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Il danno esistenziale può creare pericolose ed ingiuste ripetizioni risarcitorie.

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Il danno esistenziale può creare pericolose ed ingiuste ripetizioni risarcitorie.

Prof. Gian Aristide Norelli*

Il cammino del danno biologico, dagli aspetti definitori a quelli valutativi, è stato ed è ancora irto di difficoltà, che derivano essenzialmente dal carattere intrinseco della materia, talora sfumata e mal definita, altre volte confusa e passibile di non univoca interpretazione, approdata ad una modellazione concettuale dopo anni di dibattito e di elaborazione, sempre, comunque, esposta alle ferite delle opinioni e della soggettività, sovente tali da confondere, piuttosto che chiarire, l’argomento primitivo. A questo devono aggiungersi, come motivo di complicazione ulteriore, i conflitti fra competenze e professionalità, che tramite il ricorso ad argomentazioni talora criptiche, talora viziate da errori originari, inducono ardite ed arbitrarie fughe in avanti nel modello interpretativo del danno biologico od al contrario pericolose regressioni, vanificando, nell’un caso e nell’altro, il percorso dottrinario del giurista e del medico legale, attenti alla necessità imprescindibile di contemperare l’equità del risarcimento con la definizione chiara del danno ingiusto e con la stima attuariale di esso, nel bisogno di un’armonica sintesi fra la menomazione in generale e la complessità dell’oggetto di tutela.

Il primo aspetto sul quale giova soffermarsi, dunque, riguarda l’opportunità di ripercorrere, rapidamente, i termini definitori del danno risarcibile, segnatamente nelle componenti ancora passibili di divergenze interpretative e per quelle la cui evocazione ha vivacizzato il dibattito civilistico dell’ultimo biennio, come categorie innovative nel percorso risarcitorio. Se, infatti, l’avvento del danno biologico e dei suoi definiti costituenti, pur con difficoltà non marginali, sia qualitative che di valutazione, aveva tuttavia indotto a ritenere che si fosse davvero raggiunta la meta di un ristoro integrale del danno alla persona conseguente a fatto illecito, evitando pericolose ed ingiuste ripetizioni, la proposta dottrinaria e giurisprudenziale del cosiddetto “danno esistenziale”

ha reso assai meno solido il convincimento, evocandosi ipotesi risarcitorie che, quantomeno sul piano medico-legale, rischiano di confondere e di disorientare anche il più cauto e ragionato parametro di valutazione.

Il danno esistenziale è stato definito, nella proposta della sua considerazione, come “la conseguenza di una lesione della personalità nelle sue varie sfaccettature...” ( v. MONATERI P.G.: “Occorre una

* Professore Ordinario di Medicina Legale – Università di Firenze.

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tripartizione tra danno biologico, morale ed esistenziale, in Tagete 6,6,n.3,2000 com ampi riferimenti bibliografici sul tema), con netta distinzione, più volte sottolineata, rispetto al danno biologico ed al danno morale. Non v’è chi non veda, al riguardo, e giova subito premetterlo, come il rischio di incorrere in evidenti ripetizioni di voci già ipotizzate in termini di risarcimento sia reale e concreto, posto che: o alla lesione ha fatto seguito una menomazione medico-legalmente apprezzabile della persona, sul piano oggettivo e/o soggettivo, nella sua sfera psichica (o psicologica, stante la sostanziale identità dei termini), ed allora il danno stesso deve rubricarsi entro la sfera del danno biologico, come menomazione della integrità personale, in modo temporaneo e/o permanente; ovvero l’evento causativo del danno stesso non ha alterato la cenestesi individuale, come modificazione peggiorativa e dinamica dello stato anteriore, in modo temporaneo o permanente, come menomazione tale da definire i canoni della patologia, ma solo interagendo, eventualmente, con la qualità della vita, ed allora il danno stesso non può che ricomprendersi entro la sfera del danno morale (danno extrapatrimoniale). Nell’un caso e nell’altro, comunque, si evocano ampie e lecite riserve sulla reale opportunità di proporre una ulteriore voce di danno risarcibile che rischia di confondersi e di sovrapporsi alle altre già note e definite categorie della tutela civilistica. È da notare, peraltro, come in termini di grande correttezza definitoria, i promotori della dottrina sul danno esistenziale, e segnatamente Monateri, hanno subito fornito la reale chiave di lettura della materia, chiarendone i termini, le prospettive e le motivazioni, addirittura prima dei contenuti concettuali. La natura del problema, infatti, è stata definita giuridico-politica (in senso lato, ovviamente), essenzialmente tesa a soppesare i delicati equilibri fra la risarcibilità del danno ingiusto nel suo complesso e la debole rispondenza costituzionale dell’art. 2059 c.c., cui è subordinato il danno morale. Certo è che il danno esistenziale, come nitidamente ha scandito Monateri “..non è suscettibile di consulenza tecnica, è un capo di danno, in cui anzi il medico legale non può neanche essere chiamato a pronunciarsi, perché esce dalle sue competenze e dalla sua sfera. Non mi vedo, in altre parole,

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un medico legale chiamato a valutare l’esistenzialità delle persone. Danno biologico di natura fisica e danno psichico sono separati dal danno esistenziale, che non può essere, per sua natura, oggetto di consulenza medico-legale..”. Fin qui, come si è detto, Monateri, con lucide e condivisibili argomentazioni, che tracciano un confine netto e certo fra gli interessi risarcitori, evidenzia da un lato e dall’altro la componente di quelli di cui sia chiara la matrice medico-legale. Il danno psichico e psicologico, peraltro, in questa disputa dottrinaria sui confini del danno risarcibile e sui suoi contenuti sostanziali, è venuto spesso a collocarsi in una sorta di limbo in cui, con argomentazioni, in verità, spesso non rispondenti alla realtà scientifica, se ne prospettavano ipotesi di risarcimento ora riferibili all’una ed ora all’altra componente del danno (danno biologico, danno morale, danno esistenziale). Ciò che, al contrario, interessa soprattutto sottolineare in accordo con Monateri, per il nitido inquadramento medico-legale del danno psichico, è che:

1) il danno psichico è, anzitutto, danno biologico ad ogni effetto, tale identità ricavandosi dalla chiara, univoca ed inequivoca raffigurazione, all’interno del danno biologico, di qualsiasi menomazione dell’integrità fisica e psichica dell’individuo; intendendosi con tale concetto e rifuggendo da bizantinismi lessicali e forensi che possono solo - ed impropriamente - confondere la materia, differenziando il versante psichico da quello psicologico, un peggioramento della salute della persona, intesa come stato di benessere fisico e psichico, appunto, o psicologico che dir si voglia. Proprio non si comprende, d’altronde, il fondamento scientifico che potrebbe riservarsi ad ogni diversa opinione, nel momento in cui risulta assolutamente ovvio ed innegabile che se la salute dell’individuo è da intendere, né potrebbe essere altrimenti, come una condizione di equilibrio percepito positivamente dal soggetto (benessere) o di cui, comunque, né soggettivamente né obiettivamente, se ne apprezzi qualsiasi difetto, altrettanto indubbio è che una qualunque lesione di tale stato di benessere, quale che sia la componente alterata (fisica e/o psichica, dunque) non può che rivestire i caratteri della

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menomazione della integrità e pertanto di danno biologico; che sarà riferibile alla componente fisica se è la sfera somatica dell’individuo che risulti menomata, psichico se la menomazione interessi la sfera dell’intelletto o della percezione di sé e degli altri stimoli, dell’emotività, della capacità associativa o del raziocinio. Di quell’ambito, in una parola, in cui si condensa il mondo interiore della persona che non è

“fisico” secondo l’accezione più comune del termine, proprio in quanto inerente la psiche dell’individuo, e tuttavia potrebbe anch’esso ben definirsi “organico”, nel momento in cui si dimostrasse che le alterazioni psichiche e psicologiche che si è in condizioni di dimostrare derivino da una alterazione biochimica dei mediatori o da alterazioni (ancora non individuate o individuabili) di qualche ambito cellulare dell’organismo.

Né può ragionevolmente ammettersi, pur nell’attuale livello della conoscenza scientifica, una differenza di sostanza fra il “danno psichico”

ed il “danno psicologico”, da taluno individuata (BERTI R.: “Il danno psichico e il danno psicologico ai confini del danno esistenziale”, Tagete,6,80,n.2,2000) con una artificiosità dialettica che ne tradisce, peraltro, la matrice giuridica e non medica, nel “diverso” contenuto delle scienze “psichiatriche” rispetto a quelle “psicologiche”; dovendosi, al contrario, ritenere che danno psichico è genericamente quello che interessa la sfera individuale come sopra intesa e la diversità fra psichiatria e psicologia può assumere rilievo ai presenti fini nel solo caso in cui si ritenga la prima idonea ad occuparsi di comportamenti e proiezioni intellettive non configuranti un danno, e segnatamente un danno all’integrità individuale, occupandosi la psicologia dello studio del comportamento anche al di fuori di condizioni definibili come patologiche in quanto eccedenti i canoni della “normalità”. Come a dire, in sostanza ed in piena tautologia, che mentre la psichiatria si occupa costantemente di condizioni patologiche (e quindi di stati sicuramente riconducibili a lesione o danno della salute), la psicologia può anche occuparsi di circostanze in cui la salute non risulti menomata (il carattere o la costituzione individuale, per esempio) e quindi di circostanze non riconducibili né a lesione né a danno. Diversamente da

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quanto accade in Giurisprudenza, del resto, ove la tutela del diritto è subordinata all’inquadramento categoriale della formula definitoria del diritto medesimo, pena la carenza del ricorso alla tutela, in Medicina non sempre è prevedibile un chiaro inquadramento della lesione, della menomazione e del danno come nosologia distinta, dovendosi spesso raccogliere (e ciò vale segnatamente per le alterazioni psichiche e psicologiche) l’espressione sintomatica, soggettiva ed obiettiva, della risposta allo stimolo e le modalità di percezione di essa, per definirsi la sussistenza o meno della condizione di infermità e quindi di menomazione e di danno. Una volta alterato lo stato di benessere, tuttavia, vi è indubbiamente lesione o danno, e se l’alterazione è psichica, non può che esservi lesione o danno psichico (o psicologico, che è sostanzialmente identico). Il danno psichico, poi, così inteso nella sua accezione più ampia, può ben intendersi come:

a) danno biologico conseguente ad un trauma produttivo anche di lesione fisica (trauma cranico, ad esempio);

b) danno biologico riconducibile ad un trauma elettivamente coinvolgente la sfera psichica, ove ha indotto la menomazione (trauma emozionale, ad esempio).

Donde indubbia ne è, sovente, la difficoltà di accertamento, allorché, in assenza di riscontri oggettivi del tipo di quello presente nel trauma fisico, esiste solo la sintomatologia soggettiva che ne connota i caratteri e le conseguenze (v. BRONDOLO W, MARIGLIANO A.: “Danno psichico”, Collana Medicina e Diritto, Ed. Giuffrè,Milano, 1996. V. Anche, di recente, la serie di saggi “L’altra faccia della luna - Il danno psichico:

aspetti clinici, medico-legali e giuridici”, in Tagete,6,41,n.2,2000).

Essendo anche da ricordare, tuttavia, come la scienza medica ben possieda i presupposti di cultura e di professionalità per stimare correttamente la diagnosi e per individuare l’effettiva realtà del trauma psichico anche in termini di efficienza lesiva, tramite l’applicazione della specifica ed insuperata criteriologia causale che sempre soccorre nella valutazione etiologica di un quadro patologico di cui non sia evidente la matrice ( e ciò

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vale anche per il trauma ed il danno psichici) nella critica e nel confronto fra l’elemento empirico e l’antecedente causale di studio (criterio cronologico, dell’adeguatezza lesiva, della continuità fenomenica e di esclusione, soprattutto, integrati dal criterio statistico che sempre maggior rilievo assume nella stima del nesso causale). Il che trova ampia convergenza con il pensiero, ancora nitido e lineare, del Monateri, che distingue la sostanziale e nota differenza fra il lutto “fisiologico” ed il danno psichico conseguente ad una perdita affettiva: “...Il medico legale si pronuncerà e ci sarà la consulenza, se, ad esempio, il lutto subito è così grave da causare una vera e propria malattia psichica: allora a quel punto sarà allegata la consulenza di parte, ci sarà un consulente tecnico d’ufficio e si andrà avanti, ma altrimenti, soprattutto nei casi di lutto (nel caso del cane si può anche chiedere la prova della grande affezione al cane), si applicherà l’id quod plerumque accidit, che potrà trovare altresì applicazione nel caso della distruzione del bene materiale, ad esempio la Bibbia di famiglia con cui il nonno era partito per il fronte russo e che ha sempre tenuto con sé ed uno con spregio la distrugge (in questo caso, infatti, c’è anche la distruzione di una dimensione esistenziale di un bene patrimoniale)” (MONATERI P.G., Ibid.). Corollario evidente a tale assunto, peraltro, è la assoluta impossibilità che si prescinda da specifiche professionalità nell’accertamento del danno psichico, al fine di trarre una sintesi diagnostica convincente, sulla quale il medico legale possa adoprarsi in termini di equa valutazione del danno stesso. Dovendosi in ogni modo richiamare ancora la matrice assolutamente biologica del danno psichico, come tale passibile di esclusiva e pertinente valutazione medica (psichiatrica e psicologica) e medico-legale.

2) Ciò su cui conviene interrogarsi, allora, se questo è vero, come lo è indubbiamente, è quale sia la matrice di necessità per evocare forme di danno aggiuntive rispetto al danno biologico (che ne ripropongano sostanzialmente i contenuti) ed al danno morale, e quale sia in definitiva il confine che medico-legalmente separa il primo dal secondo. Quanto al primo aspetto è da dire, anche alla luce dell’esperienza valutativa che la

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Medicina Legale ha maturato nel quindicennio trascorso dalla definizione costituzionale del danno biologico, che le componenti indicate dalla Corte come integranti di esso hanno indubbiamente indotto difficoltà nella stima del danno, da ricondurre soprattutto alla menomazione dei rapporti relazionali, che ne rappresentano la più specifica e propria personalizzazione. Con il risultato di rendere assai complessa, per il medico legale, la valutazione del danno misurata sull’individuo inteso, oltre che nella sua integrità psico-fisica, anche nelle sue componenti interrelazionali, ed insoddisfacente, per il giurista, il modello risarcitorio, potendosi con difficoltà tradurre una sì completa e variegata nozione in completo ristoro del bene perduto, muovendo dalla valutazione medico-legale che certamente si ancora, soprattutto, alla perdita dell’integrità piuttosto che alla menomazione (incerta e mal valutabile come parte naturalistica) dei rapporti intersoggettivi. Pur con i limiti espressi dalla inderogabile necessità di ricorrere ad un patrimonio esclusivo di competenza e professionalità medico-legale, in altri termini, l’espressione percentuale della menomazione non pone particolari difficoltà nella valutazione della componente naturalistica del danno stesso, mentre la componente relazionale espressa, come è stato ben definito, dall’incidenza della menomazione “nella esplicazione di tutte le attività interpersonali diverse da quella lavorativa normale (attività familiari, sociali, ricreative o di altro genere)”(NANNIPIERI A.: “Non è configurabile il cumulo tra danno patrimoniale e danno alla vita di relazione”, Tagete,6,33,n.2,2000), è da tenere in ogni modo assolutamente separata e non interferente con qualsiasi riferimento alla patrimonialità del danno stesso. Per tale aspetto il medico legale non può che proporre, nella personalizzazione del danno biologico e nella sua espressione percentuale, la stima di tale incidenza fra la perdita dell’integrità e la lesione dei rapporti, fondandosi, peraltro, sul solo resoconto anamnestico, essendo impossibile l’accertamento dell’effettiva realtà di parametri, quali i rapporti intersoggettivi, che rifuggono da ogni apprezzamento naturalistico. L’importanza dell’attività valutativa, peraltro, e l’insostituibilità dell’azione medico-

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legale, non si stempera nella necessità di affidarsi al dato anamnestico, permanendo l’essenzialità del metodo medico-legale nell’accertamento del nesso causale e cioè in termini di compatibilità e di rapporto fra il fatto illecito e la menomazione, e fra questa e le interferenze lamentate con i rapporti intersoggettivi, così come descritti ed evocati dalla parte.

Come, quindi, per ciò che attiene il danno patrimoniale, il medico legale deve limitarsi a proporre descrittivamente l’eventuale incidenza della menomazione dell’integrità nell’espletamento delle - riferite - attività produttive, così nella valutazione del danno biologico l’apprezzamento della componente relazionale, e quindi l’espressione dell’individualità e singolarità del danno stesso, non può che fondarsi sul riferimento anamnestico, risultandone, peraltro, non agevole una stima che ne trascenda la descrizione qualitativa.

Il quesito che ben può evocarsi, semmai, e sia consentita una breve digressione, verte sull’effettiva possibilità di esprimersi in termini di valutazione percentuale del danno, con riferimento alla componente relazionale, o piuttosto, in una futura prospettiva di revisione sulle modalità di stima del danno biologico, ed in analogia con la stima del danno patrimoniale sulla cui inespressività percentuale si è certi che non convenga limitare il calcolo percentuale alla menomazione dell’integrità psico-fisica (comprensiva, ovviamente, della componente sessuale ed estetica), riservando alla componente intersoggettiva un riferimento a carattere descrittivo che ben potrebbe trovare idoneo ristoro equitativo che si fondi sulla descrizione medico-legale del danno, ma non si ancori all’espressione percentuale di questo.

3) La difficoltà di comprendere la componente relazionale nella ristretta espressione percentuale del danno biologico e la sostanziale aspirazione a ricostituire una forma autonoma e personalizzata di danno che ne consenta un equo ed integrale ristoro economico, si ritiene che rappresenti il motivo per cui in ambito giurisprudenziale, ha trovato sì favorevole accoglienza il concetto di danno esistenziale, percependosi, da parte di taluno, la presenza di aree di cui non è stata ben compresa la collocabilità valutativa e che, se non riconducibili al danno biologico, non sempre possono trovare debita sodisfazione risarcitoria all'’interno del danno extrapatrimoniale, che bene, come si è detto, può ricomprendere quegli aspetti disturbanti la personalità che non siano riconducibili a menomazione psichica e psicologica, per i limiti di

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estensione alle fattispecie di cui all’art. 2059 C.C. Da qui, pertanto, il ricorso al “danno esistenziale”, come creatura giuridica e giurisprudenziale medicolegalmente mal definibile ed anche talora non perfettamente definita dal Giurista, se non tramite il ricorso ad elencazioni casistiche esemplificative, ben collocabili concettualmente, peraltro, nelle categorie già esistenti, ma che sembrano integrare una sorta di danno alla “qualità della vita” appagante l’anelito ad un risarcimento completo del bene menomato, ma che, si teme, sono destinati ad accentuare la confusione che un più schematico, ma non per questo meno preciso, esame critico della materia risarcitoria entro le vigenti previsioni di danno, meglio avrebbe potuto contenere.

L’impressione che si trae, in definitiva, è che il danno esistenziale rappresenti il ricorso ad una sorta di opportunità forense che intende richiamare alla percezione giuridica ciò che la Corte Costituzionale ha assegnato alla materia medica e medico-legale e sulla cui realtà e necessità di esistere si ritiene di aver sostanzialmente chiarito la inconsistenza biologica delle argomentazioni, rilevandosi anche il rischio che siano ripercorsi antichi sentieri cari alla ripetitività delle voci di danno risarcibile. Ciò che deve risultare chiaro, in ogni modo, quantomeno in termini di operatività concreta, è che, ove si ammetta l’opportunità di mantenere la previsione risarcitoria anche per il danno esistenziale, si dica, subito e con chiarezza, come ha fatto il Monateri, che tale forma di danno non ha valenza alcuna medicalmente accertabile, nè medicolegalmente valutabile, al contrario del danno psichico e psicologico che è da ricomprendere, invece, nella valutazione che il medico legale è chiamato a darne. Il danno esistenziale, dunque, non investe la sfera di interesse biologico e naturalistico di cui la componente psichica e psicologica sono forme essenziali e la cui valutazione, pertanto, non può, per ragioni di supposta ed errata convenienza, ascriversi a criteri di accertamento, stima e valutazione che non siano propri al rigore ed alla peculiarità del metodo medico-legale.

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Il danno esistenziale può creare pericolose ed ingiuste ripetizioni risarcitorie.

Prof. Gian Aristide Norelli*

Il cammino del danno biologico, dagli aspetti definitori a quelli valutativi, è stato ed è ancora irto di difficoltà, che derivano essenzialmente dal carattere intrinseco della materia, talora sfumata e mal definita, altre volte confusa e passibile di non univoca interpretazione, approdata ad una modellazione concettuale dopo anni di dibattito e di elaborazione, sempre, comunque, esposta alle ferite delle opinioni e della soggettività, sovente tali da confondere, piuttosto che chiarire,

* Professore Ordinario di Medicina Legale – Università di Firenze.

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l’argomento primitivo. A questo devono aggiungersi, come motivo di complicazione ulteriore, i conflitti fra competenze e professionalità, che tramite il ricorso ad argomentazioni talora criptiche, talora viziate da errori originari, inducono ardite ed arbitrarie fughe in avanti nel modello interpretativo del danno biologico od al contrario pericolose regressioni, vanificando, nell’un caso e nell’altro, il percorso dottrinario del giurista e del medico legale, attenti alla necessità imprescindibile di contemperare l’equità del risarcimento con la definizione chiara del danno ingiusto e con la stima attuariale di esso, nel bisogno di un’armonica sintesi fra la menomazione in generale e la complessità dell’oggetto di tutela.

Il primo aspetto sul quale giova soffermarsi, dunque, riguarda l’opportunità di ripercorrere, rapidamente, i termini definitori del danno risarcibile, segnatamente nelle componenti ancora passibili di divergenze interpretative e per quelle la cui evocazione ha vivacizzato il dibattito civilistico dell’ultimo biennio, come categorie innovative nel percorso risarcitorio. Se, infatti, l’avvento del danno biologico e dei suoi definiti costituenti, pur con difficoltà non marginali, sia qualitative che di valutazione, aveva tuttavia indotto a ritenere che si fosse davvero raggiunta la meta di un ristoro integrale del danno alla persona conseguente a fatto illecito, evitando pericolose ed ingiuste ripetizioni, la proposta dottrinaria e giurisprudenziale del cosiddetto “danno esistenziale”

ha reso assai meno solido il convincimento, evocandosi ipotesi risarcitorie che, quantomeno sul piano medico-legale, rischiano di confondere e di disorientare anche il più cauto e ragionato parametro di valutazione.

Il danno esistenziale è stato definito, nella proposta della sua considerazione, come “la conseguenza di una lesione della personalità nelle sue varie sfaccettature...” ( v. MONATERI P.G.: “Occorre una tripartizione tra danno biologico, morale ed esistenziale, in Tagete 6,6,n.3,2000 com ampi riferimenti bibliografici sul tema), con netta distinzione, più volte sottolineata, rispetto al danno biologico ed al danno morale. Non v’è chi non veda, al riguardo, e giova subito premetterlo, come il rischio di incorrere in evidenti ripetizioni di voci già ipotizzate in termini di risarcimento sia reale e concreto, posto che: o alla lesione ha fatto seguito una menomazione medico-legalmente apprezzabile della persona, sul piano oggettivo e/o soggettivo, nella sua sfera psichica (o psicologica, stante la sostanziale identità dei termini), ed allora il danno stesso deve rubricarsi entro la sfera del danno biologico, come

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menomazione della integrità personale, in modo temporaneo e/o permanente; ovvero l’evento causativo del danno stesso non ha alterato la cenestesi individuale, come modificazione peggiorativa e dinamica dello stato anteriore, in modo temporaneo o permanente, come menomazione tale da definire i canoni della patologia, ma solo interagendo, eventualmente, con la qualità della vita, ed allora il danno stesso non può che ricomprendersi entro la sfera del danno morale (danno extrapatrimoniale). Nell’un caso e nell’altro, comunque, si evocano ampie e lecite riserve sulla reale opportunità di proporre una ulteriore voce di danno risarcibile che rischia di confondersi e di sovrapporsi alle altre già note e definite categorie della tutela civilistica. È da notare, peraltro, come in termini di grande correttezza definitoria, i promotori della dottrina sul danno esistenziale, e segnatamente Monateri, hanno subito fornito la reale chiave di lettura della materia, chiarendone i termini, le prospettive e le motivazioni, addirittura prima dei contenuti concettuali. La natura del problema, infatti, è stata definita giuridico-politica (in senso lato, ovviamente), essenzialmente tesa a soppesare i delicati equilibri fra la risarcibilità del danno ingiusto nel suo complesso e la debole rispondenza costituzionale dell’art. 2059 c.c., cui è subordinato il danno morale. Certo è che il danno esistenziale, come nitidamente ha scandito Monateri “..non è suscettibile di consulenza tecnica, è un capo di danno, in cui anzi il medico legale non può neanche essere chiamato a pronunciarsi, perché esce dalle sue competenze e dalla sua sfera. Non mi vedo, in altre parole, un medico legale chiamato a valutare l’esistenzialità delle persone. Danno biologico di natura fisica e danno psichico sono separati dal danno esistenziale, che non può essere, per sua natura, oggetto di consulenza medico-legale..”. Fin qui, come si è detto, Monateri, con lucide e condivisibili argomentazioni, che tracciano un confine netto e certo fra gli interessi risarcitori, evidenzia da un lato e dall’altro la componente di quelli di cui sia chiara la matrice medico-legale. Il danno psichico e psicologico, peraltro, in questa disputa dottrinaria sui confini del danno risarcibile e sui suoi contenuti sostanziali, è venuto spesso a collocarsi in una sorta di limbo in cui, con argomentazioni, in verità, spesso non

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rispondenti alla realtà scientifica, se ne prospettavano ipotesi di risarcimento ora riferibili all’una ed ora all’altra componente del danno (danno biologico, danno morale, danno esistenziale). Ciò che, al contrario, interessa soprattutto sottolineare in accordo con Monateri, per il nitido inquadramento medico-legale del danno psichico, è che:

2) il danno psichico è, anzitutto, danno biologico ad ogni effetto, tale identità ricavandosi dalla chiara, univoca ed inequivoca raffigurazione, all’interno del danno biologico, di qualsiasi menomazione dell’integrità fisica e psichica dell’individuo; intendendosi con tale concetto e rifuggendo da bizantinismi lessicali e forensi che possono solo - ed impropriamente - confondere la materia, differenziando il versante psichico da quello psicologico, un peggioramento della salute della persona, intesa come stato di benessere fisico e psichico, appunto, o psicologico che dir si voglia. Proprio non si comprende, d’altronde, il fondamento scientifico che potrebbe riservarsi ad ogni diversa opinione, nel momento in cui risulta assolutamente ovvio ed innegabile che se la salute dell’individuo è da intendere, né potrebbe essere altrimenti, come una condizione di equilibrio percepito positivamente dal soggetto (benessere) o di cui, comunque, né soggettivamente né obiettivamente, se ne apprezzi qualsiasi difetto, altrettanto indubbio è che una qualunque lesione di tale stato di benessere, quale che sia la componente alterata (fisica e/o psichica, dunque) non può che rivestire i caratteri della menomazione della integrità e pertanto di danno biologico; che sarà riferibile alla componente fisica se è la sfera somatica dell’individuo che risulti menomata, psichico se la menomazione interessi la sfera dell’intelletto o della percezione di sé e degli altri stimoli, dell’emotività, della capacità associativa o del raziocinio. Di quell’ambito, in una parola, in cui si condensa il mondo interiore della persona che non è

“fisico” secondo l’accezione più comune del termine, proprio in quanto inerente la psiche dell’individuo, e tuttavia potrebbe anch’esso ben definirsi “organico”, nel momento in cui si dimostrasse che le alterazioni psichiche e psicologiche che si è in condizioni di dimostrare derivino da

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una alterazione biochimica dei mediatori o da alterazioni (ancora non individuate o individuabili) di qualche ambito cellulare dell’organismo.

Né può ragionevolmente ammettersi, pur nell’attuale livello della conoscenza scientifica, una differenza di sostanza fra il “danno psichico”

ed il “danno psicologico”, da taluno individuata (BERTI R.: “Il danno psichico e il danno psicologico ai confini del danno esistenziale”, Tagete,6,80,n.2,2000) con una artificiosità dialettica che ne tradisce, peraltro, la matrice giuridica e non medica, nel “diverso” contenuto delle scienze “psichiatriche” rispetto a quelle “psicologiche”; dovendosi, al contrario, ritenere che danno psichico è genericamente quello che interessa la sfera individuale come sopra intesa e la diversità fra psichiatria e psicologia può assumere rilievo ai presenti fini nel solo caso in cui si ritenga la prima idonea ad occuparsi di comportamenti e proiezioni intellettive non configuranti un danno, e segnatamente un danno all’integrità individuale, occupandosi la psicologia dello studio del comportamento anche al di fuori di condizioni definibili come patologiche in quanto eccedenti i canoni della “normalità”. Come a dire, in sostanza ed in piena tautologia, che mentre la psichiatria si occupa costantemente di condizioni patologiche (e quindi di stati sicuramente riconducibili a lesione o danno della salute), la psicologia può anche occuparsi di circostanze in cui la salute non risulti menomata (il carattere o la costituzione individuale, per esempio) e quindi di circostanze non riconducibili né a lesione né a danno. Diversamente da quanto accade in Giurisprudenza, del resto, ove la tutela del diritto è subordinata all’inquadramento categoriale della formula definitoria del diritto medesimo, pena la carenza del ricorso alla tutela, in Medicina non sempre è prevedibile un chiaro inquadramento della lesione, della menomazione e del danno come nosologia distinta, dovendosi spesso raccogliere (e ciò vale segnatamente per le alterazioni psichiche e psicologiche) l’espressione sintomatica, soggettiva ed obiettiva, della risposta allo stimolo e le modalità di percezione di essa, per definirsi la sussistenza o meno della condizione di infermità e quindi di menomazione e di danno. Una volta alterato lo stato di benessere,

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tuttavia, vi è indubbiamente lesione o danno, e se l’alterazione è psichica, non può che esservi lesione o danno psichico (o psicologico, che è sostanzialmente identico). Il danno psichico, poi, così inteso nella sua accezione più ampia, può ben intendersi come:

c) danno biologico conseguente ad un trauma produttivo anche di lesione fisica (trauma cranico, ad esempio);

d) danno biologico riconducibile ad un trauma elettivamente coinvolgente la sfera psichica, ove ha indotto la menomazione (trauma emozionale, ad esempio).

Donde indubbia ne è, sovente, la difficoltà di accertamento, allorché, in assenza di riscontri oggettivi del tipo di quello presente nel trauma fisico, esiste solo la sintomatologia soggettiva che ne connota i caratteri e le conseguenze (v. BRONDOLO W, MARIGLIANO A.: “Danno psichico”, Collana Medicina e Diritto, Ed. Giuffrè,Milano, 1996. V. Anche, di recente, la serie di saggi “L’altra faccia della luna - Il danno psichico:

aspetti clinici, medico-legali e giuridici”, in Tagete,6,41,n.2,2000).

Essendo anche da ricordare, tuttavia, come la scienza medica ben possieda i presupposti di cultura e di professionalità per stimare correttamente la diagnosi e per individuare l’effettiva realtà del trauma psichico anche in termini di efficienza lesiva, tramite l’applicazione della specifica ed insuperata criteriologia causale che sempre soccorre nella valutazione etiologica di un quadro patologico di cui non sia evidente la matrice ( e ciò vale anche per il trauma ed il danno psichici) nella critica e nel confronto fra l’elemento empirico e l’antecedente causale di studio (criterio cronologico, dell’adeguatezza lesiva, della continuità fenomenica e di esclusione, soprattutto, integrati dal criterio statistico che sempre maggior rilievo assume nella stima del nesso causale). Il che trova ampia convergenza con il pensiero, ancora nitido e lineare, del Monateri, che distingue la sostanziale e nota differenza fra il lutto “fisiologico” ed il danno psichico conseguente ad una perdita affettiva: “...Il medico legale si pronuncerà e ci sarà la consulenza, se, ad esempio, il lutto subito è così grave da causare una vera e propria malattia psichica: allora a quel punto

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sarà allegata la consulenza di parte, ci sarà un consulente tecnico d’ufficio e si andrà avanti, ma altrimenti, soprattutto nei casi di lutto (nel caso del cane si può anche chiedere la prova della grande affezione al cane), si applicherà l’id quod plerumque accidit, che potrà trovare altresì applicazione nel caso della distruzione del bene materiale, ad esempio la Bibbia di famiglia con cui il nonno era partito per il fronte russo e che ha sempre tenuto con sé ed uno con spregio la distrugge (in questo caso, infatti, c’è anche la distruzione di una dimensione esistenziale di un bene patrimoniale)” (MONATERI P.G., Ibid.). Corollario evidente a tale assunto, peraltro, è la assoluta impossibilità che si prescinda da specifiche professionalità nell’accertamento del danno psichico, al fine di trarre una sintesi diagnostica convincente, sulla quale il medico legale possa adoprarsi in termini di equa valutazione del danno stesso. Dovendosi in ogni modo richiamare ancora la matrice assolutamente biologica del danno psichico, come tale passibile di esclusiva e pertinente valutazione medica (psichiatrica e psicologica) e medico-legale.

3) Ciò su cui conviene interrogarsi, allora, se questo è vero, come lo è indubbiamente, è quale sia la matrice di necessità per evocare forme di danno aggiuntive rispetto al danno biologico (che ne ripropongano sostanzialmente i contenuti) ed al danno morale, e quale sia in definitiva il confine che medico-legalmente separa il primo dal secondo. Quanto al primo aspetto è da dire, anche alla luce dell’esperienza valutativa che la Medicina Legale ha maturato nel quindicennio trascorso dalla definizione costituzionale del danno biologico, che le componenti indicate dalla Corte come integranti di esso hanno indubbiamente indotto difficoltà nella stima del danno, da ricondurre soprattutto alla menomazione dei rapporti relazionali, che ne rappresentano la più specifica e propria personalizzazione. Con il risultato di rendere assai complessa, per il medico legale, la valutazione del danno misurata sull’individuo inteso, oltre che nella sua integrità psico-fisica, anche nelle sue componenti interrelazionali, ed insoddisfacente, per il giurista, il modello risarcitorio, potendosi con difficoltà tradurre una sì completa

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e variegata nozione in completo ristoro del bene perduto, muovendo dalla valutazione medico-legale che certamente si ancora, soprattutto, alla perdita dell’integrità piuttosto che alla menomazione (incerta e mal valutabile come parte naturalistica) dei rapporti intersoggettivi. Pur con i limiti espressi dalla inderogabile necessità di ricorrere ad un patrimonio esclusivo di competenza e professionalità medico-legale, in altri termini, l’espressione percentuale della menomazione non pone particolari difficoltà nella valutazione della componente naturalistica del danno stesso, mentre la componente relazionale espressa, come è stato ben definito, dall’incidenza della menomazione “nella esplicazione di tutte le attività interpersonali diverse da quella lavorativa normale (attività familiari, sociali, ricreative o di altro genere)”(NANNIPIERI A.: “Non è configurabile il cumulo tra danno patrimoniale e danno alla vita di relazione”, Tagete,6,33,n.2,2000), è da tenere in ogni modo assolutamente separata e non interferente con qualsiasi riferimento alla patrimonialità del danno stesso. Per tale aspetto il medico legale non può che proporre, nella personalizzazione del danno biologico e nella sua espressione percentuale, la stima di tale incidenza fra la perdita dell’integrità e la lesione dei rapporti, fondandosi, peraltro, sul solo resoconto anamnestico, essendo impossibile l’accertamento dell’effettiva realtà di parametri, quali i rapporti intersoggettivi, che rifuggono da ogni apprezzamento naturalistico. L’importanza dell’attività valutativa, peraltro, e l’insostituibilità dell’azione medico- legale, non si stempera nella necessità di affidarsi al dato anamnestico, permanendo l’essenzialità del metodo medico-legale nell’accertamento del nesso causale e cioè in termini di compatibilità e di rapporto fra il fatto illecito e la menomazione, e fra questa e le interferenze lamentate con i rapporti intersoggettivi, così come descritti ed evocati dalla parte.

Come, quindi, per ciò che attiene il danno patrimoniale, il medico legale deve limitarsi a proporre descrittivamente l’eventuale incidenza della menomazione dell’integrità nell’espletamento delle - riferite - attività produttive, così nella valutazione del danno biologico l’apprezzamento della componente relazionale, e quindi l’espressione dell’individualità e

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singolarità del danno stesso, non può che fondarsi sul riferimento anamnestico, risultandone, peraltro, non agevole una stima che ne trascenda la descrizione qualitativa.

Il quesito che ben può evocarsi, semmai, e sia consentita una breve digressione, verte sull’effettiva possibilità di esprimersi in termini di valutazione percentuale del danno, con riferimento alla componente relazionale, o piuttosto, in una futura prospettiva di revisione sulle modalità di stima del danno biologico, ed in analogia con la stima del danno patrimoniale sulla cui inespressività percentuale si è certi che non convenga limitare il calcolo percentuale alla menomazione dell’integrità psico-fisica (comprensiva, ovviamente, della componente sessuale ed estetica), riservando alla componente intersoggettiva un riferimento a carattere descrittivo che ben potrebbe trovare idoneo ristoro equitativo che si fondi sulla descrizione medico-legale del danno, ma non si ancori all’espressione percentuale di questo.

4) La difficoltà di comprendere la componente relazionale nella ristretta espressione percentuale del danno biologico e la sostanziale aspirazione a ricostituire una forma autonoma e personalizzata di danno che ne consenta un equo ed integrale ristoro economico, si ritiene che rappresenti il motivo per cui in ambito giurisprudenziale, ha trovato sì favorevole accoglienza il concetto di danno esistenziale, percependosi, da parte di taluno, la presenza di aree di cui non è stata ben compresa la collocabilità valutativa e che, se non riconducibili al danno biologico, non sempre possono trovare debita sodisfazione risarcitoria all'’interno del danno extrapatrimoniale, che bene, come si è detto, può ricomprendere quegli aspetti disturbanti la personalità che non siano riconducibili a menomazione psichica e psicologica, per i limiti di estensione alle fattispecie di cui all’art. 2059 C.C. Da qui, pertanto, il ricorso al “danno esistenziale”, come creatura giuridica e giurisprudenziale medicolegalmente mal definibile ed anche talora non perfettamente definita dal Giurista, se non tramite il ricorso ad elencazioni casistiche esemplificative, ben collocabili concettualmente, peraltro, nelle categorie già esistenti, ma che sembrano integrare una sorta di danno alla “qualità della vita” appagante l’anelito ad un risarcimento completo del bene menomato, ma che, si teme, sono destinati ad accentuare la confusione che un più schematico, ma non per questo meno preciso, esame critico della materia risarcitoria entro le

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vigenti previsioni di danno, meglio avrebbe potuto contenere.

L’impressione che si trae, in definitiva, è che il danno esistenziale rappresenti il ricorso ad una sorta di opportunità forense che intende richiamare alla percezione giuridica ciò che la Corte Costituzionale ha assegnato alla materia medica e medico-legale e sulla cui realtà e necessità di esistere si ritiene di aver sostanzialmente chiarito la inconsistenza biologica delle argomentazioni, rilevandosi anche il rischio che siano ripercorsi antichi sentieri cari alla ripetitività delle voci di danno risarcibile. Ciò che deve risultare chiaro, in ogni modo, quantomeno in termini di operatività concreta, è che, ove si ammetta l’opportunità di mantenere la previsione risarcitoria anche per il danno esistenziale, si dica, subito e con chiarezza, come ha fatto il Monateri, che tale forma di danno non ha valenza alcuna medicalmente accertabile, nè medicolegalmente valutabile, al contrario del danno psichico e psicologico che è da ricomprendere, invece, nella valutazione che il medico legale è chiamato a darne. Il danno esistenziale, dunque, non investe la sfera di interesse biologico e naturalistico di cui la componente psichica e psicologica sono forme essenziali e la cui valutazione, pertanto, non può, per ragioni di supposta ed errata convenienza, ascriversi a criteri di accertamento, stima e valutazione che non siano propri al rigore ed alla peculiarità del metodo medico-legale.

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