluzioni presentano degli aspetti positivi e degli aspetti negativi che sono stati puntualmente messi in luce dagli interventi nel dibattito consiliare.

Da un lato, a favore della prima soluzione (quella delineata nell'art. 17) è stata sottolineata l'inopportunità che un magistrato sia nello stesso tempo oggetto di indagine, per gli stessi fatti, da parte sia dell'Autorità giudiziaria penale sia degli organi titolari dell'azione disciplinare, quando poi le investigazioni della prima sono assai più pregnanti di quelle dei secondi anche per la possibilità di avvalersi di strumenti di indagine assai più incisivi di quelli di cui può disporre la Procura generale della Corte di Cassazione (v. ad esempio i mezzi di prova e di ricerca della prova che sono riservati esclusivamente all'Autorità giudiziaria come le perquisizioni personali e domiciliari, le intercettazioni telefoniche, etc.) e le relative statuizioni sono fornite di maggior "forza" tanto da vincolare (almeno in certi casi) le altre.

D'altro lato, si è opposto che tecnicamente non si ha inizio dell'azione penale fin tanto che non vi è l'assunzione della qualità di imputato ai sensi dell'art.

78, comma 1 c.p.p.; inoltre, sul piano pratico, appare preferibile limitare il più possibile i periodi di sospensione del procedimento disciplinare, data la lunghezza dei tempi che solitamente richiedono gli atti preliminari all'istruzione penale nei procedimenti in cui sono coinvolti i magistrati, sia per una certa "riluttanza"

psicologica degli inquirenti a riservare corsie "preferenziali" a procedimenti concernenti colleghi, sia per le maggiori difficoltà delle indagini, conseguenti, tra l'altro, allo spostamento della sedes competentiae che le rende obbiettivamente meno agevoli. Di qui l'opportunità di svolgere almeno, con la massima tempestività,

(24)

le attività di istruttoria disciplinare, sospendendole solo in caso di inizio dell'azione penale vera e propria.

V'è da aggiungere che, con il nuovo codice di procedura penale, data la soppressione della fase istruttoria e l'assunzione della qualità di imputato solo al termine della fase delle indagini preliminari e cioè al momento della archiviazione o del rinvio a giudizio, la seconda soluzione non pare più praticabile fino a che non si passi al dibattimento, a meno che non si estenda al procedimento disciplinare la norma contenuta nel 2o comma dell'art. 62 ("alle medesime persone -persona indiziata o a carico della quale si svolgono indagini preliminari- si estende ogni altra disposizione relativa all'imputato, salvo che sia diversamente stabilito") che è dettata esclusivamente per il processo penale.

Comunque, ad evitare che la difficoltà della scelta si traducano in un testo normativo equivoco, è bene che la scelta sia operata dal legislatore con estrema chiarezza sì da dissipare, fin dall'inizio, possibili dubbi interpretativi.

Quanto al secondo comma dell'art. 17, stando almeno alla lettera della legge, sarebbe stata riconosciuta autorità di cosa giudicata alla sentenza di

"proscioglimento": se ne dovrebbe dedurre che tale autorità spetterebbe anche alle sentenze istruttorie, e ciò in contrasto con una ormai consolidata tradizione che la riserva solo alle sentenze dibattimentali.

Non rinvenendosi nella relazione alcuna spiegazione al riguardo, v'è da presumere che non si sia trattato di una deliberata scelta innovatrice, che pure potrebbe avere una sua giustificazione (giacchè non può non sconcertare un possibile contrasto tra una sentenza disciplinare che, in sostanza, affermasse la sussistenza di un reato escluso invece dalla competente Autorità giudiziaria penale con sentenza irrevocabile),

Comunque sia, anche qui è necessario che il legislatore operi una scelta chiara, dissipando possibili equivoci.

Artt. 18 e 19. (Sospensione cautelare).

(25)

Anche la materia della sospensione cautelare del magistrato è tra quelle che più necessitano di un intervento legislativo volto a dissipare i molti dubbi che si sono presentati e si presentano nella prassi.

Innanzi tutto, è da rilevare la diversità delle espressioni usate dagli artt.

57 e 58 D.P.R. 16 settembre 1958, n. 916, a proposito della sospensione provvisoria di magistrato sottoposto a procedimento disciplinare e della sospensione provvisoria del magistrato sottoposto a procedimento penale.

Ed infatti, mentre, con riguardo alla prima, è detto che "i provvedimenti ivi indicati sono adottati dalla sezione disciplinare", per la seconda si dice invece che gli stessi sono "adottati in conformità di deliberazione della sezione disciplinare su richiesta del Ministro o del pubblico ministero"; ciò potrebbe far pensare anche ad una diversa natura dei due istituti, nel senso che solo la sospensione cautelare per pendenza di procedimento disciplinare andrebbe annoverata tra i provvedimenti di natura disciplinare mentre il secondo tipo di sospensione avrebbe carattere meramente amministrativo: con non indifferenti conseguenze sul piano del regime delle impugnazioni (Sezioni Unite civili nel primo caso, T.A.R. e altri organi di giustizia amministrativa nel secondo). Finora, a parte una isolata eccezione ad opera del T.A.R. dell'Emilia-Romagna, si è sempre ritenuta la natura disciplinare di entrambi i provvedimenti con conseguente esclusione di ogni competenza della giustizia amministrativa nella materia; è bene peraltro che tale soluzione, che trova il consenso del Consiglio, sia ancor più chiaramente esplicitata nella legge emananda.

Al riguardo, infatti, può suscitare qualche perplessità il fatto che, a differenza della normativa vigente, la nuova disciplina non preveda, per le ipotesi di sospensione cautelare necessaria (art. 18), l'iniziativa nè da parte del Ministro nè da parte del Procuratore generale della Corte di cassazione; con il che si potrebbe ritenere che il C.S.M. possa provvedere anche di ufficio, in assenza di una qualsiasi investitura da parte dei titolari dell'azione disciplinare. La cosa potrebbe anche avere una sua logica ed inquadrarsi nell'ambito di una volontà del legislatore di ampliare, in tale campo, i poteri di governo del C.S.M.; ma sarebbe allora di assai dubbia legittimità una esclusione di qualsiasi possibilità di impugnativa davanti agli organi di giustizia amministrativa.

Pertanto, se l'omissione della iniziativa dei titolari dell'azione disciplinare è frutto di una semplice dimenticanza, è opportuno porvi riparo; se

(26)

invece vuol essere la spia di una nuova concezione dell'istituto, allora è necessario rimeditare più attentamente l'intera normativa.

Quanto ai presupposti della sospensione cautelare necessaria, all'art. 18 il legislatore ha ritenuto di sostituire la formula dell'art. 31 della Legge sulle guarentigie che parlava di emissione di mandato o ordine di cattura con la nuova facente riferimento a qualsiasi "provvedimento di coercizione personale".

L'espressione potrebbe però meglio puntualizzarsi sul piano tecnico, sì da evitare che nel vigente sistema processuale penale la sospensione debba conseguire alla semplice emissione di un mandato di accompagnamento nei confronti di imputato libero, e che - col nuovo codice - sia ravvisabile il menzionato presupposto nell'emanazione di una qualsiasi misura cautelare personale di tipo coercitivo (quale, ad esempio, il divieto di espatrio).

Un altro aspetto procedurale di una certa consistenza riguarda la necessità della previa audizione dell'incolpato prima del provvedimento di sospensione cautelare; in proposito nulla dice la normativa attualmente vigente (art.

31 legge sulle guarentigie) e nulla dice il disegno di legge governativo: la prassi della Sezione disciplinare è stata sul punto oscillante mentre la più recente dottrina ritiene che anche in questo caso la "sospensione non possa essere emessa senza l'osservanza delle sia pur poche regole dettate nell'art. 30" aggiungendo che "non può evidentemente pretendersi l'audizione previa dell'interessato, che è in stato di detenzione o di latitanza; ma egli può farsi rappresentare da un difensore all'uopo nopminato, come è ormai pacificamente ammesso anche per questa forma di procedimento".

Il fatto è che, nei pochissimi casi in cui non si è proceduto alla previa audizione dell'interessato, vi erano (o si riteneva vi fossero) ragioni di urgenza tali da non consentirla neppure. Per casi del genere, si potrebbe allora pensare, e per ogni tipo di sospensione (necessaria o facoltativa), ad un provvedimento provvisorio adottato in via di urgenza anche inaudita altera parte, da convalidare in brevissimo tempo previa audizione dell'interessato.

Deve comunque ritenersi necessaria anche in questo tipo di procedura l'assistenza dell'interessato da parte del difensore mentre il disegno di legge sembra ammetterla solo per le ipotesi di sospensione facoltativa, evidentemente ritenendo che in caso di sospensione obbligatoria la presenza sia dell'interessato che del suo difensore sia del tutto superflua; se così fosse, si dovrebbe osservare che si tratta di

(27)

opinione non condivisibile sia perché potrebbero essere posti in luce, dal magistrato e dal suo difensore, aspetti tali da rendere non più obbligatoria la sospensione (ad esempio per la carenza dei relativi presupposti) sia perché l'estensione della obbligatorietà della sospensione (se mantenuta) a tutti i provvedimenti di coercizione personale potrebbe lasciar spazio anche a qualche considerazione sulla natura dell'uno o dell'altro provvedimento o sulla sua perdita di efficacia che, ai sensi del comma 2 dell'art. 18, renderebbe la sospensione stessa facoltativa.

Viceversa, va esclusa la necessità di sentire ogni volta il magistrato in caso di sue successive istanze di revoca o di modifica dei provvedimenti adottati in ordine alla concessione dell'assegno alimentare; tenendo infatti presente che tali istanze possono essere riproposte senza alcun limite, anche quando non contengano alcun nuovo elemento suscettibile di valutazione, è evidente che sarebbe assurdo dover provvedere ogni volta alla citazione dell'interessato ed alla sua audizione, essendo del resto le sue ragioni già espresse nelle istanze. A diversa conclusione si deve invece pervenire allorché la Sezione disciplinare intenda negare l'assegno alimentare già concesso o modificarne in peius la misura (cfr. art. 30 comma 4 della legge sulle guarentigie).

Quanto alla revoca della sospensione cautelare necessaria, si richiama il precedente parere di questo Consiglio secondo cui "converrebbe disporre che la sospensione deve essere revocata in tutti i casi in cui il provvedimento restrittivo della libertà sia posto nel nulla, per carenza di sufficienti indizi di responsabilità, e può invece essere revocata, nelle altre ipotesi, come quelle di scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia preventiva, di concessione della libertà provvisoria e così via".

Per quanto più particolarmente attiene alla sospensione cautelare facoltativa (art. 19 del disegno di legge) di magistrato sottoposto a procedimento penale, l'aspetto che, ad avviso del Consiglio, più necessita di un intervento chiarificatore da parte del legislatore è quello attinente alla possibilità per il giudice disciplinare di valutare il fumus delle accuse mosse nei confronti del magistrato; la necessità di una esplicita presa di posizione del legislatore sul punto appare in tanto più evidente in quanto, con il nuovo codice di rito, a seguito della già accennata scomparsa della

"istruzione", sarà assai più frequente di oggi la situazione di chi è sottoposto, nei fatti, a quello che, nella sostanza ed ai fini che qui interessano, è "procedimento penale" (anche se domani è destinato ad essere chiamato solo "indagini preliminari"),

(28)

senza tuttavi a assumere la qualità di imputato, per cui o è consentito un vaglio delle accuse, sia pure nei ristretti limiti del fumus o non vi sarà più la possibilità di ancorarsi a provvedimenti formali (tipo: ordine o mandato di comparizione) che presuppongono l'esistenza di sufficienti indizi di colpevolezza.

Dovrebbero poi essere precisati, in ordine a tutte le ipotesi di sospensione facoltativa, i poteri della Sezione disciplinare; come è noto, si ritiene al riguardo che non possano essere sentiti testimoni nè espletati mezzi di prova mentre è consentita la produzione di documenti ad opera della parti. La pratica insegna però come talora, per decidere, con una sia pur sommaria cognizione dei fatti, la Sezione disciplinare abbia necessità di acquisire dei documenti; e non inopportuna sarebbe anche qualche audizione testimoniale.

Altro problema che andrebbe normativamente risolto è quello relativo alla retrattabilità della richiesta di sospensione ad opera del Ministro o del Procuratore generale della Corte di Cassazione; anche qui si ritiene che, se la revoca della richiesta intervenga prima della decisione della Sezione disciplinare, quest'ultima non possa far altro che riconoscere la propria carenza di poteri al riguardo, essendo la misura cautelare concepita e disposta non già come misura amministrativa autonoma, come tale allora assumibile dal Consiglio anche di ufficio, ma come provvedimento cautelare in attesa di una eventuale condanna in sede disciplinare: se così è, si dovrebbe però pervenire alla ulteriore logica conclusione che anche una successiva rinuncia - esternata attraverso la richiesta di una revoca sempre possibile (anche di ufficio) - alla misura cautelare da parte del titolare dell'azione disciplinare dovrebbe vincolare la Sezione disciplinare del Consiglio; il che però sembra francamente eccessivo.

Art. 20. (Ricorso per Cassazione).

Diversità di opinioni si è registrata in Consiglio in ordine al ricorso per Cassazione previsto dall'art. 20 del disegno di legge governativo.

Da più parti si è infatti sostenuta l'inopportunità di modificare l'attuale sistema che demanda alle Sezioni Unite civili la cognizione dei ricorsi avverso le sentenze della Sezione disciplinare; si è al riguardo fatto presente che la materia disciplinare non è in realtà materia penale ma amministrativa in quanto attinente al regime deontologico del rapporto di pubblico impiego, come tale di tradizionale

(29)

competenza delle Sezioni civili della Cassazione; e che, sotto il profilo dell'armonia sistematica, non si giustifica una situazione confliggente con l'attuale impianto normativo che devolve la materia disciplinare dei professionisti (e, in primo luogo, degli avvocati) alla cognizione delle Sezioni Unite civili. Infine, sotto il profilo tecnico-giuridico, è stato osservato come sia impossibile innestare davanti al giudice penale l'intervento del Ministro di Grazia e Giustizia (litisconsorte necessario) che non è parte del giudizio davanti alla Sezione disciplinare. E si è ancora aggiunto come il meccanismo del processo penale imporrebbe al Ministro ed al Procuratore Generale di proporre cautelativamente dichiarazione di impugnazione con riserva di abbandonarla dopo il deposito della motivazione.

Sul fronte opposto, si è fatto leva sulla incongruenza di una impugnazione civile in un sistema che si richiama alle norme del processo penale ed in cui anche gli stessi motivi di ricorso si inquadrano assai più facilmente tra quelli dell'art. 539 c.p.p. che non tra quelli dell'art. 360 c.p.c.; e sulla peculiarità dei profili attinenti alla deontologia del magistrato, che, a differenza di quella concernente gli altri impiegati dello Stato, non si fonda sul rapporto di subordinazione gerarchico esistente all'interno della pubblica amministrazione così come, a differenza di quella che riguarda i professionisti, non si basa su di un rapporto fiduciario con il "cliente", ma riveste caratteri tutti propri tali da giustificare l'analogia con i comportamenti suscettibili di valutazione in sede penale e da esigere un procedimento di natura giurisdizionale fin dalla prima battuta con tutti i caratteri, anche di pubblicità, che sono caratteristici del processo che attua la "giurisdizione". Nè sono stati ritenuti insormontabili gli ostacoli relativi alla costituzione in giudizio, davanti alle Sezioni Unite, del Ministro, essendo nelle possibilità del legislatore forgiare qualche istituto che ne consenta in qualche modo l'intervento.

Non s ono mancati poi accenni, peraltro isolati, alla possibilità di un ricorso a delle Sezioni Unite congiuntamente penali e civili nel senso che il collegio dovrebbe essere composto da consiglieri tratti sia dalle sezioni civili che da quelle penali ed è stata pure isolatamente affacciata l'ipotesi di un collegio a composizione anche laica.

Su di un piano più modesto, è stata rilevata l'opportunità di stabilire dei termini anche per l'esaurimento del giudizio davanti alla Corte di cassazione e per l'eventuale successivo giudizio di rinvio: e ciò per non frustrare nei fatti, come del resto già oggi avviene, l'intento del legislatore del 1981 che, riprendendo i

(30)

suggerimenti della Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 145/76), ha posto dei termini di decadenza all'azione disciplinare per evitare che la prolungata sottoposizione di un magistrato a procedimento disciplinare per un troppo lungo periodo finisca con l'incidere negativamente, oltre che sulla singola persona dell'incolpato, anche sulla credibilità dell'esercizio della funzione da lui esercitata.

Tali termini, peraltro, sono sempre stati intesi dalla giurisprudenza della Sezione disciplinare e delle Sezioni Unite della Corte di cassazione come riferiti esclusivamente alla decisione dibattimentale della Sezione, senza che le successive vicende di annullamento e rinvio possano più avere alcun rilievo in proposito. Solo in una pronuncia, peraltro abbastanza recenti, le Sezioni Unite sembrano aver introdotto il principio secondo cui, dopo l'annullamento ed il rinvio da parte della Corte di cassazione, residuerebbe alla Sezione disciplinare solo un altro anno per la successiva delibera. Si tratta peraltro di giurisprudenza assai opinabile sul piano tecnico-giuridico, anche se ispirata a finalità che non si possono non condividere.

Donde l'opportunità di un intervento del legislatore, che avrebbe anche il non trascurabile merito di provocare un acceleramento dei tempi di deposito e pubblicazione delle sentenze della Sezione disciplinare.

Art. 23 e ss. (Revisione).

Nell'ambito della disciplina della revisione delle decisioni di condanna ad una sanzione disciplinare, si deve innanzi tutto precisare che rispetto alla generale applicabilità al giudizio di revisione delle norme stabilite per il processo disciplinare - ai sensi dell'art. 25, comma 1 - devono eccettuarsi quelle che sanciscono l'estinzione del procedimento per scade nza di termini (precisazione opportuna per coerenza sistematica, giacché in pratica la necessità del consenso all'estinzione assicura comunque la tutela dell'interessato).

In secondo luogo, pare francamente inopportuno consentire la revisione anche per i casi in cui gli elementi offerti potrebbero condurre solamente ad una sanzione minore: ciò infatti rischierebbe di determinare una valanga di istanze di revisione che renderebbero ancor più difficile un tempestivo intervento del giudice disciplinare nella generalità dei casi. Forse l'unica ipotesi ammissibile potrebbe essere quella in cui i nuovi elementi consentissero una sanzione più lieve

Riferimenti

Documenti correlati

Secondo la nuova versione, infatti, "la pubblicità dei quesiti contenuti nell'archivio informatico è data (mediante la pubblicazione di essi sulla G.U.) senza l'indicazione

nasce, quindi, un dubbio di costituzionalità perché la disciplina proposta potrebbe dar luogo a differenza di trattamento tra due categorie di soggetti, a seconda che i processi

Pur rientrando la materia tra quelle in ordine alle quali il Consiglio Superiore della Magistratura è competente a formulare il proprio parere, nel caso di specie questo organo

Lo schema di regolamento in esame - trasmesso al Consiglio superiore della magistratura dal Ministero di Grazia e Giustizia - viene emanato sulla base di quanto previsto

Ma la formula utilizzata dal costituente deve essere intesa rapportandone il significato al contesto storico in cui essa venne scritta: in tale contesto ai giudici singoli

E ciò per una molteplicità di motivi: il numero limitato delle valutazioni (quattro lungo tutto il corso della "carriera", salvo quelle sollecitate dallo stesso magistrato

Si vuole sottolineare innanzitutto che tale previsione (presumibilmente imposta dalla condizione contenuta nel parere della Commissione bilancio, per ragioni di compatibilità con la

DI APPROVARE per quanto esposto in premessa la proposta di rideterminazione dell’articolazione tariffaria del servizio acquedotto dei comuni di Brunate, Cernobbio