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LA VALUTAZIONE DEL RISCHIO DA AGENTI BIOLOGICI NELLE STRUTTURE SANITARIE.

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LA VALUTAZIONE DEL RISCHIO DA AGENTI BIOLOGICI NELLE STRUTTURE SANITARIE.

Dr. A. Baratti 1, Dr. R. Falcetta 2 1. Premessa.

In una realtà sempre più caratterizzata da una crescente competitività è facile attendersi, nel prossimo futuro, che il processo di completamento dell’aziendalizzazione delle strutture sanitarie porti le stesse ad orientarsi verso criteri di gestione improntati alla massima efficienza. L’atteso contenimento dei costi non dovrà però comportare, necessariamente, un decremento delle risorse investite per la riduzione dei rischi, la protezione ed il miglioramento della salute degli operatori sanitari (1-2), in analogia con quanto già avviene nelle aziende industriali dove, per processi di qualità totale, si è previsto di armonizzare le esigenze della produzione con quelle di tutela della salute dei lavoratori.

In questo contesto la valutazione del rischio da agenti biologici deve pertanto costituire la reale premessa ad interventi di prevenzione ambientale, individuale e sanitaria, effettivamente praticabili e rispondenti a criteri d’efficienza e d’efficacia.

La metodologia utilizzata deve consentire di identificare i rischi e non solamente i pericoli, deve fornire concrete indicazioni di interventi migliorativi, deve essere riproducibile e sufficientemente agile da consentire di monitorare nel tempo l’effettiva riduzione dei rischi (3).

2. La valutazione del rischio biologico nelle strutture sanitarie.

Nelle Aziende Sanitarie ed Ospedaliere sono molteplici le occasioni di esposizione degli operatori (non solo sanitari) ad agenti biologici di riconosciuta pericolosità: le attività di ricerca, di sperimentazione e di diagnosi possono comportare un’esposizione per uso deliberato di agenti biologici (4), mentre le funzioni di cura e di assistenza dei pazienti, di manutenzione di macchine ed impianti, e di smaltimento dei rifiuti possono comportare esposizioni per presenza di agenti biologici.

La valutazione del rischio prevista dall’art. 78 del D.L.gs. 626/94 va effettuata per entrambe le situazioni e dovrà essere condotta secondo le categorie conoscitive e le prassi operative consolidate della Medicina del Lavoro (5-6): dovrà quindi accertare il rischio (Risk Assessment) attraverso l’identificazione del pericolo (Hazard Identification), l’accertamento e la misura dell’esposizione (Esposure Assessment), la descrizione e la valutazione delle conseguenze (Consequence assessment). Questo processo porterà ad una stima iniziale del rischio (Risk

1 Servizio del Medico Competente, A.S.L. 17 Fossano, Saluzzo, Savigliano (CN)

2 Servizio di Medicina del Lavoro, A.O. O.I.R.M. – S. Anna, Torino

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estimation) e quindi alla fase finale della valutazione vera e propria del rischio (Risk evaluation).

E’ sicuramente vero che la valutazione dei rischio da agenti biologici presenta aspetti peculiari rispetto a quella relativa a fattori di rischio chimico e fisico, ma è altrettanto vero come non si possa più prescindere da una valutazione effettiva del rischio di danno da esposizione ad agenti biologici che sia rappresentativa della realtà di ogni unità operativa. In caso contrario continueremo a fare valutazioni presuntive, solitamente basate su analogie fornite dalla letteratura o, peggio, su ipotesi ed assunzioni non verificate (4-7).

Questo è anche l’orientamento generale espresso sia dall’I.S.P.E.L.S. (8) che dal Coordinamento Tecnico per la Prevenzione delle Regioni e Province Autonome (4) in tema di valutazione del rischio, ove si indica la necessità di utilizzare una metodologia che coniughi l’analisi del processo produttivo con il controllo dello stesso, individuando, per ogni fase lavorativa, i punti critici del ciclo ed i modi in cui si può verificare un’esposizione ad agenti biologici impiegati o potenzialmente presenti, premessa per la definizione di una serie misure di contenimento e di sistemi di verifica del risultato.

Il rischio da agenti biologici dipende da due fattori distinti: il rischio di contatto (o esposizione) ed il rischio di contrarre la malattia.

Il rischio di contatto è funzione:

1. della prevalenza dell’infezione nella popolazione e, quindi, dei soggetti infettanti nella popolazione del bacino di utenza;

2. del tipo di attività svolta;

3. delle misure di prevenzione adottate.

Il rischio di contrarre la malattia è funzione:

1. della carica infettante;

2. della resistenza del soggetto.

Risulta evidente come solamente su alcuni fattori è possibile un intervento preventivo e che comunque, anche per questi, bisogna tenere in considerazione tutta una serie di fattori limitanti.

A fronte di un numero pressoché illimitato di microrganismi potenzialmente patogeni presenti in ambito sanitario è inoltre necessario selezionare gli obiettivi su cui concentrare l’attenzione e gli interventi, non solo per pragmatismo, ma per impostare la gestione delle risorse anche su principi di carattere etico.

Le conseguenze di un contatto con materiale biologico potenzialmente infetto non si limitano infatti solo al rischio di contrarre un’infezione e di sviluppare una malattia (eventi fortunatamente rari) (9-10). Come giustamente ricordato in un documento del 1998 dall’International Health Care Worker Safety Center, dell’Università della Virginia (10), ogni anno, migliaia di operatori sanitari subiscono traumi psicologici che durano mesi nell’attesa dei risultati del follow up sierologico. Oltre a ciò, questi

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eventi determinano importanti effetti nella sfera della vita affettiva e familiare, come il rinvio di una gravidanza, o la modifica di comportamenti sessuali, tali da potersi considerare alla stregua di un vero e proprio danno psichico, senza considerare le conseguenze, talvolta drammatiche, di un’eventuale malattia infettiva (invalidità, limitazioni dell’idoneità al lavoro, trapianto epatico e morte prematura).

La valutazione del rischio: i dati disponibili e quelli utili.

La valutazione del rischio prevede, innanzitutto, l’accertamento del rischio. Per accertamento del rischio (Risk Assessment) si intende la valutazione quantitativa, cioè la misura del rischio inteso come il prodotto della probabilità (Pr) che si verifichi un situazione potenzialmente avversa, o pericolo (P), in grado di determinare un danno (D), secondo la nota formula: R= Pr(P) x Pr(D) (6).

Come noto questa metodologia di valutazione si compone delle numerose fasi di seguito sinteticamente descritte (7):

• L’identificazione del pericolo consiste nell’individuazione degli agenti di rischio che possono essere presenti nel processo lavorativo sottoposto ad analisi.

• L’accertamento dell’emissione è la descrizione di come una fonte di rischio possa introdurre e/o diffondere l’agente e la quantificazione della relativa probabilità. E’

quindi la procedura che porta ad individuare i materiali in grado di veicolare gli agenti biologici e contaminare direttamente ed indirettamente gli operatori. Per ogni agente biologico è necessario determinare la probabilità che la fonte di rischio sia effettivamente infetta e le condizioni che possono far variare tale probabilità.

• L’accertamento dell’esposizione è la descrizione e la quantificazione dell’esposizione al rischio derivante da una determinata fonte da parte dell’uomo o dell’ambiente. Considera quindi una serie di variabili come l’intensità e la frequenza dell’esposizione, le vie di esposizione, le caratteristiche dei soggetti esposti, l’organizzazione del lavoro, la tipologia delle attività svolte, l’uso di DPI, le condizioni igieniche.

• L’accertamento delle conseguenze è la descrizione e la quantificazione delle relazioni esistenti tra l’esposizione ad un agente di rischio e le conseguenze sulla salute. Per valutazioni di ordine tossicologico questa fase misura le relazioni tra dose ed effetto; in campo biologico misura la probabilità che l’esposizione ad una determinata quantità di agente eziologico si traduca in infezione e questa in malattia.

• La stima del rischio rappresenta la somma delle valutazioni effettuate allo scopo di produrre misure quantitative dei rischi: essa esprime il numero di soggetti coinvolti, la natura e la dimensione del problema, il grado di incertezza della stima.

• La valutazione del rischio è il processo di comparazione dei valori di rischio determinati con le fasi precedenti per produrre una stima qualitativa e quantitativa degli effetti sfavorevoli derivanti dall’esposizione agli agenti di rischio.

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Consentendo la caratterizzazione del rischio, costituisce quindi la premessa per la fase successiva di gestione del rischio (Risk Management), che invece rappresenta il processo nel quale vengono prese le decisioni se accettare un rischio accertato o presunto, e ricercate le modalità di controllo al fine di ridurre la probabilità che un certo evento sfavorevole avvenga, oppure per ridurne le conseguenze (5).

Quando si tratta di prevenire eventi in grado di determinare malattie gravi o letali è chiaro come la definizione del livello di accettabilità del rischio sia un processo quanto mai delicato e difficile, in una situazione in cui, peraltro, l’azzeramento del rischio è difficilmente realizzabile. Tornando infatti alla nota formula R= Pr(P) x Pr(D), l’azzeramento del rischio può realizzarsi solo se si azzera la probabilità che si verifichino esposizioni ad agenti biologici, oppure se l’esposizione non dà mai origine a malattia (in effetti questa evenienza – rara- può verificarsi nel caso che il soggetto sia esposto ad un agente per il quale risulta immunizzato). E’ l’esposizione che infatti costituisce il nesso causale tra i due eventi: il pericolo e il danno (6).

Per il rischio biologico le cose si complicano ulteriormente poiché in tutte le fasi di valutazione sopra descritte intervengono numerosi fattori limitanti (11-12); inoltre, siccome per ognuna di esse è possibile raccogliere una considerevole mole di dati, spesso così incompleti e disomogenei da compromettere la possibilità di completare il processo di valutazione del rischio (13), prima di procedere ad onerose operazioni di questo tipo, è opportuno porsi alcune domande.

Poiché il numero di agenti biologici potenzialmente patogeni per l’uomo in ambito sanitario è, di fatto, illimitato, è necessario, nella fase dell’identificazione del pericolo, considerarne solo una ristretta famiglia in relazione alle caratteristiche di pericolosità intrinseche, che, a loro volta, risultano molto variabili in quanto dipendono dalle differenti modalità di trasmissione, dall’infettività, dalla patogenicità, e dalla neutralizzabilità. E’ per questi motivi che da tempo, sia gli organismi tecnico-scientifici che i legislatori (nazionali ed internazionali), hanno operato delle scelte, per cui in ambiente sanitario - per quanto riguarda l’operatore e non ovviamente il paziente - si considerano quasi esclusivamente la tubercolosi (in rappresentanza del capitolo degli agenti trasmissibili per via aerea), i virus dell’epatite e l’HIV (per le malattie trasmesse per via parenterale), mentre minore attenzione viene riservata a patogeni trasmissibili per via oro-fecale (come l’HAV) o per contatto (come la pediculosi o la scabbia) (14- 15-16-17-18).

In questa direzione va anche la scelta di non incentivare, come strumento di valutazione del rischio, le misurazioni dei microrganismi aerodispersi o presenti sulle superfici (2-13-19-20), da riservarsi, a nostro avviso, esclusivamente in situazioni lavorative particolari con uso deliberato di agenti biologici. Queste misurazioni sono infatti utili a monitorare la qualità dell’aria o l’efficienza di alcuni impianti, oppure come metodo di controllo dei sistemi di disinfezione o di sterilizzazione, anche se non vanno sottovalutate le oggettive difficoltà di esecuzione, la carenza di metodi standardizzati e di parametri di riferimento.

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In ambito di rischio da agenti biologici va ancora sottolineato il limitato valore informativo ed operativo che – in generale - la misurazione dell’entità dell’esposizione ha a fini preventivi e di tutela della salute.

Infatti, per tutta una serie di fattori, quali l’assenza di curve dose-risposta e di una dose soglia, che consenta di discriminare tra condizione di assenza/presenza di rischio, ovvero l’inesistenza di valori limite di esposizione, a loro volta dipendenti dalla variabilità di risposte di ciascun potenziale ospite a ciascun agente biologico, non è possibile, di fatto, definire il danno atteso in un gruppo di esposti (6).

E’ noto come la principale fonte di rischio per gli operatori sanitari sia rappresentata dai pazienti: la frequenza di soggetti infettanti nella popolazione del bacino di utenza (a sua volta correlata con la prevalenza dell’infezione) è tra i fattori determinati del rischio di contatto e quindi tale conoscenza può costituire un utile dato per la stima dei rischi degli operatori sanitari.

La sorveglianza sistematica delle infezioni tra i pazienti – come fase della valutazione del rischio - è però, a nostro avviso, proponibile solamente per la tubercolosi, mentre per altri agenti si procede solo in corso di follow up dei contatti. Il Mycobacterium Tuberculosis ha modalità di trasmissione, d’infettività e di patogenicità che rendono utile tale pratica, inserita ovviamente nel contesto più generale del controllo dell’infezione e della malattia proposto dalle linee guida Ministeriali e Regionali (14- 15) (si veda a questo proposito la relazione di M. Bugiani).

Invece, la raccolta di dati siero-immunologici dei pazienti, soprattutto per HBV, HCV e HIV, oltre che onerosa, non appare al momento utile (tranne che, come detto, nel follow up post-esposizione), per i seguenti motivi:

1. la notevole differenza delle prevalenze delle infezioni tra la popolazione generale e le popolazioni di pazienti (con un eccesso di rischio per l’HCV) (21) comporta la necessità di raccogliere dati distinti per reparti di degenza, ambulatori e servizi;

2. la carenza di sistemi informatizzati che consentano una rapida raccolta ed elaborazione di questi dati nei laboratori analisi dei nostri ospedali;

3. l’assenza del dato sulla scheda di dimissioni ospedaliera, quando il paziente accede alla struttura per altra patologia;

4. la differente completezza delle procedure di screening tra i reparti di chirurgia, di medicina ed i servizi;

5. la presenza della “fase finestra”;

6. la conoscenza dello stato sierologico del paziente fonte non sempre comporta una migliore aderenza dell’operatore sanitario alle Precauzioni Universali (22-23) e non riduce la probabilità di esposizione. E comunque non è “formativa” oltre che utile, per tutti i motivi sopra espressi.

Per la prevenzione delle malattie infettive causate da agenti biologici trasmessi per via ematica ogni valutazione del rischio si basa anche sull’analisi del fenomeno infortunistico, cioè dell’evento pericoloso che si vorrebbe azzerare.

Come noto la sottonotifica, cioè la mancanza di adesione degli operatori sanitari al rispetto dei protocolli per la notifica delle esposizioni accidentali, costituisce un

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continuo ostacolo alla completa comprensione di tali eventi. Numerosissimi sono ormai gli studi che hanno affrontato il problema evidenziando come, purtroppo, non esista un singolo fattore di correzione da applicare per compensare la sottonotifica.

Essa infatti dipende dalla mansione, dalle diverse attività svolte, dal grado di formazione dell’operatore, e ciò determina il riscontro di una vasta gamma di tassi di esposizione e di sottonotifica nei vari studi (13-23-24-25-26-27).

L’entità della sottonotifica varia inoltre nel tempo, in modo imprevedibile, dipendendo da vari fattori (interventi formativi, farraginosità delle procedure di notifica previste, diffusione e completezza dei protocolli post-esposizione, in particolare) modificando così, altrettanto imprevedibilmente, il numero degli eventi accidentali registrati.

Se quindi l’analisi del fenomeno infortunistico consente di raccogliere utilissime informazioni in merito alle modalità di accadimento degli eventi stessi, raramente consente di ottenere tassi effettivamente utilizzabili per interventi preventivi e per monitorare nel tempo la reale efficacia degli interventi stessi (a differenza di ciò che avviene in altri comparti produttivi). Riteniamo pertanto che al momento si debbano utilizzare procedure di raccolta e di analisi degli infortuni (soprattutto da contaminazione e da punture accidentali) che richiedano un limitato impegno di energie, e che, attraverso la raccolta di pochi dati, consentano, soprattutto, la definizione delle modalità di accadimento degli stessi, mentre la stima dei tassi di sieroconversione va lasciata a più impegnativi (e limitati) studi epidemiologici ad hoc predisposti. Di limitata utilità risultano anche, al momento, per la carenza di informazioni sufficientemente circostanziate, la ricerca e la valutazione dell’incidenza delle pregresse malattie professionali e delle infermità per causa di servizio.

La verifica dell’efficacia delle misure di prevenzione adottate deve necessariamente passare anche attraverso il riscontro dell’effettiva riduzione nel tempo degli infortuni. Sappiamo invece che tali interventi, riducendo il fenomeno della sottonotifica, possano portare (ma in percentuale non prevedibile) ad un aumento degli infortuni registrati in un dato intervallo di tempo.

La valutazione del rischio non può pertanto non tenere conto del fenomeno della sottonotifica, se si vuole poter disporre in seguito di un oggettivo parametro di valutazione. L’entità della sottonotifica potrebbe essere indagata in modo semplice e rapido in ogni unità operativa e per mansione, nel corso dei sopralluoghi o durante le visite mediche periodiche, oppure con l’uso di schede di reparto o questionari di veloce compilazione. La valutazione della stessa andrà poi ripetuta dopo un congruo intervallo di tempo successivo agli interventi di prevenzione. Esperienze in questa direzione sono state recentemente avviate in alcuni ospedali piemontesi.

Il tipo di attività sanitaria svolta, pur non essendo un elemento su cui è possibile effettuare un intervento preventivo, costituisce un fattore importante per la stima del rischio di contatto. La raccolta di informazioni in merito alle manovre ad alto, medio e basso rischio, effettivamente svolte dagli operatori sanitari in ogni unità operativa indagata (soprattutto per agenti trasmessi per via parenterale e per via

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aerea) può fornire dati utili alla valutazione del rischio (28), e costituisce la premessa per l’analisi dell’organizzazione del lavoro, per la ricostruzione dei compiti lavorativi, per la valutazione dei dispositivi di protezione individuale, tecnica e collettiva utilizzati, per la valutazione dell’adeguatezza degli ambienti di lavoro, delle procedure di lavoro adottate e del livello di formazione degli operatori.

Ma anche in questo caso non è necessario – a nostro avviso – procedere ad una completa ed analitica raccolta di dati. Infatti, nonostante in letteratura ed in documenti governativi si ritrovino frequentemente condivisibili classificazioni delle attività sanitarie più comuni in manovre ad alto, medio e basso rischio, non possiamo non considerare il fatto che (fonti statunitensi) la maggior percentuale di incidenti ad alto rischio di contaminazione siano associati a manovre definite a rischio basso/medio, come il prelievo di sangue ed il cateterismo venoso (21).

Comunque, la frequenza con cui i vari operatori sanitari (medici, tecnici, infermieri, ausiliari, ecc.) eseguono manovre a rischio diverso (alto, medio, basso o nullo) consente di stimare l’intensità dell’esposizione distinta per mansioni, per ogni reparto (28).

Il passo successivo è quello di valutare le procedure di lavoro, di vagliarne cioè l’adeguatezza, le modalità di formalizzazione e di trasmissione, l’aderenza, in relazione all’organizzazione del lavoro e dei compiti lavorativi affidati ai singoli.

Tutti gli organismi che a vario titolo hanno affrontato queste problematiche insistono sulla necessità di investire grandi energie su tutti gli aspetti riguardanti le cosiddette

“Precauzioni Universali” (P.U.) e sulle corrette procedure di lavoro in generale.

Seppur ormai note alla stragrande maggioranza degli operatori sanitari, una corretta aderenza a tali norme non si ha, in genere, in più del 50% degli esposti. Le ragioni che più frequentemente vengono riportate per spiegare tale fenomeno sono: la bassa percezione del rischio, l’impreparazione di fronte ad un evento imprevisto, la scomodità ed il disagio di indossare i D.P.I. per lunghi periodi di tempo.

In questo contesto si inserisce anche la necessità di valutare la qualità e l’efficacia degli interventi di informazione e di formazione del personale, troppo spesso frettolosamente concepiti ed eseguiti, più in risposta a pressioni esterne che razionalmente inseriti nel quadro delle attività dell’unità operativa. In ambito sanitario, inoltre, troppo spesso l’introduzione di nuove tecniche non è preceduta da un’adeguata formazione ed addestramento: il risultato è sovente un immediato aumento degli infortuni (21).

La diffusione delle P.U. ha favorito – negli Stati Uniti – la netta diminuzione delle punture accidentali legate alle manovre di reincappucciamento dell’ago (ridotti dal 25% al 5%), dimostrando così di essere molto efficaci anche se non in grado, da sole, di determinare la massima riduzione possibile del tasso di esposizioni percutanee (21- 23).

E’ quindi necessario porre successivamente l’attenzione sui presidi utilizzati e sui dispositivi di protezione adottati.

I presidi più frequentemente in causa nelle lesioni percutanee sono in Italia (dati SIROH-EPINet, 1994) le siringhe e gli aghi a farfalla, ma poiché i butterfly sono più

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spesso pieni di sangue rispetto agli aghi di siringa, questi presidi sono di fatto la causa più frequente di lesioni ad alto rischio negli ospedali italiani. Seguono poi (per pericolosità in relazione alla percentuale degli incidenti) il mandrino di ago-cannula e l’ago da prelievo (21).

Dati del N.I.O.S.H. ci informano che il 42% degli infortuni avviene dopo l’uso del presidio e prima dell’eliminazione dello stesso, il 30% durante l’eliminazione (27).

Quindi le caratteristiche dei contenitori per aghi e taglienti, e le procedure di smaltimento degli stessi andranno attentamente valutate.

Sappiamo anche che la maggior parte delle contaminazioni mucocutanee (dati U.S. EPINet, 1995) interessano gli occhi, la cute integra e la cute non integra. Questi dati confermano la necessità di valutare non solamente la disponibilità di D.P.I. sui luoghi di lavoro (nel 75% dei casi di contaminazione oculare l’operatore sanitario non indossava una protezione per gli occhi), ma anche di valutare l’adeguatezza di quelli in dotazione (il 25% si è contaminato pur indossando un dispositivo di protezione degli occhi). Le contaminazioni di cute non integra hanno interessato prevalentemente le mani, le braccia ed il volto: questi dati suggeriscono la necessità di valutare attentamente l’adeguatezza e l’utilizzo delle divise e degli indumenti protettivi in genere.

Altro dato interessante riportato nello studio citato è che solamente il 50% delle contaminazioni era causato da contatto diretto con il paziente; negli altri casi il contatto avveniva tramite altri veicoli (contenitori con perdite o troppo fragili, distacco di parti di fleboclisi o pompe).

E’ necessario quindi valutare l’adeguatezza dei materiali utilizzati per i contenitori per il trasporto dei campioni liquidi e per le attrezzature di somministrazione/infusione di liquidi, che possono diventare veicolo di esposizioni accidentali mucocutanee.

Il 37% delle esposizioni occupazionali avvengono nelle stanze del paziente (U.S. EPINet, 1995), il 16% in sala operatoria, il 7% in Pronto Soccorso ed il 6% in terapia intensiva: la valutazione del rischio da agenti biologici, anche rappresentato da microrganismi a trasmissione per via aerea, per contatto e per via oro-fecale, non può quindi prescindere da una valutazione degli ambienti di lavoro, delle caratteristiche strutturali degli stessi, del grado di manutenzione e di pulizia, della presenza di dispositivi di protezione collettiva (camere di isolamento, gruppi di trattamento dell’aria, presenza di lampade U.V. ecc.) (15) ed individuale (armadietti a doppio scomparto, spogliatoi idonei, servizi igienici e docce per il personale, ecc.).

La recente normativa sull’accreditamento delle strutture sanitarie (29) può fornire utili parametri di riferimento e di valutazione. I rilievi ed i suggerimenti derivanti dalla valutazione dei rischi possono costituire un’utile premessa per gli interventi di ristrutturazione prevedibili nel prossimo futuro.

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Infine, ma non per importanza, andranno anche valutati parametri correlati al carico di lavoro individuale in relazione al tipo di attività sanitaria svolta (come l’organico dell’unità operativa, l’orario di lavoro, i turni, le reperibilità, ecc.)

E’ noto infatti come gli infortuni siano sovente correlati a fattori umani (il cosiddetto

“errore umano”) connessi al deficit di sonno, al decadimento dell’attenzione e delle performaces, ed alla desincronizzazione biologica derivante dal lavoro a turni o da prolungati periodi di attività.

Riteniamo sia importante anche in sanità, come del resto già avviene in altri servizi di pubblica utilità (i trasporti in particolare), analizzare e valutare correttamente questi fattori, non solo per una maggior tutela dell’utenza.

La recente regolamentazione del lavoro a turni può essere un utile punto di partenza (30-31).

La sorveglianza sanitaria dei soggetti esposti a rischio biologico costituisce un’ulteriore fonte di dati utilizzabili per la valutazione del rischio e per una verifica periodica del livello di rischio stimato per un dato reparto e per una particolare attività (2).

La sorveglianza sanitaria oltre a permettere di evidenziare eventuali condizioni di ipersuscettibilità del lavoratore, di controindicazione alle vaccinazioni o alle terapie profilattiche, consente l’elaborazione dei dati di gruppo relativi allo stato vaccinale per HBV, ai risultati dei test tubercolinici periodici e di misurare l’incidenza di sieroconversioni o di malattie infettive.

3. Considerazioni conclusive e proposte:

Come si è visto, una valutazione esclusivamente di tipo “presuntivo”, che si basa sull’assunto che per le strutture sanitarie questo rischio debba essere per definizione ubiquitario, è troppo riduttiva.

D’altro canto una valutazione effettivamente di tipo “probabilistico” si scontra con una serie di limiti oggettivi ed incontra non poche difficoltà di ordine pratico, comportando un elevato impegno di risorse (7-13).

Per situazioni particolari, come nell’uso deliberato di agenti biologici oppure in quelle condizioni in cui le operazioni rischiose da svolgere sono numericamente limitate e sufficientemente codificabili (laboratori), è sicuramente possibile effettuare una valutazione del rischio utilizzando una metodologia di tipo probabilistico e valutare la qualità delle misure di prevenzione adottate sulla scorta delle misure e dei livelli di contenimento indicati dalla normativa (allegato XII del D.L.gs. 626/94) (13, 32).

Per i reparti di degenza e per i servizi nei quali l’operatore è a diretto contatto con il paziente (situazioni nelle quali si verificano i due terzi delle esposizioni occupazionali ad agenti biologici trasmessi per via ematica) riteniamo più opportuno un approccio di tipo “descrittivo”, che consista nella raccolta e nella successiva analisi di una serie limitata di informazioni, principalmente basate sull’individuazione dei punti critici del ciclo lavorativo e dei modi in cui si può

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effettivamente verificare l’esposizione, distinte per unità operativa o per aree omogenee di lavoro. Crediamo che un simile approccio possa comunque consentire una stima sufficiente (nell’ottica del Medico Competente) dell’esposizione e delle conseguenze, e quindi una valutazione del rischio utilizzabile dagli operatori della prevenzione come strumento pratico di analisi e di intervento sul campo.

Esistono alcune esperienze in tal senso, sia nazionali che internazionali, con risultati controversi e spesso contraddittori (7-13-33-34).

Sulla base dell’analisi della letteratura sull’argomento e delle considerazioni di cui al precedente paragrafo riteniamo che il rischio da agenti biologici dei lavoratori della sanità sia essenzialmente correlato:

1. alla tipologia delle attività svolte (a rischio alto, medio, basso o nullo);

2. alla qualità delle procedure di lavoro adottate;

3. alla disponibilità ed adeguatezza dei Dispositivi di Protezione Individuale, Tecnica e Collettiva;

4. alla corretta modalità di esecuzione dei compiti lavorativi e, più in generale, all’organizzazione del lavoro;

5. alle caratteristiche degli ambienti di lavoro;

6. alle modalità di smaltimento dei rifiuti;

7. alla qualità dell’informazione e della formazione degli operatori.

Riteniamo che una strada percorribile sia quella di elaborare una scheda di rilevazione di reparto che consenta di raccogliere i dati in modo univoco e confrontabile per ognuno dei fattori sopra indicati, ai quali verrà poi attribuito un valore che permetta la successiva elaborazione di un indice sintetico di esposizione, al fine di valutare in modo integrato il contributo dei principali determinanti di rischio da esposizione ad agenti biologici, sul modello di esperienze già in corso per altri rischi ospedalieri (35).

L’indice di esposizione dovrà consentire, in pratica, una programmazione delle misure preventive e sanitarie, secondo uno specifico ordine di priorità, così come previsto dall’articolo 3 e dal Titolo VIII del D.L.gs. 626/94.

La procedura di raccolta dei dati dovrà anche essere rapida, poco dispendiosa, poiché riteniamo necessario utilizzare uno strumento agile, che consenta, dopo la messa in atto di interventi di prevenzione, l’obiettiva verifica dei miglioramenti conseguiti.

Sarà quindi necessario raccogliere esclusivamente quei dati ritenuti determinanti fondamentali per la quantificazione del rischio. Poiché si tratta di monitorare un fenomeno infortunistico è anche importante stimare la sottonotifica: crediamo pertanto che una valutazione del rischio di questo tipo debba anche essere accompagnata da uno studio di tale fenomeno, almeno su un numero rappresentativo di realtà lavorative.

Come detto, in letteratura vi è una significativa carenza di metodi per la quantificazione dell’esposizione ad agenti biologici: le esperienze in tale direzione hanno finora portato a risultati parziali e sovente contraddittori, evidenziando comunque l’esistenza in un discreto interesse in tal senso.

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L’elaborazione, la sperimentazione e la validazione di un metodo di valutazione del rischio deve fondarsi su un consenso di massima di tutti coloro che a vario titolo si occupano della prevenzione del rischio da agenti biologici in ambito sanitario. Il consenso su questi temi è sovente difficile da raggiungere poiché le idee, le esperienze, i diversi punti di vista faticano a convergere su pochi, essenziali e qualificanti punti. Per queste ragioni riteniamo di poter proporre una via, già seguita da anni in medicina, che potrebbe essere utile allo scopo e cioè l’utilizzo della Tecnica Delfi (36).

La Tecnica Delfi è una procedura, originariamente utilizzata nei sondaggi di opinione, che permette ad un gruppo di testimoni privilegiati (o di esperti), considerati chiave, di raggiungere il consenso rispetto ad un dato argomento, senza mai incontrarsi personalmente. Il metodo consente un notevole risparmio di tempo e di denaro ed è un valido ausilio per decisioni da prendere in situazioni collettive.

L’esperto è una persona che, senza essere uno specialista, è in grado di fornire un’opinione informata che deriva dalla conoscenza del problema e dall’esperienza diretta.

Alle persone coinvolte viene inviata una lettera di presentazione con il programma e gli obiettivi dello studio, unitamente ad una descrizione della metodologia utilizzata.

La tecnica presuppone la compilazione in sequenza di una serie di questionari inviati agli esperti, contattati individualmente e che non avranno modo di incontrarsi, cui viene richiesto di rispondere in tempi prefissati.

Le risposte al primo questionario vengono analizzate e restituite una seconda volta agli esperti, unitamente ai risultati quantitativi delle opinioni espresse dall’intero gruppo a ciascuna domanda. A questo punto gli esperti hanno la possibilità di riconsiderare le risposte attribuite al primo questionario, alla luce delle risposte date dall’intero gruppo.

La procedura viene ripetuta più volte fino a quando il grado di consenso desiderato è raggiunto e cioè i pareri tendono a stabilizzarsi, cosicché non è più producente continuare la consultazione.

L’originalità della tecnica consiste nel fatto che le persone interrogate possono, con il sistema della verifica/confronto delle opinioni espresse dagli altri esperti, rivedere criticamente le proprie affermazioni e rielaborarle, senza che nascano le inevitabili interazioni personali tipiche delle riunioni dei gruppi di lavoro.

Anche la Tecnica Delfi ha svantaggi e limiti che andranno tenuti in considerazione (fraintendimenti di risposte, imprecisioni, difficoltà di sintesi, incapacità di valorizzare a sufficienza pareri discordi), ma riteniamo, viste le numerose e positive esperienze condotte da molti anni in medicina e riportate in letteratura (37-38-39-40- 41-42-43), che tale tecnica possa essere proposta e trovare una realizzazione pratica nell’ambito delle attività del Gruppo di Lavoro Regionale dei Medici Competenti delle A.O. ed A.S.L. piemontesi, coordinato dall’Assessorato alla Sanità della Regione Piemonte, Settore Sanità Pubblica, con il necessario supporto di esperti esterni.

La Tecnica Delfi potrebbe consentire di raggiungere, con relativa rapidità, un sufficiente consenso su un metodo di quantificazione dell’esposizione ad agenti

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biologici che prenda in considerazione i fattori sopra indicati e permetta l’elaborazione di un indice sintetico di esposizione.

Utilizzando la rete dei medici competenti degli ospedali piemontesi sarebbe possibile sperimentare e validare il metodo sul campo, in un numero limitato ma rappresentativo di realtà lavorative. Successivamente, se superata positivamente la fase sperimentale, il metodo potrebbe essere proposto su più vasta scala.

3. Bibliografia

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