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Storia del pensiero linguistico , n. 2. Prof. Stefano Gensini (Dipartimento di Filosofia)

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(1)

Storia del pensiero

linguistico 2021-22, n. 2

Prof. Stefano Gensini (Dipartimento di Filosofia)

stefano.gensini@uniroma1.it

(2)

Oggetto del corso

Idee e politiche linguistiche dall’unità d’Italia al dopoguerra

 Idee = teorie della lingua, studio dell’italiano e dei suoi dialetti, analisi dei processi di comunicazione in Italia dai primi dell’Ottocento al secondo dopoguerra (anni Cinquanta-primi anni sessanta del ‘900)

 Politiche linguistiche = Dibattito sulle strategie per unificare linguisticamente

il paese, processi di alfabetizzazione e scolarità, interventi esplicitamente

politico-linguistici

(3)

Una lunga storia di

frammentazione territoriale e politica, che si rispecchia

nell’assetto della penisola al 1815.

La divisione politica del tempo

conferma il policentrismo della

vita sociale e statuale dell’Italia

dal Rinascimento in poi.

(4)

Varie fasi dell’unificazione politica del Regno d’Italia:

1861: unificazione guidata dal Regno di Sardegna

1866: Terza guerra d’Indipendenza, che porta all’annessione del Veneto (Venezia Euganea)

1870: annessione totale dell’ex Stato pontificio

1918: Venezia Tridentina (= Alto

Adige) e Venezia Giulia (con

Gorizia, Trieste e la Dalmazia)

vengono acquisite all’Italia.

(5)

Carta semplificata dei dialetti italiani e delle minoranze linguistiche di antico insediamento

Nel 1971 le minoranze contavano 2.500.000 di parlanti. Al giorno d’oggi si sono aggiunte minoranze

«nuove» per circa 5.000.000 di parlanti.

(6)

Evoluzione demografica degli italiani

Su 21 milioni di abitanti nel 1861, è stato calcolato che solo 600.00 erano in grado di parlare con qualche sicurezza la lingua

nazionale. Per tutti gli altri, madrelingua e lingua d’uso era il solo

dialetto. Nelle classi nobiliari, il dialetto si alternava al francese.

(7)

Evoluzione del tasso di analfabetismo dal 1861 al 2011….

… ma attenzione: le cifre si riferiscono agli analfabeti «dichiarati», non alle reali

capacità linguistiche. Gli analfabeti funzionali ancora oggi sono almeno 6 milioni.

(8)

Che cosa significa diglossia?

Si ha diglossia (# bilinguismo) quando nello stesso spazio

convivono due idiomi in rapporto gerarchico fra di loro.

 Questa nozione si adatta a gran parte della storia italiana, in

quanto dialetto e lingua

nazionale sono separate nello spazio comunicativo e l’uno

socialmente subordinato all’altra.

 Eccezioni a questo schema sono:

 In parte la Toscana e Roma, dove per motivi storici il vernacolo è vicino all’italiano letterario;

 Alcune realtà cittadine e sociali

(ad es. Milano e la Lombardia)

dove l’elevato livello di istruzione

consente di alternare dialetto e

italiano.

(9)

L’italiano letterario agli inizi dell’800:

una lingua che giace «morta fra i libri»

Manzoni 1809, Urania

Su le populee rive e sul bel piano Da le insubri cavalle esercitato, Ove di selva coronate attolle La mia città le favolose mura,

5Prego, suoni quest’Inno: e se pur degna Penne comporgli di più largo volo

La nostra Musa, o sacri colli, o d’Arno Sposa gentil, che a te gradito ei vegna Chieggo a le Grazie. Chè dai passi primi 10Nel terrestre viaggio, ove il desio Crudel compagno è de la via, profondo Mi sollecita amor che Italia un giorno Me de’ suoi vati al drappel sacro

aggiunga,

Italia, ospizio de le Muse antico. …

Foscolo, Ultime lettere di J. Ortis (1801)

L’ho veduta, o Lorenzo, la divina fanciulla; e te ne ringrazio. La trovai seduta, miniando il proprio ritratto. Si rizzò salutandomi come s’ella mi conoscesse, e ordinò a un servitore che andasse a cercare di suo padre. Egli non sperava, mi diss’ella, che voi sareste venuto; sarà per la campagna; nè starà molto a tornare. Una ragazzina le corse fra le ginocchia dicendole non so che all’orecchio. È l’amico di Lorenzo, le rispose Teresa, è quello che il babbo andò a trovare l’altr’jeri. Tornò frattanto il signor T...:

m’accoglieva famigliarmente, ringraziandomi ch’io mi fossi sovvenuto di lui. Teresa intanto, prendendo per mano la sua sorellina, partiva.

Vedete, mi diss’egli, additandomi le sue figliuole che uscivano della stanza; eccoci tutti. Proferì, parmi, queste parole, come se volesse farmi sentire che gli mancava sua moglie. Non la nominò. Si ciarlò lunga pezza. Mentr’io stava per congedarmi, tornò Teresa. Non siamo tanto lontani, mi disse;

venite qualche sera a veglia con noi.

(10)

E la lingua parlata? Testimonianze d’epoca (da

Zuccagni-Orlandini, Raccolta di dialetti. Italiani, 1864)

(11)

Una voce fuori dal coro: Carlo Porta e i diritti del dialetto, 1812 I paroll d'on lenguagg, car sur Gorell,

hin ona tavolozza de color,

che ponn fà el quader brutt, e el ponn fà bell

segond la maestria del pittor.

Senza idej, senza gust, senza on cervell

che regola i paroll in del descor, tutt i lenguagg del mond hin come quell

che parla on sò umilissim servitor:

e sti idej, sto bon gust già el savarà che no hin privativa di paes,

ma di coo che gh'han flemma de studià:

tant l'è vera che in bocca de Usciuria

el bellissem lenguagg di Sienes l'è el lenguagg pù cojon che mai ghe sia.

Questa rivendicazione della dignità del dialetto presuppone una

società borghese mediamente colta e in grado di utilizzare il dialetto in ogni aspetto della vita sociale, ma anche di leggere e capire

l’italiano.

(12)

Una drammatica testimonianza d’inizio secolo: aspetti linguistici della

Rivoluzione napoletana del 1799 (da Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, prima ed. 1800) )

«una

rivoluzione passiva» ….

«due lingue

diverse»

(13)

La battaglia sulle parole della «democrazia». Da Thjulen, Nuovo vocabolario filosofico-democratico (1799)

Il lessico politico della rivoluzione francese

viene capovolto di senso e presentato in

Termini ferocemente negativi.

(14)

Manzoni (1821-23) alle prese col Fermo e Lucia: inizia una gigantesca operazione politico-culturale e linguistica.

Quando l’uomo che parla abitualmente un dialetto si pone a scrivere in una lingua, il dialetto di cui egli s’è servito nelle occasioni più attive della vita, per l’espressione più immediata e spontanea dei suoi sentimenti, gli si affaccia da tutte le parti, s’attacca alle sue idee, se ne

impadronisce, anzi talvolta gli

somministra le idee in una formola; gli cola dalla penna e se egli non ha fatto uno studio particolare della lingua, farà il

fondo del suo scritto. (…..)

Basta all’autore che altri non creda avere egli scritto male per noncuranza di chi legge, per dispregio del bello e purgato scrivere, che sia di quelli che hanno per gloria lo scriver male. Per gloria! quand’anche ella fosse impresa difficile, tanti vi hanno sì ben riuscito, che poca gloria ne debbe toccare a ciascuno. Scrivo male: e si perdoni all’autore che egli parli di sè: è un privilegio delle prefazioni, un picciolo e troppo giusto sfogo concesso alla vanità di chi ha fatto un libro: scrivo male a mio dispetto; e se

conoscessi il modo di scriver bene, non lascerei certo di porlo in opera. I doni dell’ingegno non si acquistano, come lo indica il nome stesso;

ma tutto ciò che lo studio, che la diligenza possono dare, non istarebbe certamente per me ch’io non lo acquistassi.

(15)

Manzoni, 2. Ma che vuol dire «parlare e scrivere «bene»?

A bene scrivere bisogna sapere scegliere quelle parole e quelle frasi, che per convenzione generale di tutti gli scrittori, e di tutti i favellatori (moralmente parlando) hanno quel tale significato: parole e frasi che o nate nel popolo, o

inventate dagli scrittori, o derivate da un’altra lingua, quando che sia, comunque, sono generalmente ricevute e usate. Parole e frasi che sono passate dal discorso negli scritti senza parervi basse, dagli scritti nel discorso senza parervi affettate; e sono generalmente e indifferentemente adoperate all’uno e all’altro uso. Parole e frasi divenute per quest’uso generale ed esclusivo tanto famigliari ad ognuno, che ognuno (moralmente parlando) le riconosca appena udite; dimodoché se un parlatore o uno scrittore per caso adoperi qualcheduna che non sia di quelle, o travolga alcuna di quelle ad un senso diverso dal comune, ognuno se ne avvegga e ne resti offeso; e per provare che quella parola sia barbara, o inopportuna non debba frugare un vocabolario, né ricordarsi (memoria negativa che debb’esser molto difficile) che quella parola non è stata adoperata dai tali e dai tali scrittori, ma gli basti appellarsene alla memoria, all’uso, al sentimento degli altri ascoltatori, i quali fossero mille, converranno tosto del sì o del no. (…) Per bene usare parole e frasi tali, cioè per bene scrivere sono necessarie due condizioni. Che lo scrittore (lasciando sempre da parte l’ingegno) le conosca, che abbia letto libri bene scritti, e parlato con persone colte, che abbia posto studio nell’udire e nel leggere e ne ponga nel parlare. Ma questa condizione è la seconda. La prima è che parole e frasi

adottate esclusivamente per convenzione generale esistano, che moltissimi scrittori e parlatori, come d’accordo, abbiano formata questa lingua ch’egli debbe scrivere, gli abbiano preparati i materiali.

Se in Italia vi sia una lingua che abbia questa condizione, è una quistione su la quale non ardisco dire il mio parere. È ben certo che v’ha molte lingue particolari a diverse parti d’Italia, che in una sfera molto ristretta di idee certamente, ma hanno quell’universalità e quella purità. Io per me, ne conosco una, nella quale ardirei promettermi di parlare, negli argomenti ai quali essa arriva, tanto da stancare il più paziente uditore, senza proferire un barbarismo; e di avvertire immediatamente

qualunque barbarismo che scappasse altrui: e questa lingua, senza vantarmi, è la milanese.

(16)

«Ma che parole ha dette quel tizzone d’inferno?»

«Io le ho intese, Fermo, e non te le saprei ripetere. Dimmi, se tu dopo un lungo giro uscissi da un sentiero intricato, pieno di oscurità e di spini, sapresti tu descrivere la via che hai percorsa? noverare i tuoi passi, segnare le giravolte e gl’inciampi? Povero Fermo! Le parole della iniquità potente sono come il lampo che abbaglia e fa terrore, e non lascia vestigio. (…) Colui non ha proferito il nome di questa innocente, né il tuo, non ha mostrato di sapere che voi viviate, non ha detto di voler nulla; ma... pur troppo quello che voi mi avete rivelato, quello che io non avrei voluto credere, è vero. Mah! confidenza in Dio come v’ho detto:

questa è l’ora dell’uomo, ma va passando. Io parto, e vi lascio nelle mani di Dio... Oh il sole è caduto e arriverò tardi: ma poco importa. Fatevi animo: Dio mi ha già dato un segno di volervi ajutare. Domani non ci vedremo: io rimango al convento; ma per voi. Mandate, Lucia, un garzoncello fidato, che giri vicino al convento, alla Chiesa, e pel quale io possa farvi sapere quello che occorrerà: io sarò avvertito, e vi farò avvertite: avremo dei mezzi che colui non sospetta, che finora non conosco nemmeno io: in Milano ho qualche protezione, e la vedremo.

Dal Fermo e Lucia , cap. VII Dalla Introduzione «…tutta questa vostra dicitura è un composto indigesto di frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’ francesi, un po’ anche latine; di frasi che non appartengono a nessuna di queste categorie, ma sono cavate per

analogia e per estensione o dall’una o dall’altra di esse».

(17)

Un paradosso alla base del nostro

percorso

(18)

Manzoni, un «padre» riconosciuto della lingua italiana, proposto come modello a centinaia di miglia di scolari dal tardo Ottocento in poi, è la stessa persona che nel 1823 dichiarava di scrivere male, di non

padroneggiare l’italiano al modo in cui padroneggiava, invece, «senza proferire un barbarismo», il suo dialetto. La stessa che parlava

fluentemente il francese e lo usava nella conversazione comune.

De Mauro: l’italiano era «lingua straniera in patria», laddove l’inglese e il francese erano condivise da tutta la nazione.

Come fare per mutare questa situazione, figlia di secoli di divisione politica e di stacco sociale fra le élites e le masse popolari?

A dx in alto, la raffigurazione nell’antiporta dell’ed. finale, 1840, dei Promessi Sposi; in basso l’inizio della famosa relazione

«Dell’Unità della lingua» (1868)

(19)

Un ulteriore

paradosso: che ne è dell’italiano come lingua di cultura?

(Leopardi, 1821, Zibaldone di

pensieri, pp.

1213 e segg.)

Da qualche tempo tutte le lingue cólte di Europa hanno un buon numero di voci comuni, massime in politica e in filosofia ed

intendo anche quella filosofia che entra tuttogiorno nella

conversazone, fino nella conversazione o nel discorso meno cólto, meno studiato, meno artifiziato. Non parlo poi delle voci

pertinenti alle scienze, dove quasi tutta l’Europa conviene. Ma una grandissima parte di quelle parole che esprimono cose piú sottili e, dirò cosí, piú spirituali di quelle che potevano arrivare ad esprimere le lingue antiche e le nostre medesime ne’ passati

secoli; ovvero esprimono le stesse cose espresse in dette lingue, ma piú sottilmente e finamente, secondo il progresso e la

raffinatezza delle cognizioni e della metafisica e della scienza dell’uomo in questi ultimi tempi; e, insomma, tutte o quasi tutte quelle parole ch’esprimono precisamente un’idea al tempo stesso sottile e chiara o almeno perfetta ed intera; grandissima parte, dico, di queste voci sono le stesse in tutte le lingue cólte d’Europa, eccetto piccole modificazioni particolari, per lo piú nella

desinenza. Cosí che vengono a formare una specie di piccola lingua o un vocabolario strettamente universale. E dico

strettamente universale, cioè non come è universale la lingua

francese, ch’é lingua secondaria di tutto il mondo civile.

(20)

Ma questo vocabolario, ch’io dico, è parte della lingua primaria e propria di tutte le nazioni e serve all’uso quotidiano di tutte le lingue e degli scrittori e parlatori di tutta l’Europa cólta. Ora, la massima parte di questo vocabolario universale manca affatto alla lingua italiana accettata e riconosciuta per classica e pura; e quello ch’é puro in tutta l’Europa è impuro in Italia. Questo è voler veramente e consigliatamente metter l’Italia fuori di questo mondo e fuori di questo secolo. Tutto il mondo civile facendo oggi quasi una sola nazione, è naturale che le voci piú importanti ed esprimenti le cose che appartengono all’intima natura universale, sieno comuni ed uniformi da per tutto, come è comune ed uniforme una lingua, che tutta l’Europa adopera oggi piú universalmente e frequentemente che mai in altro tempo, appunto per la detta ragione, cioè la lingua francese. E siccome le scienze sono state sempre uguali dappertutto, a differenza della letteratura, perciò la repubblica scientifica, diffusa per tutta l’Europa, ha sempre avuto una nomenclatura universale ed uniforme nelle lingue le piú difformi ed intesa da per tutto egualmente. Cosí sono oggi uguali, per necessità e per natura del tempo, le cognizioni metafisiche, filosofiche, politiche ec., la cui massa e il cui sistema semplicizzato e uniformato è comune oggi più o meno a tutto il mondo civile;

Lo Zibaldone è il diario in forma di pensieri tenuto da Leopardi fra il 1817 e il 1832.

(21)

naturale conseguenza dell’andamento del secolo. Quindi è ben congruente e conforme alla natura delle cose, che almeno la massima parte del vocabolario che serve a trattarle ed esprimerle sia uniforme generalmente, tendendo oggi tutto il mondo a uniformarsi. E le lingue sono sempre il termometro de’ costumi, delle opinioni ec. delle nazioni e de’ tempi e seguono per natura l’andamento di questi. Diranno che buona parte del detto vocabolario deriva dalla lingua francese, e ciò stante la somma influenza di quella lingua e letteratura nelle lingue e letterature moderne, cagionata da quello che ho detto altrove. Ma venisse ancora dalla lingua tartara, siccome l’uso decide della purità e bontà delle parole e dei modi, io credo che quello ch’é buono e conveniente per tutte le lingue d’Europa debba esserlo, massime in un secolo della qualità che ho detto, anche per l’Italia, che sta pure nel mezzo d’Europa, e non è già la Nuova Olanda né la terra di Jesso. E se hanno accettate ed usano continuamente le dette voci quelle lingue europee che non hanno punto che fare colla francese, quanto piú dovrà farlo e piú facilmente e con piú naturalezza e vantaggio la nostra lingua, ch’é sorella carnale della francese?

Leopardi si oppone

fervidamente al «purismo»

(Bembo, Cesari) che prevaleva fra i letterati italiani ma anche al più moderato «classicismo»

propugnato da Vincenzo

Monti e Pietro Giordani.

(22)

«In cerca di una lingua», disperatamente. Il Vocabolario domestico (1840-1851/3) di Giacinto Carena (1778-1859)

Piemontese, il

Carena si sforzò di compilare un

vocabolario delle parole di uso

comune

raccogliendole dal fiorentino e dal

toscano parlato del suo tempo. Fu molto apprezzato dal

Manzoni il quale gli

scrisse un celebre

lettera pubblicata

postuma nel 1850.

(23)

Manzoni ne trae lo spunto per esporre

la sua idea circa l’unità linguistica

(24)

Una parola sola, certa, in

luogo di tante forme dialettali

A. Manzoni

Lettera al Carena

(1847-1850)

(25)

In sintesi, la «crisi» della lingua italiana agli inizi dell’Ottocento

Crisi sociale:

 È la lingua, quasi esclusivamente scritta, di una ristretta élite,

mentre nel parlato dominano i diversi dialetti, cittadini e rurali;

Le stesse élites talora conoscono e usano più il francese che

l’italiano come lingua di conversazione.

Crisi culturale:

 La tradizione di lingua scritta e letteraria ha escluso l’italiano dal rinnovamento culturale e

linguistico del Settecento francese e inglese;

 Mancano alla lingua italiana i termini tipici delle scienze, della politica, del lessico intellettuale della comunicazione colta

(«europeismi».

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