Parere sul disegno di legge recante:
"Norme in materia di funzioni dei magistrati e valutazione di professionalità".
Il Consiglio Superiore della Magistratura, nella seduta del 9 aprile 1997, ha deliberato di esprimere l'allegato parere.
I La normativa vigente.
L'attuale "stato giuridico" dei magistrati (secondo la terminologia dell'ancora vigente ordinamento giudiziario delineato dal R.D. 30 gennaio 1941 n.12) risulta improntato dalle modifiche introdotte dalle leggi 24 maggio 1951, n. 392 ("Distinzione dei magistrati secondo le funzioni"); 25 luglio 1966, n. 570 (Disposizioni sulla nomina a magistrato di corte d'appello"); e 20 dicembre 1973 n. 831 ("Modifiche dell'Ordinamento giudiziario per la nomina a magistrato di Cassazione e per il conferimento degli uffici direttivi superiori").
La prima di tali leggi, trattando agli articoli 5 e 6 del conferimento di uffici direttivi a magistrati di corte d'appello e di cassazione, dispone che tali uffici sono conferiti "per anzianità e merito".
La seconda prevede l'attribuzione della qualifica di magistrato d'appello da parte del C.S.M., compiuti undici anni dalla promozione a giudice, previo esame del motivato parere del Consiglio giudiziario "sulle capacità del magistrato e sull'attività svolta nell'ultimo quinquennio", dovendosi tener conto (art. 3) della "laboriosità del magistrato, delle capacità, diligenza e preparazione dimostrate nell'espletamento delle sue funzioni".
La terza legge indica quali elementi di valutazione (per la nomina a magistrato di Cassazione e per il conferimento degli uffici direttivi superiori decorsi sette anni dalla nomina a magistrato d'appello) la "preparazione e capacità tecnico professionale"; la "laboriosità e diligenza dimostrate nell'esercizio delle funzioni"; i "precedenti relativi al servizio prestato".
Ad esse si è aggiunta la legge 2 aprile 1979 n. 97, che disciplina la nomina a magistrato di tribunale.
A tal fine (art.2) il Consiglio giudiziario, nell'esprimere il proprio parere, deve pronunciarsi "sull'equilibrio, la preparazione, la capacità, l'operosità e la diligenza dimostrati durante il tirocinio", tenendo conto anche dei "provvedimenti redatti" dal magistrato "nell'esercizio della sua attività giudiziaria". Solo in questa fase è prevista l'ipotesi della dispensa dal servizio, nel caso in cui l'uditore giudiziario sia stato valutato negativamente per due volte dal Consiglio Superiore (art. 5).
Dall'insieme delle richiamate disposizioni emerge che, conseguita la nomina a magistrato di tribunale, la ulteriore progressione nelle qualifiche superiori è legislativamente collegata ai seguenti parametri: all'anzianità nella qualifica inferiore, che funge da condizione di ammissibilità per la valutazione; e ad un giudizio di merito, che prende in considerazione essenzialmente due indici: la laboriosità e la capacità tecnico professionale (rispetto ai quali appare arduo individuare l'autonomo significato dell'ulteriore elemento relativo ai precedenti relativi al servizio prestato, che la legge n. 831/1973 sembra considerare indice a sé stante, e che la legge n.
570/1966 appare assumere più correttamente quale strumento che concorre all'accertamento dei due indici testé richiamati).
Il descritto sistema regolamentatore dello "stato giuridico" dei magistrati si presta a contrapposte considerazioni, da tempo ampiamente individuate e messe a confronto nel dibattito relativo ai problemi della giustizia.
Per un verso esso, in modo particolare con la riforma introdotta dalle leggi n.
570/1966 e 831/1973, ha abolito il previgente sistema di progressione in carriera mediante concorso (per esami e per titoli), che era entrato in contraddizione con l'art. 107 della Costituzione nel
frattempo intervenuta ("I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni") e che corrispondeva ad un modello di giudice oramai superato sia dall'esperienza che dall'evolversi della cultura istituzionale.
Un giudice inteso come neutrale applicatore di un ordinamento giuridico univoco e completo e quindi apprezzato unicamente in funzione della sua competenza tecnico-giuridica; e apprezzato e valutato - di conseguenza - da chi era presunto più competente (tecnicamente e giuridicamente) di lui. Una competenza onnicomprensiva e indifferenziata, che costituiva al tempo stesso garanzia e presupposto della idoneità alla progressione nelle qualifiche e sulla quale poggiava una piramide gerarchica fondata su un preteso "merito" del tutto svincolato dalla effettiva capacità professionale, dalla considerazione dei molteplici e diversi mestieri di magistrato, dalla professione intesa come servizio, dal mestiere di giudice concepito soprattutto come attitudine e disposizione a rispondere efficacemente alla varietà estrema di domande che, attraverso una continua evoluzione normativa, la società esprime.
Via via che diveniva sempre più evidente la sua contraddizione con l'evoluzione culturale e storica dell'ordinamento giudiziario, tale sistema aveva sempre più chiaramente evidenziato il manifestarsi di una serie di inconvenienti relativi anche al suo funzionamento concreto: l'impegno del magistrato concentrato non sul carico di lavoro dell'ufficio, ma sulla sentenza da valorizzare quale "titolo"; la trasformazione di questa da risposta destinata al cittadino ad esibizione di sapere dottrinario e giurisprudenziale destinata agli esaminatori; il difetto di garanzie per quanto riguardava l'oggettività e l'imparzialità della valutazione; un sistema di cooptazione fondato sulla gerarchia, invevitabilmente destinato a premiare il conformismo giurisprudenziale; la tentazione per il magistrato di rifugiarsi in "nicchie" comunque lontane dalla
"prima linea", per coltivare lo studio teorico e l'approntamento dei provvedimenti-titolo; la diversità tra le varie funzioni in vista delle opportunità che offrivano alla predisposizione di tali provvedimenti, etc....
Merito della riforma introdotta con le leggi 570/1966 e 831/1973 è stato quindi non solo quello di aver avviato il recupero del principio costituzionale, secondo cui i magistrati si distinguono solo per le funzioni esercitate, ma anche quello di avere rimosso gli altri inconvenienti testé richiamati. E proprio questo è stato l'argomento che ha reso convinto e diffuso il consenso alla riforma: non quello di avere introdotto un sistema esente da limiti e carenze (a tutti fu, fin dall'inizio, evidente che si sarebbe in tal modo introdotto un certo tipo di "appiattimento professionale" all'interno della magistratura); ma quello di avere eliminato un male oramai ampiamente verificato e sempre più insostenibile, ricorrendo ad un sistema non esente da "mali", ma meno determinanti e meno drammatici del precedente, e tali da poter essere in seguito affrontati e limitati.
Questo ulteriore impegno non è stato intrapreso, così che l'attuale sistema risulta per un verso incompleto e per altro verso inadeguato: incompleto perché, pur invocando a proprio fondamento l'art.107 Costituzione, ha lasciato sopravvivere (sia pure oramai priva di effettivo significato) le antiche qualifiche all'interno della magistratura; inadeguato perché ha pressoché ignorato il controllo della professionalità del magistrato, abbandonandolo quasi esclusivamente al decorso del tempo.
E ciò per una molteplicità di motivi: il numero limitato delle valutazioni (quattro lungo tutto il corso della "carriera", salvo quelle sollecitate dallo stesso magistrato per mutamento di funzioni e per concorso al conferimento di uffici direttivi); i limitati compiti accertativi ad opera dei Consigli giudiziari; i limiti - e sovente la vacuità - di tali accertamenti a causa della scarsa incisività dei Consigli medesimi; la sostanziale inattendibilità dei parametri di valutazione utilizzabili (dati statistici e simili); i pareri spesso compiacenti dei Dirigenti; la inadeguata attenzione e la carenza di strumenti di valutazione rispetto alla specificità delle diverse funzioni giudiziarie, e in primo luogo alla diversa specificità che contrappone la funzione requirente a quella giudicante.
II Il disegno di legge governativo n. 1799/S.
Della incompletezza e della inadeguatezza di cui si è detto - e, conseguentemente, delle cause che le hanno determinate e degli effetti che ne conseguono - si fa carico il Disegno di legge n. 1799/S, rispetto al quale il C.S.M. deve formulare il prescritto parere.
Parere che, in primo luogo, si muove in una linea di adesione alla iniziativa del Ministro ed allo spirito della riforma che, in luogo di assecondare isolati auspici di ritorno al previgente sistema di progressione per concorso (impercorribile per tutte le ragioni richiamate all'inizio della presente delibera), sviluppa (in particolare nel Capo I: Funzioni dei magistrati e valutazione di professionalità - artt. da 1 a 14 - ) il dettato costituzionale, con l'eliminazione dell'ormai incongruo riferimento alle qualifiche e offre più rigorosi ancoraggi concettuali e strumentali al difficile percorso lungo il quale va ridefinita la "carriera" dei magistrati.
Ulteriore merito del d.d.l. in esame va individuato nell'avere sviluppato (Capo II:
Distinzione delle funzioni giudicanti e requirenti - artt. 15 e 16 - ) l'attenzione alla distinzione tra le diverse specifiche funzioni, fino a regolamentare - con particolare attenzione - quella tra giudice e pubblico ministero, all'interno dell'unico corpo istituzionale della magistratura ordinaria.
Le problematiche relative alla ridefinizione del complessivo "stato giuridico" del magistrato sono assai varie e articolate e rinviano ad una rilevante serie di ridefinizioni e di iniziative inevitabilmente ad esse collegati.
Né vengono in questione soltanto i profili già segnalati nel corso della presente delibera: a ben vedere, la stessa fondamentale questione che viene indicata quale "questione morale" della magistratura sta sullo sfondo della problematica in esame, dato che quanto più il magistrato è professionalmente attrezzato e consapevole della propria professionalità, tanto più può resistere e contrapporsi a sudditanze psicologiche e culturali, a lassismi, ad inerzie.
Ulteriore profilo apprezzabile è dunque rappresentato dal fatto che il d.d.l. n. 1799/S si colloca all'interno di un complessivo disegno delineato dal Governo per riorganizzare l'amministrazione della giustizia, all'interno del quale connessioni e articolazioni risultano chiaramente leggibili; anche se tale articolazione potrebbe (o dovrebbe) essere ulteriormente arricchita, secondo quanto sarà in seguito sottolineato.
Ma è apprezzabile e acquista qui particolare risalto (come si diceva) il complessivo approccio sistematico, del quale vi è traccia esplicita nello stesso testo del d.d.l. in esame, il qual dedica il suo Capo III alla : Responsabilità Disciplinare (art. 17).
Completano il nuovo strumento legislativo i Capi IV, relativo al "Trattamento economico" (art. 18) e V, dedicato alle "Norme transitorie e finali" (artt. da 19 a 22).
Venendo ad una sintetica rassegna delle singole disposizioni e rinviando per il resto alla illustrazione che ne fa la corposa relazione al d.d.l., si ritiene di esprimere le seguenti notazioni.
II- 1. Funzioni dei magistrati e valutazioni di professionalità.
II - 1 a) - L'abolizione delle qualifiche e la individuazione delle funzioni.
L'art. 1 abroga (come si è già anticipato) la norma relativa alle qualifiche in cui attualmente si articola la magistratura, completando in tal modo l'adempimento del precetto costituzionale, e individua le funzioni giurisdizionali, sulla cui sola base si distinguono i magistrati.
Questa previsione va collocata all'interno di quella più generale che ispira il d.d.l. e che introduce le valutazioni periodiche della professionalità del magistrato.
Premesso che il successivo art.2 prevede che "i magistrati sono sottoposti a valutazione di professionalità ogni quadriennio dalla nomina, salvo la prima che si effettua dopo il compimento di un quinquennio e la quarta che si effettua dopo un triennio dalla precedente", si dispone che le funzioni di appello e le equivalenti funzioni direttive e semidirettive possono essere conferite a magistrati che abbiano conseguito la terza valutazione di professionalità; le funzioni di legittimità e le equivalenti funzioni direttive e semidirettive non possono essere conferite a
magistrati, i quali non abbiano compiuto la quinta valutazione di professionalità; mentre gli uffici direttivi superiori non possono essere conferiti a magistrati che non abbiano conseguito la settima valutazione di professionalità.
Si tratta di valutazioni che potrebbero definirsi "ordinarie", alle quali vanno aggiunte quelle specifiche richieste dal conferimento di particolari funzioni ovvero dal passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti o da quelle di merito a quelle di legittimità.
Altra avvertenza riguarda il fatto che l'art. 2 conferma (comma secondo) l'applicazione degli artt. 1 e 5 della legge n. 97/1979, per quanto attiene alla valutazione cui deve essere sottoposto l'uditore giudiziario dopo il primo anno di svolgimento delle funzioni giurisdizionali, così che due risultano le valutazioni cui il magistrato è sottoposto nel primo quinquennio (e la più intensa cadenza temporale del vaglio appare giustificata dalla fase di avvio della attività giudiziaria).
Il sistema introdotto dagli art. 1 e 2 del d.d.l. non si limita quindi alla semplice eliminazione delle qualifiche (della quale pure non va sottovalutato il significato di principio) ma, instaurando un significativo nesso tra conferimento delle funzioni e valutazioni periodiche di professionalità (ben più frequenti e significative che nel passato), attribuisce una nuova dimensione al "mestiere" di magistrato.
Non più, quindi, la irresistibile (e spesso solo esteriore) ascesa lungo il "cursus honorum" rappresentato dal progredire nelle qualifiche, ma un effettivo ancoraggio alle funzioni svolte, tutte egualmente rilevanti per il servizio da rendere ai cittadini e dalle quali si può recedere, per tornare a svolgere quelle precedenti. E la preventiva garanzia circa la idoneità a svolgere le funzioni prescelte.
La ravvicinata periodicità delle valutazioni di professionalità dovrebbe inoltre agevolare e promuovere il permanere di una "tensione deontologica" del magistrato lungo tutto il corso della sua carriera.
L'attuale sistema prevede (a prescindere dalla loro significatività) solo quattro valutazioni nel corso di tutta la carriera, mentre ulteriori verifiche possono essere introdotte solo come conseguenza delle scelte dell'interessato, che intende o cambiare funzioni ed ufficio giudiziario o accedere ad incarichi direttivi; e ciò consente situazioni e ampissimi periodi di sottrazione a qualsiasi controllo.
Il sistema introdotto dal d.d.l. rende il magistrato consapevole della inevitabilità e della frequenza dei controlli, quasi invitandolo a predisporsi ad essi.
E soprattutto, superando la occasionalità e la strumentalità delle verifiche (risulta difficile precludere ad un collega la possibilità di concorrere ad un posto; sarà il concorso a premiare o a deludere le sue aspirazioni), costituisce un serbatoio di informazioni, di risultati e di giudizi che dovrebbe rappresentare "obiettivamente" ciò che il magistrato vale, ciò che ha fatto e come lo ha fatto; serbatoio alimentato continuativamente, dal quale attingere adeguati elementi di giudizio, quando ad esso si debba addivenire (così come esplicitamente è previsto dal successivo art. 11, comma quinto).
Tanto premesso in ordine alle linee portanti ed al significato del sistema di valutazione che si intende introdurre, vanno condotte alcune considerazioni più specifiche quanto alle modalità con cui esso risulta congegnato.
La cadenza quadriennale attribuita alle valutazioni viene giustificata da alcuni commentatori con la preoccupazione relativa alle ricadute, che una diversa previsione potrebbe avere sulla progressione economica.
Tenendo presenti le previsioni relative al numero di valutazioni che dovrebbero essere svolte rispettando il ritmo quadriennale (circa duemila c.d. "ordinarie" all'anno, alle quali vanno aggiunte le circa altrettante dovute a mutamento di funzioni e ad attribuzione di incarichi direttivi) e per non ridurre a controproducenti livelli di sommarietà e di genericità i giudizi in questione, potrebbe risultare più opportuno sganciare totalmente le valutazioni periodiche di
professionalità sia dalla progressione economica sia dall'assegnazione di funzioni "superiori", dando ad esse un ritmo meno serrato (ogni cinque anni?) ovvero più articolatamente differenziato.
A ciò potrebbe corrispondere una intensificazione delle relazioni del dirigente e dell'auto-relazione dell'interessato in ordine all'attività svolta, che potrebbe essere annualmente predisposta sia al fine di consentire, alla scadenza fissata, una analisi diacronica del periodo in questione, sia nell'ottica di attribuire continuità e tempestività alla raccolta dei fatti successivamente valorizzabili.
Quanto all'anzianità minima richiesta per la possibilità di accesso alle funzioni d'appello (13 anni) e a quelle di legittimità (20 anni), si è da alcuni rilevato che essa risulta eccessiva, costituendo eccessivo ostacolo alla concreta realizzazione della reversibilità delle funzioni e all'osmosi culturale, da tutti - almeno a parole - apprezzate. Sarebbe comunque auspicabile, per non rimanere nell'ambito delle petizioni di principio e per individuare la soluzione più idonea ad assicurare in concreto la migliore utilizzazione delle risorse personali destinate al servizio-giustizia, una accurata ricognizione in ordine al prevedibile fabbisogno di magistrati nelle diverse funzioni di merito (di tribunale e di appello) e di legittimità.
Va inoltre segnalato che il d.d.l. nulla dice circa le valutazioni alle quali deve essere sottoposto l'uditore prima e ai fini del conferimento delle funzioni giudiziarie. Al riguardo, il C.S.M. ha cercato di ovviare in via interpretativa all'oscurità della legge affermando che, nel caso in cui, intervenuta una prima valutazione negativa, la inidoneità all'esercizio delle funzioni giudiziarie permanga anche dopo il prolungamento del tirocinio, debba essere disposta la cessazione dal servizio. Una previsione legislativa appare al riguardo necessaria, magari nel senso testé indicato.
II - 1 b) - La professionalità del magistrato e la sua valutazione.
Gli articoli da 3 a 6 specificano gli elementi che vanno posti alla base delle valutazioni.
Si tratta del nodo centrale della problematica rivisitata dal Capo I del d.d.l., in quanto il tema della valutazione della professionalità è di estrema delicatezza, esposto com'è a due rischi incombenti: quello della sovrapposizione - confusione con la materia che riguarda il versante disciplinare; quello della possibile interferenza con le scelte giudiziarie del magistrato, e quindi dell'eventuale lesione e limitazione della sua autonomia e della sua indipendenza.
A tale nodo fondamentale il C.S.M. ha da tempo dedicato la sua attenzione cercando di individuare, avvalendosi dei poteri di autoregolamentazione della sua attività, regole e criteri operativi diretti sia a migliorare gli strumenti conoscitivi indispensabili alla formulazione delle valutazioni che gli competono, sia ad esprimere tali valutazioni nelle forme più obbiettive ed imparziali possibili, a tutela non solo dell'interesse dei singoli, ma soprattutto dell'interesse generale costituito dalla scelta delle persone più idonee allo svolgimento delle diverse funzioni giudiziarie.
La distinzione tra ambito valutativo (della professionalità) e ambito disciplinare non è in questione sul piano teorico, dicendosi tutti convinti che il sistema delle valutazioni non deve avere significato sanzionatorio (così come non deve tendere alla individuazione di gerarchie meritocratiche) ma deve proporsi di accertare l'esistenza e il persistere di una professionalità adeguata alla importanza delle funzioni svolte e alle diversità attitudinali che le contraddistinguono.
Altrettanto pacifico è il principio secondo cui, se il provvedimento del magistrato è il dato più eloquente circa il livello di professionalità del medesimo e se tale eloquenza è desumibile anche dal suo percorso motivazionale, quel provvedimento non dovrà mai essere apprezzato per il merito del suo approdo decisorio, ma per il suo assetto metodologico e sistematico.
Quando però si scende alle previsioni normative - e quanto più esse intendono essere dettagliate e pregnanti - è possibile che nella loro formulazione le distinzioni e i principi indiscussi non risaltino con la dovuta chiarezza e possano dare occasione a confusioni ed a reciproche interferenze in sede di applicazione.
Venendo al d.d.l. in esame, va preso atto che esso, nella individuazione dei vari indici e degli elementi da cui desumerli, si sottrae, in linea generale, a tali esiti negativi. Da tale valutazione esula peraltro la previsione che all'art. 3 (in tema di accertamento della capacità) introduce un giudizio relativo "al possesso delle tecniche... di valutazione" che dà adito a possibili interferenze rispetto al merito del provvedimento.
Per scongiurare tale eventualità, ma ancor prima per ancorare il sistema delineato ad una esplicita impostazione concettuale e per vincolare ad essa il futuro interprete, è opportuno che questa problematica venga impostata a partire da una norma-principio, o clausola negativa, in forza della quale si premetta che "la valutazione della professionalità non può in alcun modo riguardare l'attività di interpretazione delle norme di diritto né quella di valutazione dei fatti e delle prove."
E ciò in analogia a quanto previsto dall'art. 2 comma 2 del d.d.l. n. 1247/s, in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati, del disegno legislativo che opportunamente si affianca a quello qui esaminato (a sottolineare tanto i rapporti quanto le distinzioni tra i due settori), nell'ambito del complessivo "pacchetto" di riforma del sistema-giustizia predisposto dal Governo.
Quanto ai singoli criteri di valutazione, essi riguardano la capacità (art. 3), la laboriosità (art. 4), la diligenza (art.5) e l'impegno (art.6) e sviluppano adeguatamente - arricchendone il contenuto - le indicazioni già contenute nella normativa vigente (attribuendo portata generale a quelle segnatamente dettate dall'art. 2 della legge n. 97/1979, che disciplina la nomina a magistrato di Tribunale) e ancor più specificamente nei regolamenti e nelle circolari del C.S.M.
Qualche considerazione merita il trattamento riservato dal d.d.l. al requisito dell'"equilibrio", che non rientra tra quelli indicati in via generale dal comma terzo dell'art. 2, pur essendo stato a suo tempo valorizzato dall'art. 2 della legge n. 97/1979, che disciplina la nomina a magistrato di Tribunale.
Se si trattasse di una dimenticanza andrebbe colmata, dato che l'equilibrio (nella conduzione delle udienze e nella trattazione delle singole procedure; nei rapporti con il foro, con le parti e con i testimoni; nella collaborazione con il personale ausiliario; nel complessivo comportamento all'interno e al di fuori dell'ufficio) costituisce senza dubbio una componente rilevante ai fini della valutazione della professionalità del magistrato.
Ma vi è un altro dato, che sorprende. In effetti, il disegno legislativo in esame parla dell'equilibrio, ma solo all'art. 8 lett. e), con riferimento a quelle "segnalazioni eventualmente pervenute dal Consiglio dell'Ordine degli avvocati e procuratori", che possono assumere rilievo
"sempre che si riferiscano a fatti incidenti in modo negativo sulla professionalità, con particolare riguardo alle situazioni concrete e specifiche di esercizio non indipendente della funzione ed ai comportamenti sintomatici di mancanza di equilibrio".
Un interprete particolarmente sensibile al dato letterale della normativa potrebbe ricavarne la convinzione che il legislatore abbia inteso affermare il postulato secondo il quale solo il Consiglio dell'Ordine può avere la percezione e la competenza in ordine alle cadute che lo riguardano.
Poiché tale postulato appare non giustificato e non condivisibile, si impone il recupero di tale requisito tra quelli presi in considerazione (in via generale e anche in positivo).
Si è anche lamentata un'ulteriore omissione, nel senso che il d.d.l. non considererebbe, tra gli elementi valorizzabili ai fini delle valutazioni di professionalità, né l'indipendenza né l'imparzialità del magistrato.
L'omissione potrebbe risultare giustificata sotto due profili. L'uno riguarda il fatto che indipendenza e imparzialità costituiscono l'essenza indefettibile della funzione giudiziaria, e che pertanto ogni valutazione relativa alla professionalità dà per scontato - e viene dopo - il ricorrere di quei presupposti; l'altro attiene alla considerazione che, così facendo, il d.d.l. avrebbe dimostrato l'intento di introdurre una qualche distinzione di finalità e di contenuti tra l'ambito proprio delle valutazioni di professionalità e quello relativo alle iniziative disciplinari, che si muovono segnatamente in difesa di quei valori irrinunciabili.
Si tratterebbe di una prospettiva da prendere nella dovuta considerazione, se non si dovesse rilevare come lo stesso d.d.l. la smentisca, quando fa riferimento all'indipendenza in occasione delle segnalazioni del Consiglio dell'Ordine circa "situazioni concrete e specifiche di esercizio non indipendente della funzione" (art. 8 lett. e).
Si rinvia, al riguardo, a quanto sopra si è osservato a proposito dell'equilibrio, essendo identico il trattamento riservato dal d.d.l. ai due requisiti.
L'articolo 7 introduce una particolare e autonoma attenzione alla attitudine alla dirigenza, attenzione certamente giustificata dalla importanza che la funzione dirigenziale assume ai fini della resa del servizio-giustizia e altresì dai compiti, che ai dirigenti lo stesso d.d.l. assegna.
I parametri di valutazione utilizzabili sono indicati in modo esauriente e pertinente, anche se ad essi risulterebbe opportuno aggiungere quello relativo alla capacità di assicurare l'indipendente esercizio delle funzioni dei magistrati dell'ufficio, requisito che presenta valenza di irrinunciabile rilievo.
Caratteristica negativa delle c.d. "carriere dirigenziali" in magistratura è sempre stata quella di configurare, per chi ha conseguito un posto direttivo, una sorta di "carriera separata", scandita da un percorso ascensionale dall'uno all'altro ufficio di dirigenza.
A tale motivo di preoccupazione non si sottrae la norma in esame la quale, nella prima parte del secondo comma, rimanda in primo luogo alle "esperienze direttive anteriori ed ai risultati conseguiti", rispetto alle quali ben poco potranno valere gli ulteriori elementi, pur richiamati nella seconda parte del medesimo comma (svolgimento di una pluralità di funzioni giudiziarie, incarichi svolti, frequenza di corsi di formazione per la dirigenza e ogni altra esperienza che possa essere ritenuta utile).
Risulteranno determinanti, ai fini della effettiva valenza che la norma sarà concretamente in grado di esprimere, lo spessore e l'efficacia che assumeranno i previsti corsi di formazione per la dirigenza (il che costituisce un primo diretto richiamo alla istituenda Scuola per la formazione permanente dei magistrati), nonché la strumentazione di cui il C.S.M. sarà dotato per valutare adeguatamente quei "risultati conseguiti" nel corso delle "esperienze direttive anteriori"
richiamati dalla norma.
Anche questo è un nodo fondamentale: se la scelta del dirigente resta ancorata soprattutto alle pregresse esperienze dirigenziali, il condiviso auspicio relativo alla temporaneità degli uffici direttivi rimarrà irreale (o rischierà addirittura di risultare arrischiato).
Quanto al materiale valorizzabile ai fini della valutazione, vengono previste la relazione del magistrato sul lavoro svolto, le statistiche comparate, l'estrazione a campione di atti e provvedimenti redatti dal magistrato e di verbali di udienza, l'indicazione degli incarichi extragiudiziari, il rapporto e le segnalazioni provenienti dai capi degli uffici, le segnalazioni eventualmente pervenute dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati, le eventuali considerazioni del Presidente della Corte d'Appello o del Procuratore Generale, ad accompagnamento del rapporto del Capo dell'Ufficio.
Partendo da un approccio di carattere generale, va preliminarmente affermato che le valutazioni di professionalità possono riuscire rigorose ed attendibili - e possono altresì scongiurare alcuni rischi ad esse connaturati, quali parzialità, accondiscendenze, genericità, rigorismi ingiustificati nei confronti dei "colleghi scomodi" etc.... - a condizione che vengano rispettate due condizioni essenziali: che esse riguardino il più possibile dati, fatti, comportamenti, i quali costituiscano la base per ogni giudizio valutativo; che quest'ultimo sia riservato esclusivamente al Consiglio giudiziario, nel segno della sua collegialità e della sua rappresentatività.
Nelle sue linee portanti il d.d.l. appare rispettoso di tale impostazione, come traspare dal fatto che soprattutto a dati e a fatti si riferiscono le varie fonti cognitive previste dall'art. 8, mentre l'art.9 riserva al Consiglio giudiziario il "parere motivato" conclusivo.
Rispetto a tale impostazione si discosta l'attribuzione ai capi delle Corti di loro
"eventuali considerazioni", sia per il profilo valutativo che le contraddistingue, sia perché si tratta di
doppione rispetto ai compiti valutativi del Consiglio giudiziario, doppione esposto a rischi di conflitto o di strumentalità rispetto al parere che quegli stessi soggetti sono tenuti a formulare nell'ambito (e nella dimensione pluralistica) di quello stesso organo, al quale appartengono quali componenti di diritto.
Diverso discorso merita la previsione relativa alle "segnalazioni eventualmente pervenute dal Consiglio dell'Ordine", rispetto alla quale i componenti della Commissione hanno assunto posizioni radicalmente contrapposte.
Va premesso che già oggi pervengono a pioggia al C.S.M. circa tremila esposti all'anno contenenti doglianze in ordine a provvedimenti o comportamenti di magistrati, esposti provenienti in gran parte da avvocati.
Fatta eccezione per i rari casi in cui danno origine ad iniziative disciplinari o para- disciplinari, essi costituiscono una enorme giacenza di notizie difficili da controllare, da valutare e da utilizzare, ma esposte al rischio di riesumazioni attivabili anche strumentalmente.
In tale situazione, la maggioranza della Commissione ha ritenuto apprezzabile il fatto che tale massa di segnalazioni venga incanalata e filtrata attraverso l'intervento dell'organo che rappresenta l'avvocatura, sotto la sua responsabilità collegiale ed il suo vaglio istituzionale.
D'altra parte tali segnalazioni sono valorizzabili (così specifica il d.d.l.) solo nella misura in cui si riferiscano a fatti, ed a fatti con incidenza soltanto negativa, in tal modo escludendo ogni attestazione ed apprezzamento elogiativo, magari dettati da interesse o piaggeria.
Del resto, la questione consiste non tanto in chi fa le segnalazioni, ma nel significato che esse possono assumere ai fini della valutazione del magistrato. E poiché non può negarsi che sono proprio i difensori ad avere, più d'ogni altro, un rapporto intenso e significativo con quest'ultimo, è stato dai più apprezzato il riconoscimento che per tale via l'avvocatura riceve in ordine al suo ruolo istituzionale di partecipe all'amministrazione della giustizia.
Per altri, invece, queste considerazioni non valgono a scongiurare il concreto pericolo che per tale via si instauri una sorta di sudditanza del magistrato nei confronti dell'avvocatura, con conseguente lesione della sua indipendenza.
II - 1 c) - Il procedimento.
Quanto al procedimento, esso è caratterizzato da una sottolineatura delle garanzie del contraddittorio, che passa attraverso vari momenti: la tempestiva comunicazione dell'esito delle informazioni su fatti segnalati dai dirigenti degli uffici, da componenti del Consiglio Giudiziario, dal Consigli dell'Ordine degli avvocati; il diritto dell'interessato di richiedere l'audizione; la notifica del parere all'interessato e il suo diritto di presentare osservazioni; la notifica della delibera del Consiglio Giudiziario all'interessato, nei casi in cui vi sia stata la delega a formulare la valutazione da parte del C.S.M.; la possibilità, in tali casi, di ricorrere al C.S.M.
Rispetto ai fatti segnalati dai suoi componenti, dai dirigenti degli uffici o dai Consigli dell'Ordine, l'art. 8 lettera e) prevede che il Consiglio giudiziario possa assumere informazioni e possa procedere all'audizione del magistrato. Andrebbe invece garantito al magistrato (anche per responsabilizzare coloro che segnalano in suo danno) il diritto di avere esatta contestazione di tali fatti e di potersi adeguatamente difendere, così da rendere effettiva la tutela predisposta dal comma terzo del medesimo articolo: "l'audizione è comunque disposta se il magistrato ne fa richiesta".
L'art. 10 prende in considerazione l'organo destinato a diventare il fulcro dell'intero sistema delle valutazioni, cioè il Consiglio Giudiziario. Va detto peraltro che le modeste correzioni introdotte rispetto all'esistente (oltre alla ovvia modifica derivante dall'abolizione delle qualifiche) non appaiono tali da consentire a tale organo di fare adeguatamente fronte ai nuovi compiti, mentre proprio il rilievo fondamentale che essi assumono avrebbe fatto auspicare un intervento del d.d.l.
più deciso e articolato.
Vi è certo un problema quantitativo (è stato stimato che nei distretti più grandi il numero delle valutazioni determinate dalla sola scadenza quadriennale ammonterà a più di duecento
l'anno, cui vanno aggiunte quelle per attribuzione di incarichi direttivi e per il passaggio tra funzioni giudicanti e requirenti) e soprattutto di esso sembra farsi carico il disegno governativo, aumentando il numero dei componenti (fino a sedici, per i Distretti più grandi) e distribuendo anche ai supplenti
"la istruttoria dei pareri e delle valutazioni".
Già a questo livello va considerato come, una volta che si ritenga di mantenere i componenti supplenti (ma forse varrebbe meglio eliminare questa figura, prevedendo il numero legale per la validità delle decisioni) appaia ingiustificata la limitazione del loro contributo alla sola fase istruttoria; e come la risposta al carico di lavoro non stia tanto nel numero dei componenti (una eccessiva pletoricità rende scarsamente funzionale l'organo), quanto nella intensità e nella competenza della partecipazione. Sarebbe dunque preferibile la strada dell'esonero parziale (magari graduato a seconda delle dimensioni del distretto) dall'ordinario lavoro giudiziario, mentre bisognerà pensare ad adeguati strumenti predisposti dal Consiglio in fase di organizzazione del proprio lavoro o ad un più continuo flusso di aggiornamento delle notizie (ad esempio, cadenza annuale dell'autorelazione del magistrato e dell'informativa del dirigente l'ufficio).
Ma è soprattutto a livello di complessiva riforma che l'organo dovrà essere messo in grado di fare fronte ai propri compiti, a partire dalla durata quadriennale, corrispondente a quella del C.S.M. (con eventuale divieto di immediata rieleggibilità); dalla elezione con sistema proporzionale (per garantire il pluralismo e il reciproco controllo); dalla già ricordata eliminazione dei supplenti e dall'esonero parziale dal lavoro giudiziario; dall'organizzazione del lavoro in Commissioni all'arricchimento degli strumenti e delle strategie di valutazione, utilizzando al meglio la potestà regolamentare del C.S.M. e la decretazione ministeriale previste dal successivo art. 19, che dovranno ovviamente esprimersi nell'ambito delimitato dall'ordinamento giuridico.
Da condividere è infine la costituzione del Consiglio Giudiziario presso la Corte di Cassazione, previsto dall'ultima parte dell'art. 10.
Attività accertativa e percorso procedimentale conducono al giudizio: "positivo",
"non positivo" o "negativo". Al giudizio "non positivo" consegue una seconda valutazione dopo sei mesi, ma nulla è detto su quali siano le conseguenze della eventuale permanenza di una valutazione non positiva. In realtà, la distinzione tra giudizio "non positivo" e giudizio "negativo" potrebbe anche corrispondere ad interessanti approcci al problema, ma essi non appaiono sviluppati e non sono quindi comprensibili. In particolare, il termine di sei mesi previsto per la seconda valutazione appare del tutto incongruo rispetto allo stesso oggetto della valutazione: non si comprende, infatti, come sei mesi di esercizio della attività professionale - per di più ricadenti (in ipotesi) nel periodo feriale - possano mutare un giudizio basato sull'esame di quattro anni di svolgimento delle funzioni.
Nel caso di giudizio negativo, invece, è previsto che la valutazione sia ripetuta dopo due anni e che, se essa permane negativa, il magistrato venga dispensato dal servizio. Tale previsione merita pieno apprezzamento e rappresenta il superamento di una lacuna intollerabile dell'attuale ordinamento. Il problema maggiore - dal punto di vista della credibilità e della legittimazione dell'istituzione giudiziaria, così come dal punto di vista delle garanzie dei cittadini - non è tanto, infatti, quello della insufficienza degli strumenti e delle occasioni per la misurazione della professionalità, quanto quello della carenza di strumenti e occasioni per rendere davvero effettiva la c.d. selezione negativa, quella cioè diretta ad espellere dalla funzione giudiziaria coloro che non hanno una capacità professionale adeguata all'esercizio di così delicate funzioni.
Espresso un giudizio positivo sull'an dell'innovazione in esame, deve peraltro essere rappresentata con molta determinazione l'esigenza che, escluso ogni automatismo siano predisposti, per l'adozione di misure di questo genere, procedure di assoluta garanzia, nelle quali siano appieno salvaguardati il contraddittorio, la difesa e il diritto alla prova. In definitiva, anche e soprattutto in questo campo, il dato procedimentale assume un significato sostanziale.
Più in generale, premesso che l'intero sistema delle valutazioni di professionalità non deve essere ispirato dall'obbiettivo di dar vita ad una graduatoria meritocratica della "bravura" dei magistrati, bensì da quello di assicurare una professionalità diffusa, volta a garantire il mantenimento di uno standard generale adeguato alla importanza della funzione, apparirebbe
opportuno pensare anche ad un ventaglio di strumenti più adeguato alla selezione propriamente attitudinale (quella cioè diretta ad accertare quali funzioni il magistrato è in grado di svolgere al meglio e quali invece siano a lui meno consone).
In questo quadro, la stessa disciplina prevista in tema di "distinzione delle funzioni giudicanti e requirenti" cesserebbe di destare quell'allarme che ora si collega soprattutto alle sue valenze simboliche ed ideologiche.
II-2 - Distinzione delle funzioni giudicanti e requirenti.
Premesso che "la magistratura, unica nel concorso di ammissione, nel tirocinio e nel ruolo di anzianità, è distinta relativamente alle funzioni giudicanti e requirenti" (art. 16), il d.d.l.
prevede un'iniziale preferenza di destinazione degli uditori a uffici giudicanti collegiali, un più approfondito vaglio attitudinale per il passaggio dall'una all'altra funzione - subordinato alla avvenuta frequenza di un corso di qualificazione professionale e ad uno specifico giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni - e un divieto di trasferimento - per chi abbia, nell'ultimo quadriennio, svolto una delle due funzioni - all'altra, nell'ambito dello stesso distretto.
In particolare: "Il magistrato che ha esercitato, nel corso dell'ultimo quadriennio, funzioni giudicanti in materia penale per almeno due anni, non può essere trasferito ad un ufficio requirente dello stesso distretto" (art. 190 Ord. Giud. come sostituito dall'art. 16, comma 5); "il magistrato che ha esercitato funzioni requirenti nel corso dell'ultimo quadriennio non può essere assegnato a svolgere funzioni giudicanti in materia penale in un ufficio giudicante del medesimo distretto" (art. 190 cit. comma 6).
Si pone quindi un principio di ordine sistematico; si indicano le condizioni, nel cui rispetto esso va attuato; si pongono i limiti, che la sua attuazione deve osservare.
Il principio posto va decisamente apprezzato.
L'"unità della magistratura" - al cui interno vanno distinte le diverse funzioni giudicanti e requirenti - presenta vantaggi tanto sperimentati e riconosciuti (comune cultura della giurisdizione, osmosi di contributi, rinnovo di esperienze, antidoto alla fossilizzazione dei ruoli, maggior resa in termini di garanzie, etc.) che non è qui il caso di illustrarli dettagliatamente. Il d.d.l.
in esame mostra - ben oltre la pura dichiarazione di principio - di condividerli quando, prevedendo un periodo obbligatorio di esercizio delle funzioni giudicanti prima della attribuzione di quelle requirenti, esprime nei fatti la convinzione che l'un versante costituisca una esperienza di arricchimento in vista dell'altro.
Del resto, anche gli ordinamenti (ad es. quello francese) che prevedono una ben più decisa separazione - ed una diversa collocazione istituzionale - tra magistratura requirente e giudicante, prevedono un agevole passaggio dall'una all'altra funzione.
Anche le condizioni indicate risultano da condividere.
La peculiarità, che con il nuovo rito accusatorio hanno assunto le funzioni inquirenti e requirenti, e la diversa attitudine che i magistrati presentano nei confronti di queste rispetto a quelle giudicanti, giustificano un accurato e rigoroso vaglio circa il passaggio dall'una all'altra di esse.
Non possono invece essere condivisi i limiti imposti, per una serie di considerazioni che, per un verso, ne evidenziano la contraddizione con il principio affermato; per altro verso, fanno emergere controindicazioni pesanti e non giustificate.
Va in primo luogo ripetuto che tali limiti non riguardano la idoneità al passaggio di funzioni (ciò che attiene alle condizioni di cui si è già detto), ma alla opportunità del passaggio medesimo, assunta nei termini di una incompatibilità assoluta.
E un tale profilo non può essere affrontato in termini ideologici e preconcetti, ma funzionali e pragmatici.
In tale ottica va allora considerato che, se il problema si pone per il passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti, in quanto chi ha svolto funzioni di parte (sia pure pubblica)
in una determinata realtà sociale può essere con riserve ed a fatica percepito come giudice di quella stessa realtà, ben diversa è la situazione di chi passi dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti, dato che (stando alla stessa filosofia che ispira il d.d.l.) la precedente esperienza non dovrebbe che giocare in favore della "cultura garantista", con cui verrebbe svolta la successiva.
E comunque, anche quanto alla prima ipotesi, se il problema consiste soprattutto in precedenti rapporti di colleganza ed in supposizioni disturbanti a livello di immagine, tale problema potrebbe contrassegnare il passaggio da ufficio ad ufficio di uno stesso circondario, non certo tra uffici dislocati nel ben più esteso ambito del distretto (con evidenti profili di irrazionalità: è stato già osservato, ad esempio, che, se è bene che il P.M. di Bergamo non possa passare a fare il giudice a Bergamo, non si capisce perché possa andare a fare il giudice a Milano, ma non a Brescia).
A fronte di tale inconsistenza di ragioni a sostegno, l'incompatibilità distrettuale porta evidenti conseguenze di carattere negativo: il mutamento di funzioni in uffici extradistrettuali comporta spostamenti familiari spesso inaffrontabili (ed il Comitato per le pari opportunità ha già fatto pervenire al C.S.M. le sue osservazioni al riguardo); diventa impossibile il trasferimento dei P.M. ai piccoli uffici infra-distrettuali con sezioni giudicanti promiscue; viene appesantita la organizzazione tabellare del lavoro...
Si ottiene, insomma, il contrario di ciò che si proclama e si dice di volere conseguire e si dà vita, nei fatti, ad una sorta di "forca caudina" sotto la quale deve piegarsi l'aspirazione al passaggio di funzione; si asseconda la prospettazione di una sorta di "contaminazione" che affliggerebbe chi ha esercitato la funzione di P.M. (anche per un solo giorno nel quadriennio antecedente al passaggio di funzioni - art. 190 cit. comma 6)) e dell'esigenza di una sorta di quarantena necessaria per restituirlo alle funzioni di giudice.
Anche nel procedimento che accerta l'idoneità al passaggio di funzione si ritrova l'autonomo parere del Presidente della Corte d'Appello o del Procuratore Generale, inteso anche quale veicolo delle "acquisite, se del caso, valutazioni del presidente del Consiglio dell'Ordine degli avvocati e procuratori" (art. 16 comma terzo).
Va ribadita la inopportunità di tale previsione, per le ragioni già illustrate.
Ingiustificato appare, in questo caso, il contributo (pur "eventuale") del Consiglio dell'Ordine, in quanto qui si tratta non più di "segnalazioni... che si riferiscono a fatti" (di cui all'art. 8 lett. e)) ma di "valutazioni" relative a questione (idoneità al passaggio di funzioni) rispetto alla quale non si vede quale spazio e quale competenza possano giustificare l'intervento dell'avvocatura.
Da condividere appare infine la previsione di un periodo obbligatorio di esercizio delle funzioni giudicanti prima della attribuzione di quelle requirenti, così come quella che destina gli uditori giudiziari a "svolgere le funzioni giurisdizionali di norma presso uffici giudiziari collegiali".
Ulteriori previsioni riguardano la responsabilità disciplinare (Capo III), il trattamento economico (Capo IV), che non subisce sostanziali modifiche, e le norme transitorie e finali (Capo V).
In ordine al primo profilo, l'autonoma collocazione sembra sottolineare il fatto che le valutazioni della professionalità non hanno, di per sè, alcun carattere sanzionatorio, anche se la contestuale predisposizione, da parte del Governo, del disegno di legge che rivede il complessivo sistema disciplinare può introdurre profili di opportunità e di coordinamento. Nel merito, esso attribuisce tempi più serrati alla decisione relativa alla sospensione facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio e - quando sia stato adottato un provvedimento in tal senso - alla definizione dell'istruttoria e del procedimento innanzi alla Sezione disciplinare.
A conclusione delle esposte considerazioni, il C.S.M. esprime nei termini sopra illustrati apprezzamento per alcune delle linee portanti del d.d.l., che adempie alla previsione costituzionale abolendo le attuali qualifiche e integra l'attuale sistema relativo allo "stato giuridico"
dei magistrati con un rigoroso congegno di valutazione della loro professionalità in vista delle
attribuzioni delle diverse funzioni, considerando in particolare la fondamentale distinzione tra funzioni requirenti e giudicanti, nell'ambito di una visione unitaria della magistratura.
All'interno di tale impostazione, ritiene però doveroso rimarcare le riserve, i rilievi anche fortemente critici e le preoccupazioni esposte nel corso della presente delibera in ordine a singoli punti del d.d.l..
Si sottolinea infine come condizione imprescindibile per il raggiungimento degli obbiettivi che la riforma si propone siano la contestuale introduzione della da tutti auspicata Scuola della magistratura, una significativa riforma dei Consigli giudiziari e l'approntamento di una adeguata strumentazione (attendibili indici di lavoro per tipo di ufficio e per singolo magistrato, documentate relazioni dei Dirigenti gli uffici, etc....), che garantisca serietà ed efficacia alla impostazione ed alla verifica dell'attività dei magistrati.